[Indice dei Critica del Giudizio]
Per discernere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo fondamento non può essere se non soggettivo. Ma ogni rapporto delle rappresentazioni, ed anche delle sensazioni, può essere oggettivo (e allora esso indica ciò che è reale in una rappresentazione empirica); e non è tale soltanto il rapporto al sentimento di piacere e dispiacere, col quale non vien designato nulla nell’oggetto, e nel quale il soggetto sente se stesso, secondo la rappresentazione da cui è affetto.
Il rappresentarsi con la facoltà conoscitiva (in una rappresentazione chiara o confusa) un edifizio regolare ed appropriato al suo scopo, è una cosa del tutto diversa dall’esser cosciente di questa rappresentazione col sentimento di piacere. In quest’ultimo caso la rappresentazione è riferita interamente al soggetto, e, veramente al suo senso vitale, sotto il nome di piacere o dispiacere; la qual cosa dà luogo ad una facoltà interamente distinta di discernere e di giudicare, che non porta alcun contributo alla conoscenza, ma pone soltanto in rapporto, nel soggetto, la rappresentazione data con la facoltà rappresentativa nella sua totalità; di che l’animo ha coscienza nel sentimento del proprio stato. Le rappresentazioni date in un giudizio possono essere empiriche (e quindi estetiche); ma il giudizio che risulta da esse è logico, se esse sono riferite soltanto nel giudizio all’oggetto. E viceversa, se anche le rappresentazioni date siano razionali, qualora vengano riferite in un giudizio unicamente al soggetto (al suo sentimento), il giudizio resterà sempre estetico.
È detto interesse il piacere, che noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare, o in quanto movente di essa, o in quanto necessariamente connesso col movente stesso. Ma, quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro importi, o anche soltanto possa importare, della sua esistenza; ma come la giudichiamo contemplandola semplicemente (nell’intuizione o nella riflessione). Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che mi è davanti, io posso ben dire che non approvo queste cose fatte soltanto per destar stupore, o rispondere come quel Sachem1 irocchese, cui niente a Parigi piaceva più delle bettole; posso anche biasimare, da buon seguace di Rousseau, la vanità dei grandi, che spendono i sudori del popolo in cose tanto superflue; infine, posso anche facilmente convincermi che, se mi trovassi su di una isola deserta senza speranza di tornar mai tra gli uomini, e potessi magicamente col solo mio desiderio elevare un sì splendido edifizio, io non mi darei nemmeno questa pena, sol che avessi già una capanna che fosse abbastanza comoda per me. Mi si può concedere ed approvare tutto ciò; ma gli è che non si tratta di questo: si vuol sapere soltanto se questa semplice rappresentazione dell’oggetto è accompagnata in me da piacere, per quanto, d’altra parte, io possa essere indifferente circa l’esistenza del suo oggetto. Si vede facilmente che dal mio apprezzamento di questa rappresentazione, non dal mio rapporto con l’esistenza dell’oggetto, dipende che si possa dire se esso è bello, e che io provi di aver gusto. Ognuno deve riconoscere che quel giudizio sulla bellezza, nel quale si mescola il minimo interesse, è molto parziale e non è un puro giudizio di gusto. Non bisogna essere menomamente preoccupato dall’esistenza della cosa, ma del tutto indifferente sotto questo riguardo, per essere giudice in fatto di gusto. Ma non possiamo chiarir meglio questa proposizione, che è della più grande importanza, se non contrapponendo al piacere puramente disinteressato*2 del giudizio di gusto quello che è legato con l’interesse; sopratutto se possiamo esser certi che non vi son altre specie d’interesse oltre quelle che ora dobbiamo esporre.
Piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione. Qui si presenta l’occasione di biasimare e far notare uno scambio frequentissimo dei due significati, che può avere la parola sensazione. Ogni piacere (si dice e si pensa) è per se stesso una sensazione (di un piacere). Quindi tutto ciò che piace, appunto perché piace, è piacevole (e secondo i diversi gradi, o i rapporti ad altre sensazioni piacevoli, è grato, amabile, dilettevole, giocondo, etc.). Ma, ammesso ciò, le impressioni dei sensi che determinano l’inclinazione, i principii della ragione che determinano la volontà, e le semplici forme riflesse dell’intuizione che terminano il Giudizio, diventano, per ciò che riguarda l’effetto sul sentimento di piacere, la stessa cosa. Perché non si tratterebbe se non del piacevole, che è nella sensazione del nostro stato; e poiché infine ogni uso delle nostre facoltà deve tendere al pratico ed unirvisi come a suo scopo, non si potrebbe pretendere dalle facoltà stesse alcun apprezzamento delle cose e del loro valore, oltre quello che consiste nel diletto che esse promettono. Il modo, con cui arrivano al piacere, non importa; e poiché qui solo la scelta dei mezzi può stabilire una differenza, gli uomini potrebbero ben accusarsi reciprocamente di stoltezza e d’imprudenza, non mai però di bassezza e di malvagità; poiché tutti, ciascuno secondo il suo modo di veder le cose, tendono ad uno scopo, che è per ciascuno il diletto.
Quando si chiama sensazione una determinazione del sentimento di piacere o dispiacere, la parola ha un significato del tutto diverso da quando viene adoperata ad esprimere la rappresentazione di una cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività inerente alla facoltà di conoscere). Perché in quest’ultimo caso la rappresentazione è riferita all’oggetto, mentre nel primo è riferita unicamente al soggetto, e non serve ad alcuna conoscenza: nemmeno a quella con cui il soggetto conosce se stesso.
Ma, nella definizione data, intendiamo con la parola sensazione una rappresentazione oggettiva dei sensi; e, per non correre sempre il rischio di esser fraintesi, chiameremo col nome, del resto usato, di sentimento ciò che deve restar sempre puramente soggettivo e non può assolutamente costituire una rappresentazione di un oggetto. Il color verde dei prati appartiene alla sensazione oggettiva, in quanto percezione d’un oggetto del senso; il piacere, che esso produce, si riferisce invece alla sensazione soggettiva, con la quale nessun oggetto è rappresentato: vale a dire al sentimento, nel quale l’oggetto è considerato come termine del piacere (che non dà di esso alcuna conoscenza).
Ora è chiaro che il giudizio, col quale io dichiaro piacevole un oggetto, esprime un interesse nei suoi riguardi, perché il giudizio stesso, mediante la sensazione, suscita il desiderio di oggetti simili, e per conseguenza il piacere non presuppone il semplice giudizio sull’oggetto, ma il rapporto della sua esistenza col mio stato, in quanto sono affetto da un tal oggetto. Perciò del piacevole non si dice semplicemente che esso piace, ma che esso diletta. Non è una semplice approvazione che io ad esso concedo, ma in me si produce un’inclinazione; e a ciò che più vivamente desta piacere è estraneo qualsiasi giudizio sulla natura dell’oggetto; tanto è vero che quelli, i quali mirano sempre al solo godimento (è questa la parola con cui si designa l’intimo del diletto), si dispensano volentieri da ogni giudizio.
Buono è ciò che, mediante la ragione, piace puramente pel suo concetto. Chiamamo qualche cosa buona (utile), quando essa ci piace soltanto come mezzo; un’altra invece, che ci piace per se stessa, la diciamo buona in sé. In entrambe è sempre contenuto il concetto di uno scopo, il rapporto della ragione con la volontà (almeno possibile), e per conseguenza un piacere legato all’esistenza di un oggetto o di un’azione, vale a dire un interesse.
Per trovar buono un oggetto, io debbo sempre sapere che specie di cosa è, cioè averne un concetto. Per trovare in esso la bellezza non ho bisogno dì ciò. I fiori, i disegni liberi, quelle linee intrecciate senza scopo che vanno sotto il nome di fogliami, non significano niente, non dipendono da alcun concetto determinato e tuttavia piacciono. Il piacere, che dà il bello, deve dipendere dalla riflessione su di un oggetto, la quale conduce a qualche concetto (non importa quale); e si distingue perciò anche dal piacevole, che riposa interamente sulla sensazione.
Veramente in molti casi pare che il piacevole sia identico col buono. Così si dice comunemente che ogni diletto (specie se durevole) è buono in se stesso; il che presso a poco significa che il piacevole avente una certa durata e il buono sono la stessa cosa. Ma si può subito notare che questo è semplicemente un erroneo scambio di parole, perché i concetti che corrispondono precisamente a quelle espressioni non possono essere confusi in alcun modo. Il piacevole che, come tale, rappresenta l’oggetto unicamente in relazione col senso, affinché possa essere chiamato buono, come oggetto della volontà, dev’essere anzitutto sottoposto ai principii della ragione mediante il concetto di uno scopo. Ma che si tratti di un rapporto del tutto diverso verso il sentimento del piacere, quando chiamo nello stesso tempo buono ciò che mi piace, è dimostrato dal fatto che pel buono sussiste sempre la domanda, se esso sia buono mediatamente o immediatamente (utile o buono in sé); mentre pel piacevole la domanda non ha ragion d’essere, poiché la parola significa in ogni caso qualche cosa che piace immediatamente. (È così anche per ciò che io chiamo bello.)
Anche nel linguaggio più comune si distingue il piacevole dal buono. Di una vivanda che eccita il nostro gusto per mezzo di aromi ed altri ingredienti si dice senza esitare che essa è piacevole; e si confessa nello stesso tempo che non è buona, perché soddisfa immediatamente il senso, ma mediatamente, cioè alla ragione che ne considera gli effetti, dispiace. Si può notare questa differenza anche nel giudicare della salute corporale. Essa è immediatamente piacevole a colui che la possiede (almeno negativamente, come assenza di ogni dolore corporale). Ma, per dire che essa è buona, bisogna considerarla, mediante la ragione, relativamente a uno scopo, cioè come uno stato che ci rende atti a tutte le nostre occupazioni. Dal punto di vista della felicità infine ognuno crede di poter chiamare un vero bene, ed anche il sommo bene, la maggiore somma (riguardo alla quantità e alla durata) dei piaceri della vita. Ma anche contro di ciò si rivolta la ragione. Il piacevole è godimento. Ma se questo soltanto Contasse, sarebbe da stolto l’essere scrupolosi riguardo ai mezzi che ce lo procurano; se accettarlo, cioè, passivamente dalla generosità della natura, o se produrlo con la propria attività e l’opera propria. Ma la ragione non si lascerà mai persuadere che abbia un valore per se stessa l’esistenza di un uomo, che viva semplicemente per godere (ed anche sia molto attivo sotto questo rispetto); perfino se egli fosse di grande giovamento agli altri che tendono allo stesso scopo, con l’adoperarsi a goder con simpatia del loro diletto. Solo mediante ciò che egli fa, senza riguardo al godimento, in piena libertà e con indipendenza da ciò che la natura passivamente gli può procurare, egli dà un valore assoluto alla sua esistenza, come esistenza di una persona; e la felicità, con tutta l’abbondanza dei suoi godimenti, è ben lungi dall’essere un bene incondizionato*3.
Ma, malgrado tutte queste differenze, il piacevole e il buono si accordano in ciò, che entrambi son legati sempre con un interesse pel loro oggetto: non solo il piacevole (§ 3) e il buono mediato (l’utile), che piace come mezzo per ottenere il piacevole; ma anche ciò ch’è buono assolutamente e sotto ogni riguardo, il buono morale, che include il più alto interesse. Giacché il buono è l’oggetto della volontà (vale a dire di una facoltà di desiderare determinata dalla ragione). Ma volere qualche cosa ed aver piacere della sua esistenza, cioè prendervi interesse, sono la stessa cosa.
Il piacevole ed il buono si riferiscono entrambi alla facoltà di desiderare e producono quindi, il primo un piacere condizionato patologicamente (da eccitazioni, Stimuli), il secondo un piacere pratico puro; cioè un piacere che è determinato in entrambi i casi non semplicemente dalla rappresentazione dell’oggetto, ma anche da quella del rapporto del soggetto con l’esistenza dell’oggetto stesso. Non è soltanto l’oggetto che piace, ma anche la sua esistenza. Perciò il giudizio di gusto è puramente contemplativo, è un giudizio, cioè, che, indifferente riguardo all’esistenza dell’oggetto, ne mette solo a riscontro i caratteri con il sentimento di piacere e di dispiacere. Ma questa contemplazione a sua volta non è diretta a concetti; perché il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza (né teorico né pratico), e per conseguenza non è fondato sopra concetti, né se ne propone alcuno.
Il piacevole, il bello, il buono designano dunque tre diversi rapporti delle rappresentazioni verso il sentimento di piacere e dispiacere, secondo cui distinguiamo gli oggetti o i modi della rappresentazione. Anche le espressioni adeguate, con le quali si designa il compiacimento nei tre casi, non sono le stesse. Ognuno chiama piacevole ciò che lo diletta; bello ciò che gli piace senz’altro; buono ciò che apprezza, approva, vale a dire ciò cui dà un valore oggettivo. Il piacevole vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini, nella loro qualità di esseri animali, ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono semplice-mente ragionevoli (come sono, per esempio, gli spiriti), ma in quanto sono nello stesso tempo animali; il buono invece ha valore per ogni essere ragionevole in generale. Questo punto, del resto, potrà esser interamente chiarito e giustificato solo in seguito. Si può dire che di questi tre modi del piacere, unico e solo quello del gusto del bello è un piacere disinteressato e libero; perché in esso l’approvazione non è imposta da alcun interesse, né dai sensi, né dalla ragione. Del piacere quindi si potrebbe dire che esso si riferisce nei tre casi esaminati all’inclinazione, al favore o alla stima. Perché il favore è l’unico piacere libero. L’oggetto di un’inclinazione e quello che è imposto da una legge della ragione al nostro desiderio, non ci lasciano alcuna libertà di farcene noi stessi un oggetto del piacere. Ogni interesse presuppone o produce un bisogno, e, come motivo dell’approvazione, non lascia libertà al giudizio sopra l’oggetto.
Per ciò che riguarda l’interesse dell’inclinazione nel piacevole, si dice da ognuno che la fame è il migliore dei cuochi e che la gente di buon appetito gusta qualunque cosa, purché sia mangiabile; quindi un piacere di questa specie non dimostra nel gusto nessuna scelta. Solo quando il bisogno sia soddisfatto, si può distinguere tra molti chi ha e chi non ha gusto. Allo stesso modo può esservi costume (condotta) senza virtù, cortesia senza benevolenza, decoro senza onestà, etc. etc. Poiché dove parla la legge morale non resta oggettivamente alcuna libertà nella scelta circa ciò che si deve fare; e mostrare gusto nella propria condotta (o nel giudicare quella degli altri) è cosa del tutto diversa dal manifestare il proprio carattere morale; perché questo contiene un precetto e produce un bisogno, mentre invece il gusto morale gioca soltanto con gli oggetti del piacere, senza legarsi propriamente con nessuno.
Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un piacere simile si dice bello.
Questa definizione del bello può esser dedotta dalla precedente, per la quale esso è l’oggetto di un piacere senza alcun interesse. Difatti colui che ha coscienza di esser disinteressato nel piacere che prova di qualche cosa, non può giudicare la cosa medesima se non come contenente un motivo di piacere, che sia valevole per ognuno. Non essendo il piacere fondato su qualche inclinazione del soggetto (o su qualche altro interesse consapevole), e sentendosi invece colui che giudica completamente libero rispetto al piacere che dedica all’oggetto; egli non potrà trovare alcuna condizione particolare, esclusiva del suo soggetto, come fondamento del piacere, e dovrà quindi considerarlo come fondato su qualcosa, che si possa presupporre anche in ogni altro; per conseguenza, dovrà credere di aver ragione di pretendere dagli altri lo stesso piacere. Egli parlerà così del bello come se la bellezza fosse una qualità dell’oggetto, e il suo giudizio fosse logico (un giudizio che dà una conoscenza dell’oggetto mediante il suo concetto), sebbene sia soltanto estetico e non implichi che un rapporto della rappresentazione dell’oggetto col soggetto; perché, infatti, esso è simile in questo al giudizio logico, che si può presupporre la sua validità per ognuno. Ma questa universalità non può neppure provenire da concetti. Poiché non vi è alcun passaggio dai concetti al sentimento di piacere o dispiacere (eccetto nelle pure leggi pratiche, le quali però implicano un interesse, che non c’è nei puri giudizii di gusto). Al giudizio di gusto, per conseguenza, poiché in esso v’è la coscienza del disinteresse, deve unirsi l’esigenza della validità per ognuno, sebbene tale validità non si tenga connessa agli oggetti; in altri termini, il giudizio di gusto deve pretendere all’universalità soggettiva.
Per ciò che riguarda il piacevole, ognuno riconosce che il giudizio che egli fonda su di un sentimento particolare, e col quale dichiara che un oggetto gli piace, non ha valore se non per la sua persona. Perciò quando qualcuno dice: —il vino delle Canarie è piacevole,— sopporta volentieri che gli si corregga l’espressione e gli si ricordi che deve dire: —è piacevole per me;— e così non solo pel gusto della lingua, del palato e della gola, ma anche per ciò che può essere piacevole agli occhi o agli orecchi. Per uno il colore della violetta è dolce ed amabile, per l’altro è cupo e smorto. Ad uno piace il suono degli strumenti a fiato, all’altro quello degli strumenti a corda. Perciò sarebbe da stolto litigare in tali casi per riprovare come errore il giudizio altrui, quando differisce dal nostro, quasi che tali giudizii fossero opposti logicamente; sicché in fatto di piacevole vale il principio: ognuno ha il proprio gusto (dei sensi).
Per il bello la cosa è del tutto diversa. Sarebbe (proprio al contrario) ridicolo, se uno che si rappresenta qualche cosa secondo il proprio gusto, pensasse di giustificarsene in questo modo: questo oggetto (l’edificio che vediamo, l’abito che quegli indossa, il concerto che sentiamo, la poesia che si deve giudicare) è bello per me. Perché egli non deve chiamarlo bello, se gli piace semplicemente. Molte cose possono avere per lui attrattiva e vaghezza; questo non importa a nessuno; ma quando egli dà per bella una cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sé, ma per tutti, e parla quindi della bellezza come se essa fosse una qualità della cosa. Egli dice perciò: —la cosa è bella; — e non fa assegnamento sul consenso altrui nel proprio giudizio di piacere, sol perché molte altre volte quel consenso vi è stato; egli lo esige. Biasima gli altri se giudicano altrimenti, e nega loro il gusto, pur pretendendo che debbano averlo; e per conseguenza qui non si può dire: —ognuno ha il suo gusto particolare.— Varrebbe quanto dire che il gusto non esiste; che non v’è un giudizio estetico, il quale legittimamente possa esigere il consenso universale.
Accade bensì di trovare anche riguardo al piacevole un certo accordo nel giudizio degli uomini, in virtù del quale ad alcuni si nega il gusto, ad altri lo si attribuisce, e non come senso, ma come facoltà di giudicare del piacevole in generale. Così si dice di uno che sappia intrattenere i suoi ospiti tanto piacevolmente (col godimento di tutti i sensi) da contentarli tutti, che egli ha gusto. Ma qui si parla comparativamente; e non vi sono che regole generali (come son tutte le regole empiriche) e non regole universali, come quelle cui sottostà, o pretende, il giudizio di gusto sul bello. È un giudizio relativo alla socievolezza, in quanto questa riposa su regole empiriche. In quanto al buono i nostri giudizii anche pretendono legittimamente alla validità per ognuno; ma il buono è rappresentato come l’oggetto d'un piacere universale solo mediante un concetto, ciò che non vale né pel piacevole né pel bello.
Questa particolare determinazione dell’universalità di un giudizio estetico, che si rinviene in un giudizio di gusto, è un fatto degno di nota, non veramente per il logico, bensì pel filosofo trascendentale, che spende non poca fatica per scoprire la sua origine, ma con essa viene anche a scoprire una proprietà della nostra facoltà di conoscere, che senza questa ricerca sarebbe rimasta ignota.
In primo luogo, bisogna convincersi pienamente di questo: col giudizio di gusto (sul bello) si pretende da ognuno il piacere riguardo ad un oggetto, senza fondarsi però su qualche concetto (perché allora si tratterebbe del buono); e questa esigenza dell’universalità appartiene così essenzialmente ad un giudizio col quale si dichiara bella qualche cosa, che, senza di essa, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di usare tale espressione, ma tutto ciò che piace senza concetto sarebbe stato riportato al piacevole, pel quale si lascia ad ognuno il proprio parere e nessuno esige dagli altri il consenso al proprio giudizio di gusto; ciò che pel giudizio di gusto sulla bellezza avviene in ogni caso. Posso chiamare il primo, gusto dei sensi, ed il secondo, gusto della riflessione, in quanto il primo dà semplici giudizii personali, il secondo invece giudizii che vogliono valere universalmente (pubblici), ma entrambi danno giudizii estetici (non pratici) su di un oggetto, soltanto circa il rapporto della rappresentazione col sentimento di piacere o dispiacere. Sembra strano però che, non solo l’esperienza dimostri che il giudizio (di piacere o dispiacere riguardo a qualche cosa) del gusto dei sensi non vale universalmente, ma che ognuno sia convinto spontaneamente di non potere esigere il consenso dagli altri (sebbene possa trovarsi anche molto spesso un estesissimo accordo anche su tali giudizii); e che, d’altra parte, sebbene il gusto della riflessione, come l’esperienza insegna, sia bene spesso rigettato con la sua pretesa alla validità universale dei suoi giudizii (sul bello), tuttavia si possa ammettere (ciò che anche realmente avviene) la possibilità di giudizii che abbiano ragione di esigere l’universale consenso, e che questo sia effettivamente richiesto da ognuno pei proprii giudizii di gusto, senza che i giudicanti facciano questione della possibilità di tale pretesa, potendo essere soltanto divisi, in casi determinati, sulla giusta applicazione di questa facoltà di giudicare.
Qui è innanzi tutto da notare che una universalità, che non abbia fondamento nei concetti dell’oggetto (quand’anche soltanto empirici), non è punto logica, ma estetica, cioè non include una quantità oggettiva del giudizio, sibbene soltanto una quantità soggettiva; per la quale io adopero l’espressione validità comune, che indica la validità non del rapporto di una rappresentazione con la facoltà di conoscere, ma della rappresentazione medesima col sentimento di piacere o dispiacere in ogni soggetto. (Ma si può anche adoperare la stessa espressione per la quantità logica del giudizio, notando però che si tratta di una universalità oggettiva, per distinguerla da quella semplicemente soggettiva, che è sempre estetica.)
Ora, ogni giudizio oggettivamente universale è anche sempre soggettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto ciò che è compreso in un dato concetto, esso vale anche per ognuno, che si rappresenti un oggetto secondo quel concetto. Ma da una universalità soggettiva, cioè quella estetica, che non ha fondamento in alcun concetto, non si può concludere alla universalità logica; perché quella specie di giudizii non si rapporta all’oggetto. Ma appunto perciò l’universalità estetica, che è attribuita ad un giudizio, dev’essere di una specie particolare, perché essa non lega il predicato della bellezza col concetto dell’ oggetto considerato nella sua intera sfera logica, e tuttavia lo estende all’intera sfera dei giudicanti.
Rispetto alla quantità logica ogni giudizio di gusto è singolare. Poiché io debbo riportare l’oggetto immediatamente al mio sentimento di piacere o dispiacere, e però senza concetti, i giudizii di gusto non possono avere la quantità di giudizii oggettivamente universali; quantunque, se la rappresentazione singola dell’oggetto del giudizio di gusto vien cambiata per via di paragone in un concetto secondo le condizioni che determinano il giudizio stesso, si possa avere un giudizio logicamente universale. Così, per esempio, la rosa, che io guardo, la dichiaro bella con un giudizio di gusto; e invece il giudizio che corrisponde al paragone di molti giudizii singolari — le rose in generale son belle — non esprime più un semplice giudizio estetico, ma un giudizio logico fondato su di un giudizio estetico. Ora il giudizio — la rosa è piacevole (all’odorato)2 — è bensì un giudizio estetico singolare, ma non è un giudizio di gusto, sibbene un giudizio dei sensi. E si distingue dall’altro per questo, che il giudizio di gusto implica la quantità estetica dell’universalità, cioè la validità per ognuno, che nel giudizio del piacevole non si può trovare. Solo i giudizii sul buono, sebbene anch’essi determinino il piacere per un oggetto, hanno universalità logica e non soltanto estetica; perché essi valgono per l’oggetto, come conoscenza di esso, e perciò universalmente.
Quando si giudicano gli oggetti semplicemente secondo concetti, ogni rappresentazione della bellezza va perduta. Così non si può dare alcuna regola, secondo la quale ognuno sarebbe obbligato a riconoscer bella qualche cosa. Se si tratta di giudicar bello un abito, una casa, un fiore, non ci lasceremo imporre il giudizio da ragioni o principii. Si vuol sottoporre l’oggetto ai proprii occhi, appunto come se il piacere dovesse dipendere dalla sensazione; e nondimeno, quando poi si dichiara bello l’oggetto, si crede di avere per sé una voce universale, e si esige il consenso di ognuno; mentre ogni sensazione individuale dovrebbe decidere solo pel contemplatore e pel suo sentimento di piacere.
Ora qui è da notare che nel giudizio di gusto non vien postulato altro che tale voce universale, riguardo al piacere senza mediazione di concetti, e quindi la possibilità di un giudizio estetico, che possa essere nello stesso tempo considerato valevole per ognuno. Il giudizio di gusto, per se stesso, non postula il consenso di tutti (perché ciò può farlo solo un giudizio logico, che fornisce ragioni); esso esige soltanto il consenso da ognuno, come un caso della regola, rispetto al quale esso attende la conferma non da concetti, ma dalla adesione altrui. La voce universale è così soltanto una idea (dove sia il suo fondamento, non è da cercare per ora). Può esser dubbio se chi crede di sentenziare in fatto di gusto giudichi effettivamente secondo quest’idea; ma che egli vi si riferisca, e che il suo debba essere perciò un giudizio di gusto, lo proclama egli stesso usando l’espressione « bellezza ». Ma per se stesso egli può assicurarsene con la semplice coscienza di prescindere da tutto quello che nel suo giudizio appartiene al piacevole e al buono; il piacere che ancora gli resta è quello da cui soltanto egli si promette il consenso di ognuno; e sotto queste condizioni, sarebbe giustificata la sua pretesa, se però egli non mancasse assai spesso di osservarle, pronunziando giudizii di gusto sbagliati.
La soluzione di questo quesito è la chiave della critica del gusto, e perciò degna di ogni attenzione.
Se ci fosse prima il piacere per l’oggetto dato, e al giudizio di gusto spettasse soltanto il compito di attribuire alla rappresentazione dell’oggetto la comunicabilità universale di quel piacere, si avrebbe un procedimento intimamente contradittorio. Perché allora quel piacere non sarebbe che il semplice piacevole della sensazione, e, quindi, per sua natura, potrebbe avere soltanto una validità particolare, perché dipenderebbe immediatamente dalla rappresentazione, con la quale l’oggetto è dato.
È quindi la possibilità di comunicare universalmente Io stato d’animo, prodottosi rispetto alla rappresentazione data, che deve stare a fondamento del giudizio di gusto, come sua condizione soggettiva, e avere come conseguenza il piacere per l’oggetto. Ma nulla può essere comunicato universalmente se non la conoscenza e la rappresentazione in quanto è conoscenza. Perché la rappresentazione solo allora è puramente oggettiva, e ha perciò un punto universale di riferimento, col quale la facoltà rappresentativa di tutti è obbligata ad accordarsi. Ora se deve essere pensato come puramente soggettivo il fondamento del giudizio su questa comunicabilità universale della rappresentazione, cioè senza un concetto dell’oggetto, essa non può essere altro che lo stato d’animo che risulta dal rapporto delle facoltà rappresentative tra loro, in quanto queste riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in generale.
Le facoltà conoscitive, messe in giuoco da questa rappresentazione, son qui in un giuoco libero, perché nessun concetto determinato le costringe a una particolare regola di conoscenza. Sicché lo stato d’animo in questa rappresentazione deve essere quello che è costituito dal sentimento del libero gioco delle facoltà rappresentative in una rappresentazione data, rispetto ad una conoscenza in generale. Ora, ad una rappresentazione con cui è dato un oggetto, affinché ne nasca in generale una conoscenza, appartengono la fantasia, per l’unione del molteplice dell’intuizione e, l’intelletto, per l’unità del concetto che unisce le rappresentazioni. Questo stato di libero giuoco delle facoltà conoscitive in una rappresentazione con cui è dato un oggetto, deve poter essere universalmente comunicato; perché la conoscenza, come determinazione dell’oggetto, con cui date rappresentazioni (in qualunque soggetto) debbono accordarsi, è l’unica specie di rappresentazione che valga per ognuno.
La comunicabilità soggettiva universale del modo di rappresentazione propria del giudizio di gusto, poiché deve sussistere senza presupporre un concetto determinato, non può essere altro che lo stato d’animo del libero giuoco della fantasia e dell’intelletto (in quanto essi si accordano tra loro come deve avvenire per una conoscenza in generale); perché noi sappiamo che questo rapporto soggettivo appropriato alla conoscenza in generale deve valere per ognuno, e quindi essere universalmente comunicabile, come è ogni conoscenza determinata, che però riposa sempre su quel rapporto in quanto condizione soggettiva.
Ora, questo giudizio puramente soggettivo (estetico) dell’oggetto, o della rappresentazione con cui esso è dato, precede il piacere per l’oggetto, ed è il fondamento di questo piacere per l’armonia delle facoltà di conoscere; ma su quell’universalità delle condizioni soggettive nel giudizio degli oggetti si fonda soltanto questa validità soggettiva universale del piacere, che noi leghiamo alla rappresentazione dell’oggetto, che chiamiamo bello.
Che il poter comunicare il proprio stato d’animo anche solo riguardo alle facoltà di conoscere, porti con sé un piacere, si potrebbe dimostrare facilmente (in modo empirico o psicologico) con la naturale tendenza dell’uomo alla socievolezza. Ma ciò non è sufficiente pel nostro scopo. Il piacere che noi sentiamo, lo esigiamo come necessario da ognuno nel giudizio di gusto, quando diciamo bella qualche cosa, proprio come se esso fosse da considerarsi come una proprietà dell’oggetto, determinata in questo secondo concetto; poiché la bellezza, senza il riferimento al sentimento del soggetto, per sé non è nulla. Ma la soluzione di questa questione dobbiamo rinviarla fino alla risposta a quest’altra: se e come siano possibili giudizii estetici a priori.
Ora occupiamoci ancora della questione subordinata: in che modo, nel giudizio di gusto, noi siamo coscienti di uno scambievole accordo soggettivo delle facoltà di conoscere, se esteticamente, mediante il semplice senso interno e la sensazione, o intellettualmente, mediante la coscienza della nostra attività intenzionale, con la quale le poniamo in giuoco.
Se la rappresentazione data, che provoca il giudizio di gusto, fosse un concetto che unisse l’intelletto e l’immaginazione nel giudizio dell’oggetto allo scopo di conoscerlo, la coscienza di questa rapporto sarebbe intellettuale (come nello schematismo oggettivo della facoltà del giudizio, di cui tratta la Critica). Ma allora il giudizio non sarebbe dato relativamente al piacere o al dispiacere, e perciò non sarebbe un giudizio di gusto. Il giudizio di gusto determina l’oggetto riguardo al piacere e al dispiacere della bellezza, indipendentemente da concetti. E quindi quell’unità soggettiva del rapporto si rende conoscibile solo mediante la sensazione. L’animazione di entrambe le facoltà (l’intelletto e l’immaginazione) in vista di un’attività determinata3, e purtuttavia concorde grazie allo stimolo della rappresentazione data — in vista cioè di quell’attività che appartiene ad una conoscenza in generale — è la sensazione, la cui comunicabilità universale è postulata dal giudizio di gusto. Un rapporto oggettivo può essere soltanto pensato; ma in quanto esso, secondo le sue condizioni, è soggettivo, può essere anche sentito nel suo effetto sull’animo: e di un rapporto che non abbia a fondamento alcun concetto (come quello delle facoltà rappresentative con una facoltà di conoscere in generale) non vi è altra coscienza che la sensazione dell’effetto che consiste nel facile giuoco delle due facoltà dell’animo (intelletto ed immaginazione), avvivate da un accordo reciproco. Una rappresentazione, che in quanto singola e senza confronti con altre, si accordi nondimeno con le condizioni dell’universalità, — la quale costituisce la funzione dell’intelletto in generale, — dà alle facoltà conoscitive quell’accordo proporzionato che noi esigiamo in ogni conoscenza, e riteniamo valevole, quindi, per ognuno che debba giudicare mediante l’intelletto e il senso collegati tra loro (per ogni uomo).
È bello ciò che piace universalmente senza concetto.
Se si vuol definire che cosa sia uno scopo secondo le sue determinazioni trascendentali (senza presupporre niente di empirico, come sarebbe il sentimento di piacere), esso è l’oggetto di un concetto, in quanto questo è considerato come la causa di quello (il fondamento reale della sua possibilità); e la causalità di un concetto rispetto al suo oggetto è la finalità {forma finalis). Così, quando non si pensa semplicemente la conoscenza d’un oggetto, ma l’oggetto stesso (la sua forma o la sua esistenza) come un effetto, possibile solo mediante un concetto dell’effetto medesimo, allora si pensa uno scopo. La rappresentazione dell’effetto è allora il principio che ne determina la causa, e la precede. La coscienza della causalità che ha una rappresentazione rispetto allo stato del soggetto per conservarlo in questo stato, può designare qui in generale ciò che si chiama piacere; e invece il dispiacere è quella rappresentazione, che dà allo stato rappresentativo il motivo a determinarsi per la sua contraria (rigettando e disfacendosi dell’altra).
La facoltà di desiderare, in quanto può esser determinata ad agire solo mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo, sarebbe la volontà. Ma un oggetto, uno stato d’animo o anche un’azione, è detto finalistico anche se la sua possibilità non presuppone necessariamente la rappresentazione di uno scopo, e pel semplice fatto che la sua possibilità non può essere spiegata e concepita da noi, se non ammettendo come principio di essa una causalità secondo fini, cioè una volontà, che l’abbia così ordinata secondo la rappresentazione di una certa regola. La finalità dunque può essere senza scopo, quando non possiamo porre in una volontà la causa di quella forma, e tuttavia non possiamo concepire la spiegazione della sua possibilità se non derivandola da una volontà. Ora, ciò che è oggetto della nostra osservazione non dobbiamo sempre riguardarlo necessariamente mediante la ragione (secondo la sua possibilità). Sicché possiamo almeno osservare una finalità secondo la forma, senza porre a fondamento di essa uno scopo (come materia del nexus finalis), e scorgerla negli oggetti, sebbene non altrimenti che con la riflessione.
Ogni scopo, quando è considerato come fondamento del piacere, implica sempre un interesse, come fondamento della determinazione del giudizio sull’oggetto che suscita il piacere. Sicché non può esservi nessuno scopo soggettivo a fondamento del giudizio di gusto. Il giudizio di gusto però, non può essere nemmeno determinato dalla rappresentazione di uno scopo oggettivo, cioè della possibilità dell’oggetto stesso secondo principii della relazione con un fine, e quindi da un concetto del buono; poiché esso è un giudizio estetico, non un giudizio di conoscenza, e quindi, come tale, non concerne alcun concetto della qualità o della possibilità interna od esterna dell’oggetto, derivante da questa o quella causa, ma soltanto il rapporto delle facoltà conoscitive tra loro, in quanto sono determinate da una rappresentazione.
Ora questo rapporto, quando si determina un oggetto come bello, è legato col sentimento di un piacere, che nel tempo stesso è dichiarato universalmente valido dal giudizio di gusto; per conseguenza, il fondamento della determinazione del giudizio non può essere una sensazione piacevole che accompagna la rappresentazione, o la rappresentazione della perfezione dell’oggetto e il concetto del buono. Non altro dunque che la finalità soggettiva nella rappresentazione di un oggetto, senza nessun fine (né oggettivo, né soggettivo), e quindi la semplice forma della finalità nella rappresentazione con cui un oggetto ci è dato, può, in quanto ne siamo coscienti, costituire il piacere che giudichiamo, senza concetto, come universalmente comunicabile, e per conseguenza la causa determinante del giudizio di gusto.
Stabilire a priori il legame del sentimento di piacere o dispiacere, come effetto, con una qualunque rappresentazione (sensazione o concetto), in quanto causa, è assolutamente impossibile; si tratterebbe d’un rapporto di causalità, il quale (tra gli oggetti dell’esperienza) non può esser mai riconosciuto se non a posteriori, e mediante la esperienza stessa. Nella critica della ragion pratica abbiamo, è vero, derivato effettivamente a priori da concetti morali universali il sentimento della stima (come una particolare e propria modificazione di quel sentimento, la quale non può in verità aver riscontro né nel piacere né nel dispiacere che riceviamo dagli oggetti empirici). Ma lì noi potevamo anche superare i limiti dell’esperienza, ed invocare una causalità fondata su una qualità soprasensibile del soggetto, cioè la causalità della libertà. Anche lì, del resto, non facevamo dipendere propriamente questo sentimento dall’idea della moralità in quanto causa, e derivavamo da questa soltanto la determinazione della volontà. Ma lo stato d’animo di una volontà in qualsiasi modo determinata è già in se stesso un sentimento di piacere e identico con questo; non ne segue come effetto: la qual cosa si dovrebbe ammettere solo quando il concetto della moralità, in quanto è un bene, precedesse la determinazione della volontà mediante la legge; perché allora il piacere, che sarebbe legato col concetto, invano si deriverebbe da questo come da una semplice conoscenza.
Lo stesso si può dire del piacere nel giudizio estetico: solo che qui esso è puramente contemplativo e senza alcun interesse per l’oggetto, mentre nel giudizio morale è pratico. La coscienza della finalità puramente formale nel giuoco delle facoltà conoscitive del soggetto, rispetto a una rappresentazione con cui un oggetto è dato, è il piacere stesso, perché essa implica un fondamento della determinazione dell’attività del soggetto, diretto a vivificare le sue facoltà conoscitive, e quindi una causalità interna (che è finale) rispetto alla conoscenza in generale, senza però essere limitata ad una determinata conoscenza; e perciò ancora una semplice forma della finalità soggettiva di una rappresentazione in un giudizio estetico. Questo piacere non è in nessun modo pratico, né come quello del piacevole che ha fondamento patologico, né come quello che ha a fondamento intellettuale la rappresentazione del bene. Esso ha però una causalità in se stesso, che consiste nel conservare, senza uno scopo ulteriore, lo stato della rappresentazione stessa e l’attività delle facoltà conoscitive. Noi indugiamo nella contemplazione del bello, perché essa si rinforza e si riproduce da sé: e questo indugio è analogo (ma non identico) a quello che si ha, quando qualche attrattiva nella rappresentazione dell’oggetto eccita ripetutamente l’attenzione, mentre l’animo resta passivo.
Ogni interesse corrompe il giudizio di gusto e gli toglie la sua imparzialità, in ispecie quando (al contrario dell’interesse della ragione) esso non pone la finalità avanti al sentimento di piacere, ma fonda quella su questo; ciò che sempre avviene nel giudizio estetico su alcuna cosa, quando questa produce piacere o dolore. Perciò i giudizii così modificati non possono avere alcuna pretesa alla validità universale del piacere, o possono averla tanto meno quanto maggiore è il numero delle sensazioni di questa specie, che si trovano tra le cause determinanti del gusto. Il gusto resta sempre barbarico, quando abbia bisogno di unire al piacere le attrattive e le emozioni, o di queste faccia anche il criterio del suo consenso.
Tuttavia, le attrattive non solo sono spesso attribuite alla bellezza (che dovrebbe riguardare propriamente solo la forma), come un contributo al piacere estetico di validità universale, ma son date esse stesse come bellezze, e la materia del piacere viene scambiata con la forma: un fraintendimento che, come parecchi altri, ha pure qualche fondamento di verità, e si può eliminare mediante una esatta definizione di questi concetti.
Un giudizio di gusto, su cui non hanno influsso l’attrattiva e l’emozione (sebbene l’una e l’altra possano congiungersi col piacere del bello), e che ha quindi come causa determinante soltanto la finalità della forma, è un puro giudizio di gusto.
I giudizii estetici, proprio come quelli teoretici (logici), possono distinguersi in empirici e puri. I primi sono quelli che esprimono ciò che è piacevole o spiacevole, i secondi affermano la bellezza d’un oggetto o della sua rappresentazione; quelli sono giudizii dei sensi (giudizii estetici materiali), questi soltanto (in quanto formali) sono veri giudizii di gusto.
Un giudizio di gusto, dunque, è puro, solo quando nessun piacere semplicemente empirico è mescolato alla sua causa determinante. Il che però avviene sempre, quando l’attrattiva o la emozione hanno una parte nel giudizio, col quale una cosa dev’essere dichiarata bella.
Qui di nuovo si affacciano parecchie obiezioni, le quali in sostanza vogliono gabbare l’attrattiva non soltanto come necessario ingrediente della bellezza, ma come per se stessa sufficiente ad esser chiamata bella. Un semplice colore, per esempio il verde di un prato, un semplice suono (a differenza del rumore e del frastuono), come quello di un violino, in generale son dichiarati belli per se stessi; sebbene entrambi mostrino di aver a fondamento la semplice materia della rappresentazione, cioè unicamente la sensazione, e perciò meritino di esser chiamati soltanto piacevoli. Ma nello stesso tempo si noterà che le sensazioni del colore, come quelle del suono, non possono essere giustamente ritenute belle, se non in quanto sono pure; ed è questa una determinazione che già riguarda la forma, ed è anche l’unica in queste rappresentazioni che si possa con certezza universalmente comunicare; perché la qualità delle sensazioni non si può ammettere come concordante in tutti i soggetti, e la superiorità, riguardo al piacevole, di un colore sull’altro, o del suono di uno strumento musicale su quello d’un altro, difficilmente si può ammettere che sia giudicata da ognuno allo stesso modo.
Si ammetta con Eulero che i colori siano un séguito di vibrazioni isocrone (pulsus) dell’etere, come i suoni son vibrazioni isocrone dell’aria messa in movimento, e, ciò che più importa, che l’animo possa percepire non soltanto, mediante il senso, l’effetto di ciò sull’attività dell’organo, ma anche, con la riflessione (di che non dubito affatto), il giuoco regolare delle impressioni (e quindi la forma nell’unione di diverse rappresentazioni). Colore e suono, allora, anziché semplici sensazioni, sarebbero già una determinazione formale dell’unità di un molteplice, e perciò potrebbero essere considerati per se stessi come bellezze.
Ma, quando si parla di purezza di una sensazione semplice, s’intende che la sua uniformità non è turbata ed interrotta da alcuna sensazione estranea, e che essa appartiene soltanto alla forma: perché si può astrarre dalla qualità della sensazione (non guardare se essa rappresenti un suono o un colore, e quale suono o colore). È perciò che tutti i colori semplici, in quanto son puri, son ritenuti belli; i misti non hanno questa proprietà, appunto perché, non essendo semplici, non si ha alcun criterio per giudicare se essi sono o no da riguardarsi come puri.
È un errore comune però, e molto nocivo alla purezza, integrità e solidità del gusto, il credere che la bellezza, la quale consiste nella forma, possa essere aumentata dall’attrattiva; sebbene si possano aggiungere attrattive alla bellezza, per interessare l’animo anche mediante la rappresentazione dell’oggetto, indipendentemente dal puro piacere, e per favorire il gusto e la sua coltura, raccomandandogli la bellezza, specialmente quando esso è ancora rozzo ed incolto. Ma le attrattive effettivamente turbano il giudizio di gusto, se attirano su di sé l’attenzione, come se fossero esse i motivi del giudizio sulla bellezza. Perché esse sono tanto lungi dal contribuire alla bellezza che, piuttosto, possono essere tollerate come estranee solamente quando il gusto sia ancora debole ed incolto in quanto non guastano la bella forma.
Nella pittura, nella scultura, e in tutte le arti figurative, l’architettura, il giardinaggio, in quanto sono arti belle, l’essenziale è il disegno, in cui ogni affermazione del gusto non riposa su ciò che diletta nella sensazione, ma su ciò che piace semplicemente per la sua forma. I colori, che avvivano il disegno, appartengono all’attrattiva; possono bensì ravvivare l’oggetto per la sensazione, ma non farlo degno dell’intuizione, e bello; sono, invece, quasi sempre molto limitati da ciò che esige la bella forma, ed anche dove si può fare una parte all’attrattiva, è sempre la forma che li nobilita.
Ogni forma degli oggetti dei sensi (dei sensi esterni e, mediatamente, anche dei sensi interni) è o figura o giuoco; nel secondo caso, o giuoco delle figure (nello spazio, la mimica e la danza), o semplice giuoco delle sensazioni (nel tempo). L’attrattiva dei colori o dei suoni piacevoli di uno strumento può contribuire all’effetto; ma il disegno nel primo caso, e la composizione nel secondo, costituiscono l’oggetto proprio del puro giudizio di gusto; e se la purezza dei colori e dei suoni, o anche la loro varietà e il loro contrasto, sembrano contribuire alla bellezza, ciò non vuol tanto dire che essi, poiché sono piacevoli per se stessi, possano portare un contributo omogeneo al piacere della forma, ma solo che la rendono più esattamente, determinatamente e perfettamente intuibile, ed inoltre vivificano con la loro attrattiva la rappresentazione, risvegliando e conservando l’attenzione sull’oggetto.
Anche quelli che si chiamano fregi (parerga), vale a dire quelle cose che non appartengono intimamente, come parte costitutiva, alla rappresentazione totale dell’oggetto, ma soltanto come accessorii esteriori, aumentando il piacere del gusto, non compiono tale ufficio se non per via della loro forma: così le cornici dei quadri, i panneggiamenti delle statue, i peristilii degli edifizii. Ma, se il fregio non consiste esso stesso nella bella forma, ed è adoperato, come le cornici dorate, soltanto per raccomandare il quadro all’ammirazione mediante l’attrattiva, allora esso si chiama ornamento, e nuoce alla pura bellezza.
L’emozione, o quella sensazione in cui il piacere non è prodotto che da un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione della forza vitale, non appartiene punto alla bellezza. Ma il sublime (con cui è legato il sentimento dell’emozione) richiede una misura del giudizio diversa da quella che è di fondamento al gusto; e così un puro giudizio di gusto non ha come causa determinante né l’attrattiva né l’emozione, in una parola nessuna sensazione in quanto materia del giudizio estetico.
La finalità oggettiva può essere riconosciuta solamente per mezzo del rapporto del molteplice con uno scopo determinato, cioè per mezzo di un concetto. Da questo soltanto già risulta chiaro che il bello, il cui giudizio ha a fondamento una finalità puramente formale, cioè una finalità senza scopo, è del tutto indipendente dalla rappresentazione del bene, che presuppone una finalità oggettiva, vale a dire la relazione dell’oggetto con uno scopo determinato.
La finalità oggettiva o è esterna, utilità, o interna, perfezione dell’oggetto. Che il piacere suscitato da un oggetto, che chiamiamo bello, non possa riposare sulla rappresentazione della sua utilità, è stato sufficientemente dimostrato nei due paragrafi precedenti; perché allora esso non sarebbe una soddisfazione suscitata immediatamente dall’oggetto, mentre questa è la condizione essenziale del giudizio sulla bellezza. Ma una finalità oggettiva interna, cioè la perfezione, si avvicina di più al predicato della bellezza; e perciò anche da rinomati filosofi è stata identificata con la bellezza stessa, nel caso però che la perfezione medesima sia pensata confusamente. È della massima importanza, in una critica del gusto, decidere se anche la bellezza possa effettivamente risolversi nel concetto della perfezione.
Per giudicare della finalità oggettiva abbiamo bisogno sempre del concetto di uno scopo e, — se tale finalità non dev’essere esterna (utilità), ma interna, — del concetto di uno scopo interno, che contenga il principio della possibilità interna dell’oggetto. Ora, poiché in generale è uno scopo quello il cui concetto può essere riguardato come il principio della possibilità dell’oggetto stesso, per rappresentarsi una finalità oggettiva in una cosa, deve precedere il concetto di questa, di ciò che la cosa deve essere; e l’accordo del molteplice di essa con questo concetto (che dà la regola dell’unione del molteplice) è la perfezione qualitativa di una cosa. Da questa è del tutto diversa la perfezione quantitativa come sarebbe la completezza di una cosa qualunque nella sua specie, e che è un semplice concetto di grandezza (totalità), in cui ciò che la cosa deve essere è pensato come determinato anteriormente, e si cerca soltanto se in essa è tutto quello che vi si deve trovare. Ciò che è formale nella rappresentazione di una cosa, cioè l’accordo del molteplice in un’unità (che non è determinato quale debba essere), non fa conoscere, per se stesso, alcuna finalità oggettiva; perché, fatta astrazione da questa unità come scopo (da ciò che la cosa deve essere), non resta altro che la finalità soggettiva delle rappresentazioni nell’animo di colui che intuisce; la quale mostra bensì una certa finalità dello stato rappresentativo nel soggetto e un certo gradimento nell’accogliere con l’immaginazione una forma data, ma non dà punto la perfezione di un oggetto, che in tal caso non è pensato col concetto di uno scopo. Così, per esempio, se io incontro in una foresta un prato intorno a cui sono in circolo degli alberi, e non mi rappresento qualche scopo che esso potrebbe avere, di servire, poniamo, alla danza campestre, mediante la semplice sua forma non mi è dato il minimo concetto di perfezione. Ma rappresentarsi una finalità formale oggettiva senza scopo, cioè la semolice forma di una perfezione (senza alcuna materia, e senza un concetto di ciò con cui deve avvenire l’accordo, se anche si trattasse della semplice idea d’una regolarità in generale), è una vera contradizione.
Ora il giudizio di gusto è un giudizio estetico, cioè tale che riposa su principii soggettivi, e di cui causa determinante non può essere un concetto, e quindi nemmeno quello di uno scopo determinato. Sicché, mediante la bellezza, in quanto finalità soggettiva formale, non si pensa affatto una perfezione dell’oggetto, come finalità, che è data per formale, ma non pertanto è oggettiva: è vano credere che i concetti del bello e del buono differiscano solo per la forma logica, e che il primo sia un concetto confuso, il secondo un concetto chiaro della perfezione, pur essendo identici nel contenuto e nell’origine: perché allora non vi sarebbe tra essi alcuna differenza specifica, e un giudizio di conoscenza come quello con cui una cosa è dichiarata buona; sarebbe qui come quando l’uomo comune dice che la frode è ingiusta, e fonda il suo giudizio sopra principii razionali confusi, mentre il filosofo fonda lo stesso giudizio su principii chiari, ma in fondo si appoggiano entrambi agli stessi principii razionali. Io però ho già fatto notare che un giudizio estetico è unico nella sua specie, e non dà assolutamente alcuna conoscenza (nemmeno confusa) dell’oggetto; la conoscenza è data solo da un giudizio logico; il giudizio estetico invece riferisce unicamente al soggetto la rappresentazione con cui è dato un oggetto, e non ne dà a conoscere alcuna proprietà, rivelando solo la forma finale nella determinazione delle facoltà rappresentative, che son messe in azione. Il giudizio si chiama estetico appunto perché la sua causa determinante non è un concetto, ma il sentimento (del senso interno) di quell’accordo nel giuoco delle facoltà dell’animo, in quanto può essere soltanto sentito. Invece, se si volessero chiamare estetici i concetti confusi, e il giudizio oggettivo cui essi stanno a fondamento, si avrebbe un intelletto che giudicherebbe sensibilmente, un senso che si rappresenterebbe i suoi oggetti mediante concetti: un assurdo in Entrambi i casi. La facoltà dei concetti, confusi o chiari che siano, è l’intelletto; e sebbene nel giudizio di gusto, in quanto giudizio estetico, entri (come in tutti i giudizii) anche l’intelletto, esso vi entra però non come facoltà della conoscenza di un oggetto, ma come facoltà della determinazione del giudizio e della sua rappresentazione (senza concetto), secondo il rapporto di questa al soggetto e al suo sentimento interno, e precisamente in quanto questo giudizio è possibile secondo una regola universale.
Vi son due specie di bellezza: la bellezza libera (pulchritudo vaga), e la bellezza semplicemente aderente (pulchritudo adhaerens). La prima non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere; la seconda presuppone questo concetto, e la perfezione dell’oggetto alla stregua di esso. La prima si dice bellezza (per sé stante) di questa o quella cosa; l’altra, essendo aderente ad un concetto (bellezza condizionata), è attribuita ad oggetti, i quali stanno sotto il concetto di uno scopo particolare.
I fiori sono bellezze naturali libere. Difficilmente si sa, senza essere botanico, che cosa debba essere un fiore, e il botanico stesso, che vede nel fiore l’organo riproduttore della pianta, quando dà del fiore un giudizio di gusto, non ha riguardo a questo scopo della natura. Sicché a questo giudizio non è messo a fondamento alcuna perfezione, di nessuna specie, alcuna finalità interna, cui si rapporti l’unità del molteplice. Molti uccelli (il pappagallo, il colibrì, l’uccello di paradiso), una quantità di conchiglie, sono bellezze per se stessi, che non convengono ad un oggetto determinato secondo concetti in vista del suo scopo; piacciono liberamente e per sé. Così i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie per sé stessi non significano nulla, non rappresentano nulla, nessun oggetto sotto un concetto determinato, e sono bellezze libere. Si possono considerare come della stessa specie quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema), ed anche tutta la musica senza testo.
Nel giudizio duna bellezza libera (secondo la semplice forma) il giudizio di gusto è puro. Non è presupposto alcun concetto di scopo, cui debba rispondere il molteplice dell’oggetto dato, e quindi ciò che l’oggetto deve rappresentare: con che sarebbe limitata la libertà dell’immaginazione, la quale in certo modo giuoca nella contemplazione della figura.
Ma la bellezza di un uomo (e nella stessa specie, quella di un uomo, di una donna, d’un bambino), la bellezza di un cavallo, di un edilìzio (come una chiesa, un palazzo, un arsenale, una villa), presuppone un concetto di scopo, che determina ciò che la cosa deve essere, e quindi un concetto della sua perfezione; ed è perciò una bellezza aderente. Ora, allo stesso modo che l’unione del piacevole (della sensazione) con la bellezza, che riguarda propriamente solo la forma, impediva la purezza del giudizio di gusto, la purezza stessa è alterata dall’unione del buono (cioè di ciò per cui il molteplice è buono rispetto all’oggetto, secondo il suo fine) con la bellezza.
Si potrebbe adornare un edilìzio con molte cose piacevoli immediatamente all’intuizione, se esso non dovesse essere una chiesa; si potrebbe abbellire una figura umana con ogni sorta di disegni e tratti di forme spigliate e regolari, come fanno i neozelandesi col loro tatuaggio, se non si trattasse di un uomo; e un uomo potrebbe avere lineamenti molto più fini e nel volto un contorno più grazioso e delicato, soltanto se non dovesse rappresentare un uomo, o, peggio, un guerriero.
Ora il piacere che si prova per il molteplice in una cosa, in relazione con lo scopo interno che determina la possibilità della cosa stessa, è un piacere fondato sopra un concetto; ma il piacere della bellezza è tale che non presuppone alcun concetto, ed è legato invece immediatamente con la rappresentazione con cui l’oggetto è dato (non con cui è pensato). Se riguardo all’ultimo, il giudizio di gusto si fa dipendere dallo scopo, che è nel primo come giudizio di ragione, e vien così delimitato, esso cessa di essere un libero e puro giudizio di gusto.
Il gusto, veramente, da questa unione del piacere estetico col piacere intellettuale, guadagna questo, che vien fissato e se non diventa universale, gli possono però essere prescritte regole relativamente a certi oggetti che son determinati secondo fini. Queste però non sono regole del gusto, ma soltanto dell’unione del gusto con la ragione, cioè del bello col buono, in virtù delle quali il primo diventa adoperabile come strumento della volontà rispetto al secondo, allo scopo di subordinare quella disposizione d’animo che si conserva da sé ed ha una validità soggettiva universale, a quel carattere che può essere mantenuto solo mediante un laborioso proposito, ma che ha una validità universale oggettiva. In verità, né la perfezione acquista dalla bellezza, né questa da quella; ma poiché quando compariamo la rappresentazione con cui è dato un oggetto con l’oggetto (quale deve essere), mediante un concetto, non possiamo evitare che contemporaneamente ad essa si unisca la sensazione che ne riceviamo, — quando i due stati dell’animo si accordino, quella che se ne avvantaggia è la facoltà rappresentativa nel suo complesso.
Un giudizio di gusto sopra un oggetto avente uno scopo interno determinato sarebbe puro, o quando il giudicante non avesse alcun concetto di questo scopo, o quando nel giudizio ne facesse astrazione. Ma allora, anche pronunziando un giudizio di gusto esatto, in quanto giudica l’oggetto come bellezza libera, egli sarebbe biasimato ed accusato di avere un gusto falso da colui che considera la bellezza dell’oggetto come qualità aderente (che guarda allo scopo dell’oggetto); mentre pure ognuno dei due dal suo punto di vista giudicherebbe rettamente: l’uno, secondo ciò che ha sotto i sensi, l’altro, secondo quello che ha nel pensiero. Con questa distinzione si possono comporre molte discordie tra quelli che giudicano di gusto sulla bellezza, mostrando loro che l’uno parla della bellezza libera, l’altro della bellezza aderente, il primo dà un puro giudizio di gusto, il secondo un giudizio di gusto applicato.
Non si può dare alcuna regola oggettiva del gusto, che determini per mezzo di concetti che cosa sia bello. Perché ogni giudizio derivante da questa fonte è estetico; in altri termini, la sua causa determinante è il sentimento del soggetto, non un concetto dell’oggetto. Il cercare un principio del gusto, che sia il criterio universale del bello mediante concetti determinati, è una fatica vana, perché ciò che si cerca è impossibile e in se stesso contradittorio. La comunicabilità universale della sensazione (di piacere o dispiacere), ed una comunicabilità tale che sussiste senza concetto; l’accordo, per quanto è possibile, di tutti i tempi e di tutti i popoli riguardo a questo sentimento nella rappresentazione di certi oggetti: è questo il criterio empirico, per quanto debole, e appena sufficiente alla congettura, col quale si possa derivare un gusto così autenticato per via di esempü, da quel fondamento, profondamente nascosto e comune a tutti gli uomini, dell’accordo nel giudizio delle forme sotto cui son dati loro gli oggetti.
È perciò che si considerano alcuni prodotti del gusto come esemplari; il che non vuol dire che il gusto possa acquistarsi con l’imitazione. Perché il gusto deve essere una facoltà originale: chi imita un modello mostra abilità, in quanto riesce, ma dà prova di gusto solo in quanto può giudicare il modello stesso*4. E da ciò si vede che il modello supremo, il prototipo del gusto, è una semplice idea che ognuno deve produrre in se stesso, e secondo la quale deve giudicare tutto ciò che è oggetto del gusto, che è esempio del giudizio di gusto, ed anche il gusto di ciascuno. Idea significa propriamente un concetto della ragione, e ideale la rappresentazione di un essere singolo in quanto è adeguata ad un’idea. Perciò quel prototipo del gusto, che riposa certamente sull’idea indefinita di un massimo fornita dalla ragione, e che non può essere rappresentato mediante concetti, ma soltanto in una esibizione singola, sarebbe chiamato meglio l’ideale del bello; un ideale che, se non lo possediamo, ci sforziamo di produrlo in noi. Ma sarà semplicemente un ideale dell’immaginazione, appunto perché non riposa sopra concetti, ma sulla esibizione, e la facoltà della esibizione è l’immaginazione. — Come arriviamo a questo ideale della bellezza? A priori o empiricamente? E ancora: quale specie di bellezza è capace di un ideale?
In primo luogo, si deve ben considerare che la bellezza per la quale si deve cercare un ideale non può essere una bellezza vaga, ma una bellezza fissata mediante un concetto di finalità oggettiva, e per conseguenza non può appartenere all’oggetto di un giudizio di gusto interamente puro, ma all’oggetto di un giudizio di gusto in parte intellettuale. In altri termini, quella specie di principii del giudizio, in cui deve sussistere un ideale, deve avere a fondamento un’idea della ragione secondo concetti determinati, che determini a priori lo scopo su cui riposa la possibilità interna dell’oggetto. Non si può concepire un ideale d’un bel fiore, d’un bello ammobigliamento, d'una bella veduta. Ma è anche impossibile rappresentarsi l’ideale di certe bellezze aderenti a fini determinati, per esempio l’ideale d’una bella abitazione, di un bell’albero, di un bel giardino, etc.; probabilmente perché i fini qui non sono abbastanza determinati e fissati dal loro concetto, e quindi la finalità è presso a poco libera come nella bellezza vaga. Solo ciò che ha in se stesso lo scopo della sua esistenza, l’uomo, il quale può determinare da sé i suoi fini mediante la ragione, o, quando debba prenderli dalla percezione esterna, può accordarli con scopi essenziali ed universali, e giudicare anche esteticamente tale accordo; l’uomo dunque, tra tutti gli oggetti del mondo, è il solo capace dell’ideale della bellezza, così come l’umanità nella sua persona, in quanto intelligenza, è essa sola capace dell’ideale della perfezione.
Qui bisogna distinguere due cose: in primo luogo, l’idea estetica normale, che è un’intuizione singola (dell’immaginazione), la quale rappresenta la regola del suo giudizio come una cosa appartenente ad una data specie animale ; in secondo luogo, l’idea razionale, che pone gli scopi dell’umanità, in quanto non possono essere rappresentati sensibilmente, come principio del giudizio della sua figura, mediante la quale gli scopi stessi si manifestano come effetti nel mondo fenomenico. L’idea normale deve prendere dall’esperienza i suoi elementi per comporre la figura di un animale di una data specie; ma quella massima finalità nella costruzione di una figura, che potrebbe essere norma universale del giudizio estetico su ogni individuo di questa specie, il tipo, su cui quasi con intenzione si fondò la tecnica della natura, e cui solo è adeguata tutta la specie nel suo complesso ma nessun individuo singolo, questo tipo sta soltanto nell’idea del giudicante, la quale, con le sue proporzioni, in quanto idea estetica, può essere rappresentata del tutto in concreto in un modello. Per rendere chiaro in qualche modo come ciò avvenga (poiché chi può strappare interamente alla natura il suo segreto?), vogliamo tentare una spiegazione psicologica.
V’è da notare che non soltanto, in un modo che non possiamo punto concepire, l’immaginazione può richiamare all’occasione i segni dei concetti anche dopo lungo tempo, ma può anche riprodurre l’immagine e la figura di un oggetto tra un infinito numero di oggetti di specie diverse, o anche della stessa specie; inoltre, quando il nostro animo istituisce paragoni, essa, secondo ogni verosimiglianza, e sebbene la coscienza non ne sia sufficiente-mente avvertita, può lasciar quasi cadere un’immagine sull’altra, e dalla congruenza di quelle della stessa specie trarre una media, che serve a tutte di comune misura. Qualcuno ha visto mille persone adulte. Se ora egli vuol giudicare per via di comparazione della grandezza media dell’uomo, la sua immaginazione (come io credo) farà coincidere un gran numero delle figure (forse tutte quelle mille); e, se mi è permesso di adoperare qui l’analogia con la rappresentazione ottica, è nello spazio dove il più gran numero di esse si riunisce, e dentro il contorno dove lo spazio è illuminato dai più vivi colori, che egli riconoscerà la grandezza media, che è lontana egualmente dai limiti estremi delle stature più grandi e più piccole tanto in altezza che in larghezza. Ed è questa la statura di un uomo bello. — Si potrebbe arrivare meccanicamente allo stesso risultato, misurando le mille figure, addizionando le loro altezze e le loro larghezze (e i loro spessori), e dividendo le somme per mille. Ma l’immaginazione fa appunto questo mediante un effetto dinamico, che risulta dalle impressioni di tutte le immagini sull’organo del senso interno. — Intanto se, allo stesso modo, di quest’uomo medio si ricerca la testa media, e di questa il naso medio, la figura che risulta starà a fondamento dell’idea normale dell’uomo bello, nel paese dove è stata fatta la comparazione; perciò, sotto queste condizioni empiriche, il negro deve necessariamente avere un’idea normale della bellezza della figura umana diversa da quella che ha il bianco, e il cinese l’avrà diversa dall’europeo. Lo stesso sarebbe del modello di un bel cavallo o di un bel cane (d’una certa razza). — Questa idea normale non è derivata da proporzioni raccolte dalla esperienza come regole determinate; ma è essa che rende anzitutto possibili le regole del giudizio. È, per l’intera specie, l’immagine fluttuante tra tutte le intuizioni particolari e in vani modi diverse, degli individui, e che la natura pose come prototipo nei prodotti della specie medesima, senza, a quel che pare, raggiungerla pienamente in nessun individuo. Essa non è il prototipo perfetto della bellezza, in quella specie, ma solamente quella forma che costituisce la condizione imprescindibile di ogni bellezza, e quindi non altro che la esattezza nella rappresentazione della specie. È, come si chiamava il famoso Doriforo di Policleto, il canone (e così sarebbe adoperabile nella sua specie la Vacca di Mirone). Appunto per queste ragioni essa non può contenere niente di specificamente caratteristico; altrimenti, non sarebbe più l’idea normale di quella specie. La sua rappresentazione piace anche senza bellezza, solo perché non contradice a nessuna delle determinazioni, sotto cui una cosa di quella specie può essere bella. La rappresentazione è semplicemente corretta*5.
Dall’idea normale del bello si deve però ancora distinguere l’ideale del medesimo, che si può aspettare unicamente nella figura umana, per le ragioni già dette. Ora, in questa, l’ideale si trova nell’espressione della moralità, senza la quale l’oggetto non piacerebbe universalmente, e quindi positivamente (non soltanto negativamente in una rappresentazione corretta). L’espressione visibile delle idee morali, che dominano nell’interno dell’uomo, può bensì esser ricavata solo dall’esperienza; ma a render quasi visibile nelle manifestazioni corporee (in quanto effetti dell’interno) il legame con tutto ciò che la nostra ragione congiunge col bene morale nell’idea della suprema finalità, la bontà d’animo, la purezza, la forza, la calma, e via dicendo, è necessario che le pure idee della ragione e un grande potere d’immaginazione si trovino insieme in chi vuol solo giudicare, e ancor più in chi vuol darne la rappresentazione. La giustezza di un simile ideale della bellezza si vede da ciò, che esso non permette ad alcun’attrattiva sensibile di mischiarsi al piacere del suo oggetto, e nondimeno suscita un grande interesse; il che poi dimostra che il giudizio secondo tale misura non può essere mai un puro giudizio estetico, e che il giudizio secondo un ideale della bellezza non può essere un semplice giudizio di gusto.
La bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione d’uno scopo*6 .
Di ogni rappresentazione posso dire che è almeno possibile che essa (in quanto conoscenza) sia congiunta con un piacere. Ciò che chiamo piacevole, dico che mi produce realmente piacere. Ma del bello si pensa che abbia una relazione necessaria col piacere. Questa necessità però è di una specie particolare; non è una necessità teoretica oggettiva, per la quale possa esser riconosciuto a priori che ognuno sentirà lo stesso piacere dall’oggetto, che io ho chiamato bello; non è nemmeno una necessità pratica, per cui, mediante concetti di un puro volere razionale, che serve di regola ad un essere libero, il piacere sia la necessaria conseguenza di una legge oggettiva, e non significhi altro se non che bisogni operare assolutamente in un certo modo (senz’altro scopo). Ma, in quanto necessità che è pensata in un giudizio estetico, essa può esser chiamata soltanto esemplare, ed è la necessità dell’accordo di tutti in un giudizio considerato come esempio d’una regola universale, che però non si può addurre. Siccome un giudizio estetico non è un giudizio oggettivo conoscitivo, tale necessità non può esser derivata da concetti determinati e quindi non è apodittica. Ancor meno essa può esser inferita dalla universalità dell’esperienza (di un accordo completo dei giudizii sulla bellezza d’un certo oggetto). Perché non solo l’esperienza difficilmente ne potrebbe fornire a sufficienza i documenti; ma sui giudizii empirici non si può fondare alcun concetto della loro necessità.
Il giudizio di gusto esige il consenso di tutti; e chi dichiara bella una cosa pretende che ognuno dia l’approvazione all’oggetto in questione, e debba dichiararlo bello allo stesso modo. Il dovere nel giudizio estetico è dunque espresso per tutti i dati, che sono richiesti dal giudizio; ma solo condizionatamente. Si pretende al consenso di ognuno, perché si ha, per tale esigenza, un principio, che è comune a tutti; e su questo consenso si potrebbe anche sempre contare, se però si avesse la certezza che il caso singolo si può sussumere esattamente a quel principio come regola dell’approvazione.
Se i giudizii di gusto (come i giudizii di conoscenza) avessero un principio oggettivo determinato, colui che giudica pretenderebbe ad una necessità incondizionata del suo giudizio. Se essi invece fossero senza alcun principio, come quelli del semplice gusto del senso, nessuno penserebbe mai ad una loro necessità. Sicché essi debbono avere un principio soggettivo, che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini ciò che piace e ciò che dispiace. Un tale principio però non potrebbe esser riguardato che come un senso comune, che è essenzialmente diverso dall’intelligenza comune, la quale talvolta si chiama anche senso comune (sensus communis); perché quest’ultima giudica non secondo il sentimento, ma sempre secondo concetti, sebbene ordinariamente questi concetti siano principii oscuramente rappresentati.
Soltanto dunque nell’ipotesi che ci sia un senso comune (col quale non intendiamo nessun senso esterno, ma solo l’effetto del libero giuoco delle nostre facoltà conoscitive), soltanto nell’ipotesi, dico, di un tal senso comune, può esser pronunziato il giudizio di gusto.
Le conoscenze e i giudizii, con la convinzione che li accompagna, debbono poter essere comunicati universalmente, altrimenti non si accorderebbero per nulla con l’oggetto; sarebbero tutti un giuoco puramente soggettivo delle facoltà rappresentative, proprio come vorrebbe lo scetticismo. Ma se le conoscenze debbono esser comunicabili, si deve poter comunicare universalmente anche quello stato d’animo che consiste nella disposizione delle facoltà conoscitive rispetto ad una conoscenza in generale, e quella proporzione che conviene ad una rappresentazione (con cui è dato un oggetto), affinché essa diventi una conoscenza; altrimenti, senza questa proporzione, come condizione soggettiva del conoscere, la conoscenza, come effetto, non potrebbe nascere. Ciò avviene effettivamente sempre quando un oggetto dato, per mezzo dei sensi, eccita l’immaginazione alla composizione del molteplice, e l’immaginazione a sua volta eccita l’intelletto all’unificazione in concetti del molteplice stesso. Ma questa disposizione delle facoltà conoscitive ha una diversa proporzione, secondo la diversità degli oggetti dati. Tuttavia ve ne deve essere una nella quale questo rapporto interno al ravvivamento (dell’una mediante l’altra) sia il più favorevole per entrambe le facoltà dell’animo, relativamente alla conoscenza (di oggetti dati) in generale; e questa disposizione non può essere determinata altrimenti che dal sentimento (non da concetti). Ora la disposizione stessa, dovendo poter essere universalmente comunicata, e con essa anche il sentimento che ne abbiamo (in una data rappresentazione), e poiché la comunicabilità universale di un sentimento presuppone un senso comune, quest’ultimo potrà essere ammesso con ragione, senza appoggiarsi perciò ad osservazioni psicologiche, ma come la condizione necessaria dell’universale comunicabilità della nostra conoscenza, che dev’essere presupposta in ogni logica e in ogni principio della conoscenza che non sia scettico.
In tutti i giudizii coi quali dichiariamo bella una cosa, noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio sopra concetti, ma soltanto sul nostro sentimento, di cui così facciamo un principio, non però in quanto sentimento individuale, ma in quanto sentimento comune. Ora questo senso comune, che serve a tale uso, non può esser fondato sull’esperienza; perché esso vuol giustificare giudizii che contengono un dovere; questo senso comune non dice che ognuno si accorderà, ma che si dovrà accordare, col nostro giudizio. Quindi il senso comune, del cui giudizio io adduco qui il mio giudizio di gusto come un esempio, e gli attribuisco perciò una validità esemplare, è una pura norma ideale, presupponendo la quale si potrebbe a buon dritto far una regola universale di un giudizio che si accordi con essa, e di quel piacere per l’oggetto che ha trovato espressione nel giudizio medesimo, poiché il principio, preso bensì solo soggettivamente, ma come soggettivamente universale (un’idea necessaria ad ognuno), potrebbe esigere, per ciò che riguarda l’accordo di diversi giudicanti, l’approvazione universale, come un principio oggettivo, a condizione soltanto che si avesse la certezza di aver fatta esattamente la sussunzione.
Questa norma indeterminata di un senso comune è effettivamente presupposta da noi: ciò è dimostrato dal diritto che ci attribuiamo di pronunziare giudizii di gusto.
Se vi sia infatti un tal senso comune, come principio costitutivo della possibilità dell’esperienza, o se esso ci sia fornito solo come principio regolativo da un principio più alto della ragione, per produrre in noi un senso comune in vista di scopi superiori; se quindi il gusto sia una facoltà originaria e naturale, o solo l’idea di una facoltà artificiale ancora da acquisire, in modo che un giudizio di gusto, con la sua pretesa all’universale approvazione, in effetti non sia altro che un’esigenza della ragione per produrre tale accordo nel modo di sentire, e il dovere, cioè la necessità oggettiva dell’accordo del sentimento di ognuno col nostro, significhi solo la possibilità di essere unanimi, e il giudizio di gusto non rappresenti che un esempio dell’applicazione di questo principio; tutto ciò qui non vogliamo, né possiamo ancora indagare, e per ora, dobbiamo solamente scomporre la facoltà del gusto nei suoi elementi, per unificarli infine nell’idea d’un senso comune.
Il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario.
Se si considera il risultato delle precedenti analisi, si trova che tutto procede dal concetto del gusto; che questo è una facoltà di giudicare un oggetto in relazione con la libera regolarità dell’immaginazione. Ora, se nel giudizio di gusto l’immaginazione deve essere considerata nella sua libertà, essa s'intenderà in primo luogo non come riproduttiva, in quanto è sottomessa alle leggi dell’associazione, ma come produttiva e spontanea (come produttiva di forme arbitrarie di possibili intuizioni); e, sebbene nell’apprensione di un dato oggetto del senso essa sia legata a una forma determinata di questo, e non abbia un libero giuoco (come nella poesia), si comprende bene nondimeno che l’oggetto le possa proprio fornire una forma, che contenga una composizione del molteplice tale che, se fosse lasciata libera, essa potrebbe idearla conformemente alle leggi dell’inte1letto in generale. Ma che l’immaginazione sia libera e tuttavia per se stessa conforme a 1egg i, cioè che abbia una propria autonomia, è una contradizione. L’intelletto solo dà la legge. Quando però l’immaginazione è costretta a procedere secondo una legge determinata, il suo prodotto, per ciò che riguarda la forma, è determinato secondo concetti, i quali prescrivono ciò che esso deve essere; e allora il piacere, come è stato dimostrato, non è il piacere del bello, ma del buono (della perfezione, in ogni caso della semplice perfezione formale), e il giudizio non è un giudizio di gusto. Con la libera regolarità dell’intelletto (che è stata chiamata anche finalità senza scopo) e con il carattere specifico del giudizio di gusto saranno quindi compatibili solo una regolarità senza legge e un accordo soggettivo dell’immaginazione con l’intelletto e non un accordo oggettivo, perché questo implica il riferimento della rappresentazione a un concetto determinato di un oggetto.
Ora, dai critici del gusto sono citate comunemente le figure geometriche regolari, un circolo, un quadrato, un cubo, etc., come i più semplici e chiari esempii di bellezza; e nondimeno esse sono dette regolari appunto perché non possiamo rappresentarcele che come semplici esibizioni di un concetto determinato, che prescrive a quella figura la regola (secondo la quale soltanto essa è possibile). Uno dei due, dunque, deve essere erroneo: o il giudizio del critico che a quelle figure attribuisce la bellezza, o il nostro che trova necessario per la bellezza la finalità senza concetto.
Nessuno certo giudicherà che sia necessario essere un uomo di gusto per trovare più piacere in una figura circolare che in un’altra a contorno frastagliato, in un quadrilatero equiangolo ed equilatero che in un quadrilatero storto, coi lati diseguali, e come storpiato: perché ciò riguarda solo l’intelletto comune e non il gusto. Dove si vede uno scopo, per esempio, quello di determinare la grandezza di un luogo o di mostrare il rapporto delle parti tra loro e al tutto in una partizione, son necessarie le figure regolari, ed anche quelle della specie più semplice; e il piacere non deriva immediatamente dalla visione della figura, ma dalla sua utilità rispetto a ogni scopo possibile. Una stanza, le cui pareti facciano angoli diseguali, uno spiazzato di giardino della stessa specie, ogni violazione della simmetria, così nella figura degli animali (per esempio, la privazione di un occhio), come in quella degli edifizii, o delle aiuole di fiori, dispiace, perché contrasta allo scopo di queste cose, non solo praticamente riguardo ad un loro determinato uso, ma anche nel giudizio di ogni scopo possibile; la qual cosa non si verifica pel giudizio di gusto, nel quale, quando sia puro, il piacere e il dispiacere, senza riguardo all’uso o ad un fine, è legato immediatamente alla semplice contemplazione dell’oggetto. La regolarità che conduce al concetto di un oggetto, è bensì la condizione indispensabile (conditio sine qua non) per percepire l’oggetto in un’unica rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma. Questa determinazione è un fine rispetto alla conoscenza; e relativamente a questa è sempre legata col piacere (il quale accompagna l’attuazione di uno scopo qualunque, anche problematico). Ma allora si tratta soltanto dell’approvazione che si dà alla soluzione di un quesito, e non di una libera occupazione, indeterminatamente finalistica, delle facoltà dell’animo, che abbia per oggetto ciò che chiamiamo bello, e in cui l’intelletto sia a servigio dell’immaginazione, non viceversa.
In una cosa che sia possibile solo mediante uno scopo, in un edifizio, anche in un animale, la regolarità, che consiste nella simmetria, deve esprimere l’unità dell’intuizione, che accompagna il concetto dello scopo, ed appartiene alla conoscenza. Ma dove dev’essere soltanto intrattenuto un libero giuoco delle facoltà rappresentative (però a condizione che l’intelletto non soffra alcun urto), nei parchi, nelle decorazioni delle stanze, nelle suppellettili di lusso, e simili, la regolarità, che si rivela come costrizione, è, per quant’è possibile, evitata; perciò il gusto inglese dei giardini, il gusto barocco nei mobili, spingono spesso la libertà della fantasia fino ai limiti del grottesco, e in questo prescindere da ogni costrizione della regola si vede appunto il caso in cui il gusto nelle fantasie dell’immaginazione può mostrare la sua maggiore perfezione.
Tutto ciò che è rigidamente regolare (che si avvicina alla regola matematica) ha in sé qualcosa che ripugna al gusto: perché non permette d’intrattenersi a lungo nella sua contemplazione, e se non ha espressamente per iscopo la conoscenza o un determinato fine pratico, produce noia. Invece ciò con cui l’immaginazione può giocare con naturalezza e opportunamente, ci è sempre nuovo e la sua visione non diventa fastidiosa. Marsden4 , nella sua descrizione dell’isola di Sumatra, osserva che ivi le bellezze libere della natura circondano dapertutto lo spettatore, e perciò non hanno più per lui se non poca attrattiva; mentre a lui stesso riusciva molto attraente, incontrandola nel mezzo di una foresta, una di quelle piantagioni di pepe, in cui si allineano in viali paralleli le pertiche cui le piante sono avviticchiate: e da ciò conclude che la bellezza selvaggia, irregolare all’apparenza, piace solo come divertimento a chi sia sazio di bellezze regolari. Ma egli avrebbe dovuto fare l’esperimento d’intrattenersi per una giornata nella sua piantagione di pepe, per accorgersi che, quando l’intelletto, mediante la regolarità, si pone nella disposizione all’ordine di cui ha bisogno, l’oggetto non lo trattiene più oltre, e impone invece un pesante sforzo all’immaginazione; mentre la natura che quivi è prodiga di varietà fino al lusso, che non è sottomessa alla costrizione di regole artificiali, avrebbe potuto dare al suo gusto un durevole nutrimento. — Anche il canto degli uccelli, che non sapremmo riportare a regole musicali, pare che mostri più libertà e più richezza pel gusto, perfino di un canto umano, eseguito secondo tutte le regole dell’arte musicale; perché di quest’ultimo, quando sia ripetuto spesso e a lungo, si è ben presto annoiati. Ma in tal caso probabilmente noi scambiamo la nostra partecipazione alla gioia di una piccola e cara bestiolina, con la bellezza del suo canto, che, quando è esattamente imitato dall’uomo (come avviene talvolta pel canto dell’usignolo), pare al nostro orecchio interamente privo di gusto.
Ancora son da distinguere gli oggetti belli dalle belle vedute di oggetti (i quali spesso, a causa della distanza, non si possono più vedere chiaramente). In esse il gusto pare che si applichi non tanto a ciò che l’immaginazione abbraccia in quel campo, ma piuttosto a ciò che le dà motivo di finzione, alle sue proprie fantasie, da cui l’animo è intrattenuto, continuamente eccitato dalla varietà di cose che cadono sotto la vista; tale è, per esempio, la visione delle mutevoli figure del fuoco di un camino, o di un ruscello mormorante; che non son punto due oggetti belli, ma hanno un’attrattiva per l’immaginazione, perché intrattengono il suo libero giuoco.
Il bello si accorda col sublime in questo, che entrambi piacciono per se stessi. Inoltre, entrambi non presuppongono un giudizio dei sensi né un giudizio determinante dell’intelletto ma un giudizio di riflessione; per conseguenza, in essi il piacere non dipende da una sensazione, come pel piacevole, né da un concetto determinato, come pel buono, ma tuttavia viene riferito a concetti, sebbene indeterminati, per cui il piacere è legato alla pura esibizione o alla facoltà dell’esibizione, in modo che questa facoltà, o, in altri termini, l’immaginazione, è considerata in accordo, in una intuizione data, con la facoltà dei concetti dell’intelletto o della ragione, e a vantaggio di essa. Perciò entrambi i giudizii sono singolari, ma si danno come giudizii universali rispetto ad ogni soggetto, sebbene pretendano solo al sentimento di piacete e non alla conoscenza dell’oggetto.
Ma saltano agli occhi anche delle differenze considerevoli. Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità; sicché pare che il bello debba esser considerato come della ragione. Nel primo caso il piacere è quindi legato con la rappresentazione della qualità, nel secondo invece con quella della quantità. Tra i due tipi di piacere c’è inoltre una notevole differenza quanto alla specie: mentre il bello implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vita, e perciò si può conciliare con le attrattive e con il gioco dell’immaginazione, il sentimento del sublime invece è un piacere che sorge solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione, delle forze vitali, e perciò, in quanto emozione, non si presenta affatto come un gioco, ma come qualcosa di serio nell’impiego dell’immaginazione. Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e, poiché l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo.
Ma ecco la più importante ed intima differenza tra il sublime e bello: se, com’è giusto, prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto il sublime degli oggetti naturali (quello dell’arte è limitato sempre dalla condizione dell’accordo con la natura), troveremo che la bellezza naturale (per sé stante) include una finalità nella sua forma, per cui l’oggetto sembra come predisposto pel nostro Giudizio, e perciò costituisce essa stessa un oggetto di piacere; mentre ciò che, senza ragionamento, nella semplice apprensione, produce in noi il sentimento del sublime, può apparire, riguardo alla forma, contrario alla finalità per il nostro Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà d’esibizione e quasi come violento contro l’immaginazione stessa, nondimeno però soltanto per esser giudicato tanto più sublime, quanto maggiore è tale violenza.
Da ciò si vede subito che, ci esprimiamo del tutto impropriamente, quando diciamo sublime un oggetto naturale, mentre con tutta proprietà possiamo chiamare belli moltissimi oggetti della natura; perché, come può essere indicato con un’espressione di approvazione ciò che in sé è percepito, come contrario alla finalità? Non possiamo dire se non questo, che cioè l’oggetto è capace dell’esibizione di una sublimità che si può cogliere nel nostro animo; poiché il vero sublime non può essere contenuto in alcuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della ragione, le quali, sebbene nessuna esibizione possa esser loro adeguata, anzi appunto per tale sproporzione che si può esibire sensibilmente, sono svegliate ed evocate nell’animo nostro. Così l’immenso oceano sollevato dalla tempesta non può esser chiamato sublime. La sua vista è terribile; e bisogna che l’animo sia stato già riempito da parecchie idee, se mediante tale intuizione deve esser determinato ad un sentimento, che è esso stesso sublime, in quanto l’animo è sospinto ad abbandonare la sensibilità e ad occuparsi di idee che contengono una finalità superiore.
La bellezza naturale per sé stante ci rivela una tecnica della natura, che ce la rappresenta come un sistema secondo leggi di cui non sappiamo trovare il principio nella nostra facoltà intellettiva; cioè secondo un principio, che è quello di una finalità relativa all’uso del Giudizio applicato ai fenomeni, in modo che questi possano natura nel suo meccanismo senza scopo, ma anche alla natura nel suo meccanismo senza scopo, ma anche alla natura come analogo dell’arte. Sicché essa non estende veramente la nostra conoscenza degli oggetti naturali, ma estende il nostro concetto della natura, dal concetto di semplice meccanismo al concetto della natura come arte; il che invita a profonde ricerche sulla possibilità di tale forma. Ma ciò che d’ordinario chiamiamo sublime nella natura non è punto qualcosa che conduca a determinati principii oggettivi e a forme della natura ad essi adeguate, perché anzi la natura suscita sopratutto le idee del sublime nel suo caos, nel suo maggiore e più selvaggio disordine e nella devastazione, quando però presenti insieme grandezza e potenza. E da ciò vediamo che il concetto del sublime naturale è molto meno importante e ricco di conseguenze di quello del bello naturale; e che, in generale, esso non rivela qualche cosa di finalistico nella natura stessa, ma soltanto nel possibile uso delle intuizioni di essa, affine di suscitare in noi il sentimento di una finalità del tutto indipendente dalla natura. Pel bello naturale dobbiamo cercare un principio fuori di noi, pel sublime naturale invece soltanto in noi stessi e nel modo di pensare che rende sublime la rappresentazione della natura; ed è questa un’osservazione preliminare molto importante, che distingue nettamente le idee del sublime da quelle di una finalità della natura e fa della teoria del sublime una semplice appendice al giudizio estetico della finalità naturale; perché col sublime non vien rappresentata nella natura alcuna forma particolare, ma si sviluppa solo un uso finale, che l’immaginazione fa della sua rappresentazione.
Per ciò che riguarda la divisione dei momenti del giudizio estetico degli oggetti relativamente al sentimento del sublime, l’analitica potrà procedere secondo lo stesso principio che ha guidato l’analisi del giudizio di gusto. Poiché, in quanto giudizio della facoltà estetica riflettente di giudicare, il piacere del sublime, proprio come quello del bello, deve esser rappresentato come universalmente valido secondo la quantità, senza interesse secondo la qualità, soggettivamente finale secondo la relazione, e necessario in questa finalità secondo la modalità. Sicché qui non ci allontaniamo dal metodo del libro primo; ma bisogna tener conto di questo, che cominciavamo dalla qualità là dove il giudizio estetico riguardava la forma dell’oggetto, mentre qui, dove l’assenza di forma può convenire a ciò che diciamo sublime, cominceremo dalla quantità come primo momento del giudizio estetico del sublime; e la ragione di ciò risulta dal paragrafo precedente.
All’analisi del sublime è però necessaria una divisione di cui non aveva bisogno quella del bello, cioè la divisione in sublime matematico e sublime dinamico.
Infatti, poiché il sentimento del sublime implica, come suo carattere, un movimento dell’animo congiunto col giudizio dell’oggetto, mentre invece il gusto del bello presuppone e mantiene l’animo in una contemplazione statica; e poiché quel movimento deve essere giudicato come finale soggettivamente (perché il sublime piace); esso è riferito, mediante l’immaginazione, o alla facoltà di conoscere o alla facoltà di desiderare. In entrambi i casi la finalità della rappresentazione data è giudicata solo rispetto a questa facoltà (senza scopo o interesse); e allora la prima finalità è attribuita all’oggetto come una disposizione matematica dell’immaginazione, la seconda come una disposizione dinamica; e perciò l’oggetto è rappresentato come sublime in quel duplice modo.
Noi chiamiamo sublime ciò che è assoluta-mente grande. Ma l’essere grande e l’essere una grandezza son due concetti interamente distinti (magnitudo e quantitas). Allo stesso modo dire semplice-mente (simpliciter) che qualcosa è grande, è ben diverso dal dire che questa cosa è assolutamente grande (absolute, non comparative magnum). Quest'ultima è ciò che è grande al di là di ogni comparazione. — Ma che cosa vuol dire quest’espressione, che qualcosa è grande, piccola, o di media grandezza? Non si tratta di un puro concetto dell’intelletto in ciò che in tal modo viene indicato; ancor meno di una intuizione del senso; né egualmente, d’un concetto della ragione, perché quell’espressione non include alcun principio di conoscenza. Dev’essere, dunque, un concetto della facoltà del giudizio, o derivato da questa, ed avere a fondamento una finalità soggettiva della rappresentazione rispetto al Giudizio. Che qualcosa sia una grandezza (quantum) si vede dalla cosa stessa senza comparazione con altre; quando cioè una molteplicità di elementi omogenei compone un’unità. Ma, per sapere quanto una cosa è grande, è necessaria sempre qualche altra cosa, che sia pure una grandezza, come misura. E poiché per giudicare della grandezza non si deve considerare soltanto la molteplicità (il numero), ma anche la grandezza dell’unità (della misura), e la grandezza di quest’ultima ha sempre bisogno di nuovo di qualcos’altro come misura, cui possa essere paragonata, vediamo che ogni misurazione della grandezza dei fenomeni non può fornire affatto un concetto assoluto di una grandezza, ma sempre soltanto un concetto comparativo.
Ora se io dico semplicemente che qualche cosa è grande, pare che io non mi riferisca ad alcun termine di confronto, o almeno ad alcuna misura oggettiva, perché con tale espressione non è determinato quanto è grande l’oggetto. Ma se anche il termine del confronto è puramente soggettivo, il giudizio non pretende meno il consenso universale; i giudizii — l’uomo è bello — e — l’uomo è grande — non si limitano solo al soggetto giudicante, ma esigono, come i giudizii teoretici,' l’approvazione di tutti.
Ma, poiché con un giudizio col quale qualche cosa è data come semplicemente grande, non si vuol dire soltanto che l’oggetto ha una grandezza, ma che questa gli è attribuita a preferenza su molti altri oggetti della stessa specie, senza che tuttavia sia determinata questa superiorità; in tal giudizio si pone sempre a fondamento una misura, la quale si presuppone che possa essere accettata da ognuno, ma che non è adoperabile per alcun giudizio logico (matematicamente determinato) della grandezza, e soltanto pel giudizio estetico della medesima, perché è una misura puramente soggettiva su cui si basa il giudizio che riflette sulla grandezza. Questa misura poi può essere empirica, come la grandezza media degli uomini che conosciamo, degli animali di una certa specie, degli alberi, delle case, dei monti, etc.; o può essere una misura data a priori, che per difetto del soggetto giudicante è limitata a condizioni soggettive dell’esibizione in concreto; come, nel campo pratico, la grandezza d’una virtù o della giustizia e della libertà pubblica in un paese; o, nel campo teoretico, la grandezza dell’esattezza o dell’inesattezza di una certa osservazione o misura, etc.
Qui è degno di nota che, sebbene non abbiamo alcun interesse per l’oggetto, vale a dire ci è indifferente la sua esistenza, la semplice grandezza di esso, anche quando è considerato come informe, ci può dare un piacere, che è comunicabile universalmente, e contiene perciò la coscienza di una finalità soggettiva dell’uso delle nostre facoltà conoscitive; ma non è questo un piacere che deriva dall’oggetto (perché l’oggetto può essere informe), la qual cosa si verifica pel bello, dove il Giudizio riflettente si trova disposto finalisticamente rispetto alla conoscenza in generale; è un piacere, che consiste nell’estensione dell’immaginazione in se stessa.
Quando diciamo semplicemente (con la limitazione suddetta) che un oggetto è grande, non diamo un giudizio determinante matematicamente, ma un semplice giudizio di riflessione sulla rappresentazione dell’oggetto, la quale è finale soggettivamente rispetto ad un certo uso delle nostre facoltà conoscitive nella valutazione delle grandezze; e noi allora congiungiamo sempre alla rappresentazione una specie di stima, come una specie di disistima a ciò che diciamo semplicemente piccolo. Del resto, il giudizio delle cose in quanto grandi o piccole si estende a tutto, anche a tutte le qualità degli oggetti; perciò diciamo grande o piccola anche la bellezza; la ragione di ciò deve essere cercata nel fatto che, qualunque sia la cosa che secondo la regola del Giudizio possiamo esibire nell’intuizione (rappresentare esteticamente), è nel tempo stesso un fenomeno, e quindi anche una grandezza.
Quando invece chiamiamo qualcosa non solo grande, ma assolutamente grande, sotto ogni riguardo (al di là d’ogni comparazione), vale a dire sublime, si vede subito che non intendiamo di cercare una misura adeguata fuori di essa, ma soltanto in essa medesima. È una grandezza, che è eguale solo a se stessa. E da ciò segue, dunque, che il sublime non è da cercarsi nelle cose della natura, ma solo nelle nostre idee; in quali idee si trovi, dev’es-ser determinato dalla deduzione.
La definizione precedente può anche essere espressa così: sublime è ciò al cui confronto ogni altra cosa è piccola. E qui si vede facilmente che non può esser dato niente in natura, per quanto grande sia giudicato da noi, che non possa esser ridotto, considerato sotto un altro rapporto, all’infinitamente piccolo; e viceversa, niente di così piccolo che non si possa ingrandire per la nostra immaginazione, mediante il confronto con misure ancora più piccole, fino a diventare un mondo. I telescopii e i microscopii ci hanno fornito rispettivamente una ricca materia per la prima e la seconda osservazione. Sicché niente che può essere oggetto del senso, può dirsi sublime, quando sia considerato in questo modo. Ma appunto perché nella nostra immaginazione vi è una spinta a proseguire all’infinito, e vi è invece nella nostra ragione una pretesa all’assoluta totalità, come ad una idea reale, proprio quella stessa sproporzione, rispetto a quest’idea, che ha la nostra facoltà di valutare le cose del mondo sensibile, desta in noi il sentimento di una facoltà soprasensibile; e ciò che è assoluta-mente grande non è l’oggetto del senso, ma l’uso che fa naturalmente la facoltà del giudizio di certi oggetti a vantaggio di quel sentimento, in modo che rispetto ad esso ogni altro uso riesce piccolo. Per conseguenza, è da chiamarsi sublime non l’oggetto, ma la disposizione d’animo, la quale risulta da una certa rappresentazione che occupa il Giudizio riflettente.
Alle precedenti formule della definizione del sublime possiamo quindi aggiungere ancora questa: sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi.
La misura delle grandezze mediante concetti di numeri (o dei loro segni algebrici) è matematica, mentre quella della semplice intuizione (a occhio) è estetica. Ora, è vero, noi possiamo acquistare concetti esatti della grandezza delle cose solo mediante numeri la cui misura è l’unità (o almeno mediante approssimazione per progressioni all’infinito); e così ogni misura logica delle grandezze è matematica. Ma, poiché la grandezza della misura deve essere considerata come conosciuta, se essa dovesse essere di nuovo misurata soltanto matematica-mente, cioè con numeri la cui unità dovrebbe essere un’altra misura, non avremmo mai una misura prima o fondamentale, e quindi non potremmo mai avere un concetto determinato duna grandezza data. Sicché la valutazione della grandezza della misura fondamentale deve consistere semplicemente in ciò, che essa possa essere colta immediatamente in un’intuizione e si possa adoperarla, mediante l’immaginazione, nell’esibizione dei concetti numerici: vale a dire che ogni valutazione della grandezza degli oggetti naturali è in ultima analisi estetica (cioè determinata soggettivamente, non oggettivamente).
Intanto, per la valutazione matematica delle grandezze non vi è un massimo (poiché il potere dei numeri va all’infinito); ma per la valutazione estetica vi è sempre un massimo; e di questo io dico che, quando è giudicato come assoluta grandezza, al di là di cui soggettivamente (pel soggetto giudicante) non ve n’è una più grande, implica l’idea del sublime, e produce quell’emozione che non può esser data da alcuna valutazione matematica delle grandezze mediante numeri (a meno che anche la misura estetica non sia vivamente conservata nell’immaginazione); perché quest’ultima valutazione non rappresenta che la grandezza relativa per via del confronto con altre della stessa specie, mentre la valutazione estetica rappresenta la grandezza assolutamente nella misura in cui l’animo può abbracciarla in una intuizione.
Per adottare intuitivamente una quantità da potersene servire come misura od unità nella valutazione delle grandezze mediante numeri, all’immaginazione son necessarie due operazioni; l’apprensione (apprehensio) e la comprensione (comprehensio aesthetica). L’apprensione non è una fatica per l’immaginazione, perché in essa può procedere all’infinito; ma la comprensione diventa sempre più difficile a misura che procede l’apprensione, e raggiunge presto il suo massimo, cioè la più grande misura estetica nella valutazione delle grandezze. Perché, quando l’apprensione procede tanto che le prime rappresentazioni parziali dell’intuizione sensibile cominciano ad estinguersi nell’immaginazione, se questa procede ancora nell’apprensione, andrà perdendo da un lato quanto guadagna dall’altro; e la comprensione vien condotta ad un massimo, oltre il quale non si può andare.
In tal modo, si può spiegare quello che dice Savary5 nelle sue notizie sull’Egitto: che non bisogna né avvicinarsi troppo né tenersi troppo lontani dalle Piramidi, per provare tutta l’emozione che dà la loro grandezza. Perché nel secondo caso le parti (le pietre sovrapposte) sono rappresentate solo oscuramente, e la loro rappresentazione non ha alcun effetto sul giudizio estetico del soggetto. Nel primo caso, invece, l’occhio ha bisogno di un certo tempo per compiere l’apprensione dalla base fino all’apice; e frattanto si estinguono in parte le prime rappresentazioni, prima che l’immaginazione abbia ricevute le ultime, e la comprensione non è mai completa. — Allo stesso modo si può spiegare il turbamento o quella specie d’imbarazzo da cui, come si racconta, è colpito lo spettatore nell’entrare la prima volta nella chiesa di S. Pietro a Roma. Vi è qui il sentimento della inadeguatezza della sua immaginazione a formare una esibizione delle idee di un tutto; l’immaginazione raggiunge il suo massimo, e, per la spinta ad estendersi ancora, ritorna su se stessa, e in tal modo si produce una piacevole emozione.
Io ora non voglio parlare ancora del fondamento di questo piacere, che è legato con una rappresentazione, dalla quale invece si dovrebbe aspettare che ci facesse scorgere la sua inadeguatezza, e quindi la sua mancanza di finalità soggettiva rispetto al Giudizio nella valutazione delle grandezze; noto soltanto che, quando il giudizio estetico deve essere dato puramente (senza esser mescolato con alcun giudizio teleologico, come giudizio della ragione), e quindi come un esempio pienamente appropriato alla critica del Giudizio estetico, il sublime non si può cercare nei prodotti dell’arte (come, per esempio, edificii, colonne, etc.), dove uno scopo umano determina così la forma come la grandezza, né nelle cose della natura il cui concetto include già uno scopo determinato (come, per esempio, negli animali di cui è nota la destinazione naturale), ma soltanto nella natura grezza (e in questa soltanto a condizione che non presenti alcuna attrattiva e non susciti la paura d’un pericolo reale), in quanto è semplicemente grande. Perché in questa specie di rappresentazione la natura non contiene nulla di mostruoso (né di magnifico o terribile); la grandezza che vi è percepita può aumentare quanto si vuole, purché possa essere compresa in un tutto dall’immaginazione. Un oggetto è mostruoso, quando con la sua grandezza annulla lo scopo, che è nel suo stesso concetto. Si chiama colossale, invece, la semplice esibizione di un concetto che è presso a poco troppo grande per ogni esibizione (si limita al mostruoso relativo); perché lo scopo dell’esibizione d’un concetto è reso più difficile dal fatto che l’intuizione dell’oggetto è presso a poco troppo grande per la nostra facoltà di apprensione. — Ma un puro giudizio del sublime non deve avere a fondamento alcun fine dell’oggetto, quando vuol essere estetico e non mescolato con un giudizio dell’intelletto o della ragione.
Poiché tutto ciò che deve piacere senza interesse al Giudizio semplicemente riflettente deve contenere nella sua rappresentazione una finalità soggettiva, e, in quanto tale, valida universalmente; e poiché, nello stesso tempo, qui non v’è a fondamento del giudizio una finalità della forma dell’oggetto (come nel bello); si domanda: qual è questa finalità soggettiva? e perché è prescritta come una norma che dà un fondamento al piacere universalmente valido nella semplice valutazione delle grandezze, e proprio in quella valutazione che è spinta fino a mostrarci l’insufficienza della nostra immaginazione rispetto all’esibizione del concetto d’una grandezza?
L’immaginazione procede da sé all’infinito nella composizione che è necessaria alla rappresentazione delle grandezze, senza che nulla le faccia impedimento; ma l’intelletto la guida coi concetti dei numeri, cui essa deve fornire lo schema; e in questo procedimento, in quanto proprio della valutazione logica delle grandezze, vi è bene qualche cosa di finale oggettivamente rispetto al concetto di uno scopo (ogni misura è tale), ma niente di finale e di piacevole per la facoltà del giudizio estetico. In questa finalità intenzionale non vi è nemmeno nulla che costringa a spingere la grandezza della misura, e quindi della comprensione del molteplice in una intuizione, fino al limite della facoltà dell’immaginazione, fin dove questa può estendere il suo potere di esibizione. Poiché nella valutazione intellettuale delle grandezze (aritmetica) si procede egualmente bene spingendo la comprensione delle unità fino al numero 10 (nel sistema decadico), o soltanto fino al numero 4 (sistema tetra-dico); ma nella comprensione, o nell’apprensione, quando la quantità è data nell’intuizione, non si procede nella produzione delle grandezze se non progressivamente (non comprensivamente), secondo un dato principio di progressione. In questa valutazione matematica della grandezza, l’intelletto è egualmente soddisfatto e contento, quando l’immaginazione sceglie come unità una grandezza che si abbraccia con un colpo d’occhio, per esempio, un piede o una pertica, o quando sceglie un miglio tedesco, o perfino il diametro terrestre, di cui è bensì possibile l’apprensione, ma non la comprensione in una intuizione dell’immaginazione (non mediante la com-prehensio aesthetica, sibbene mediante la comprehensio logica in un concetto di numero). In entrambi i casi la valutazione logica della grandezza si estende senza ostacoli all’infinito.
Intanto, l’animo sente in se stesso la voce della ragione, che, per tutte le grandezze date, ed anche per quelle che non potranno mai essere apprese interamente, ma che tuttavia son giudicate come interamente date (nella rappresentazione sensibile), esige la totalità, e quindi la comprensione in una intuizione; e richiede l’esibizione per tutti gli elementi di una serie progressivamente crescente di numeri, non escludendo dalla sua esigenza nemmeno l’infinito (lo spazio e il tempo trascorso), rendendoci anzi inevitabile di pensarlo (nel giudizio della ragione comune) come interamente dato (nella sua totalità).
Ma l’infinito è grande assolutamente (non per sem plice comparazione). Paragonata con esso, ogni altra grandezza (della stessa specie) è piccola. Ma, ciò che più importa, il poterlo anche solo pensare come un tutto dimostra una facoltà dell’animo che trascende ogni misura dei sensi. Perché a ciò sarebbe necessaria una comprensione che fornisse come unità una misura, la quale avesse con l’infinito un rapporto determinato, esprimibile in numeri: il che è impossibile. Il potere anche solo pensare senza contradizione l’infinito dato, esige nell’animo umano una facoltà, che sia essa stessa soprasensibile. Poiché solo mediante questa facoltà e la sua idea di un noumeno, il quale per se stesso non ammette alcuna intuizione, ma fa da sostrato all’intuizione del mondo in quanto semplice fenomeno, l’infinito del mondo sensibile è compreso interamente sotto un concetto, nella valutazione puramente intellettuale delle grandezze, sebbene esso, nella valutazione matematica mediante concetti numerici, non posso esser mai pensato interamente. Tale facoltà di potersi rappresentare come dato (nel suo sostrato intelligibile) l’infinito dell’ intuizione soprasensibile, trascende ogni misura della sensibilità, ed è più grande, senza paragone, della facoltà della valutazione matematica; non certo dal punto di vista teoretico, in quanto aiuti la facoltà di conoscere, ma per la sua capacità ad estendere l’animo, il quale si sente capace di superare i limiti della sensibilità, da un altro punto di vista (dal punto di vista pratico).
La natura, dunque, è sublime in quei suoi fenomeni, la cui intuizione include l’idea della sua infinità. La qual cosa non può avvenire se non mediante l’insufficienza anche del più grande sforzo della nostra immaginazione, nella valutazione della grandezza di un oggetto. Ora, nella valutazione matematica delle grandezze, la immaginazione è atta a dare ad ogni oggetto una misura sufficiente, perché i concetti numerici dell’intelletto possono adattare, per via di progressione, ogni misura ad ogni grandezza data. È dunque nella valutazione estetica delle grandezze che sentiamo la tendenza a una comprensione superiore ad ogni capacità dell’immaginazione di comprendere la apprensione progressiva in una totalità dell’intuizione, e avvertiamo insieme l’inadeguatezza di questa facoltà, illimitata nel suo procedere, a cogliere e ad applicare alla valutazione delle grandezze, una misura fondamentale a ciò adatta, e con la minima fatica dell’intelletto. Ora, la vera misura immutabile della natura è la sua assoluta totalità, che, per la natura come fenomeno, è un’infinità di cui sia stata raggiunta la comprensione. Ma, poiché questa misura fondamentale è un concetto in se stesso contradittorio (data l’impossibilità della totalità assoluta di un progresso all’infinito), quella grandezza di un oggetto naturale, cui l’immaginazione applica inutilmente tutto il suo potere di comprensione, deve condurre il concetto della natura ad un sostrato soprasensibile (che sta a fondamento della natura e, nel tempo stesso, della nostra facoltà di pensare), che è grande al di là di ogni misura dei sensi, e perciò ci farà giudicare sublime non tanto l’oggetto, quanto lo stato d’animo di chi compie la valutazione.
Così, allo stesso modo che il Giudizio estetico applicato al bello riferisce il libero giuoco dell’immaginazione all’intelletto, per accordarlo coi concetti di questo in generale (senza determinare quali); il Giudizio stesso, nel giudicare qualcosa sublime, riferisce l’immaginazione alla ragione, per accordarla soggettivamente con le idee di questa (indeterminate), vale a dire per produrre uno stato di animo conforme e conciliabile con quello che risulterebbe dall’influsso sull’animo di determinate idee (pratiche).
Da ciò si vede ancora che la vera sublimità non dev’esser cercata se non nell’animo di colui che giudica, e non nell’oggetto naturale, il cui giudizio dà luogo a quello stato d’animo. Chi vorrebbe chiamar sublimi masse montuose informi, poste l’una sull’altra in un selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare cupo e tempestoso, e altre cose di questo genere? Ma l’animo si sente elevato nella propria stima, quando, contemplando queste cose, senza guardare alla loro forma, si abbandona all’immaginazione, e a una ragione, che, sebbene si unisca all’immaginazione senza nessuno scopo determinato, ha per effetto di estenderla; e trova nondimeno che tutta la potenza dell’immaginazione è inadeguata alle idee della ragione.
Esempii di sublime matematico della natura nella semplice intuizione ci sono forniti da tutti i casi, in cui (per abbreviare le serie numeriche) è data come misura all’immaginazione non tanto un maggior concetto numerico, quanto una grande unità. Un albero, che valutiamo secondo l’altezza dell’uomo, costituisce la misura per una montagna; e questa, se la sua altezza è presso a poco un miglio, può servire come unità pel numero che esprime il diametro terrestre, per rendercelo intuibile; il diametro terrestre può servire pel sistema planetario da noi conosciuto, e questo pel sistema della Via lattea; e nessun limite c’è da aspettarsi dall’innumerevole quantità di tali sistemi di Vie lattee, chiamate nebulose, le quali probabilmente costituiscono in se stesse nuovi sistemi. Ora il sublime, nel giudizio estetico di un tutto così immensurabile, non sta tanto nella grandezza del numero, quanto nel fatto che, procedendo, raggiungiamo unità sempre maggiori; in che siamo aiutati dalla divisione sistematica del mondo, la quale ci rappresenta ogni grandezza naturale come piccola da un altro punto di vista, e propriamente ci rappresenta la nostra immaginazione in tutta la sua illimitatezza, e quindi la natura come qualcosa che scompare di fronte alle idee della ragione, quando l’immaginazione debba fornire un’esibizione ad esse adeguata.
Il sentimento dell’insufficienza del nostro potere a raggiungere un’idea, che per noi è legge, è la stima. Ora, l’idea della comprensione di ogni fenomeno, che può esserci dato, nell’intuizione di un tutto, è tale che ci è imposta da una legge della ragione, la quale non riconosce come misura, valida per ognuno ed immutabile, se non il tutto assoluto. Ma la nostra immaginazione, anche nel suo massimo sforzo, mostra i suoi limiti e la sua insufficienza riguardo a quella comprensione, che ad essa si richiede, di un oggetto dato in un tutto dell’intuizione (e quindi riguardo all’esibizione dell’idea della ragione); e mostra, nel tempo stesso, come una legge, la sua destinazione ad adeguarsi a quell’idea. Sicché il sentimento del sublime della natura è un sentimento di stima per la nostra propria destinazione, che, con una specie di sostituzione (scambiando in stima per l’oggetto quella per l’idea dell’umanità nel nostro soggetto), attribuiamo ad un oggetto della natura, il quale ci rende quasi intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive, anche sul massimo potere della sensibilità.
Il sentimento del sublime è dunque un sentimento di dispiacere, che nasce dall’insufficienza dell’immaginazione, nella valutazione estetica delle grandezze, rispetto alla valutazione della ragione; ed è insieme un sentimento di piacere suscitato dall’accordo appunto di questo giudizio sulla insufficienza del massimo potere sensibile, con idee della ragione, in quanto il tendere a queste è per noi una legge. Per noi cioè è una legge (della ragione), ed appartiene alla nostra destinazione, valutare piccolo, in confronto con le idee della ragione, tutto ciò che la natura, come oggetto dei sensi, contiene di grande per noi; e tutto ciò che eccita in noi il sentimento di questa destinazione soprasensibile si accorda con quella legge. Ora, il massimo sforzo dell’immaginazione nell’esibizione dell’unità per la valutazione delle grandezze costituisce una relazione a qualcosa di assolutamente grande; e per conseguenza anche una relazione alla legge della ragione, che prescrive di assumerlo come misura suprema delle grandezze. Cosicché l’intima percezione dell’insufficienza di ogni misura sensibile rispetto alla valutazione delle grandezze fatta dalla ragione, è in accordo con le leggi di questa; ed è un dispiacere, che suscita in noi il sentimento della nostra destinazione soprasensibile, per cui riesce finale, ed è quindi un piacere, il trovare inadeguata alle idee della ragione ogni misura della sensibilità.
L’animo, nella rappresentazione del sublime naturale, si sente commosso; mentre nel giudizio estetico sul bello della natura resta in calma contemplazione. Tale commozione (specialmente al suo principio) può esser paragonata ad uno scotimento, vale a dire ad un alternarsi rapido di ripulse e di attrazioni dell’oggetto stesso. Ciò che trascende l’immaginazione (e a cui essa è spinta nell’apprensione dell’intuizione) è come un abisso, in cui teme di perder se stessa; ma per l’idea razionale del soprasensibile è legittimo, non trascendente, il produrre tale sforzo dell’immaginazione: quindi ciò che per la pura sensibilità era ripugnante, diventa attraente nella stessa misura. Ma il giudizio stesso resta sempre estetico, perché, senza avere a fondamento un concetto determinato dell’oggetto, esso rappresenta semplicemente il giuoco soggettivo delle facoltà dell’animo (immaginazione e ragione), come armonico nel loro stesso contrasto. Perché, come, pel loro accordo, l’immaginazione e l’intelletto nel giudizio del bello, così qui, pel loro contrasto, l’immaginazione e la ragione producono una finalità soggettiva delle facoltà dell’animo: il sentimento, cioè, che noi abbiamo una ragione pura autonoma, o una facoltà di valutare la grandezza, la cui superiorità non può esser resa intuibile se non mediante l’insufficienza di quella facoltà, che è essa stessa illimitata nell’esibizione delle grandezze (degli oggetti sensibili).
La misurazione di uno spazio (in quanto apprensione) è nel tempo medesimo una descrizione di esso, quindi un movimento oggettivo dell’immaginazione, e un progresso; la comprensione del molteplice nell’unità, non del pensiero, ma dell’intuizione, e quindi la comprensione in un istante di ciò che è stato appreso successivamente, è invece un regresso, che sopprime la condizione del tempo nel processo dell’immaginazione, e rende intuibile la coesistenza. Si tratta dunque (poiché la successione temporale è una condizione del senso interno e di ogni intuizione), d’un movimento soggettivo dell’immaginazione, con cui essa fa violenza al senso interno, e in modo tanto più notevole quanto maggiore è la grandezza che comprende in una intuizione. Sicché lo sforzo per comprendere in una intuizione singola una misura di grandezza, la cui apprensione esige un tempo notevole, è un modo di rappresentazione che, soggettivamente considerato, produce in noi un contrasto; ma, considerato oggettivamente, in quanto necessario alla valutazione delle grandezze, è finale; e la stessa violenza, che è esercitata nel soggetto dall’immaginazione, è giudicata come finale rispetto alla destinazione totale dell’animo.
La qualità del sentimento del sublime sta in ciò, che esso è un sentimento di dispiacere circa un oggetto, nel Giudizio estetico, ma è rappresentato nel tempo stesso come finale; il che è possibile, perché la nostra propria insufficienza suscita la coscienza di una facoltà illimitata del nostro stesso soggetto, e l’animo non può giudicare esteticamente di questa se non per mezzo di quella.
Nella valutazione logica delle grandezze, l’impossibilità di arrivare all’assoluta totalità mediante la misurazione progressiva delle cose del mondo sensibile nel tempo e nello spazio, era riconosciuta come oggettiva, cioè come un’impossibilità di pensare l’infinito come semplicemente dato, e non come puramente soggettiva, cioè come impossibilità di comprenderlo; perché là non si è guardato al grado della comprensione in una intuizione, in quanto misura, ma tutto è stato riportato ad un concetto numerico. Ma, in una valutazione estetica delle grandezze, il concetto di numero dev’essere escluso o modificato; e solo la comprensione dell’immaginazione è adeguata come unità di misura (evitando quindi i concetti d’una legge della produzione successiva dei concetti di grandezza). — Ora, quando una grandezza tocca quasi il limite della nostra facoltà di comprensione in una intuizione, e nondimeno l’immaginazione è spinta da grandezze numeriche (per le quali sappiamo illimitata la nostra facoltà) a cercare la comprensione estetica in una maggiore unità, sentiamo allora il nostro animo come esteticamente costretto da limiti; ma, guardando alla necessaria estensione dell’immaginazione, che cerca di raggiungere ciò che è illimitato nella nostra facoltà della ragione, cioè l’idea del tutto assoluto, noi ci rappresentiamo come finalistico il nostro dispiacere, e quindi anche, rispetto alle idee della ragione e al loro risveglio, l’insufficienza dell’immaginazione. Ma appunto perciò il giudizio estetico stesso è finalistico soggettivamente rispetto alla ragione, in quanto sorgente delle idee, vale a dire rispetto ad una comprensione intellettuale, di fronte a cui ogni comprensione estetica è piccola; ed anche perciò l’oggetto, in quanto sublime, è accolto con un piacere, il quale non è possibile se non mediante un dispiacere.
La potenza è un potere superiore a grandi ostacoli. Questa potenza si chiama impero, quando è superiore anche alla resistenza di ciò che è pure una potenza. La natura, considerata nel giudizio estetico come una potenza che non ha alcun impero su di noi, è dinamicamente sublime.
La natura, per essere giudicata dinamicamente sublime, dev’essere rappresentata come suscitante timore (sebbene non sia vera la reciproca, che cioè ogni oggetto che suscita timore debba esser trovato sublime nel giudizio estetico). Perché nel giudizio estetico (senza concetto) la superiorità sugli ostacoli non può essere giudicata se non dalla grandezza della resistenza. Ora, ciò cui noi siamo spinti ad opporci è un male, e, quando sentiamo che il nostro potere non è adeguato, è un oggetto di timore. Perciò la natura, pel Giudizio estetico, non può essere una potenza, e quindi dinamicamente sublime, se non è considerata come oggetto di timore.
Ma si può considerare un oggetto come temibile senza aver timore davanti ad esso, quando cioè lo giudichiamo tale pensando semplicemente il caso che gli volessimo far resistenza, e vedendo che allora qualunque resistenza sarebbe vana. Così l’uomo virtuoso teme Iddio, senza aver paura davanti a lui, perché non immagina il terribile caso in cui volesse opporsi a lui e ai suoi ordini. Ma per tutti i casi di questa specie, che non gli sembrano in se stessi impossibili, riconosce che Dio è da temersi.
Colui che teme non può giudicare del sublime della natura, come non può giudicare del bello chi è dominato dall’inclinazione e dall’appetito. Egli fugge la vista dell’oggetto, che gli incute timore; ed è impossibile trovar piacere in uno spavento, che è seriamente sentito. Perciò quel piacere, che sentiamo al cessar di qualcosa che ci opprime, è una gioia. Ma è una gioia per la liberazione da un pericolo, accompagnata dal proposito di non esporvisi mai più; ben lungi dal cercare l’occasione di ripensare alla sensazione provata, non possiamo neppure ricordarla senza fastidio.
Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lascian dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta d’un gran fiume, etc., riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al disopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura.
Di fatti, allo stesso modo che nell’immensità della natura e nell’incapacità nostra a trovare una misura adeguata per la valutazione estetica della grandezza del suo dominio, scoprimmo la nostra propria limitazione, ma ci fu rivelata nel tempo stesso, nella facoltà della ragione, un’altra misura non sensibile, la quale comprende quell’infinità stessa come una unità, e di fronte a cui tutto è piccolo nella natura, — trovammo per conseguenza nel nostro animo una superiorità sulla natura considerata anche nella sua immensità; così l’impossibilità di resistere alla potenza naturale ci fa conoscere la nostra debolezza in quanto esseri della natura, cioè la nostra debolezza fisica, ma ci scopre contemporaneamente una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura, ed una superiorità che abbiamo su di essa, da cui deriva una facoltà di conservarci ben diversa da quella che può essere attaccata e messa in pericolo dalla natura esterna; perché in virtù di essa l’umanità della nostra persona resta intatta, quand’anche dovessimo soggiacere all’impero della natura. In tal modo la natura, nel nostro giudizio estetico, non è giudicata sublime in quanto è spaventevole, ma perché essa incita quella forza che è in noi (e che non è natura) a considerare come insignificanti quelle cose che ci preoccupano (i beni, la salute e la vita), e perciò a non riconoscere nella potenza naturale (a cui siam sempre sottoposti relativamente a tali cose) un duro impero su di noi e sulla nostra personalità, al quale dovremmo piegarci, quando si trattasse dei nostri principii supremi, della loro affermazione o del loro abbandono. La natura qui non è dunque chiamata sublime se non perché eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’animo può sentire la sublimità della propria destinazione, anche al disopra della natura.
Questa stima di se stesso non perde nulla pel fatto che dobbiamo sentirci al sicuro per poter trovare quel piacere entusiasmante; non perché non vi è serietà nel pericolo, non vi potrà essere serietà (come potrebbe sembrare) nella sublimità della nostra facoltà spirituale. Perché qui il piacere riguarda soltanto la scoperta della destinazione della nostra facoltà, in quanto la disposizione a questa si trova nella nostra natura, mentre lo sviluppo e l’esercizio di essa sono a noi affidati e sono compito nostro. Ed è la verità, per quanto l’uomo, allorché spinge la sua riflessione fin là, possa aver coscienza della sua presente e reale debolezza.
In verità, questo principio sembra tratto da troppo lungi e troppo cavilloso, e quindi al di là della portata di un giudizio estetico; ma l’osservazione dell’uomo dimostra il contrario, che esso cioè può stare a fondamento del più comune giudizio, sebbene di esso non si sia sempre coscienti. Difatti, che cosa è, anche pel selvaggio, l’oggetto della massima ammirazione? Un uomo, che non teme niente, che non si spaventa di nulla, che non cede davanti al pericolo, ma che nel tempo stesso scende energicamente all’azione con piena riflessione. Anche nello stato di civiltà più raffinato resta questa stima singolare pel guerriero; e solo si richiede che egli mostri nello stesso tempo tutte le virtù della pace, la dolcezza, la pietà, e perfino una cura conveniente della persona, perché appunto in ciò si riconosce l’invincibilità del suo animo di fronte al pericolo. Perciò si potrà disputare finché si vuole per decidere a chi spetti la preferenza nella nostra stima, se all’uomo di stato o al guerriero; il giudizio estetico è per quest’ultimo. Perfino la guerra, quando è condotta con ordine e col sacro rispetto dei diritti civili, ha in sé qualcosa di sublime, e rende il carattere del popolo, che la fa in tal modo, tanto più sublime quanto più numerosi sono stati i pericoli a cui si è esposto e più coraggiosamente vi si è affermato; mentre invece una lunga pace di solito dà il predominio al semplice spirito mercantile, e quindi al basso interesse personale, alla viltà, alla mollezza, abbassando il carattere e la mentalità del popolo.
Con questa spiegazione del concetto del sublime, che lo attribuisce alla potenza, pare contrastare il fatto che noi siamo soliti rappresentarci Dio come in collera nelle tempeste, negli uragani, nei terremoti e via discorrendo; ma nel tempo stesso come rivelante la sua sublimità, in modo tale che sarebbe stoltezza e follia l’immaginare una superiorità del nostro animo sugli effetti, e, a quanto pare, anche sui fini di una tale potenza. Pare che non sia il sentimento di sublimità della nostra propria natura, ma piuttosto la sottomissione, la costernazione, il sentimento della propria assoluta debolezza, lo stato d’animo che conviene di fronte alle manifestazioni di un essere cosiffatto, e che ordinariamente va congiunto con l’idea che di esso ci facciamo in presenza di simili avvenimenti naturali. Pare che nella religione in generale l’unica maniera adeguada di comportarsi alla presenza della divinità sia il prosternarsi, l’adorare a testa bassa, con atteggiamento compunto e voce angosciata; ed è perciò che questa maniera è stata adottata dalla maggior parte dei popoli, ed è ancora osservata. Ma questa disposizione d’animo è ben lungi dall’essere in se stessa e necessariamente legata con l’idea della sublimità d’una religione e dell’oggetto di questa. L’uomo, che teme realmente, perché ne trova la ragione in se stesso, avendo coscienza di peccare con le sue cattive intenzioni contro una potenza, la cui volontà è irresistibile ma nel tempo stesso giusta, non si trova nella disposizione d’animo favorevole per ammirare la grandezza divina, per cui è necessaria una disposizione alla contemplazione calma e un giudizio interamente libero. Solo quando è cosciente delle sue rette intenzioni, che sa grate a Dio, quegli effetti della potenza divina possono suscitare nell’uomo l’idea della sublimità di questo essere, perché allora egli trova in se stesso una sublimità di sentire conforme alla volontà di lui, e si eleva al disopra della paura davanti a questi avvenimenti naturali, che non considera più come sfoghi della sua collera. Anche l’umiltà, in quanto giudizio rigoroso di quegli errori proprii, che altrimenti, quando si ha coscienza delle buone intenzioni, potrebbero essere facilmente scusati con la fragilità della natura umana, è una sublime disposizione dell’anima, che consiste nel sottoporsi volontariamente al dolore del rimorso, per estirparne a poco a poco la causa. Solo così la religione si distingue intimamente dalla superstizione: questa non induce nell’animo il rispetto pel sublime, ma la paura e l’angoscia davanti all’essere onnipotente, alla cui volontà l’uomo spaventato si vede sottomesso, senza però rispettarlo; da che non possono nascere, invece di una religione della condotta buona, se non pratiche propiziatrici ed adulatorie.
La sublimità non risiede dunque in nessuna cosa della natura, ma soltanto nell’animo nostro, quando possiamo accorgerci di esser superiori alla natura che è in noi, e perciò anche alla natura che è fuori di noi (in quanto ha influsso su di noi). Tutto ciò che suscita in noi questo sentimento, e quindi la potenza della natura che provoca le nostre forze, si chiama (sebbene impropriamente) sublime; e solo supponendo questa idea in noi, e relativamente ad essa, siamo capaci di giungere all’idea della sublimità di quell’essere, il quale produce in noi un’intima stima, non solamente con la potenza che mostra nella natura, ma ancor più con la facoltà, che è in noi, di giudicarla senza timore, e di concepire la nostra destinazione come sublime rispetto ad essa.
Vi è un’infinità di cose della bella natura, per le quali esigiamo l’accordo del nostro giudizio con quello di ciascun altro, e, senza molto ingannarci, possiamo anche aspettarlo; ma dal nostro giudizio sul sublime della natura non ci possiamo ripromettere così facilmente il consenso altrui. Pare difatti che, per pronunziare un giudizio su questa eccellenza degli oggetti naturali, sia necessaria una coltura molto maggiore, non soltanto del Giudizio estetico, ma anche delle facoltà conoscitive che vi stanno a fondamento.
La disposizione dell’animo al sentimento del sublime esige nell’animo stesso una capacità di accogliere le idee, perché appunto nella insufficienza della natura rispetto alle idee e, solo quando si ammetta tale insufficienza e lo sforzo dell’immaginazione per considerare la natura come uno schema per le idee, c’è qualcosa di terribile per la sensibilità, che è nel tempo stesso attraente: è un impero che la ragione esercita sulla sensibilità soltanto per estenderla in modo da renderla adeguata al proprio dominio (il dominio pratico), e per farle intraveder l’infinito, che è per essa un abisso. In realtà ciò che noi, preparati dalla coltura, chiamiamo sublime, senza lo sviluppo delle idee morali è per l’uomo rozzo semplicemente terribile. Questi, in quelle manifestazioni dell’impero devastatore della natura e della sua grande potenza, di fronte a cui il suo potere si riduce a niente, non vedrà che il disagio, il pericolo, l’affanno, che colpirebbero l’uomo che vi sarebbe esposto. Così, quel buono e peraltro intelligente contadino savoiardo (di cui parla il signor di Saussure)6 , chiamava pazzi senz’altro tutti gli amatori delle alte montagne. E chi sa se egli avrebbe avuto tanto torto nel caso che quell’osservatore avesse affrontato i pericoli cui si esponeva, soltanto, come la maggior parte dei viaggiatori, per divertimento o per darne un giorno qualche patetica descrizione ? Ma lo scopo suo era l’istruzione degli uomini; e quest’uomo eccellente aveva inoltre, e comunicava ai lettori dei suoi viaggi, il sentimento che eleva l’anima.
Ma, se il giudizio sul sublime della natura (più che quello sul bello) esige una certa coltura, esso non è prodotto originariamente dalla coltura stessa, né è introdotto nella società da una semplice convenzione, ma ha il suo fondamento nella natura umana, in qualche cosa che si può supporre ed esigere da ognuno insieme con il sano intelletto, vale a dire nella disposizione al sentimento per le idee (pratiche), cioè al sentimento morale.
Su ciò si fonda la necessità che noi attribuiamo al giudizio del sublime, quando esigiamo l’accordo del giudizio altrui col nostro. Difatti, allo stesso modo che accusiamo di mancanza di gusto colui che resta indifferente davanti a un oggetto naturale che noi troviamo bello, diciamo che manca di sentimento chi non si commuove per ciò che noi giudichiamo sublime. Da tutti esigiamo il consenso nei due casi e, se v’è bisogno di una coltura, in tutti la supponiamo: con questa differenza soltanto, che nel primo caso, poiché l’immaginazione è riferita semplicemente all’intelletto in quanto facoltà dei concetti, esigiamo il consenso da ognuno, senz’altro; mentre nel secondo, essendo l’immaginazione riferita alla ragione in quanto facoltà delle idee, esigiamo il consenso sotto una condizione soggettiva (ma che ci crediamo autorizzati a esigere in ognuno), cioè il sentimento morale, e così attribuiamo la necessità anche a quest’altro giudizio estetico. Questa modalità dei giudizii estetici, cioè la necessità che è loro attribuita, costituisce uno dei punti capitali della critica del Giudizio. Perché questa qualità ci scopre in essi un principio a priori, e li trae fuori dalla psicologia empirica nella quale resterebbero sepolti tra i sentimenti del piacere e del dolore (col solo epiteto insignificante di sentimenti più delicati), per riportarli, e con essi la facoltà del giudizio, a quei sentimenti che hanno a fondamento principii a priori, e farli rientrare come tali nella filosofia trascendentale.
Riguardo al sentimento di piacere un oggetto dev’essere riportato o al piacevole, o al bello, o al sublime, o al buono (assoluto) (jucundum, pulchrum, sublime, honestum).
Il piacevole, in quanto motivo delle inclinazioni, è sempre della stessa specie, qualunque sia la sua origine, e per quanto siano specificamente diverse le rappresentazioni (del senso e della sensazione, oggettivamente considerate). Così, quando si tratta di giudicare dell’influsso del piacevole sull’animo, non si guarda se non al numero degli stimoli (simultanei e successivi) e, per così dire, solo alla massa della sensazione piacevole, la quale non si può concepire se non come quantità. Il piacevole non produce alcuna coltura, ma appartiene al semplice godimento. — Il bello, invece, esige la rappresentazione di una certa qualità dell’oggetto, che si può anche rendere intelligibile e riportare a concetti (sebbene ciò non si faccia nel giudizio estetico): coltiva l’animo, richiamando l’attenzione sulla finalità nel sentimento di piacere. — Il sublime consiste puramente nella re1azione in cui si giudica il sensibile, nella rappresentazione della natura, come atto ad un possibile uso soprasensibile. — Il buono assoluto, considerato soggettivamente secondo il sentimento che ispira (l’oggetto del sentimento morale), come la determinabilità delle forze del soggetto per via della rappresentazione d’una legge assolutamente necessitante, si distingue principalmente per la modalità di una necessità fondata su concetti a priori; la quale non solo pretende, ma impone il consenso ad ognuno, e per se stessa non appartiene al Giudizio estetico, ma al Giudizio intellettuale puro; non è affermata da un giudizio riflettente, ma da un giudizio determinante, e non è riferita alla natura, ma alla libertà. Ma la determinabilità del soggetto mediante quest’idea, e di un soggetto che può trovare ostacoli in se stesso, nella propria sensibilità, e pure sentire la sua superiorità su tali ostacoli, col loro superamento in quanto modificazione del proprio stato, — il sentimento morale, insomma, è legato col Giudizio estetico, e con le sue condizioni formali, in quanto è possibile rappresentarsi anche esteticamente la legalità di un’azione compiuta per dovere, cioè come sublime o bella, senza alterare la sua purezza: la qual cosa non accadrebbe se la si volesse congiungere con un legame naturale al sentimento del piacevole.
Riassumendo il risultato di tutta la precedente esposizione delle due specie di giudizii estetici, si avranno le seguenti brevi definizioni:
Bello è ciò che piace nel semplice giudizio (e quindi non per mezzo della sensazione dei sensi, secondo un concetto dell’intelletto). Segue naturalmente che debba piacere senza interesse.
Sublime è ciò che piace immediatamente per la sua opposizione all’interesse dei sensi.
Queste due, in quanto definizioni di giudizii estetici universalmente valevoli, si riferiscono a motivi soggettivi: nell’uno della sensibilità in quanto favorisce l’intelletto contemplativo, nell’altro della sensibilità stessa in quanto contrasta coi fini della ragion pratica6; e nondimeno i due giudizii, riuniti nello stesso soggetto, sono finali rispetto al sentimento morale. Il bello ci prepara ad amar qualche cosa, anche la natura, senza interesse; il sublime a stimarla, anche contro il nostro interesse (sensibile).
Si può definire così il sublime: è un oggetto (della natura) la cui rappresentazione determina l’animo a pensare come un’esibizione di idee l’impossibilità di raggiungere la natura.
Letteralmente, e dal punto di vista logico, le idee non possono essere esibite. Ma, quando noi, per l’intuizione della natura, estendiamo (matematicamente o dinamicamente) la nostra facoltà rappresentativa empirica, interviene infallibilmente la ragione, come facoltà dell’indipendenza della totalità assoluta, a produrre uno sforzo (sebbene inutile) dell’animo, allo scopo di rendere adeguata alle idee la rappresentazione sensibile. Questo sforzo, e il sentimento dell’impotenza dell’immaginazione a raggiungere l’idea, costituiscono essi stessi un’esibizione della finalità soggettiva del nostro animo nell’uso dell’immaginazione circa la sua destinazione soprasensibile, e ci costringono a pensare soggettivamente la natura stessa nella sua totalità come esibizione di qualcosa di soprasensibile, senza che questa esibizione possa essere oggettivamente prodotta.
Noi, difatti, siamo presto convinti che alla natura, nello spazio e nel tempo, manca l’incondizionato e quindi anche l’assoluta grandezza, la quale nondimeno è richiesta anche dalla ragione più ordinaria. E appunto ciò ci ricorda che noi abbiamo da fare soltanto con una natura fenomenica; la quale dev’esser considerata come semplice esibizione di una natura in sé (di cui la ragione possiede l’idea). Ma quest’idea del soprasensibile, che noi non determiniamo ulteriormente, in modo che possiamo soltanto pensare la natura come sua esibizione, ma non conoscerla come tale, è suscitata in noi da un oggetto, il giudizio estetico del quale estende l’immaginazione fino agli ultimi limiti, sia della sua estensione (matematicamente), sia della sua potenza sull’animo (dinamicamente), e ciò col fondarsi sul sentimento di una destinazione dell’animo stesso (sul sentimento morale), la quale trascende del tutto il dominio dell’immaginazione, rispetto a cui la rappresentazione dell’oggetto è giudicata come soggettivamente finale.
In realtà è impossibile concepire un sentimento pel sublime della natura, senza legarvi una disposizione dell’animo 122 Parte prima simile a quella che è propria del sentimento morale; e, sebbene il piacere immediato pel bello naturale supponga e coltivi una certa liberalità nel modo di pensare, cioè l’indipendenza del piacere dal semplice godimento sensibile, la libertà qui sta piuttosto nel giuoco che in una occupazione regolare; mentre quest’ultima è il carattere proprio della moralità umana, in cui la ragione fa necessariamente violenza alla sensibilità; soltanto che nel giudizio estetico sul sublime questa violenza ce la rappresentiamo come esercitata dall’immaginazione stessa, in quanto strumento della ragione.
Il piacere pel sublime della natura è perciò soltanto negativo (mentre quello pel bello è positivo), vale a dire è il sentimento dell’immaginazione che si priva da sé della propria libertà, in quanto si determina conformemente a un’altra legge, che non è quella del suo uso empirico. In tal modo, l’immaginazione raggiunge un’estensione e una potenza maggiore di quella che ha sacrificata, ma il cui principio le è ignoto, mentre sente però il sacrifizio o la privazione e, nel tempo stesso, la causa cui è sottomessa. Lo stupore che confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista di montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni, etc., quando egli si senta al sicuro, non costituiscono un timore effettivo; sono soltanto una prova ad abbandonarvisi con la nostra immaginazione, per sentire il suo potere di collegare l’emozione suscitata da tali spettacoli con la serenità dell’animo, e di essere superiore alla natura in noi stessi, e quindi anche a quella fuori di noi, in quanto può avere influenza sul sentimento del nostro benessere. L’immaginazione, difatti, quando opera secondo la legge dell’associazione, fa dipendere da condizioni fisiche lo stato di soddisfazione; quando opera, invece, secondo principii dello schematismo del Giudizio (per conseguenza, quando si subordina alla libertà), è uno strumento della ragione e delle sue idee, e come tale è un potere che afferma la nostra indipendenza contro gli influssi naturali, abbassa ed impiccolisce ciò che è grande secondo natura, e pone l’assoluta grandezza solo nella propria destinazione (vale a dire in quella del soggetto). Questa riflessione del Giudizio estetico, per innalzarsi ad un piano adeguato alla ragione (senza però un concetto determinato di quest’ultima), rappresenta l’oggetto come soggettivamente finale, in virtù della sproporzione oggettiva medesima, che è tra l’immaginazione nella sua estensione massima e la ragione (come facoltà delle idee).
Qui bisogna badare a ciò che già prima è stato ricordato, che cioè nell’estetica trascendentale del Giudizio si parla unicamente di giudizii estetici puri, e che quindi gli esempii non possono esser presi da quegli oggetti naturali belli o sublimi, i quali presuppongono il concetto di uno scopo; perché allora i giudizii o sarebbero teleologici, o sarebbero fondati sulle semplici sensazioni di un oggetto (piacere o dolore), e perciò la finalità nel primo caso non sarebbe estetica, e nel secondo non sarebbe puramente formale. Così, quando si dice sublime il cielo stellato, non è necessario, per giudicarlo tale, di avere il concetto di mondi abitati da esseri ragionevoli, di vedere, in quei punti luminosi di cui è pieno lo spazio sopra di noi, i soli di quei mondi moventisi sulle loro orbite tracciate adeguatamente al loro scopo; basta semplicemente considerarlo come si vede, quale una immensa volta che comprende tutto; e solo in questa rappresentazione dobbiamo riporre la sublimità che è attribuita all’oggetto da un puro giudizio estetico. Allo stesso modo non dobbiamo rappresentarci l’oceano quale lo pensiamo in quanto siamo ricchi di svariate conoscenze (che non stanno però nell’intuizione immediata), vale a dire come un vasto regno di esseri acquatici, come un grande serbatoio d’acqua pei vapori che impregnano l’aria di nuvole a vantaggio della terra, o come un elemento che, pur dividendo le parti del mondo, rende possibile tra esse la massima comunicazione; perché questi sono veri giudizii teleologici. Per poterlo trovar sublime, bisogna rappresentarselo semplicemente come fanno i poeti, secondo ciò che ci mostra la vista: per esempio, quando è calmo, come un chiaro specchio d’acqua limitato soltanto dal cielo; quando è tempestoso, come un abisso che minaccia d’inghiottir tutto. Lo stesso deve dirsi del sublime e del bello nella figura umana, in cui fondamento del nostro giudizio non devono essere i concetti dei fini cui son destinate le varie parti che la compongono, e l’accordo delle parti coi fini medesimi non deve influire sul nostro giudizio estetico (che cesserebbe d’esser puro), sebbene sia una condizione necessaria anche pel piacere estetico, che le parti non contrastino coi loro fini. La finalità estetica è la legalità del Giudizio nella sua libertà. Il piacere che deriva dall’oggetto dipende dalla relazione in cui vogliamo porre l’immaginazione, sempre a condizione però che essa mantenga da sé l’animo in una libera occupazione. Quando invece il giudizio è determinato da qualcos’altro, una sensazione dei sensi o un concetto dell’intelletto, esso, pur essendo legittimo, non è più il giudizio di una libera facoltà di giudicare.
Quando, dunque, si parla di bellezza o sublimità intellettuale, in primo luogo non si adoperano espressioni del tutto esatte, perché la bellezza e la sublimità sono modi di rappresentazione estetica che non si troverebbero in noi se fossimo soltanto pure intelligenze (o anche se immaginiamo di esser tali); in secondo luogo, sebbene entrambe, come oggetto di un piacere intellettuale (morale), siano conciliabili col piacere estetico in quanto non riposano sopra alcun interesse, tuttavia la conciliazione è difficile, perché allora esse debbono produrre un interesse; e ciò, se l’esibizione deve accordarsi col piacere del giudizio estetico, non avverrebbe nel giudizio se non mediante un interesse sensibile congiunto con l’esibizione, e però a danno della finalità intellettuale, che perderebbe la sua purezza.
L’oggetto di un piacere intellettuale puro ed incondizionato è la legge morale con la potenza che essa esercita in noi su tutti i motivi dell’animo che la precedono; e poiché questa potenza non si rende esteticamente conoscibile se non mediante sacrifizi (con una privazione, che è però a vantaggio della libertà interna, e ci scopre la insondabile profondità di questa facoltà soprasensibile, con tutte le sue conseguenze che si estendono all’infinito), il piacere dal punto di vista estetico (relativamente alla sensibilità) è negativo, cioè contrario all’interesse dei sensi, ma dal punto di vista intellettuale è positivo e legato con un interesse. Da ciò segue che il bene intellettuale o finale in se stesso (il bene morale), quando è giudicato esteticamente, dovrebbe essere rappresentato piuttosto come sublime che come bello, in modo da suscitare più il sentimento della stima (la quale disdegna le attrattive) che un sentimento d’amore e intima inclinazione; perché la natura umana non si concilia da sé con quel bene, ma soltanto per via dell’impero, che la ragione esercita sulla sensibilità. Reciprocamente, anche ciò che diciamo sublime nella natura fuori di noi, o in noi (per esempio, certi affetti), non è rappresentato se non come una potenza deH’animo ad elevarsi per mezzo dei principii morali al disopra degli ostacoli della sensibilità, ed è perciò interessante.
Voglio indugiare un poco su quest’ultimo punto. L’idea del bene congiunta con un affetto si dice entusiasmo. Questo stato dell’animo sembra talmente sublime, da far dire comunemente che senza di esso niente di grande può essere compiuto. Ma ogni affetto *7 è cieco, o nella scelta del suo scopo, o, quand’anche questo sia dato dalla ragione, nella sua realizzazione; perché è un movimento dell’animo che ci rende incapaci della libera riflessione sui principii secondo i quali ci dobbiamo determinare. Esso non può dunque meritare in alcun modo la benevolenza della ragione. Tuttavia, considerato esteticamente, l’entusiasmo è sublime, perché è una tensione delle forze prodotta da idee, le quali danno all’animo uno slancio di gran lunga più potente e durevole dell’impulso che deriva da rappresentazioni sensibili. Ma, (e ciò sembra strano) anche l'indifferenza affettiva (apatheia, flegma in significatu bono) di un animo che segue rigorosamente i suoi principii immutabili, è sublime, e in una maniera singolare, perché ha dalla sua anche la benevolenza della ragione. Questo stato spirituale soltanto si dice nobile; e tale espressione si applica poi anche alle cose, come per esempio a un edilizio, ad un abito, a un modo di scrivere, al portamento della persona, etc., quando queste cose suscitano meno lo stupore (cioè l’affetto prodotto dalla novità superiore all’attesa), che l’ammirazione (cioè una meraviglia la quale non cessa col venir meno della novità); il che avviene quando le idee, nella loro esibizione, si accordano, inintenzionalmente e senz’arte, col piacere estetico.
Ogni affetto del genere valoroso, vale a dire che eccita la coscienza delle nostre forze a superare ogni resistenza (animi strenui), è esteticamente subii -m e, come per esempio la collera, e perfino la disperazione (quella in cui domina la indignazione, non l’abbattimento). Ma l’affetto del genere langui-d o, che fa oggetto di pena lo sforzo del resistere (ammutii languidum), non ha in sé niente di nobile, e può esser riportato al bello del genere sensibile. Le emozioni, che possono crescere fino a diventare affetti, sono dunque molto differenti. Vi sono emozioni forti e vi sono emozioni tenere. Queste ultime, quando si elevano ad essere affetti, non valgono a niente; la tendenza ad esse si dice sdolcinatezza. Un dolore che deriva dalla compassione, e non vuol essere consolato, o il dolore a cui ci abbandoniamo volontariamente, quando siamo colpiti da mali immaginarli, fino a considerarli reali per un’illusione della fantasia, sono segni e fattori d’un’anima tenera, ma nel tempo stesso debole, che mostra un suo lato bello, e se può chiamarsi fantastica, non si dirà mai dotata di entusiasmo. Quei romanzi, quei drammi lagrimosi, quegli insipidi precetti morali, i quali giuocano con quelli che si dicono (a torto) sentimenti nobili, ma che in realtà ammolliscono il cuore, lo rendono insensibile alla severa legge del dovere, incapace d’ogni stima per la dignità umana nella nostra persona, pel diritto degli uomini (che è ben diverso dalla loro felicità), e, in genere, incapace di ogni fermo principio; perfino quelle prediche religiose, che ci raccomandano pratiche basse e vili, le quali ci fanno perdere ogni fiducia nel nostro potere di resistere al male, invece di ispirarci la ferma risoluzione di esercitare le forze che ancora ci restano, malgrado la nostra fragilità, a vincere le inclinazioni; la falsa umiltà, che del disprezzo di se stesso, d’un pentimento lamentoso ed ipocrita, d’una disposizione d’animo puramente passiva, fa i mezzi unici per riuscire grati all’essere supremo: son tutte cose, queste, incompatibili con ciò che si può riguardare come la bellezza, e tanto meno con ciò che è da considerarsi come la sublimità dell’animo.
Ma anche i movimenti impetuosi dell’animo — o siano congiunti con idee religiose in ciò che si dice edificazione, oppure, in quanto diretti soltanto alla coltura, siano congiunti con idee che contengono un interesse sociale, — per quanto anche diano uno slancio all’immaginazione, non possono pretendere in alcun modo all’onore di una esibizione sublime, se non lasciano dietro di sé una disposizione d’animo, che, sia pure indirettamente, abbia influsso sulla coscienza delle proprie forze e sulla fermezza per ciò che include una finalità intellettuale pura (il soprasensibile). Perché altrimenti tutte queste emozioni si riportano alle emozioni che son gradite in vista della salute. Il languore piacevole, che segue ad una scossa prodotta dal giuoco degli affetti, è un godimento del benessere, che risulta dal ristabilimento dell’equilibrio delle diverse forze vitali; qualche cosa che, infine, somiglia a ciò che trovano tanto piacevole i voluttuosi orientali, quando si fanno massaggiare il corpo, premere e piegare dolcemente tutti i muscoli e le articolazioni; con la sola differenza che nel primo caso la causa motrice è in gran parte in noi, mentre nel secondo è interamente fuori. Qualcuno crede di esser rimasto edificato da una predica, in cui non v’è nulla di edificante (non vi è alcun sistema di massime buone), e qualche altro pensa di essere stato migliorato da una tragedia, mentre è contento soltanto di avere scacciata felicemente la noia. Sicché il sublime deve sempre riferirsi alla maniera di pensare, cioè a massime dirette a imporre il dominio dell’elemento intellettuale e delle idee della ragione sulla sensibilità.
Non è da temere che il sentimento del sublime abbia da perdere qualcosa per questo modo astratto d’esibizione, che è del tutto negativo riguardo al sensibile; perché, sebbene l’immaginazione non trovi nulla al di là del sensibile cui possa attaccarsi, essa si sente illimitata appunto per questa soppressione dei suoi limiti: e, per conseguenza, quell’astrazione è un’esibizione dell’infinito, la quale appunto perciò, è vero, non può esser mai altro che negativa, ma estende l’anima. Forse non v’è nel libro delle leggi degli ebrei un passo più sublime di questo comandamento: «Tu non ti farai alcuna immagine o figura di ciò che è in cielo, o in terra, o sotto la terra, etc.». Questo solo precetto può spiegare l’entusiasmo che sentiva il popolo ebreo per la propria religione, nel suo periodo migliore, quando si paragonava con gli altri popoli; può spiegare quella fierezza che ispira la religione di Maometto. Lo stesso vale per la rappresentazione della legge morale e per la nostra disposizione alla moralità. È perfettamente assurdo temere che, togliendo a questa legge tutto ciò che la può raccomandare ai sensi, essa non riceverebbe altro che un’approvazione fredda e inerte, e non produrrebbe in noi alcun moto od emozione. È proprio il contrario, perché quando i sensi non hanno più nulla davanti a sé, e resta tuttavia l’idea della moralità, che non si può né disconoscere né abolire, sarebbe piuttosto necessario moderare lo slancio di un’immaginazione illimitata, per impedirle di abbandonarsi all’entusiasmo, anziché, temendo dell’impotenza di quell’idea, apprestarle aiuti con immagini ed apparati puerili. È perciò che i governi hanno concesso volentieri alle religioni di provvedersi riccamente di apparati, cercando così di togliere ai sudditi la pena, ma nel tempo stesso il potere, di estendere le forze dell’anima al di là dei limiti loro arbitrariamente imposti, a fine di poterli trattare più agevolmente come puramente passivi.
Questa esibizione pura, semplicemente negativa, della moralità, e che eleva l’anima, non comporta invece il pericolo del fantasticare, che consiste nell’illusione di voler vedere qualche cosa al di là dei limiti della sensibilità, cioè nel sognare secondo principii (vaneggiare con la ragione); appunto perché l’esibizione non è se non puramente negativa. L’imperscrutabilità dell’idea della libertà rende impossibile, difatti, ogni esibizione positiva; ma la legge morale è in noi un principio sufficiente e originario di determinazione, che non ci permette di aver riguardo a qualche altro principio. Se l’entusiasmo può paragonarsi al delirio, il fantasticare può esser ragguagliato alla demenza, che può meno di ogni altra cosa accordarsi col sublime, perché è profondamente ridicola. Nell’entusiasmo, in quanto affetto, l’immaginazione è senza freno; nel fantasticare in quanto passione radicata e coltivata, è senza regola. Il primo è un accidente passeggierò, che colpisce qualche volta anche l’intelligenza più sana; il secondo è una malattia, che sconvolge l’intelligenza.
La semplicità (la finalità senz’arte) è come lo stile della natura nel sublime, e quindi anche della moralità, che è una seconda natura (soprasensibile), di cui conosciamo solo le leggi, senza poter raggiungere con l’intuizione quella facoltà soprasensibile che, in noi stessi, contiene il principio di questa legislazione.
Sebbene così il piacere del bello come quello del sublime non soltanto si differenzino dagli altri giudizii estetici per la loro universale comunicabilità, ma appunto per questa loro proprietà includano un interesse relativamente alla società (in cui sono comunicabili); è da notare che tuttavia si considera come qualcosa di sublime l’isolamento da ogni società, quando ciò sia fatto in virtù di idee superiori ad ogni interesse sensibile. Esser sufficiente a se stesso, non aver quindi bisogno di compagnia, senza essere però antisocievole, cioè senza fuggirla, è qualcosa che si avvicina al sublime, come ogni liberazione da bisogni. Al contrario, il fuggire gli uomini perché si odiano, per misantropia, o per antropofobia, perché si considerano come nemici (paura degli uomini), è cosa odiosa e disprezzabile insieme. Vi è nondimeno una specie di misantropia (detta così molto impropriamente), di cui la disposizione si trova con l’invecchiare in molti uomini assennati; è uno stato d’animo, che non lascia a desiderare riguardo alla benevolenza, perché è abbastanza filantropico, ma che è ben lungi dal trovar piacere nella compagnia degli uomini, per effetto di una lunga e triste esperienza; di ciò sono segni la tendenza alla solitudine, il fantastico desiderio d’una terra lontana, ed anche (nei giovani) il sogno di una felicità su di un’isola sconosciuta al resto del mondo, ove si passi la vita con una piccola famiglia, — sogno che sanno così bene sfruttare i romanzieri e i poeti di robinsonate. La falsità, l’ingratitudine, l’ingiustizia, la puerilità in quei fini che da noi stessi sono tenuti per grandi e importanti, e nel conseguimento dei quali gli uomini si fanno reciprocamente tutti i mali immaginabili, stanno in tale contrasto con l’idea di ciò che gli uomini potrebbero essere, se volessero, e con l’ardente desiderio che abbiamo di vederli migliori, che, per non odiarli, poiché amarli non si può, pare un piccolo sacrificio la rinunzia di tutti i piaceri sociali. Questa tristezza, che non ci deriva dal vedere i mali che il destino assegna agli altri uomini (e che è causata dalla simpatia), ma quelli che gli uomini si fanno tra loro (e che si fonda sull’antipatia nei principii), è sublime perché riposa sopra idee, mentre quella causata dalla simpatia non può essere altro che bella. — Quello scrittore non meno spiritoso che profondo che è Saussure, nella descrizione del suo viaggio alle Alpi, dice del Bonhomme, un monte della Savoia, che « vi domina una certa tristezza insignificante». Egli conosceva dunque anche una tristezza interessante, come quella ispirata dalla vista di una solitudine, in cui gli uomini ben potrebbero ridursi per non udire e saper più nulla del mondo, ma non inospite al punto da non offrir loro che un miserrimo ricovero. — Faccio questa osservazione soltanto per ricordare che anche la tristezza (non la costernazione) può essere considerata tra gli affetti forti, quando abbia fondamento in idee morali; quando invece riposa sulla simpatia, e come tale, è anche amabile, appartiene semplicemente agli affetti teneri; e perché da ciò si noti che lo stato d’animo soltanto nel primo caso è sublime.
Per vedere a che cosa conduce un’esposizione puramente empirica del sublime e del bello, si può paragonare con la precedente esposizione trascendentale dei giudizi! estetici quella fisiologica, come l’hanno elaborata Burke e, presso di noi, molti uomini d’ingegno. Burke*8, che merita di essere considerato come l’autore più importante di questo genere di ricerche, arriva per tale via al seguente risultato (p. 223 della sua opera): « il sentimento del sublime si fonda sulla tendenza alla propria conservazione e sul timore, vale a dire su di un dolore, il quale, poiché non arriva allo sconcerto reale delle parti del corpo, produce dei movimenti, che, liberando i vasi sottili o grossi da ingorghi pericolosi e molesti, son capaci di suscitare emozioni piacevoli, non un vero piacere, ma una specie di orrore piacevole, una certa calma mista allo spavento ». Il bello, che egli fonda sull’amore (da cui però vuole esclusi i desideri!), lo riconduce a (pp. 251-252): «l’allentamento e rilassamento delle fibre del corpo, e quindi un intenerimento, una dissoluzione, un illanguidimento, un soggiacere, un morire, uno struggersi dal piacere». E conferma questa specie di definizione non soltanto coi casi in cui il sentimento del bello o del sublime può esser suscitato in noi dall’immaginazione congiunta con l’intelletto, ma anche con quelli in cui la causa determinante è una sensazione. — Come osservazioni psicologiche, queste analisi dei fenomeni del nostro animo sono straordinariamente belle e forniscono ricca materia alle più gradite ricerche dell’antropologia empirica. Non si può negare, egualmente, che tutte le nostre rappresentazioni, siano esse oggettivamente soltanto sensibili, o interamente intellettuali, possono essere soggettivamente congiunte col piacere e col dolore, per quanto anche l’uno e l’altro siano inavvertiti (perché tutte quante affettano il sentimento della vita, e nessuna, in quanto è una modificazione del soggetto, può essere indifferente); così pure, come affermava Epicuro, il piacere e il dolore, infine, sono sempre corporei anche se provengano dall’immaginazione o perfino da rappresentazioni intellettuali: la vita, senza il sentimento dell’organismo corporeo, è la semplice coscienza dell’esistenza, ma non sentimento di benessere e di malessere, vale a dire dell’esercizio facile o intralciato delle forze vitali; l’animo per sé solo è tutto vita (il principio stesso della vita), e gli ostacoli o le facilitazioni debbono essere cercati fuori d’esso, ma sempre nell’uomo, e quindi nel legame dell’animo col corpo.
Ma, se il piacere, per un oggetto, si fa dipendere del tutto dal fatto che questo diletta per via di attrattive od emozioni, non si può esigere da nessun altro il consenso nel giudizio estetico che noi pronunziamo; perché allora ciascuno consulta a buon diritto il suo sentimento particolare. Ma allora cessa anche interamente ogni disputa sul gusto; l’esempio, che danno gli altri con l’accordo addentale dei loro giudizii, dovrebbe diventare un precetto pel nostro consenso, e contro questo principio noi probabilmente resisteremmo, facendo appello al naturale dritto di sottoporre al nostro proprio sentimento, e non a quello degli altri, un giudizio che riposa sul sentimento immediato del proprio benessere.
Se dunque il giudizio di gusto non deve avere un valore egoistico, ma necessariamente un valore pluralistico, secondo la sua intima natura, cioè per se stesso, e non per gli esempii che gli altri danno del loro gusto; e se deve essere apprezzato come tale che possa esigere che ognuno debba approvarlo; bisogna che abbia a fondamento qualche principio a priori (oggettivo o soggettivo che sia), al quale non si può mai arrivare con l’osservazione delle leggi empiriche delle modificazioni dell’animo, perché queste leggi ci fanno conoscere soltanto come si giudica, ma non ci prescrivono come si deve giudicare, e in modo che il precetto sia anche incondizionato; il che è presupposto dai giudizii di gusto, i quali esigono che il piacere sia immediatamente legato con una rappresentazione. Sicché per quanto l’esposizione empirica dei giudizii estetici possa esser fatta da principio, per preparare il materiale d’una investigazione superiore, un esame trascendentale di questa facoltà è però possibile ed appartiene essenzialmente alla critica del gusto. Poiché se il gusto non avesse principii a priori, sarebbe impossibile che giudicasse il giudizio altrui, approvandolo o biasimandolo, anche solo con una certa apparenza di ragione.
Ciò che resta dell’analitica del Giudizio estetico contiene prima di tutto la DEDUZIONE DEI GIUDIZII ESTETICI PURI.
La pretesa di un giudizio estetico alla validità universale per ogni soggetto in quanto questo giudizio deve fondarsi su qualche principio a priori, abbisogna di una deduzione (legittimazione), la quale deve essere aggiunta all’esposizione del giudizio, quando questo riguarda il piacere o il dispiacere per la forma dell’oggetto. Tali sono i giudizii di gusto sul bello naturale. In essi, difatti, la finalità è fondata nell’oggetto e nella sua figura, sebbene essa non denoti un rapporto dell’oggetto dato con altri secondo concetti (per costituire un giudizio di conoscenza), ma concerna in generale soltanto l’apprensione della sua forma, in quanto questa riesce adeguata, nel nostro animo, così alla facoltà dei concetti, come a quella dell’esibizione dei medesimi (la quale è identica con la facoltà dell’apprensione). Si possono proporre perciò diverse questioni anche relativamente al bello naturale, le quali concernono la causa di questa finalità delle sue forme: per es., come si potrebbe spiegare che la natura abbia profusa dovunque la bellezza con tanta prodigalità, perfino nel fondo dell’oceano, dove solo raramente penetra l’occhio umano (solo pel quale, tuttavia, la bellezza sussiste).
Solo il sublime della natura, — quando il nostro sia un giudizio estetico puro, e non comprenda concetti di perfezione in quanto finalità oggettiva, che lo renderebbero un giudizio teleologico, — può essere considerato come informe o senza figura, e nondimeno come oggetto d’un piacere puro, e mostrare una finalità soggettiva della rappresentazione data; per cui si domanda se di un giudizio estetico di questa specie si possa richiedere, oltre l’esposizione di ciò che in esso è pensato, anche una deduzione della sua pretesa a qualche principio (soggettivo) a priori.
E la risposta è questa: il sublime della natura è chiamato così solo impropriamente, ed esso dovrebbe propriamente essere attribuito soltanto al nostro modo di pensare, o piuttosto al suo fondamento nella natura umana.
La coscienza di questo fondamento è soltanto occasionata dall’apprensione di un oggetto altrimenti privo di forma e non conforme a un fine, il quale è usato così in modo soggettivamente-finale, ma non è giudicato finale per sé e per via della sua forma (come species finalis accepta, non data). Perciò la nostra esposizione dei giudizii sul sublime della natura è stata, insieme, la loro deduzione. Poiché, difatti, analizzando la riflessione del Giudizio abbiamo trovato in essi un rapporto finale delle facoltà conoscitive, il quale deve stare a priori a fondamento della facoltà dei fini (la volontà), e perciò esso stesso è finale a priori; e questo è proprio la deduzione, vale a dire la legittimazione della pretesa di questi giudizii alla validità universale e necessaria.
Sicché non abbiamo ad occuparci se non della deduzione dei giudizii di gusto, cioè di quelli sulla bellezza degli oggetti naturali, esaurendo così il compito della deduzione per tutto il Giudizio estetico.
L’obbligo della deduzione, cioè dell’accertamento della legittimità d’una certa specie di giudizii, non ha luogo se non quando il giudizio pretende alla necessità; e tale è anche il caso del giudizio che esige l’universalità soggettiva, vale a dire il consenso di ciascuno; pur non essendo un giudizio di conoscenza, ma solo un giudizio sul piacere o dispiacere per un oggetto dato: giudizio che aspira ad una assoluta validità soggettiva, la quale non si fonda sopra alcun concetto della cosa perché si tratta d’un giudizio di gusto.
Poiché in tal caso non si ha un giudizio di conoscenza, né teoretico, che abbia a fondamento il concetto d’una natura in generale, fornito dall’intelletto, né pratico (puro), fondato sull’idea della libertà, fornita a priori dalla ragione, e poiché per conseguenza, non è da legittimare a priori la validità di un giudizio che rappresenti ciò che una cosa è, o ciò che si deve fare per produrla; si dovrà dimostrare semplicemente, per il Giudizio in genere la validità universale di un giudizio singolare, il quale esprime la finalità soggettiva di una rappresentazione empirica della forma d’un oggetto, per spiegare, così, come sia possibile che qualche cosa piaccia puramente nel giudizio (senza sensazione o concetto), e come il piacere di uno possa essere prescritto come regola agli altri , allo stesso modo che il giudizio di un oggetto in vista di una conoscenza in generale sottostà a regole universali.
Ora, se questa validità universale non si può derivare dal consenso comune e da un’inchiesta sul modo di sentire altrui, ma deve fondarsi sopra un’autonomia del soggetto che giudica del sentimento di piacere (per una data rappresentazione), cioè sul suo gusto, e senza esser derivata da concetti; un giudizio che possiede questa specie di validità — e tale è il giudizio di gusto — presenta una doppia qualità logica: in primo luogo la validità universale a priori, che non è però l’universalità logica secondo concetti, ma l'universalità d’un giudizio singolare, e in secondo luogo, una necessità (che deve sempre riposare su principii a priori), ma non dipende da alcuna prova a priori, la cui rapnresentazione possa costringere a quel consenso, che è richiesto ad ognuno dal giudizio di gusto.
Per un’adeguata deduzione di questa singolare facoltà non si può se non analizzare queste due proprietà logiche per cui un giudizio di gusto si distingue da tutti i giudizii di conoscenza, astraendo prima in esso da ogni contenuto, cioè dal sentimento di piacere, e paragonando semplicemente la forma estetica con la forma dei giudizii oggettivi qual è prescritta dalla logica. Noi quindi esporremo prima queste proprietà caratteristiche del gusto, chiarendole con esempli.
Il giudizio di gusto determina il suo oggetto, per ciò che riguarda il piacere (in quanto bellezza), pretendendo il consenso d’ognuno, come se il piacere fosse oggettivo.
Dire che questo fiore è bello vai quanto esprimere la propria pretesa al piacere di ognuno. Il piacevole del suo odore non ha simili pretese. Ad uno piace, ad un altro dà alla testa. E che cosa si potrebbe presumere da ciò se non che la bellezza dovrebbe essere considerata come una proprietà dell’oggetto stesso, non regolata dalla diversità degli individui e dei loro organismi, ma su cui invece questi dovrebbero regolarsi, volendone giudicare? E nondimeno non è così. Perché il giudizio di gusto consiste proprio nel chiamar bella una cosà soltanto per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla.
Inoltre, in quel giudizio che deve dar prova del gusto del soggetto, si esige che il soggetto stesso giudichi da sé, senza andare a tentoni tra i giudizii degli altri, per conoscere prima il loro piacere o dispiacere riguardo all’oggetto dato; e quindi si vuole che il suo giudizio sia pronunziato a priori, e non per imitazione, cioè perché la cosa in effetti piace a tutti. Si potrebbe pensare, è vero, che un giudizio a priori debba contenere un concetto dell’oggetto, contenendo il principio per la conoscenza di esso; il giudizio di gusto però non si fonda sopra concetti, e non è mai un giudizio di conoscenza, ma soltanto estetico.
Un giovane poeta perciò non si lascerà rimuovere dalla convinzione che la sua poesia sia bella, né dal giudizio del pubblico, né da quello dei suoi amici; e se darà loro ascolto, ciò non sarà perché il suo giudizio è cambiato, ma perché, sebbene il pubblico abbia un gusto falso (almeno secondo il suo punto di vista), egli nel suo desiderio del plauso trova la ragione di accomodarsi (contro il suo giudizio stesso) con l’opinione comune. Solo più tardi, quando il suo Giudizio è fatto più raffinato dall’esercizio, egli rinunzierà volentieri al suo modo precedente di giudicare; come potrebbe fare per quei suoi giudizii che riposano interamente sulla ragione. Il gusto esige non altro che l’autonomia. Fare dei giudizii altrui il motivo dei proprii, sarebbe eteronomia.
Il vantare le opere degli antichi, e con ragione, come modelli, il chiamar classici i loro autori, il conferire a questi una certa nobiltà tra gli altri scrittori, tale che abbia il privilegio di dettar regole al popolo; tutto ciò pare che dimostri esservi delle sorgenti a posteriori del gusto, e contrastare all’autonomia di esso in ogni soggetto. Ma si potrebbe dire egualmente bene che gli antichi matematici, ritenuti finora come modelli, da non potersi trascurare, della massima solidità ed eleganza nel metodo sintetico, dimostrano in noi una ragione imitativa ed impotente a produrre da sé dimostrazioni rigorose per mezzo della costruzione dei concetti e con una forte intuizione. Non v’è alcun uso delle nostre facoltà, per quanto libero sia, compreso l’uso della ragione (che deve trarre tutti i suoi giudizii dalle comuni fonti a priori), il quale non darebbe luogo a tentativi difettosi, se ogni soggetto dovesse cominciare soltanto dalla sua rozza capacità naturale, se gli altri non lo avessero preceduto con le loro ricerche, non per fare dei loro successori semplici imitatori, ma per metterli col loro procedimento sulla via di cercare i principii in se stessi, e così seguire l’istesso cammino, e spesso uno migliore. Perfino nella religione, dove ognuno deve certo trarre da se stesso la regola della propria condotta, perché egli medesimo ne è responsabile e non può rigettare sugli altri, come a maestri o a predecessori, la colpa dei proprii errori, hanno meno efficacia i precetti generali, dati dai preti o dai filosofi, o che i possono trarre da se stesso, che un esempio di virtù e di santità rappresentato dalla storia, il quale non rende superflua l’autonomia della virtù, fondata sulla vera ed originaria idea della moralità (a priori), né cambia questa in un meccanismo dell’imitazione. Seguire, che ha relazione con qualcosa che precede, non imitare, è la giusta espressione che designa l’influsso che possono avere sugli altri i prodotti di un autore esemplare; e ciò non significa altro che attingere alle stesse sorgenti da cui quegli attinse, e apprendere dai predecessori soltanto il modo che tennero nel produrre. Ma tra tutte le facoltà e i talenti il gusto, poiché il suo giudizio non è determinabile da concetti o precetti, è quello che più ha bisogno di esempii riguardo a ciò che nel progresso della coltura ha ottenuto il più durevole consenso, per non ridiventare incolto e ricadere nella rozzezza dei primi tentativi.
Il giudizio di gusto non può essere determinato mediante prove, proprio come se fosse puramente soggettivo.
Se qualcuno non trova bello un edificio, una veduta, una poesia, quand’anco mille voci gliene esaltino il valore, non si lascerà intimamente costringere al consenso. Ciò è da osservare in primo luogo. Egli potrà anche fingere che la cosa gli piace, per non essere trattato da uomo senza gusto; può perfino cominciare a dubitare di non aver coltivato sufficientemente il proprio gusto con la conoscenza di una quantità sufficiente di oggetti di una certa specie (come uno che, credendo di vedere in lontananza una foresta dove tutti gli altri vedono una città, dubita del giudizio della propria vista). Egli però ha questa certezza, che l’applauso degli altri non fornisce, pel giudizio della bellezza, una prova valida; e che altri certamente possono vedere ed osservare per lui; e che se ciò che molti hanno visto in un certo modo, ed egli crede di aver visto diversamente, può esser per lui una prova sufficiente rispetto ad un giudizio teoretico, e quindi logico, ciò che è piaciuto agli altri non mai può servir di fondamento ad un giudizio estetico. Il giudizio altrui, a noi sfavorevole, può con ragione farci dubitare del nostro, ma non convincerci della sua inesattezza. Sicché non ve nessuna prova empirica per costringere in qualcuno il giudizio di gusto.
In secondo luogo, una prova a priori, secondo regole definite, ancor meno può determinare il giudizio sulla bellezza. Se qualcuno mi legge una sua poesia, o mi conduce ad uno spettacolo teatrale che non riesce a soddisfare il mio gusto, potrà bene invocare, per dimotrare la bellezza della sua poesia, Batteux, Lessing e altri critici del gusto più antichi e famosi, e tutte le regole da loro stabilite; forse alcuni punti, che proprio mi dispiacciono, si accorderanno benissimo con le regole della bellezza (come son date da quegli scrittori e riconosciute universalmente); ma io mi turo le orecchie, non voglio più sentire parlare di principii e ragionamenti, ed ammetterò più volentieri che quelle regole dei critici siano false o che almeno non era lì il caso di applicarle, anziché ammettere che il mio giudizio debba lasciarsi determinare da prove a priori, se dev’essere un giudizio del gusto e non dell’intelletto o della ragione.
Pare che questa sia una delle principali ragioni per cui a questa facoltà estetica di giudicare sia stato apposto il nome di gusto. Perché mi si possono enumerare tutti gli ingredienti che entrano in una pietanza, farmi notare che ognuno di essi mi piace, magnificarmi, anche con ragione, le qualità salutari di tale specie di cibo; ed io resto sordo a tutte queste ragioni, assaggio la pietanza sulla mia lingua e sul mio palato, e in base a questi (non a principii generali) pronuncio il mio giudizio.
Il giudizio di gusto infatti è pronunziato sempre come un giudizio singolare sull’oggetto. L’intelletto, paragonando l’oggetto, circa il piacere che esso produce, col giudizio degli altri nello stesso caso, può formulare un giudizio universale: per esempio, — tutti i tulipani sono belli —; ma questo è allora un giudizio logico, non di gusto, che dà cóme predicato, alle cose di una certa specie in generale, la relazione di un oggetto col gusto; il giudizio invece, col quale trovo bello un singolo tulipano, vale a dire quello in cui riconosco universalmente valido il piacere che esso mi dà, quello soltanto è un giudizio di gusto. La proprietà di questo giudizio consiste dunque in ciò: sebbene abbia una validità puramente soggettiva, esso esige il consenso di tutti, come se fosse proprio un giudizio oggettivo, fondato su principii della conoscenza e che può essere imposto per via di una prova.
Un principio del gusto significherebbe un principio alla cui condizione si potrebbe sussumere il concetto d’un oggetto, derivandone con un’argomentazione che l’oggetto stesso è bello. Ma ciò è assolutamente impossibile. Perché io debbo sentire immediatamente piacere per la rappresentazione dell’oggetto, e il piacere non mi può essere inculcato da argomenti. Sebbene, come dice Hume, i critici possano ragionare più plausibilmente dei cuochi, hanno con questi un comune destino. Non possono aspettarsi il fondamento determinante del loro giudizio dalla forza degli argomenti, ma soltanto dalla riflessione del soggetto sul proprio stato (di piacere o dispiacere), prescindendo da ogni precetto o regola.
Se nondimeno i critici possono e debbono ragionare, in modo da correggere ed estendere i nostri giudizii di gusto, non è per esprimere in una formula universalmente applicabile il fondamento determinante di questa specie di giudizii estetici, — perché ciò è impossibile; ma per studiare le facoltà di conoscere e le loro funzioni nei giudizii stessi, e mostrare negli esempii quella finalità soggettiva reciproca, la cui forma in una data rappresentazione è, come abbiamo dimostrato, la bellezza dell’oggetto. Sicché la critica del gusto è anch’essa soltanto soggettiva, relativamente alla rappresentazione con cui un oggetto è dato; essa è, in altri termini l’arte, o la scienza, che riporta a regole il rapporto reciproco dell’immaginazione e dell’intelletto nella rappresentazione data (indipendentemente da sensazioni o concetti anteriori), e quindi il loro accordo e disaccordo, e le determina rispetto alle loro condizioni. È arte, quando fa ciò soltanto con esempii; è scienza, quando deriva la possibilità di questa specie di giudizio dalla natura delle due facoltà in quanto facoltà della conoscenza in generale. Qui non abbiamo da considerarla se non sotto questo secondo punto di vista, in quanto critica trascendentale. Essa deve sviluppare e legittimare il principio soggettivo del gusto in quanto principio a priori del Giudizio. La critica in quanto arte cerca soltanto di applicare ai giudizii di gusto le regole fisiologiche (in questo caso psicologiche), e quindi empiriche, secondo le quali il gusto procede realmente (senza preoccuparsi della loro possibilità); e critica i prodotti delle belle arti, allo stesso modo che la critica, in quanto scienza, critica la facoltà stessa di giudicare.
Il giudizio di gusto si distingue in questo dal giudizio logico, che quest’ultimo sussume, e quello no, una rappresentazione al concetto di un oggetto; perché, altrimenti, il consenso universalmente necessario potrebbe essere imposto nel giudizio di gusto per mezzo di argomenti. Si somigliano invece nell’esigenza dell’universalità e necessità, che però nel giudizio di gusto non dipendono da concetti dell’oggetto, e quindi son puramente soggettive. Ora, poiché in un giudizio sono i concetti che cotituiscono il suo contenuto (ciò che appartiene alla conoscenza dell’oggetto), e il giudizio di gusto non è determinabile mediante concetti, esso si fonda semplice-mente sulla condizione soggettiva formale d’un giudizio in generale. La condizione soggettiva di ogni giudizio è la facoltà stessa di giudicare, cioè il Giudizio. Questa facoltà, adoperata relativamente ad una rappresentazione con cui è dato un oggetto, esige l’accordo di due facoltà rappresentative: l’immaginazione, cioè, (per l’intuizione e la comprensione del molteplice di essa), e l’intelletto (pel concetto, in quanto rappresentazione dell’unità di questa comprensione del molteplice). E, poiché qui nessun concetto dell’oggetto sta a fondamento del giudizio, questo non può consistere che nella sussunzione dell’immaginazione stessa (in una rappresentazione con cui un oggetto è dato), a quelle condizioni che permettono all’intelletto in generale di passare dall’intuizione ai concetti. In altri termini, poiché la libertà dell’immaginazione consiste nello schematizzare senza concetto, il giudizio di gusto deve riposare su di una semplice sensazione dell’azione animatrice reciproca dell’immaginazione nella sua libertà e dell’intelletto con la sua legalità, e quindi su di un sentimento, che ci fa giudicare l’oggetto secondo la finalità della rappresentazione (con cui esso è dato) rispetto alle facoltà conoscitive nel loro libero giuoco; e il gusto, in quanto Giudizio soggettivo, contiene un principio della sussunzione, ma non delle intuizioni ai concetti, sebbene della facoltà delle intuizioni, o delle esibizioni (vale a dire della immaginazione), alla facoltà dei concetti (cioè all’intelletto), in quanto la prima nella sua libertà si accorda con la seconda nella sua legalità.
Ora, per trovare questo principio legittimo mediante una deduzione dei giudizii di gusto, ci possiamo servir di guida soltanto delle proprietà formali di questa specie di giudizii, considerando perciò in essi semplicemente la forma logica.
Con la percezione di un oggetto può esser legato immediatamente, in modo da formare un giudizio di conoscenza, il concetto di un oggetto in generale, del quale la percezione contiene i predicati empirici; e si produrrà così un giudizio d’esperienza. Questo giudizio ha a suo fondamento i concetti a priori dell’unità sintetica del molteplice dell’intuizione, i quali permettevo di pensare il molteplice come determinazione dell’oggetto; e questi concetti (le categorie) esigono una deduzione, che abbiamo data nella Critica della ragion pura, e/con la quale è stata anche possibile la soluzione del problema: come son possibili i giudizii di conoscenza sintetici a priori. Questo problema concerneva dunque i principi i a priori dell’intelletto puro e dei suoi giudizii teoretici.
Ma con una percezione può anche essere legato immediatamente un sentimento di piacere (o dispiacere), una soddisfazione che accompagna la rappresentazione dell’oggetto e tien luogo ad essa di predicato; e così si produrrà un giudizio estetico, che non è punto un giudizio di conoscenza. Quando questo giudizio non è un semplice giudizio di sensazione, ma un giudizio formale di riflessione, che esige da ciascuno lo stesso piacere come necessario, esso deve avere a fondamento qualcosa in quanto principio a priori, che può essere in ogni caso puramente soggettivo (perché un principio oggettivo sarebbe impossibile per questa specie di giudizii), ma che ha bisogno, anche come tale, di una deduzione con la quale si spieghi come un giudizio estetico possa pretendere alla necessità. Su ciò si fonda il problema di cui ci occupiamo: come son possibili i giudizii di gusto? Il quale problema concerne perciò i principii a priori del Giudizio puro nei giudizii estetici, in quelli cioè nei quali questa facoltà non ha semplicemente da sussumere a concetti oggettivi dell’intelletto (come nei giudizii teoretici) e sottostà ad una legge, ma, soggettivamente, è essa stessa oggetto e legge ad un tempo.
Questo problema può essere enunciato anche così: come è possibile un giudizio, che dal solo sentimento particolare di piacere per un oggetto, e indipendentemente dal concetto di questo, proclami a priori, senz’aver bisogno di attendere il consenso altrui, che quel piacere inerisce alla rappresentazione dell’oggetto in ogni altro soggetto?
È facile vedere che i giudizii di gusto sono sintetici, perché essi oltrepassano il concetto ed anche l’intuizione dell’oggetto ed aggiungono a questa, come predicato, qualcosa che non è conoscenza; cioè il sentimento di piacere (o dispiacere). Ma che essi, sebbene il predicato (del piacere particolare congiunto alla rappresentazione) sia empirico, sieno nonpertanto giudizi a priori; o pretendano d’esser tali, per ciò che concerne il consenso che esigono da ciascuno, si vede già dalle espressioni stesse con cui proclamano la loro pretesa; e così questo problema della critica del Giudizio rientra nel problema generale della filosofia trascendentale: come son possibili i giudizii sintetici a priori?
L’unione immediata della rappresentazione d’un oggetto con un piacere può esser percepita solo internamente, e, se non si volesse indicare se non questo, si avrebbe un semplice giudizio empirico. Perché, difatti, a priori io non posso congiungere con alcuna rappresentazione un determinato sentimento (di piacere o dispiacere), fuorché con quella che ha a fondamento a priori, nella ragione, un principio che determina la volontà; poiché in tal caso ne segue un piacere (nel sentimento morale) che però non può essere paragonato col piacere del gusto, perché suppone il concetto determinato di una legge, mentre quest’altro deve legarsi immediatamente col semplice giudizio, anteriormente ad ogni concetto. Tutti i giudizii di gusto sono quindi giudizii singolari, perché legano il loro predicato del piacere non con un concetto, ma con una data rappresentazione empirica singolare.
Non è dunque il piacere, ma l’universalità di questo piacere, percepita come legata nell’animo col semplice giudizio di un oggetto, che è rappresentata a priori, in un giudizio di gusto, come regola universale pel Giudizio, valida per tutti. Con un giudizio empirico io percepisco e giudico un oggetto con piacere. Ma lo trovo bello, cioè posso esigere come necessario qüello stesso piacere negli altri, con un giudizio a priori.
Se si ammette che in un puro giudizio di gusto il piacere per l’oggetto è legato col semplice giudizio della sua forma, non resta se non la finalità soggettiva di questa rispetto al Giudizio, che nel nostro animo sentiamo legata con la rappresentazione dell’oggetto. Ora, poiché la facoltà di giudicare, considerata in relazione con le regole formali del giudizio, e a prescindere da ogni materia (sensazione o concetto), non può riguardare se non le condizioni soggettive dell’uso del Giudizio in generale (che non si applica né ad un modo particolare di sensibilità, né ad un particolare concetto dell’intelletto), — quelle condizioni soggettive, per conseguenza, le quali si presuppongono in ogni uomo (come necessarie per la possibilità della conoscenza in generale); — l’accordo di una rappresentazione con queste condizioni del Giudizio può essere ammesso a priori come valido universalmente. Vale a dire, il piacere, o la finalità soggettiva della rappresentazione rispetto al rapporto delle facoltà conoscitive nel giudizio di un oggetto sensibile in generale, si può con ragione esigere da ciascuno*9.
Questa deduzione è così facile, perché non deve giustificare la realtà oggettiva di un concetto; la bellezza, difatti, non è un concetto dell’oggetto, e il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza. Il giudizio di gusto afferma soltanto che noi siamo autorizzati a presupporre universalmente in ogni uomo quelle stesse condizioni soggettive del Giudizio, che troviamo in noi; e che abbiamo fatto esattamente la sussunzione dell’oggetto dato a queste condizioni. Ora, sebbene questa sussunzione presenti inevitabili difficoltà, che non si trovano nella facoltà logica di giudicare (perché in questa si sussume ai concetti, e invece nel Giudizio estetico si sussume ad un rapporto semplicemente sensibile, cioè a quello dell’immaginazione e dell’intelletto, che si accordano reciprocamente nella rappresentazione della forma d’un oggetto — e qui l’errore è facile); ciò non toglie nulla alla legittimità della pretesa, che ha il Giudizio a contare sul consenso universale, la quale pretesa si riduce a proclamare la legittimità del principio di giudicare su fondamenti soggettivi validi per ognuno. Per ciò che riguarda la difficoltà e il dubbio circa l’esattezza della sussunzione a questo principio, essi rendono tanto poco dubbia la legittimità della pretesa alla validità universale di un giudizio estetico in generale, e quindi il principio stesso, quanto una sussunzione erronea (sebbene la cosa non sia così frequente e facile) del Giudizio logico al suo principio può rendere dubbio questo principio stesso, il quale è oggettivo. Se poi si domanda come è possibile ammettere a priori la natura come un insieme di oggetti del gusto, tale questione si riferisce alla teleologia, perché bisognerebbe considerare come uno scopo della natura, inerente essenzialmente al concetto che abbiamo di essa, la produzione di forme finali pel nostro Giudizio. Ma la esattezza di questa ipotesi è ancora molto dubbia, mentre la realtà delle bellezze naturali è un fatto d’esperienza.
La sensazione, in quanto elemento reale della percezione, che è riferito alla conoscenza, è la sensazione dei sensi; e ciò che è specifico della sua qualità possiamo ammettere che sia generalmente ed uniformemente comunicabile, soltanto nell’ipotesi che ciascuno abbia lo stesso senso che abbiamo noi; il che però non si può assoluta-mente supporre per una sensazione dei sensi. Così, a colui che manca del senso dell’odorato non può essere comunicata la sensazione relativa; e, se anche il senso non gli manchi, non si può essere proprio sicuri che egli abbia da un fiore la stessa sensazione che ne abbiamo noi. Ma dobbiamo ammettere una differenza anche maggiore tra gli uomini riguardo al piacevole o spiacevole nella sensazione di uno stesso oggetto dei sensi; e non si può assolutamente pretendere che il piacere per i medesimi oggetti sia lo stesso in ciascuno. Il piacere di questa specie, che penetra nell’animo per via dei sensi e nel quale siamo passivi, si può chiamare il piacere del godimento.
Il piacere che dà un’azione pel suo carattere morale non è, invece, un piacere del godimento, ma dell’attività autonoma e della sua conformità all’idea della sua destinazione. Ma questo sentimento, che si dice morale, suppone dei concetti; non rivela una finalità libera, ma conforme a leggi; non può essere, quindi, comunicato universalmente se non per mezzo della ragione, e, se deve esser lo stesso per ognuno, mediante concetti pratici della ragione ben determinati.
Il piacere per il sublime della natura, come piacere della contemplazione ragionante9, esige anch’esso la partecipazione universale: ma presuppone già un altro sentimento, quello della nostra destinazione soprasensibile, il quale, per quanto sia oscuro, ha un fondamento morale. Ma io non sono autorizzato a supporre senz’altro, che gli altri uomini abbiano in vista tale sentimento, e che essi troveranno piacere nella contemplazione della selvaggia grandiosità della natura (un piacere, che veramente non si può attribuire all’aspetto della natura, il quale è piuttosto spaventevole). E tuttavia, considerando che si dovrebbe, in ogni occasione opportuna, avere in vista quella disposizione morale, posso anche esigere da ognuno lo stesso piacere, ma solo attraverso la legge morale, la quale a sua volta è fondata sopra concetti della ragione.
Il piacere del bello invece non è né un piacere del godimento, né di un’attività conforme a leggi, né della contemplazione ragionante secondo idee, ma un piacere della semplice riflessione; e, senza aver per guida né uno scopo né un principio, accompagna la comune apprensione di un oggetto mediante l’immaginazione, in quanto facoltà dell’intuizione, in relazione con l’intelletto, in quanto facoltà dei concetti, con un procedimento del Giudizio, che esso deve usare anche nella più comune esperienza; con la differenza però che in quest’ultimo caso il Giudizio mira ad un concetto oggettivo empirico, mentre nel primo (nel giudizio estetico) ha soltanto lo scopo di percepire la finalità della rappresentazione rispetto all’azione armonica (soggettivamente finale) delle due facoltà conoscitive nella loro libertà, cioè di sentir con piacere lo stato rappresentativo. Questo piacere deve necessariamente fondarsi in ognuno sulle stesse condizioni, perché sono le stesse condizioni soggettive della possibilità di una conoscenza in generale, e la proporzione di queste facoltà conoscitive, che è richiesta dal gusto, è richiesta anche dalla comune e sana intelligenza, quale si può supporre in ognuno. E appunto perciò colui che giudica in fatto di gusto (sempre che abbia una giusta coscienza del suo giudizio, e non prenda la materia per la forma, l’attrattiva per la bellezza) può esigere in ogni altro la finalità soggettiva, cioè il piacere per l’oggetto, e considerare il suo sentimento come universalmente comunicabile, e ciò senza l’intervento di concetti.
Spesso si dà al Giudizio, quando non si bada tanto alla riflessione10 , da cui proviene, quanto al suo semplice risultato, il nome di senso, e si parla di un senso della verità, di un senso della decenza, di un senso del giusto, e via discorrendo; sebbene si sappia, o almeno ragionevolmente si dovrebbe sapere, che non è in un senso che tali concetti possono aver sede, e che ancor meno un senso è capace di esprimere regole universali; ma che invece non potremmo mai concepire una rappresentazione della verità, del decoro, della bellezza o della giustizia, se non potessimo elevarci al disopra dei sensi a facoltà di conoscere superiori. L’intelligenza comune, che, in quanto semplice sano intelletto (non peranco coltivato), si riguarda come il minimo che si possa sempre aspettare da chi aspiri al nome di uomo, ha anche perciò il non lusinghiero onore di ricevere il nome di senso comune11 (sensus communis), e per modo che con la parola comune (non soltanto nella nostra lingua, che in questo caso è veramente equivoca, ma anche in parecchie altre) s’intende il vulgare, ciò che si trova dovunque, e che non è affatto né un merito né un privilegio il possedere.
Ma per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori, del modo di rappresentarne di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso, e per evitare così la facile illusione di ritenere come oggettive delle condizioni particolari e soggettive; illusione che avrebbe una influenza dannosa sul giudizio. Ora ciò avviene quando paragoniamo il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizii possibili che con quelli effettivi, e ci poniamo al posto di ciascuno di loro, astraendo soltanto dalle limitazioni che sono attinenti in modo contingente al nostro proprio giudizio: il che si ottiene rigettando dal nostro stato rappresentativo tutto ciò che è materia, cioè sensazione, e portando unicamente l’attenzione sulle proprietà formali della nostra rappresentazione o del nostro stato rappresentativo. Ora, questa operazione sembrerà forse troppo artificiosa perché possa essere attribuita alla facoltà che chiamiamo senso comune; ma essa pare così quando è espressa in formule astratte; in se stesso non v’è niente di più naturale che l’astrarre dalle attrattive e dall’emozione, quando si cerca un giudizio, che deve servir da regola universale.
Le massime seguenti del senso comune non le esponiamo qui come parti della critica del gusto, ma possono servire alla spiegazione dei suoi principii: 1) pensare da sé; 2) pensare mettendosi al posto degli altri; 3) pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. La prima è la massima del modo di pensare libero dai pregiudizii, la seconda del modo di pensare largo, la terza del modo di pensare conseguente. La prima è la massima di una ragione che non è mai passiva. La tendenza alla ragione passiva, quindi all’eteronomia della ragione, si chiama pregiudizio; e il più grande di tutti consiste nel rappresentarsi la natura come non sottoposta a quelle regole, che l’intelletto le dà a fondamento in virtù della propria legge essenziale, — ed è la superstizione. La liberazione dalla superstizione si chiama illuminismo*10; perché, sebbene questo nome convenga anche alla liberazione dai pregiudizii in generale, la superstizione merita d’esser chiamata il pregiudizio per eccellenza (in sensu eminenti), considerata la cecità in cui ci trascina, e che impone quasi come un obbligo, mettendo nella migliore evidenza il bisogno d’esser guidati dagli altri, e quindi lo stato di una ragione passiva. Per ciò che riguarda la seconda massima del modo di pensare, noi siamo già ben abituati a chiamar ristretto (limitato, il contrario di largo) colui del quale i talenti non sono capaci di qualcosa di grande (soprattutto di qualche cosa d’intensivo). Ma qui non si tratta della facoltà della conoscenza, ma del modo di pensare, del modo di fare un uso appropriato della facoltà della conoscenza; per cui un uomo, per quanto siano piccoli in lui la capacità e il grado delle doti naturali, mostrerà di avere un largo modo di pensare, quando si elevi al disopra delle condizioni soggettive particolari del giudizio, tra le quali tanti altri sono come impigliati, e rifletta sul proprio giudizio da un punto di vista universale (che può determinare soltanto mettendosi dal punto di vista degli altri). La terza massima, cioè quella del modo di pensare conseguente, è la più difficile ad applicare, e non si può raggiungere se non con l’unione delle due prime, e dopo che per una costante abitudine si sia acquistata in queste una certa abilità. Si può dire che la prima di queste massime è la massima dell’intelletto, la seconda del Giudizio e la terza della ragione.
Ripigliando il filo interrotto da questo episodio, dico che il gusto potrebbe esser chiamato sensus communis con più ragione che il sano intelletto; e che spetta piuttosto al Giudizio estetico che al Giudizio intellettuale il nome di senso comune*11 , se per senso si vuole intendere un effetto della semplice riflessione sulTanimo, perché allora per senso s’intende il sentimento di piacere. Si potrebbe perfino definire il gusto come la facoltà di giudicare ciò che rende universalmente comunicabile il nostro sentimento rispetto a una data rappresentazione, senza la mediazione di un concetto.
L’attitudine che hanno gli uomini di comunicarsi i loro pensieri esige anche un rapporto dell’immaginazione e dell’intelletto, pel quale ai concetti si associano intuizioni, e di nuovo a queste dei concetti sicché gli uni e le altre concorrano a formare una conoscenza; ma allora l’accordo delle due facoltà dell’animo è legale, per la costrizione di concetti determinati. Ma, dove l’immaginazione in libertà risveglia l’intelletto e questo a sua volta, senza concetti, pone l’immaginazione in un giuoco regolare, la rappresentazione è comunicata non come pensiero, ma come un sentimento intimo di uno stato finalistico dell’animo.
Il gusto è perciò la facoltà di giudicare a priori la comunicabilità dei sentimenti, che son legati (senza mediazione d’un concetto) con una data rappresentazione.
Se si potesse ammettere che la semplice comunicabilità universale del proprio sentimento debba già implicare per noi un interesse (ciò che, per altro, non si ha il diritto di concludere dalla natura di una facoltà di giudicare semplicemente riflettente), si potrebbe spiegare perché il sentimento nel giudizio di gusto è attribuito a ciascuno quasi come un dovere.
È stato sufficientemente dimostrato innanzi che il giudizio di gusto, col quale una cosa è dichiarata bella, non deve avere alcun interesse come motivo. Ma da ciò non segue che, pronunziato questo giudizio come un giudizio estetico puro, nessun interesse vi si possa congiungere. Questo legame, però, potrà sempre essere soltanto indiretto, vale a dire il gusto deve esser anzitutto rappresentato come legato con qualche altra cosa, affinché si possa congiungere col piacere della semplice riflessione su di un oggetto anche un piacere per l’esistenza di esso (nel quale consiste ogni interesse). Perché vale qui, pel giudizio estetico, ciò che si dice pel giudizio di conoscenza (delle cose in generale): a posse ad esse non valet consequentia. Ora quest’altra cosa può essere qualche cosa di empirico, cioè un’inclinazione propria della natura umana, o qualche cosa di intellettuale, in quanto proprietà della volontà di poter essere determinata a priori dalla ragione; due cose che implicano un piacere circa l’esistenza dell’oggetto, e che possono quindi fondare un interesse per ciò che prima era piaciuto per sé e indipendentemente da ogni interesse.
Empiricamente il bello interessa solo nella società; e se si ammette come naturale nell’uomo la tendenza alla società, e la socievolezza, cioè l’attitudine e l’inclinazione alla vita sociale, come una qualità inerente ai bisogni dell’uomo, in quanto creatura destinata alla società, e quindi inerente all’ umanità, — allora non si potrà non considerare il gusto come la facoltà di giudicare di tutto ciò in cui il proprio sentimento può esser comunicato ad ogni altro, e quindi come il mezzo di soddisfare ciò che è richiesto dall’inclinazione naturale di ognuno.
Per se stesso un uomo relegato in un’isola deserta non ornerebbe né la sua capanna, né la sua persona, non cercherebbe dei fiori e tanto meno ne coltiverebbe per adornarsene; soltanto nella società egli comincerà a pensare di non essere semplicemente un uomo, ma un uomo distinto nella sua specie (ciò che è il principio dell’incivilimento): perché così è giudicato colui che è disposto e capace di comunicare agli altri il proprio piacere, e che non è soddisfatto da un oggetto, se non ne può condividere con gli altri il piacere. Inoltre, ognuno aspetta ed esige dagli altri che si abbia in vista questa comunicazione universale, quasi come se fosse un patto originario dettato dall’umanità stessa; e così certamente in principio ebbero importanza nella società e furono oggetto di un grande interesse delle cose che son semplice-mente attraenti, come i colori per dipingere la persona (il rocou dei caraibi e il cinabro degli irocchesi), i fiori, 155 le conchiglie, le penne d’uccelli di bei colori, e col tempo poi anche le belle forme (come nei canotti, negli abiti, etc.), che per se stesse non danno alcuna soddisfazione, cioè alcun piacere di godimento; finché la civiltà, pervenuta al suo massimo grado, ha fatto di ciò quasi l’essenziale delle tendenze raffinate, e non ha apprezzato se non quelle sensazioni le quali possono essere universalmente comunicate; di guisa che, ora, se anche uno ritrae da un oggetto un piacere insignificante e che non ha per lui un interesse notevole, all’idea della comunicabilità universale del piacere stesso, ne vede quasi cresciuto il valore infinitamente.
Ma questo interesse indiretto pel bello, che dipende dalla tendenza alla società, ed è quindi empirico, non ha qui alcuna importanza per noi, che dobbiamo guardare soltanto a ciò che può riferirsi a priori al giudizio di gusto, sia pure indirettamente. Perché, difatti, se potessimo scoprire un interesse sotto tale condizione, il gusto ci mostrerebbe un passaggio della nostra facoltà di giudicare dal godimento dei sensi al sentimento morale; e così non soltanto si sarebbe meglio guidati a impiegare il gusto in modo conforme al fine, ma esso sarebbe considerato come un anello della catena delle facoltà umane a priori dalle quali deve dipendere ogni legislazione. Tutto ciò che si può dire circa l’interesse empirico per gli oggetti del gusto e del gusto stesso è che, siccome il gusto indulge alle tendenze, per quanto queste siano raffinate, l’interesse per il bello va facilmente confuso con tutte le altre inclinazioni e passioni, che raggiungono nella società la loro massima varietà e il loro grado più alto; che, inoltre, l’interesse per il bello, su tali basi, fornisce un passaggio assai dubbio dal piacevole al buono. Ma abbiamo ragione di ricercare se questo passaggio possa esser fornito dal gusto, quando lo si consideri nella sua purezza.
Con buona intenzione quelli che vollero riportare tutte le occupazioni, cui gli uomini sono spinti dalle loro disposizioni interne, all’ultimo scopo dell’umanità, cioè al bene morale, videro nell’interesse per il bello un segno di un buon carattere morale. Ma da altri fu loro opposto non senza ragione, e sulla scorta dell’esperienza, che i virtuosi del gusto, non pur di frequente, ma d’ordinario, sono vanitosi, capricciosi, dominati da funeste passioni, e forse meno degli altri possono pretendere ad una superiorità nella devozione ai principii morali; e quindi sembra non solo che il sentimento del bello sia (come è realmente) diverso in modo specifico dal sentimento morale, ma che l’interesse che vi si lega possa difficilmente accordarsi con l’interesse morale, e certo non mai per intima affinità.
Ora io concedo volentieri che l’interesse pel bello dell’arte (con che intendo anche l’uso artificiale delle bellezze naturali a scopo di ornamento, e quindi di vanità) non fornisca una prova di un carattere devoto, o anche soltanto inclinato, al bene morale. Ma affermo invece che il prendere un interesse immediato alla bellezza della natura (non soltanto l’avere gusto per giudicarla) è sempre segno di un animo buono; e che, quando questo interesse è abituale e si accoppia volentieri alla contemplazione della natura, mostra almeno una disposizione d’animo favorevole al sentimento morale. Bisogna ricordarsi però che io parlo qui propriamente delle belle forme della natura, escluse le attrattive, che essa vi unisce con tanta profusione, perché l’interesse in tal caso è anche immediato, ma nello stesso tempo empirico.
Colui che contempla da solo (e senza intenzione di comunicare agli altri le sue osservazioni) la bella figura di un fiore selvaggio, di un uccello, di un insetto, per ammirarla ed amarla, e non vorrebbe che essa mancasse nella natura, anche se dovesse venirgliene un danno, e ancora meno si promette da essa qualche utilità, — costui prende un interesse immediato ed intellettuale alla bellezza della natura. Vale a dire che il prodotto naturale non gli piace soltanto per la sua forma, ma anche per la sua esistenza, senza che in ciò v’abbia parte alcuna attrattiva sensibile, o che egli stesso vi connetta uno scopo.
Qui è notevole questo fatto, che se s’ingannasse segretamente questo amatore del bello, piantando a terra dei fiori artificiali (come se ne possono fare perfettamente simili a quelli della natura), o mettendo degli uccelli artisticamente scolpiti su pei rami degli alberi, e dopo gli si scoprisse l’inganno, sparirebbe subito quest’interesse immediato che egli aveva prima, e forse darebbe luogo ad un altro interesse, a quello della vanità, al desiderio cioè di ornare la propria stanza di quegli oggetti per farne mostra. Il pensiero che deve accompagnare l’intuizione e la riflessione è questo: è la natura che ha prodotto questa bellezza; e solo su ciò si fonda l’interesse immediato, che si ha per la bellezza naturale. Altrimenti non resta che o un semplice giudizio di gusto, privo di qualsiasi interesse, o un giudizio legato a un interesse mediato, cioè in relazione con la società, il quale non dà alcun indizio sicuro di buone diposizioni morali.
Questo vantaggio che ha la bellezza naturale sulla bellezza artistica, di destare essa sola un interesse immediato, sebbene possa essere superata dall’altra per ciò che riguarda la forma, si accorda col carattere raffinato e solido di tutti gli uomini che hanno coltivato il proprio sentimento morale. Se un uomo, che ha gusto sufficiente per giudicare dei prodotti delle belle arti con la massima giustezza e finezza, abbandona volentieri la stanza in cui brillano queste bellezze che soddisfano la vanità ed alimentano i piaceri sociali, e si rivolge a cercare il bello naturale per trovarvi quasi una voluttà pel suo spirito su una via di pensiero di cui egli non potrà mai raggiungere il termine; noi considereremo questa scelta con grande rispetto, e vedremo in lui una bell’anima, quale non può pretendere di essere un intenditore o un amatore d’arte, per via dell’interesse che prova per i suoi oggetti. — Quale è dunque la differenza di queste valutazioni così diverse di due oggetti, i quali nel giudizio del semplice gusto appena si disputerebbero la superiorità ?
Noi abbiamo una facoltà del puro Giudizio estetico, cioè la facoltà di giudicare le forme senza concetti, e di trovare, nel semplice giudizio di esse, un piacere del quale facciamo una regola per ciascuno, senza che questo giudizio si fondi su qualche interesse o ne produca alcuno. — Abbiamo d’altra parte una facoltà del Giudizio intellettuale, la quale determina a priori un piacere per le semplici forme delle massime pratiche (in quanto queste costituiscono da se stesse una legislazione universale), e fa di questo piacere una legge per tutti, senza che il giudizio si fondi su qualche interesse, mentre però ne produce uno. Il piacere o dispiacere nel primo giudizio si dice piacere del gusto, il secondo si dice piacere del sentimento morale.
Ma siccome anche interessa la ragione che le idee (per le quali essa produce nel sentimento morale un interesse immediato) abbiano anche realtà oggettiva, vale a dire che la natura mostri almeno qualche traccia, dia qualche cenno di contenere in sé qualche fondamento, pel quale possiamo ammettere un accordo regolare dei suoi prodotti col nostro piacere indipendente da ogni interesse (che noi riconosciamo a priori come legge per tutti, senza poterne dare una dimostrazione); la ragione dovrà prendere interesse per ogni manifestazione della natura che esprima un simile accordo; e per conseguenza l’animo non può riflettere sulla bellezza della natura, senza trovarvisi nello stesso tempo interessato. Ma questo interesse è morale per parentela; e colui che prende interesse al bello della natura non ne sarebbe capace se prima non avesse avuto un interesse ben fondato pel bene morale. Si ha dunque ragione di supporre in colui che s’interessa immediatamente pel bello di natura, almeno una disposizione ai buoni sentimenti morali.
Si dirà che questa interpretazione dei giudizii estetici, per via della parentela col sentimento morale, sembra troppo artificiosa perché possa riguardarsi come la vera spiegazione del linguaggio cifrato col quale la natura ci parla nelle sue forme belle. Ma, in primo luogo, questo interesse pel bello naturale è in realtà poco comune, ed è proprio di coloro il cui carattere o già è educato al bene, o è eminentemente disposto a ricevere questa educazione; e allora l’analogia tra il puro giudizio di gusto che, senza dipendere da alcun interesse, fa sentire un piacere e insieme lo rappresenta a priori come appropriato all’umanità in generale, e il giudizio morale, che fa la stessa cosa in base a concetti, è un’analogia che porta, anche senza una riflessione chiara, sottile e intenzionale, a un ugual interesse immediato per l’oggetto di entrambi; soltanto che il primo interesse è libero, mentre il secondo si basa su leggi oggettive. A ciò si aggiunga l’ammirazione della natura, la quale si rivela come arte nei suoi bei prodotti, non per puro caso, ma quasi con intenzione, secondo un ordine regolare e come finalità senza scopo: questo scopo, poiché non lo troviamo esternamente, lo cerchiamo naturalmente in noi stessi, e in ciò che costituisce lo scopo ultimo della nostra esistenza, cioè nella destinazione morale (ma del fondamento della possibilità di una simile finalità della natura si discorrerà soltanto nella teleologia).
È anche facile mostrare che il piacere per l’arte bella nel giudizio puro di gusto non è legato a un interesse immediato come quello per la bella natura. Perché, difatti, l’arte bella o è un’imitazione, fino all’illusione, della bella natura, e allora fa lo stesso effetto della bellezza naturale (è tenuta per tale); o è un’arte evidentemente diretta con intenzione al nostro piacere; ma allora il piacere per i suoi prodotti starebbe sì immediatamente nel gusto, eppure non vi sarebbe alcun interesse mediato per la causa produttrice, cioè per l’arte, la quale può interessare solo per il suo scopo , non mai per se stessa. Si dirà forse che questo è anche il caso degli oggetti naturali che interessano per la loro bellezza, solo in quanto vi si associa una idea morale; ma non è punto questo che interessa immediatamente; è, invece, il carattere della bellezza naturale in se stessa, ossia la sua attitudine a una tale associazione, che le si addice quindi per ragioni intrinseche. Le attrattive della bella natura, che si trovano spesso come confuse con le belle forme, appartengono o alle modificazioni della luce (nel colorito), o alle modificazioni del rumore (nei suoni). Perché queste son le sole sensazioni, che non danno luogo semplicemente a un sentimento dei sensi, ma permettono anche la riflessione sulla forma di queste modificazioni dei sensi, e contengono come un linguaggio che la natura rivolge a noi, e che sembra avere un senso superiore. Così pare che il color bianco del giglio disponga l’animo all’idea dell’innocenza, e, seguendo l’ordine dei sette colori, dal rosso al violetto, pare che le disposizioni dell’animo siano le seguenti: 1) all’idea della sublimità, 2) dell’ardimento, 3) della franchezza, 4) dell’affabilità, 5) della modestia, 6) della costanza, 7) della tenerezza. Il canto degli uccelli esprime la gioia e la contentezza della loro esistenza. Almeno così noi interpretiamo la natura, siano questi o no i suoi fini. Ma questo interesse che noi prendiamo per la bellezza esige assolutamente che si tratti della bellezza naturale; ed esso scompare non appena ci accorgiamo di essere stati ingannati e che si tratta soltanto dell’arte; al punto che allora anche il gusto non può trovar più niente di bello nell’oggetto, o la vista niente di attraente. Che cosa è più altamente vantato dai poeti se non il canto affascinante dell’usignolo, in un boschetto solitario, in una placida sera estiva, al dolce chiaror della luna? È accaduto, però, qualche volta, che non vi fosse realmente un tal cantore: un ospite allegro, per contentare maggiormente i suoi amici, invitati ai piaceri campestri, li prese in giro, facendo nascondere in un boschetto un furbo ragazzo, che sapesse imitare al naturale quel canto, con una canna od un tubo. Non appena si scoprì l’inganno nessuno volle più udire quel canto, che poco prima era stato tanto piacevole; e così è del canto di qualunque altro uccello. Bisogna che si tratti della natura, o di qualcosa che riteniamo come natura, perché possiamo avere pel bello un interesse immediato; e tanto più se possiamo esigere dagli altri un simile interesse; perché allora, difatti, chiamiamo grossolana ed ignobile la maniera di sentire di quelli che non hanno il sentimento della bella natura (perché così chiamiamo la capacità di interessarsi alla contemplazione della natura), e si attengono al godimento puramente sensuale del mangiare e del bere.
1 ) L’arte si distingue dalla natura come fare (facere) da agire o da operare in generale (agere), e il prodotto o risultato della prima si distingue da quello della seconda come opera (opus) da effetto (effectus).
A rigore non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni. Difatti, sebbene piaccia chiamare opera d’arte anche ciò che producono le api (le cellette di cera regolarmente costruite), ciò si fa soltanto per analogia; non appena ci accorgiamo che esse non fondano il loro lavoro su di una vera riflessione razionale, diciamo che si tratta di un prodotto della loro natura (dell’istinto), e in quanto arte lo attribuiamo soltanto al loro creatore.
Quando, scavando in una palude, si trova, come spesso accade, un pezzo di legno sgrossato, non si dice che esso è un prodotto della natura, ma dell’arte; la sua causa efficiente concepì uno scopo, cui esso deve la sua forma. D’altra parte si vede volentieri dell’arte in tutto ciò che è fatto in modo che la sua rappresentazione dovette essere nella causa prima della realizzazione (come anche nelle api), senza che tuttavia l’effetto debba essere stato proprio pensato come tale dalla causa stessa; ma quando qualche cosa si chiama assolutamente un’opera d’arte, per distinguerla da un effetto della natura, s’intende sempre con ciò un’opera degli uomini.
2) L’arte in quanto abilità dell’uomo è distinta anche dalla scienza (come potere da sapere), come la facoltà pratica dalla teoretica, come la tecnica dalla teoria (l’agrimensura dalla geometria). Ed è perciò che non si chiama propriamente arte tutto ciò che si può fare non appena si sappia ciò che si deve fare e si conosca sufficientemente l’effetto desiderato. Soltanto ciò che, anche quando sia conosciuto perfettamente, non si ha ancora l’abilità per produrlo, appartiene all’arte. Camper12 descrive esattissimamente come dovrebbe essere fatta un’ottima scarpa; ma certamente egli non la sapeva fare*12.
3) L’arte è anche distinta dal mestiere; la prima si chiama liberale, il secondo può esser chiamato mercenario. Si riguarda la prima come se potesse aver esito (riuscita) conforme al fine, soltanto come gioco, cioè come un’occupazione piacevole per se stessa; il secondo invece come un lavoro, cioè come un'occupazione che per se stessa è spiacevole (penosa) ed attrae soltanto pel risultato (per esempio, la ricompensa) che promette, e che quindi può essere imposta con la costrizione. Per giudicare se nella gerarchia delle professioni l’orologiaio debba essere considerato come un artista ed il fabbro come un artigiano, è necessario un altro punto di vista, diverso da quello che assumiamo qui; cioè la proporzione dei talenti che debbono stare a fondamento dell’una o dell’altra professione. Potremmo anche essere condotti ad esaminare se tra le sette cosidette arti liberali ve ne sia qualcuna che andrebbe nel novero delle scienze e qualche altra che potrebbe essere pareggiata ai mestieri; ma di ciò ora non voglio parlare. Non è tuttavia fuor di luogo ricordare che in tutte le arti liberali è pure necessario qualche cosa di costretto, ovvero, come si dice, un meccanismo, senza del quale lo spirito, che nell’arte dev’esser libero e che solo anima l’opera, non acquisterebbe corpo e svaporerebbe interamente (così, per esempio, nella poesia, la proprietà e la ricchezza della lingua, come la prosodia e la ritmica); non è inopportuna questa osservazione, perché parecchi dei nuovi educatori credono di favorire l’arte nel miglior modo, scartando da essa ogni costrizione e mutandola da lavoro in semplice giuoco.
Non v’è una scienza del bello, ma solamente la critica di esso, e non vi son belle scienze, ma soltanto belle arti. Difatti, se vi fosse una scienza del bello, in essa si dovrebbe decidere scientificamente, cioè con argomenti, se una cosa deve essere tenuta per bella o no; così il giudizio sulla bellezza, appartenendo alla scienza, non sarebbe punto un giudizio di gusto. Per ciò che riguarda le belle scienze, è un non senso una scienza che, come tale, dev’essere bella. Perché se ad essa, in quanto scienza, domandassimo una risposta in principii e dimostrazioni, essa ce la darebbe in sentenze di buon gusto (bonmots). — Ciò che ha dato luogo alla comune espressione di belle scienze13 è, senza dubbio, niente altro che questo: si è osservato molto giustamente che nell’arte bella, nella sua completa perfezione, vien richiesta molta scienza, come, per esempio, la conoscenza delle lingue antiche, la lettura degli autori ritenuti classici, la storia, la conoscenza delle antichità, etc.; e poiché queste scienze storiche costituiscono la necessaria preparazione e il fondamento dell’arte bella, ed anche perché in esse è stata compresa la conoscenza stessa dei prodotti delle arti belle (eloquenza e poesia), con uno scambio di parole sono state chiamate esse stesse belle scienze.
Quando l’arte, adeguatamente alla conoscenza di un oggetto possibile, compie soltanto le operazioni necessarie per realizzarlo, essa è meccanica; se, invece, ha per scopo immediato il sentimento di piacere, è estetica. Questa è o arte piacevole o arte bella. È piacevole quando il suo scopo è di far accompagnare il piacere alle rappresentazioni in quanto semplici sensazioni; è bella quando ha per iscopo di accoppiare il piacere alle rappresentazioni come modi di conoscenza.
Le arti piacevoli son quelle dirette unicamente al godimento; tali sono tutte quelle attrattive che possono dilettare una riunione conviviale; come il raccontare piacevolmente, l’impegnare i commensali in una conversazione franca e vivace, il portarli con lo scherzo e col riso ad un certo tono di allegria, in modo che si possa chiacchierare spensieratamente, e nessuno voglia rispondere di ciò che dice, perché si pensa soltanto al divertimento momentaneo, e non a fornire una materia durevole alla riflessione e alla discussione. (Bisogna anche aggiungervi il modo di allestire la tavola in vista del godimento, ed ancora la musica da tavola dei grandi pranzi: una cosa meravigliosa, la quale soltanto con un gradevole rumore deve mantenere negli animi la disposizione allegra, e, senza che nessuno presti la minima attenzione alla sua composizione, favorisca la conversazione libera tra l’uno e l’altro vicino.) A queste arti appartengono anche tutti quei giuochi i quali non offrono altro interesse oltre quello di far passare il tempo.
L’arte bella, invece, è una specie di rappresentazione che ha il suo scopo in se stessa, e nondimeno, pur non avendo altro fine, favorisce la coltura delle facoltà dell’animo sotto il riguardo della socievolezza.
La comunicabilità universale di un piacere implica già nel suo concetto che il piacere stesso non debba essere proprio di godimento, derivando da una semplice sensazione, ma debba dipendere dalla riflessione; e quindi l’arte estetica, in quanto arte bella, è tale che ha per criterio il Giudizio riflettente e non la sensazione.
Davanti a un prodotto dell’arte bella bisogna aver la coscienza che esso è arte e non natura; ma la finalità della sua forma deve apparire libera da ogni costrizione di règole volontarie, come se fosse un prodotto semplice-mente della natura. Su questo sentimento della libertà nel giuoco delle nostre facoltà conoscitive, che dev’essere nel tempo stesso finalistico, riposa quel piacere che solo può essere universalmente comunicato, senza che tuttavia si fondi su concetti. Vedemmo che la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte; l’arte, a sua volta, non può esser chiamata bella se non quando noi, pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura.
Possiamo quindi dire in generale, si tratti della bellezza naturale o artistica, che bello è ciò che piace unicamente nel giudizio (non nella sensazione o per mezzo di un concetto). Ora, l’arte ha sempre lo scopo determinato di produrre qualche cosa. Ma se si trattasse di una semplice sensazione (qualcosa di puramente soggettivo), che dovrebbe essere accompagnata dal piacere, allora questo prodotto piacerebbe nel giudizio soltanto per mezzo di un sentimento risultante dal senso. Se invece lo scopo dell’arte fosse la produzione di un oggetto determinato, questo, una volta che l’arte l’avesse realizzato, piacerebbe soltanto per mezzo di concetti. In entrambi i casi l’arte non piacerebbe nel semplice atto del giudizio, cioè in quanto bella, ma in quanto meccanica.
Sicché la finalità nei prodotti delle arti belle, sebbene sia voluta, deve apparire spontanea; vale a dire, l’arte bella deve presentarsi come natura, sebbene si sappia che è arte. Ma un prodotto dell’arte ha l’apparenza della natura quando sia stata puntualmente ottenuta la conformità alle regole secondo cui soltanto esso può essere ciò che dev’essere, ma senza sforzo, senza che trasparisca la forma scolastica, vale a dire senza che per alcuna traccia si veda che l’artista ebbe la regola sotto gli occhi e le facoltà del suo animo furono inceppate.
Checché ne sia di questa definizione, sia essa semplicemente arbitraria, o adeguata al concetto che comunemente si associa alla parola genio (ciò che dev’esser chiarito nel paragrafo seguente), si può sempre dimostrare in precedenza che, secondo il significato della parola che abbiamo accolto, le arti belle debbono essere necessariamente considerate come arti del genio.
Difatti, ogni arte presuppone delle regole, sul fondamento delle quali ogni produzione che debba essere chiamata artistica, è rappresentata come possibile. Ma il concetto dell’arte bella non permette che il giudizio sulla bellezza del suo prodotto sia derivato da qualche regola che abbia a fondamento un concetto, il quale determini come il prodotto sia possibile. Sicché l’arte bella non può trovare da se stessa la regola secondo cui deve realizzare i suoi prodotti. E poiché senza una regola anteriore un prodotto non può mai chiamarsi arte, bisogna che la natura dia la regola all’arte nel soggetto (mediante la disposizione delle sue facoltà), vale a dire l’arte bella è possibile soltanto come prodotto del genio.
Da ciò si vede quanto segue: 1) Il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata, non un’attitudine particolare a ciò che può essere appreso mediante una regola; per conseguenza, l’originalità è la sua prima proprietà. 2) Poiché vi possono essere anche stravaganze originali, i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari; quindi, benché essi stessi non nati da imitazione, devono tuttavia servire per gli altri a ciò, vale a dire come misura e regola del giudizio. 3) Il genio stesso non può mostrare scientificamente come compie la sua produzione, ma dare la regola in quanto natura; perciò l’autore di un prodotto, che egli deve al proprio genio, non sa esso stesso come le idee se ne trovino in lui, né ha la facoltà di trovarne a suo piacere o metodicamente delle altre, e di fornire agli altri precetti che li mettano in condizione di eseguire gli stessi prodotti. (È perciò, probabilmente, che la parola genio è stata derivata da genius, che significa lo spirito proprio di un uomo, quello che gli è stato dato con la nascita, lo protegge, lo dirige, e dalla cui ispirazione provengono quelle idee originali.) 4) La natura mediante il genio non dà la regola alla scienza, ma all’arte, e a questa soltanto in quanto dev’essere arte bella.
Tutti si accordano nel riconoscere che il genio è da mettere in opposizione assoluta con lo spirito d’imitazione. Ora, poiché l’apprendere non è altro che imitare, la più grande facilità ad apprendere, la più grande capacità, come tale non può far le veci del genio. Se anche qualcuno pensa o immagina da sé, e non si limita a comprendere semplicemente ciò che gli altri hanno pensato, ma inventa qualche cosa nel campo dell’arte e della scienza, tuttavia non si ha una buona ragione per chiamare una tal mente (spesso grande) un genio (in opposizione a chi, non potendo far mai altro che apprendere ed imitare, è detto un pappagallo); perché appunto tutto ciò che egli fa, avrebbe potuto impararlo, giungervi per la via naturale della ricerca e della riflessione secondo regole, e non è specificamente diverso da ciò che si può conseguire con la diligenza e l’imitazione. Così, tutto ciò che Newton ha esposto nella sua immortale opera dei principii della filosofia naturale, per quanto a scoprirlo sia stata necessaria una grande mente, si può bene imparare; ma non si può imparare a poetare genialmente, per quanto possano essere minuti i precetti della poetica, ed eccellenti i modelli. La ragione è questa, che Newton avrebbe potuto, non solo a se stesso, ma ad ogni altro, render visibili ed additare precisamente all’imitazione tutti i suoi passi, dai primi elementi della geometria fino alle grandi e profonde scoperte; ma nessuno Omero o Wieland potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee, ricche di fantasia e dense di pensiero, perché non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo agli altri. Nel campo della scienza il più grande inventore non è dunque diverso dal più travagliato imitatore e discepolo se non per una differenza di grado, ma è specificamente diverso da colui che la natura ha dotato per le arti belle. Questo non significa abbassare il merito di quei grandi uomini, ai quali deve tanto il genere umano, rispetto a quei favoriti della natura che hanno il talento per le belle arti. Appunto perché il talento dei primi è destinato al sempre progressivo perfezionamento delle conoscenze e di tutti i vantaggi che ne derivano, ed anche all’istruzione degli altri nelle conoscenze stesse, essi hanno una grande superiorità su quelli che meritano l’onore di essere chiamati genii; per questi ultimi infatti l’arte deve cessare in qualche punto, perché le sono imposti dei limiti che non può sorpassare, e che verosimilmente ha già raggiunti da lungo tempo e non possono essere allargati; inoltre l’abilità dell’artista non è comunicabile, ma vuole essere data ad ognuno diretta-mente dalla mano della natura, e muore con lui, finché la natura un giorno non dia il dono ad un altro, che non abbia bisogno d’altro che di un esempio per esercitare in modo simile il talento, di cui egli è cosciente.
Se il dono naturale dell’arte (in quanto bella) deve dare la regola, di che specie dovrà essere questa? Essa non può esser racchiusa in una formula per servir da precetto, perché allora il giudizio sul bello sarebbe determinabile mediante concetti; ma la regola deve essere astratta dal fatto, cioè dal prodotto, sul quale gli altri possono saggiare il proprio talento e servirsene come modello, non già da copiare ma da seguire. È difficile spiegare come ciò sia possibile. Le idee dell’artita suscitano idee analoghe nell’allievo, se questi è stato dotato dalla natura di una analoga proporzione delle facoltà dell’animo. I modelli delle belle arti sono perciò l’unico mezzo che trasmetta l’arte alla posterità; il che non potrebbe avvenire mediante semplici descrizioni (in ispecie nel campo delle arti della parola); e anche in queste non possono diventar classici se non i modelli formulati in lingue antiche, morte, e ora conservate soltanto come lingue dotte.
Sebbene vi sia una grande differenza tra l’arte meccanica, come arte semplicemente della diligenza e dello studio, e l’arte bella, in quanto arte del genio, non vi è alcun’arte bella in cui non si trovi qualche cosa di meccanico, che può essere appreso e seguito secondo regole, e quindi qualche cosa di scolastico che costituisce la condizione essenziale dell’arte. Poiché nell’arte bisogna che sia pensato uno scopo; altrimenti i suoi prodotti non si potrebbero attribuire all’arte, e sarebbero un puro effetto del caso. Ma per effettuare uno scopo son necessarie regole determinate, alle quali non è lecito sottrarsi. Ora, poiché l’originalità del talento costituisce un elemento essenziale (ma non il solo) del carattere del genio, alcuni spiriti superficiali credono di non poter mostrar meglio di essere genii brillanti, che sbarazzandosi della costrizione scolastica d’ogni regola, ed immaginando che si faccia miglior figura su di un cavallo furioso che su di un cavallo di maneggio. Il genio non può se non fornire una ricca materia ai prodotti delle belle arti; per lavorarla e darle la forma occorre un talento formato dalla scuola e che sia capace di farne un uso che possa essere approvato dal Giudizio. Ma è qualche cosa di perfettamente ridicolo quando qualcuno parla e decide come un genio in quelle cose che esigono dalla ragione le più laboriose ricerche; e non si sa di chi si debba ridere più, se del ciarlatano che spande tanto fumo intorno a sé che non si possa veder niente chiaramente, ma immaginare quanto si vuole, o del pubblico, il quale crede ingenuamente che la sua incapacità a discernere chiaramente e a comprendere quel capolavoro dell’intelligenza dipenda dal fatto che gli si danno delle nuove verità in grande abbondanza, mentre poi gli pare un lavoro da ciabattino quello che è fatto con le definizioni appropriate e l’esame metodico dei principii.
Per giudicare degli oggetti belli come tali è necessario il gusto; ma per l’arte bella stessa, cioè per la produzione di tali oggetti, è necessario il genio.
Se si considera il genio come un talento per l’arte bella (ciò che è nel significato proprio della parola), e sotto questo rispetto lo si voglia scomporre nelle facoltà che debbono concorrere a costituirlo, è necessario determinare prima esattamente la differenza tra la bellezza naturale, il cui giudizio esige solo del gusto, e la bellezza d’arte, la cui possibilità (che deve anche essere tenuta in conto nel giudizio sugli oggetti dell’arte) esige del genio.
Una bellezza naturale è una cosa bella: la bellezza d’arte è una rappresentazione bella di una cosa.
Per giudicare una bellezza naturale come tale io non ho bisogno di aver prima un concetto di ciò che l’oggetto deve essere; vale a dire, non ho bisogno di conoscerne la finalità materiale (lo scopo), ma la semplice forma, senza conoscenza dello scopo, mi piace per se stessa nel giudizio. Ma se l’oggetto è dato come un prodotto dell’arte, e come tale dev’esser dichiarato bello, poiché l’arte presuppone sempre uno scopo nella sua causa (e nella causalità di questa), bisogna prima appoggiarsi al concetto di ciò che la cosa deve essere; e, poiché l’accordo del molteplice in una cosa in vista di una destinazione interna di essa, in quanto scopo, costituisce la perfezione della cosa stessa; — nel giudizio della bellezza d’arte deve anche esser presa in considerazione la perfezione della cosa che non c’entra affatto nel giudizio d’una bellezza naturale (come tale). — Nel giudizio della bellezza specialmente degli oggetti animati della natura, per esempio, dell’uomo o d’un cavallo, si prende comunemente in considerazione anche la finalità oggettiva; ma allora il giudizio non è più puramente estetico, cioè un semplice giudizio di gusto. La natura non è più giudicata come avente l’apparenza dell’arte, ma in quanto è realmente arte (sebbene sovrumana) e il giudizio teleologico serve a quello estetico da fondamento e da condizione cui questo deve guardare. In tal caso, quando per esempio si dice: «è una bella donna », non si pensa altro che questo: la natura rappresenta bellamente in questa forma gli scopi che essa si propone nel corpo femminile; perché bisogna guardare, oltre che alla semplice forma, ad un concetto, in modo che il giudizio sull’oggetto diventa un giudizio logico ed estetico insieme.
L’arte bella mostra la sua preminenza in questo, che può render belle quelle cose che in natura sono brutte o spiacevoli. Le furie, le malattie, le devastazioni della guerra, e simili, possono essere come cpse dannose molto ben descritte, ed anche rappresentate nei quadri; una sola specie di cose brutte non può essere rappresentata secondo natura, senza che vada distrutto ogni piacere estetico e quindi la bellezza d’arte, cioè quelle che ispirano disgusto. Perché, siccome in questa singolare sensazione, che riposa soltanto sull’immaginazione, l’oggetto è rappresentato come se si imponesse al nostro piacere, e noi però lo respingiamo con forza, la rappresentazione artistica dell’oggetto non si distingue più nella nostra sensazione dalla natura dell’oggetto stesso, e quindi non può essere tenuta per bella. Così la scultura, i cui prodotti quasi possono scambiarsi con quelli della natura, ha escluso dalle sue figurazioni la rappresentazione immediata di oggetti brutti, e non permette di rappresentare semplicemente pel Giudizio estetico, ma solo indirettamente mediante un’interpretazione della ragione, per via di allegorie o di attributi piacevoli, certi temi, come per esempio la morte (che essa converte in un bel genio) e lo spirito della guerra (di cui ha fatto Marte).
E tanto basti per la bella rappresentazione di un oggetto, che propriamente non è altro che la forma dell’esibizione di un concetto, il quale in tal modo è comunicato universalmente. — Ma per dare questa forma ai prodotti delle belle arti non è necessario che del gusto, col quale l’artista, quando lo abbia esercitato e corretto per mezzo di numerosi esempii dell’arte o della natura, giudica la sua opera, e, dopo molti tentativi spesso laboriosi, trova quella forma che lo soddisfa: perciò questa forma non è cosa dell’ispirazione o di un libero slancio delle facoltà dell’animo, ma di un lungo e anche penoso processo di perfezionamento, volto a adeguare la forma al concetto, senza recar tuttavia pregiudizio al libero gioco delle facoltà dell’animo.
Ma il gusto è semplicemente una facoltà di giudicare, non una facoltà produttiva; e ciò che è adeguato ad esso, non è solo per questo un’opera d’arte bella; può essere un prodotto dell’arte utile e meccanica o anche della scienza, che sia l’effetto di regole determinate, le quali possono essere apprese e debbono essere rigorosamente seguite. Ma la forma piacevole che le si dà è soltanto il mezzo di comunicarla e un modo di presentarla, rispetto al quale si ha ancora una certa libertà, sebbene si sia legati ad uno scopo determinato. Così si richiede che un servizio da tavola, o anche un trattato morale, e perfino una predica, abbiano questa forma dell’arte bella, senza che vi sembri voluta; ma non si chiamano perciò opere d’arte bella. Si considerano tali, invece, un poema, una musica, una galleria di quadri, e simili; e in un’opera, che dev’essere tenuta come appartenente alle arti belle, si trova spesso del genio senza gusto, o del gusto senza genio.
Si dice di certi prodotti che dovrebbero mostrarsi, almeno in parte, come appartenenti alle arti belle, che esse sono senza anima14, sebbene per ciò che concerne il gusto non vi si trovi niente da biasimare. Una poesia può essere molto garbata ed elegante, ma è senz’anima. Una storia è esatta ed ordinata, ma senz’anima. Un discorso solenne è solido e ornato insieme, ma senz’anima. Molte conversazioni non sono senza interesse, ma senz’anima; perfino d’una donna si dice che è bella, affabile e graziosa, ma senz’anima. Che cosa si vuol dunque intendere con la parola anima?
Anima nel significato estetico è il principio vivificante dell’animo. Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è ciò che dà uno slancio armonico alle facoltà dell’animo, e le pone in un giuoco che si alimenta da sé e fortifica le facoltà stesse da cui risulta.
Ora io sostengo che questo principio non è altro che la facoltà di esibizione delle idee estetiche; dove per idee estetiche intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o un concetto possa esser loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili. — Si vede di leggieri che esse sono il corrispondente (pendant) delle idee della ragione, le quali sono invece concetti cui nessuna intuizione (rappresentazione dell’immaginazione) può essere adeguata.
L’immaginazione (come facoltà di conoscere produttiva) ha una grande potenza nella creazione di un’altra natura tratta dalla materia che le fornisce la natura reale. Noi ci divertiamo con essa, quando l’esperienza ci par troppo banale; trasformandola, sempre, è vero, secondo leggi analogiche, ma anche secondo principii che hanno la loro più alta origine nella ragione (e che ci son naturali proprio come quelli con cui l’intelletto comprende la natura empirica); e così facendo noi sentiamo la nostra indipendenza dalla legge dell’associazione (la quale è inerente all’uso empirico dell’immaginazione), perché se, secondo essa, caviamo la materia dalla natura, la elaboriamo però in vista di qualcos’altro, vale a dire di ciò che trascende la natura.
Si possono chiamare idee queste rappresentazioni dell’immaginazione; sia perché esse tendono, almeno, a qualcosa che sta al di là dei limiti dell’esperienza, e cercano così di approssimarsi a un’esibizione dei concetti della ragione (delle idee intellettuali), ciò che dà loro un’apparenza di realtà oggettiva; e sia perché, ciò che è capitale, nessun concetto può essere loro completamente adeguato (in quanto intuizioni interne). Il poeta osa render sensibili idee razionali di esseri invisibili, il regno dei beati, il regno infernale, l’eternità, la creazione, e simili; o anche trasporta ciò, di cui trova i modelli nell’esperienza, come per esempio la morte, l’invidia e tutti i vizii, l’amore, la gloria, etc., al di là dei limiti dell’esperienza con un’immaginazione che gareggia con la ragione nel conseguimento di un massimo, rappresentando tutto ciò ai sensi con una perfezione di cui la natura non dà nessun esempio; ed è propriamente nella poesia che la facoltà delle idee estetiche può mostrarsi in tutto il suo potere. Ma questa facoltà, considerata soltanto in se stessa, non è propriamente altro che un talento (dell’immaginazione).
Ora, se si sottopone ad un concetto una rappresentazione dell’immaginazione, che appartenga alla sua esibizione, ma che per se stessa dia tanta occasione a pensare da non lasciarsi mai racchiudere in un concetto determinato, e quindi estenda esteticamente il concetto stesso in un modo illimitato; l’immaginazione è in tal caso creatrice, e pone in moto la facoltà delle idee intellettuali (la ragione), facendola così pensare, all’occasione di una rappresentazione (ciò che appartiene bensì al concetto dell’oggetto), più di quanto in essa possa essere compreso e pensato chiaramente.
Quelle forme, che non costituiscono da sé l’esibizione di un concetto dato, ma, in quanto rappresentazioni secondarie dell’immaginazione, esprimono soltanto le conseguenze che vi si legano e l’affinità di quel concetto con altri concetti, son chiamate attributi (estetici) di un oggetto, il cui concetto, in quanto idea della ragione, non può essere esibito adeguatamente. Così l’aquila di Giove con la folgore tra gli artigli è un attributo del potente re del cielo, e il pavone della splendida regina del cielo. Essi non rappresentano, come gli attributi logici, ciò che è noi nostri concetti della sublimità e maestà della creazione, ma qualcos’altro; il che dà occasione all’immaginazione di estendersi su di una quantità di rappresentazioni affini, le quali danno più da pensare di quanto si possa esprimere in un concetto determinato per via di parole; e danno una idea estetica, la quale tien luogo dell’esibizione logica di quell’idea razionale, ma propriamente per vivificare l’animo, aprendogli una vista su di un campo smisurato di rappresentazioni affini. Ma le belle arti non procedono in tal modo soltanto nella pittura e nella scultura (per cui si usa comunemente il termine di attributi); anche la poesia e l’eloquenza traggono lo spirito che anima le loro opere unicamente dagli attributi estetici degli oggetti, i quali accompagnano gli attributi logici, e danno uno slancio all’immaginazione, fornendo più da pensare (sebbene confusamente) di quanto si può racchiudere in un concetto, e quindi in una determinata espressione verbale. — Mi limiterò, per brevità, a pochi esempii.
Quando il gran Re si esprime così in una delle sue poesie15:
Oui, finissons sans trouble et mourons sans regrets,
En laissant l’univers comblé de nos bienfaits:
Ainsi l’astre du jour au bout de sa carrière,
Répand sur l’horizon une douce lumière;
Et les derniers rayons qu’il darde dans les airs,
Sont les derniers soupirs qu’il donne à l’univers;
egli anima la sua idea razionale di un sentimento cosmopolitico anche presso la fine della vita, mediante un attributo che l’immaginazione associa a quella rappresentazione (nel ricordo di tutte le gioie di una bella giornata estiva giunta al termine, richiamate alla nostra mente dalla serenità della sera), e che suscita una quantità di sensazioni e di rappresentazioni secondarie, alle quali non si trova alcuna espressione. D’altra parte, perfino un concetto intellettuale può servire da attributo ad una rappresentazione dei sensi e avvivarla con l’idea del soprasensibile, ma non si adopera per questo uso se non l’elemento estetico, che è inerente soggettivamente alla coscienza del soprasensibile. Così, per esempio, nella descrizione di un bel mattino, un certo poeta dice: « Il sole sorgeva, come la pace sorge dalla virtù ». La coscienza della virtù, se anche uno si metta soltanto col pensiero al posto di un uomo virtuoso, spande nell’anima una quantità di sentimenti sublimi e calmi; ed apre una veduta sconfinata su di un avvenire felice, che non può esser reso interamente da alcuna espressione adeguata ad un concetto determinato*13.
In una parola, l’idea estetica è una rappresentazione dell’immaginazione associata ad un concetto dato, la quale, nel libero uso dell’immaginazione, è legata con tale quantità di rappresentazioni parziali, che non si potrebbe trovare per essa nessuna espressione che designi un concetto determinato; e quindi una rappresentazione che dà luogo a pensare in un concetto molte cose inesprimibili, di cui il sentimento vivifica le facoltà conoscitive e dà lo spirito alla parola in quanto semplice lettera.
Le facoltà dell’animo, la cui unione (in un certo rapporto) costituisce il genio, sono dunque l’immaginazione e l’intelletto. Soltanto che l’immaginazione, quando serve alla conoscenza, è sottoposta alla costrizione dell’intelletto e alla limitazione d’essere adeguata al concetto, mentre dal punto di vista estetico essa è libera, ed oltre all’accordarsi col concetto, fornisce spontaneamente all’intelletto una materia ricca e non definita, che esso non conteneva nel concetto, che però adopera, non oggettivamente in vista della conoscenza, ma soggettivamente ad animare le facoltà conoscitive, e quindi indirettamente anche a vantaggio della conoscenza; sicché il genio consiste propriamente in quella felice disposizione, — che nessuna scienza può insegnare e nessun esercizio può raggiungere, — per la quale si trovano idee per un concetto dato, e d’altra parte si trova per esse l’espressione giusta con cui si può comunicare agli altri lo stato d’animo che ne risulta, in quanto accompagnamento del concetto medesimo. È a quest’ultimo talento che si dà propriamente il nome di anima; perché per esprimere ciò che è inesprimibile nello stato d’animo in cui ci mette una certa rappresentazione, e per renderlo comunicabile universalmente, — sia l’espressione verbale, pittorica o plastica — è necessaria una facoltà che colga a volo il rapido giuoco dell’immaginazione, e lo unisca ad un concetto che si possa comunicare senza la costrizione delle regole (a un concetto che appunto perciò è originale, e rivela nel tempo stesso una nuova regola, che non si è potuta derivare da nessun principio od esempio anteriore).
Se ora, dopo questa analisi, ritorniamo sulla definizione che si è data sopra del genio, troveremo: 1) che esso è un talento per l’arte, non per la scienza, nella quale il procedimento deve essere stabilito su regole conosciute chiaramente in precedenza; 2) che esso, come talento artistico, presuppone un concetto determinato del prodotto come scopo, e per conseguenza l’intelletto, ma anche una rappresentazione (sebbene indeterminata) della materia, cioè dell’intuizione che serve all’esibizione di quel concetto, e quindi un rapporto dell’immaginazione con l’intelletto; 3) che esso si rivela meno nel conseguire lo scopo prefisso, nell’esibizione d’un concetto determinato che nella rappresentazione o espressione di idee estetiche, le quali contengono una ricca materia per quello scopo, e quindi nel rappresentare l’immaginazione nella sua indipendenza dalla costrizione delle regole, ma nella sua finalità rispetto all’esibizione del concetto dato; 4) che finalmente la finalità soggettiva, spontanea, inintenzionale nel libero accordo dell’immaginazione con la legalità dell’intelletto, presuppone una tale proporzione e disposizione di queste facoltà, che nessuna osservanza di regole, sia della scienza, sia dell’imitazione meccanica, può produrre, ma che soltanto la natura del soggetto può far nascere.
Posto ciò, il genio è l’originalità esemplare del talento di un soggetto nel libero uso delle sue facoltà di conoscere. In tal modo il prodotto di un genio (in ciò che è da attribuirsi appunto al genio, e non allo studio o alla scuola) è per un altro genio un esempio, non da imitare (perché nell’imitazione va perduto ciò che è dovuto al genio e costituisce l’anima dell’opera), ma da seguire; esso risveglia in quest’altro genio il sentimento dell’originalità, e lo spinge ad esercitare quindi nell’arte la sua indipendenza dalle regole, sicché l’arte acquista una nuova regola mediante la quale il talento si dimostra esemplare. Ma, poiché il genio è un privilegiato della natura, e la sua apparizione è da ritenersi rara, il suo esempio produce per gli uomini ben dotati una scuola, ovvero un insegnamento metodico secondo le regole che si possono trarre dalle opere vive del genio e dalla loro originalità; e così per questi seguaci l’arte bella è un’imitazione di cui la natura dà la regola per via del genio.
Ma questa imitazione diventa contraffazione, quando lo scolaro imita tutto, finanche quei punti difettosi che il genio ha dovuto lasciar nell’opera soltanto perché, senz’essi, l’idea ne sarebbe rimasta indebolita. Questo coraggio è un merito per un genio; ed una certa audacia nell’espressione, e in generale certe deviazioni dalle regole comuni convengono al genio, ma non son degne d’essere imitate; son sempre difetti, che bisogna cercar di evitare, e solo il genio è privilegiato rispetto ad essi, perché ciò che in lui è dovuto allo slancio originale soffrirebbe da una scrupolosa circospezione. La maniera è un’altra specie di contraffazione, la quale consiste nell’imitazione dell’originalità in generale, per allontanarsi per quanto è possibile dagli imitatori, senza però possedere il talento di essere per se stesso esemplare. — Nell’esporre vi sono in generale due modi di comporre i proprii pensieri, di cui uno si chiama maniera (modus aestheticus) e l’altro metodo (modus logicus), i quali differiscono in questo, che il primo ha come misura soltanto il sentimento dell’unità nella esibizione, il secondo invece segue principii determinati. Per l’arte bella vale solo il primo modo. Ma un’opera d’arte si dice manierata solo quando l’esposizione dell’idea che vi è contenuta mira alla singolarità e non è adeguata all’idea stessa. Il prezioso, il ricercato, l’affettato, per distinguersi dal comune (ma senz’anima), somigliano ai modi di colui del quale si dice che sta ad ascoltare se stesso, o che si muove come se fosse sulla scena a esser guardato a bocca aperta, — il che è sempre indizio di stupidità.
Il gusto, come il Giudizio in generale, è la disciplina (l’educazione) del genio; gli ritaglia le ali e lo rende costumato e polito; ma nel tempo stesso gli dà una guida, motrandogli dove e fin a che punto possa estendersi per non smarrirsi; e, portando chiarezza e ordine nella massa dei pensieri, dà consistenza alle idee, facendole insieme degne di un consenso durevole ed universale, d’esser seguite dagli altri, e di concorrere a una sempre progressiva cultura. Sicché, se qualcosa dovesse sacrificarsi nell’opposizione tra le due qualità in una opera, ciò dovrebbe avvenire piuttosto dal lato del genio; e il Giudizio, che fa appello ai proprii principii in cose delle belle arti, permetterà piuttosto di derogare alla libertà e alla ricchezza dell’immaginazione, che non all’intelletto.
Le belle arti esigono dunque immaginazione, intelletto, anima e gusto*14.
Si può dire in generale che la bellezza (della natura o dell’arte) è l’espressione di idee estetiche; con questa differenza, che nell’arte bella quest’idea può essere occasionata da un concetto dell’oggetto, mentre nella bella natura è sufficiente la semplice riflessione su di una intuizione data, senza il concetto di ciò che l’oggetto deve essere, per suscitare e comunicare l’idea di cui l’oggetto è considerato come l’espressione.
Se dunque vogliamo fare una divisione delle belle arti, non possiamo scegliere, almeno a titolo di prova, nessun principio più comodo di quello dell’analogia dell’arte con quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto perfettamente è possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni*15. — Questa specie di espressione consiste nella parola, nel gesto e nel tono (articolazione, gesticolazione e modulazione). Soltanto l’unione di queste tre specie di espressioni costituisce la perfetta comunicazione di quelli che parlano. Perché in tal modo pensiero, intuizione e sensazione sono trasmessi agli altri uniti e nello stesso tempo.
Sicché non vi sono che tre specie di arti belle: 1’ a r t e della parola, l’arte figurativa e l’arte del giuoco delle sensazioni (come impressioni sensibili esterne). Si potrebbe anche condurre questa divisione dicotomicamente, distinguendo le belle arti in quelle che esprimono il pensiero e quelle che esprimono l’intuizione; quest’ultime secondo la forma o la materia (della sensazione). Soltanto che tale divisione sembrerebbe troppo astratta e non conforme ai concetti usuali.
1 ) Le arti della parola sono l’eloquenza e la poesia. L’eloquenza è l’arte di trattare un compito dell’intelletto come se fosse un libero giuoco dell’immaginazione; la poesia è l’arte di dare ad un libero giuoco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto.
Così l’oratore promette qualche cosa di serio, e l’esegue come se fosse un semplice giuoco d’idee per divertire gli spettatori. Il poeta annunzia semplice-mente un piacevole giuoco d’idee, ed ha tuttavia tanta efficacia sull’intelletto come se non avesse avuto altro intento che di occuparsi di esso. L’unione e l’armonia di queste due facoltà, la sensibilità e l’intelletto, che non possono star l’una senza dell’altra ma che non si lasciano riunire senza sforzo e danno reciproco, debbono essere spontanee e mostrare di essersi formate da sé; altrimenti non si tratterebbe più di un’arte bella. Perciò tutto ciò che rivela la ricerca e il travaglio dev’essere evitato, perché le belle arti devono esser libere in questo doppio significato: non sono un lavoro mercenario, che si possa giudicare alla stregua di una data misura, imporre e pagare; e poi l’animo trova in esse un’occupazione, ma si sente eccitato e soddisfatto senza riguardo a qualche altro scopo (indipendentemente dalla ricompensa).
L’oratore dà dunque qualche cosa che non aveva promesso, cioè un giuoco piacevole dell’immaginazione; ma egli toglie anche qualcosa a ciò che aveva promesso e che era il suo compito annunziato, occupare adeguatamente l’intelletto. Il poeta al contrario promette poco ed annunzia un semplice giuoco d’idee, mentre poi fornisce qualche cosa degna di seria occupazione, con l’alimentare, giocando, l’intelletto, e animarne i concetti con l’immaginazione. Per conseguenza il primo mantiene, in fondo, meno di quello che promette, e il secondo più.
2) Le arti figurative o quelle che esprimono delle idee per mezzo dell’intuizione sensibile (non mediante le rappresentazioni della semplice immaginazione, che vengono suscitate dalla parola) sono o quella che rappresenta la verità sensibile o quella che rappresenta l’apparenza sensibile. La prima si chiama plastica, la seconda pittura. Entrambe rappresentano figure nello spazio per la epressione di idee; la prima fa le figure percettibili per due sensi, la vista e il tatto (sebbene per quest’ultimo non abbia per scopo la bellezza), e la seconda solo per la vista. L’idea estetica (l’archetipo, il modello) sta a fondamento di entrambe nell’immaginazione; ma la figura che ne costituisce l’espressione (l’ectipo, la copia) è data o nella sua estensione materiale (come esiste l’oggetto stesso reale), o come si disegna all’occhio (secondo la sua apparenza in una superficie); e, nel primo caso, o vien posto per condizione alla riflessione il rapporto con uno scopo reale, o soltanto l’apparenza di tale scopo.
Alla plastica, in quanto prima specie di belle arti figurative, appartengono la scultura e l’architettura. La prima è quella che esibisce materialmente concetti di cose come potrebbero esistere in natura (però, come arte bella, con riguardo alla finalità estetica); la seconda è l’arte di esibire concetti di cose che son possibili solo nell’arte e la cui forma non ha il suo principio determinante nella natura, ma in un fine dell’arbitrio, — nel perseguire il quale l’arte deve però raggiungere anche una finalità estetica. In questa seconda arte il fine principale è un certo uso dell’oggetto artistico, che, come condizione, pone un limite alle idee estetiche. Nella prima, lo scopo principale è la pura espressione di idee estetiche. Così appartengono alla scultura le statue di uomini, dei, animali, etc.; e invece appartengono all’architettura i tempii, gli edifizii destinati a riunioni pubbliche, ed anche le abitazioni, gli archi di trionfo, le colonne, i mausolei, e simili ricordi monumentali, potendosi anche aggiungervi i mobili (i lavori da falegname e simili utensili); perché l’essenziale di un’opera architettonica è la sua adeguatezza ad un certo uso; laddove un’opera puramente plastica, che è fatta unicamente per l’intuizione e deve piacere per se stessa, è, come rappresentazione corporea, una semplice imitazione della natura, in vista tuttavia di idee estetiche, e in cui la verità sensibile non deve essere spinta tant’oltre, da perdere l’aspetto di arte e di prodotto dell’arbitrio.
La pittura, come seconda specie delle arti figurative, che rappresenta l’apparenza sensibile congiunta per via dell’arte con le idee, la dividerei nell’arte di ritrarre bellamente la natura e quella di comporre bellamente i suoi prodotti. La prima sarebbe la pittura propriamente detta e la seconda il giardinaggio. La prima, difatti, non dà se non l’apparenza dell’estensione corporea: la seconda dà questa estensione nella sua realtà, è vero, ma presenta solo l’apparenza di un’utilità e di un uso per altri scopi, oltre il semplice giuoco dell’immaginazione, per mezzo della contemplazione delle forme*16 . Il giardinaggio non è altro che l’abbellimento del suolo per mezzo di quella stessa varietà che la natura offre all’intuizione (prati, fiori, cespugli ed alberi, ed anche le acque, colline e valli), ma combinata diversamente e conformemente a certe idee. Senonché la bella composizione delle cose corporee è fatta soltanto per la vista, come la pittura, e il senso del tatto non può fornire alcuna rappresentazione intuitiva di una tale forma. Alla pittura in senso largo io attribuirei anche la decorazione delle stanze con tappezzerie, e ogni bel mobile, che serva unicamente alla vista; così l’arte del vestire con gusto (anelli, tabacchiere, etc). Perché un’aiuola di diverse specie di fiori, una stanza con molti ornamenti (compresi gli abbigliamenti delle signore), costituiscono in una festa sontuosa una specie di quadro, che, come i quadri propriamente detti (che non hanno lo scopo d’insegnare la storia, o la conoscenza della natura), stanno lì soltanto per esser mirati, per mantenere l’immaginazione in libero giuoco con le idee, ed occupare il Giudizio estetico senza uno scopo determinato. Il lavoro per tutti questi ornamenti potrà essere, dal punto di vista meccanico, differentissimo, e differentissimi gli artisti richiesti a compirlo; ma il giudizio di gusto è determinato in un sol modo da ciò che vi è di bello in quest’arte; cioè non è diretto se non a giudicare le forme (senza riguardo a veruno scopo), così come si presentano all’occhio, isolatamente o nel loro complesso, secondo l’effetto che fanno sull’immaginazione. — Ma che le arti figurative possano corrispondere (secondo l’analogia) al gestire che fa parte del linguaggio, è giustificato da ciò, che l’anima dell’artista dà un’espressione materiale, mediante le sue figure, a ciò che ha pensato, e al modo in cui l’ha pensato, e fa parlare la cosa stessa quasi mimicamente; ed è questo un giuoco comunissimo della nostra fantasia, la quale suppone un’anima nelle cose inanimate, in corrispondenza della loro forma, e che ci parli dalle cose medesime.
3) L’arte del bel giuoco di sensazioni (che son prodotte dal di fuori), — il quale giuoco deve tuttavia essere comunicabile universalmente, — non può riguardare se non la proporzione dei diversi gradi della disposizione (tensione) del senso cui le sensazioni appartengono, cioè il tono di questo senso; e, così largamente intesa, tale arte si può dividere nel giuoco artistico delle sensazioni auditive, e di quelle visive, per conseguenza in musica e colorito. — È un fatto degno di nota che questi due sensi, oltre la capacità che hanno per le impressioni richieste ad acquistare il concetto degli oggetti esterni, sono ancora capaci di una sensazione particolare, congiunta a quelle impressioni, della quale non si può veramente decidere se ha il suo fondamento nel senso o nella riflessione; e che questa affettibilità 1 possa mancare qualche volta, sebbene il senso non sia difettoso, ed anzi sia squisito per ciò che concerne il suo uso nella conoscenza degli oggetti. Il che significa che non si può dire con certezza se un colore e un suono siano semplici sensazioni piacevoli, o siano già in se stessi un bel giuoco di sensazioni e quindi contengano, in quanto giuoco, un piacere per la loro forma nel giudizio estetico. Se si pensa alla rapidità delle vibrazioni della luce o, nel secondo caso, dell’aria, la quale verosimilmente supera di molto la nostra facoltà di giudicare immediatamente, nella percezione, la proporzione della divisione del tempo mediante le vibrazioni stesse; si dovrebbe credere che da noi sia loro complesso, secondo l’effetto che fanno sull’immaginazione. — Ma che le arti figurative possano corrispondere (secondo l’analogia) al gestire che fa parte del linguaggio, è giustificato da ciò, che l’anima dell’artista dà un’espressione materiale, mediante le sue figure, a ciò che ha pensato, e al modo in cui l’ha pensato, e fa parlare la cosa stessa quasi mimicamente; ed è questo un giuoco comunissimo della nostra fantasia, la quale suppone un’anima nelle cose inanimate, in corrispondenza della loro forma, e che ci parli dalle cose medesime.
3) L’arte del bel giuoco di sensazioni (che son prodotte dal di fuori), — il quale giuoco deve tuttavia essere comunicabile universalmente, — non può riguardare se non la proporzione dei diversi gradi della disposizione (tensione) del senso cui le sensazioni appartengono, cioè il tono di questo senso; e, così largamente intesa, tale arte si può dividere nel giuoco artistico delle sensazioni auditive, e di quelle visive, per conseguenza in musica e colorito. — È un fatto degno di nota che questi due sensi, oltre la capacità che hanno per le impressioni richieste ad acquistare il concetto degli oggetti esterni, sono ancora capaci di una sensazione particolare, congiunta a quelle impressioni, della quale non si può veramente decidere se ha il suo fondamento nel senso o nella riflessione; e che questa affettibilità17 possa mancare qualche volta, sebbene il senso non sia difettoso, ed anzi sia squisito per ciò che concerne il suo uso nella conoscenza degli oggetti. Il che significa che non si può dire con certezza se un colore e un suono siano semplici sensazioni piacevoli, o siano già in se stessi un bel giuoco di sensazioni e quindi contengano, in quanto giuoco, un piacere per la loro forma nel giudizio estetico. Se si pensa alla rapidità delle vibrazioni della luce o, nel secondo caso, dell’aria, la quale verosimilmente supera di molto la nostra facoltà di giudicare immediatamente, nella percezione, la proporzione della divisione del tempo mediante le vibrazioni stesse; si dovrebbe credere che da noi sia sentito soltanto il loro effetto sulle parti elastiche del nostro corpo, ma che non sia avvertita e presente nel giudizio la divisione del tempo da esse compiuta, e perciò che ai colori e ai suoni sia congiunto soltanto il piacevole, non la bellezza della loro composizione. Ma se invece si pensa, in primo luogo, all’elemento matematico che si può trovare nella proporzione di quelle vibrazioni nella musica e nel giudizio nostro su di essa, e si considera, com’è giusto, la divisione dei colori secondo l’analogia con la musica; se, in secondo luogo, si ricordano gli esempii, sebbene rari, di uomini che con la miglior vista del mondo non sapevano discernere i colori, o con l'udito più acuto i suoni, laddove, per quelli che hanno questa facoltà, son percepibili le variazioni qualitative (non soltanto i gradi della sensazione), nei diversi gradi di una scala di suoni o di colori, ed anzi il numero delle variazioni è determinato per differenze intelligibili; si potrebbe vedersi obbligati a riguardare le sensazioni dei due sensi, non come semplici impressioni sensibili, ma come l’effetto di un giudizio della forma nel giuoco di molte sensazioni. Secondo che si adotterà luna o l’altra opinione nel giudicare del principio della musica, ne sarà diversa la definizione, e la si definirà come noi abbiamo fatto, quale un bel giuoco di sensazioni (dell’udito) oppure come un giuoco di sensazioni piacevoli. Soltanto secondo la prima definizione la musica è considerata come arte bella senz’altro, e invece con la seconda è considerata (almeno in parte ) come un’arte piacevole.
L’eloquenza può essere unita con una rappresentazione pittorica dei suoi soggetti e dei suoi oggetti in un dramma; la poesia con la musica nel canto, il canto a sua volta con la pittura (teatrale) in un’opera; il giuoco delle sensazioni musicali col giuoco delle figure nella danza; etc. Anche la rappresentazione del sublime, in quanto appartiene alle belle arti, si può unire con la bellezza in una tragedia in rima, in un poema didascalico, in un oratorio; e in queste unioni l’arte bella appare ancor maggiormente arte; ma in alcuni casi è dubbio se essa ne guadagni anche in bellezza (dal momento che vi s’intersecano tante diverse specie di piacere). In tutte le belle arti però l’essenziale sta nella forma, che è finale per la contemplazione e il giudizio, e produce un piacere che è nel tempo stesso una cultura, e dispone lo spirito alle idee, rendendolo capace ancora di molti piaceri e trattenimenti simili; l’essenziale non è la materia della sensazione (l’attrattiva o l’emozione), la quale non produce se non il godimento, da cui niente risulta in favore dell’idea, ottunde lo spirito, rende a poco a poco noioso l’oggetto e l’animo, cosciente di uno stato che contrasta al giudizio razionale, scontento di se stesso e disgustato.
È questa la sorte che attende infine le arti belle, quando non siano più o meno strettamente legate con idee morali, le quali soltanto danno un piacere per sé stante 18. Diventano allora semplicemente una specie di distrazione, di cui si ha tanto più bisogno quanto più se ne usa, per dissipare l’intima scontentezza dell’animo, facendosi sempre più disutile e scontento di se medesimo. In generale, son le bellezze naturali le più confacenti a quel primo scopo, quando si sia già di buon’ora abituati a contemplarle, giudicarle ed ammirarle.
Tra le belle arti il primo posto spetta alla poesia (che deve quasi interamente al genio la sua origine, e meno di tutte si lascia guidare da precetti od esempli). Essa allarga l’animo mettendo l’immaginazione in libertà; e, tra l’infinita varietà di forme che possono accordarsi con un concetto dato, presenta quella che congiunge l’esibizione del concetto con una quantità di pensieri, cui nessuna espressione verbale è pienamente adeguata; e si eleva così esteticamente alle idee. Essa fortifica l’animo, facendogli sentire quella sua facoltà libera, spontanea ed indipendente dalle condizioni naturali, con la quale considera e giudica la natura come fenomeno, — secondo vedute che questa non presenta da sé, nell’esperienza, né al senso né all’intelletto, — e l’usa in servigio del soprasensibile, quasi come uno schema di questo. La poesia giuoca con l’apparenza che produce a suo piacere, senza però ingannare; perché essa dichiara un semplice giuoco la sua stessa occupazione, la quale nondimeno può essere usata finalisticamente dall’intelletto per i suoi compiti. — L’eloquenza, quando s’intenda come l’arte di persuadere, ossia di abbindolare con una bella apparenza (ars oratoria), e non la semplice arte del dire (eloquenza e stile), è una dialettica, che non si allontana dalla poesia se non quanto è necessario per guadagnare gli animi all’oratore e toglier loro la libertà; sicché non si può consigliare né pel tribunale né per la cattedra. Perché quando si tratta delle leggi civili e del diritto delle singole persone, o quando si tratta di istruire e indirizzare durevolmente gli animi alla retta conoscenza e coscienziosa osservanza del loro dovere, è indegno di un compito così importante il lasciare scorgere anche una traccia di lusso di spirito e d’immaginazione, e ancor più dell’arte di persuadere e di predisporre gli animi a favore di qualcuno. Perché questa, sebbene possa essere usata talvolta per fini legittimi e lodevoli, diventa riprovevole quando corrompe soggettivamente le massime e le intenzioni, sebbene oggettivamente il fatto sia conforme alla legge; giacché non basta fare ciò che è giusto, ma bisogna farlo soltanto perché è giusto. E, d’altra parte, il semplice concetto chiaro di questa specie di interessi umani, esposto vivacemente con esempii, senza urtare contro le regole dell’armonia della lingua e la convenienza dell’espressione, ha già per se stesso sufficiente influsso sugli animi umani circa le idee della ragione (le quali pure contribuiscono all’eloquenza), perché non sia necessario mettere in moto anche le macchine della persuasione; le quali, potendo anche essere adoperate per abbellire o nascondere il vizio o l’errore, non possono impedire del tutto il segreto sospetto di qualche insidia dell’arte. Nella poesia tutto procede lealmente e sinceramente. Essa si presenta come diretta a produrre un semplice giuoco che intrattiene l’immaginazione, d’accordo, per la forma, con le leggi dell’intelletto; non vuol sorprendere e irretire l’intelletto con la rappresentazione sensibile*17.
Dopo la poesia, se si guarda all’attrattiva e all’emozione dell’animo, io porrei quell’arte che ad essa, tra le arti della parola, è più prossima, e ad essa molto naturalmente si può congiungere, cioè la musica. Perché, sebbene quest’arte parli per mere sensazioni, senza concetti, e quindi non lasci qualcosa alla riflessione, come la poesia, essa commuove lo spirito più variamente, e più intimamente, sebbene solo con effetto passeggierò; ma essa è piuttosto godimento che coltura (il giuoco di pensieri che suscita, è l’effetto di una associazione quasi meccanica) e, giudicata dalla ragione, ha minor valore di qualunque altra delle arti belle. Perciò, come ogni godimento, essa abbisogna di frequente varietà, e non sopporta d’esser ripetuta varie volte, senza produrre noia. La sua attrattiva, che si comunica così universalmente, pare che riposi su questo: — ogni espressione del linguaggio ha, nel contesto, un tono appropriato al suo significato; — questo tono mostra più o meno un affetto di colui che parla, e reciprocamente la produce anche in colui che ascolta, suscitando in lui, col processo inverso, l’idea che nella lingua è espressa con tale tono; — e siccome la modulazione è quasi una lingua universale delle sensazioni comprensibile da ogni uomo, la musica l’usa per sé sola e in tutta la sua energia, cioè come linguaggio degli affetti, e così, secondo la legge dell’associazione, comunica universalmente le idee estetiche che vi sono naturalmente congiunte; — per altro, giacché quelle idee estetiche non sono concetti e pensieri determinati, è solo la forma della composizione di queste sensazioni (armonia e melodia), invece della forma linguistica, che, mediante un accordo proporzionato delle sensazioni stesse (il quale accordo nei suoni, riposando sul rapporto del numero delle vibrazioni dell’aria nello stesso tempo, in quanto i suoni sono riuniti simultaneamente o successivamente, può esser ridotto matematicamente sotto regole determinate) serve ad esprimere l’idea estetica di una totalità coerente di una quantità inesprimibile di pensieri, conformemente ad un certo tema, il quale costituisce l’affetto dominante del pezzo. Solo da questa forma matematica, sebbene non sia rappresentata da concetti determinati, dipende il piacere, che congiunge la semplice riflessione su tale quantità di sensazioni simultanee e successive col loro giuoco, come una condizione universalmente valida della sua bellezza, e solo per questa forma il gusto può attribuirsi qualche dritto anticipato sul giudizio di ognuno.
Ma certamente la matematica non ha la benché minima parte nell’attrattiva e nella commozione dell’anima prodotte dalla musica; è soltanto la condizione indispensabile (conditio sine qua non) di quella proporzione delle impressioni, nella loro unione e vicenda, che permette di abbracciarle tutte insieme, impedendo che si distruggano reciprocamente, e che rende possibile il loro accordarsi per produrre, per via di consoni affetti, una continua commozione ed eccitazione dell’animo, e quindi un piacevole godimento seco stesso.
Se invece si stima il valore delle belle arti secondo la coltura che portano all’animo, e si prende per misura la estensione delle facoltà che nel Giudizio debbono concorrere alla conoscenza, la musica avrà l’ultimo posto tra le arti belle, perché essa non fa che giocare con le sensazioni (allo stesso modo che forse è la prima, quando le arti si valutino dal punto di vista del piacere). A tal titolo, dunque, le arti figurative la precedono di molto; poiché mentre mettono l’immaginazione in un giuoco libero, ma nel tempo stesso adeguato all’intelletto, promuovono un’occupazione in quanto producono qualche cosa che serve ai concetti dell’intelletto come un veicolo, durevole e che si raccomanda da sé, capace di favorire l’unione dei concetti stessi con la sensibilità, e quindi, in certo modo, l’urbanità delle facoltà superiori della conoscenza. Queste due specie d’arte seguono un cammino del tutto diverso: la prima procede da sensazioni a idee indeterminate; la seconda specie, invece, da idee determinate a sensazioni. Quest’ultima è prodotta da impressioni durevoli, l’altra da impressioni passeggiere. L’immaginazione può rievocare le prime ed intrattenervisi con diletto; le seconde invece si estinguono subito, oppure, se sono ripetute involontariamente dall’immaginazione, ci riescono piuttosto penose che piacevoli. Inoltre alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità, specialmente per la proprietà, che hanno i suoi strumenti, di estendere la loro azione al di là di quel che si desidera, (sul vicinato), per cui essa in certo modo s’insinua e va a turbare la libertà di quelli che non fanno parte del trattenimento musicale; il che non fanno le arti che parlano alla vista, perché basta rivolgere gli occhi altrove, quando non si vuol dar adito alla loro impressione, È presso a poco come del piacere che dà un odore che si spande lontano. Colui che tira fuori dalla tasca il suo fazzoletto profumato, tratta quelli che gli sono intorno contro la loro volontà, e, se vogliono respirare, li obbliga nello stesso tempo a godere; perciò quest’uso è anche passato di moda*18.
Tra le arti figurative darei la precedenza alla pittura: sia perché, come atte del disegno, essa sta a fondamento di ogni altra; sia perché può penetrare assai più nella regione delle idee, e, conformemente a queste, estendere anche il campo dell’intuizione più che non sia permesso alle altre.
Tra ciò che piace semplicemente nel giudizio, e ciò che diletta (piace nella sensazione), vi è, come abbiamo mostrato spesso, una differenza essenziale. In quest’ultimo caso non si può, come nel primo, esigere il piacere da ognuno. Il diletto (anche quando la sua causa stia nelle idee), pare che consista sempre in un sentimento dello svolgimento, più facile di tutta la vita dell’uomo, e quindi anche del benessere corporeo, cioè della salute; sicché Epicuro, che considerava ogni diletto come, in fondo, una sensazione corporea, in ciò forse, non aveva torto, e s’ingannava soltanto quando poneva tra i diletti il piacere intellettuale e perfino il piacere pratico. Quando si abbia davanti agli occhi la differenza ora accennata, ci si può spiegare come un diletto possa dispiacere a quello stesso che lo prova (per esempio, la gioia che prova un uomo bisognoso, ma di buoni sentimenti, per l’eredità che gli viene da un padre affezionato, ma avaro), o come un profondo dolore possa piacere a colui che lo sopporta (la tristezza d’una vedova per la morte del suo eccellente marito), o come un diletto possa anche piacere (come quello che deriva dalle scienze che coltiviamo), o come un dolore possa anche dispiacere (per esempio, l’odio, l’invidia, la vendetta). Il piacere o il dispiacere riposa qui sulla ragione ed è identico con l’approvazione o disapprovazione; ma il diletto o il dolore non possono fondarsi che sul sentimento o la previsione di un possibile benessere o malessere (qualunque ne sia la ragione).
Ogni giuoco variato e libero delle sensazioni (che non abbiano a fondamento uno scopo) diletta perché favorisce il sentimento della salute, vi sia o no nel nostro giudizio razionale un piacere per l’oggetto e il diletto stesso; e tale diletto può elevarsi fino a diventare un affetto, sebbene non abbiamo alcun interesse per l’oggetto, o almeno nessun interesse proporzionato al grado dell’affetto. Questi giuochi possiamo dividerli in giuoco di fortuna, giuoco musicale e giuoco di pensieri. Il primo esige un interesse, sia della vanità, sia dell’utilità, il quale però non è così grande come quello che poniamo nel modo di procurarcelo, il secondo non suppone che la variazione delle sensazioni, ciascuna delle quali si riferisce ad un affetto, senza avere il grado dell’affetto, e suscita delle idee estetiche; il terzo nasce semplicemente dal variare delle rappresentazioni nel Giudizio, con che, è vero, non vien prodotto alcun pensiero che implichi qualche interesse, ma l’animo resta vivificato.
Tutte quelle riunioni che facciamo la sera mostrano come i giuochi possano dilettare, senza che in essi vi sia a fondamento uno scopo interessato; perché senza giuochi le riunioni stesse quasi non si potrebbero intrattenere. Ma tutti gli affetti, della speranza, del timore, della gioia, della collera, della beffa, vi sono in giuoco, succedendosi ad ogni istante, e sono così vivaci da sembrare che tutta la vita organica sia eccitata come da un movimento interno, come dimostra quel brio dell’animo, che pure né guadagna né apprende qualche cosa. Ma, poiché n giuoco di fortuna non è un giuoco bello, vogliamo metterlo da parte. La musica e le cose che suscitano il riso son invece due specie del giuoco con idee estetiche, od anche con rappresentazioni intellettuali, con le quali in fondo non si pensa niente, ma che possono dilettare soltanto pel loro variare, e nondimeno vivacemente; con che esse ci danno a conoscere abbastanza chiaramente che l’animazione nei due casi è semplicemente corporea, sebbene sia prodotta da idee dell’animo, e che tutto il diletto d’una allegra riunione, ritenuto tanto fine e spirituale, è costituito dal sentimento della salute, prodotto da un movimento di visceri corrispondente a quel giuoco. Non è il giudizio dell’armonia dei suoni o delle arguzie, che con la sua bellezza serve soltanto da veicolo necessario; ma è lo svolgimento più facile della vita corporea, l’affetto che mette in moto i visceri e il diaframma: è, in una parola, il senso della salute (la quale fuor di tali occasioni non si fa sentire) che costituisce il diletto che vi si trova, in modo che si può giungere al corpo anche attraverso l’anima, e servirsi di questa come d’un medico di quello.
Nella musica questo giuoco va dalla sensazione del corpo alle idee estetiche (degli oggetti che suscitano le affezioni), e da queste, con la forza acquistata, ritorna al corpo. Nello scherzo (che, come la musica, merita piuttosto di esser annoverato tra le arti piacevoli che tra le arti belle) il giuoco comincia da pensieri, i quali, in quanto vogliono esprimersi sensibilmente, occupano tutti anche il corpo; e poiché l’intelletto, non trovando in questa esibizione quello che s’aspettava, s’arresta d’un tratto, si sente nel corpo, mediante la scossa degli organi, l’effetto di questa interruzione, la quale favorisce il ristabilimento dell’equilibrio degli organi stessi, ed ha un benefico influsso sulla salute.
In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, dev’esserci qualcosa di assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare alcun piacere). Il riso è un’affezione, che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d’un tratto si risolve in nulla. Proprio questa risoluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l’intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità. La causa deve dunque consistere nell’influsso della rappresentazione sul corpo e nella reazione del corpo sull’animo; e non certo in quanto la rappresentazione è oggettivamente oggetto di diletto (perché come potrebbe dilettare un’aspettazione delusa?), ma unicamente perché essa, in quanto semplice giuoco delle rappresentazioni, produce nel corpo un equilibrio delle forze vitali.
Si racconta che un indiano, a Surate, trovandosi a tavola con un inglese, vedendo aprire una bottiglia d’ale e tutta la birra scappar fuori in ischiume, espresse con molte esclamazioni il suo stupore; e alla domanda dell’inglese: — che cosa dunque vi è da meravigliare in questo modo? —, rispose: — non mi meraviglia di veder uscire questa cosa, ma come abbiate potuto costringerla là dentro —. Il fatto ci fa ridere e ci desta un vero piacere: non perché ci sentiamo più intelligenti di questo ignorante, o per qualche cosa di piacevole che l’intelletto ci faccia scorgere nel fatto stesso; ma soltanto perché la nostra aspettazione era tesa, e d’un tratto si è ridotta a niente. Un altro fatto: l’erede d’un ricco parente volendo preparare funerali solenni, si lamenta di non potervi riuscire; perché, dice, quanto più danaro do alle persone che debbono mostrarsi afflitte, tanto più le vedo allegre. Anche qui scoppiamo a ridere, e la causa del nostro riso è sempre un’aspettazione che istantanea-mente si risolve in nulla. E si noti bene questo, che 1 oggetto atteso non deve risolversi nel suo contrario positivo — perché questo sarebbe sempre qualche cosa, e spesso potrebbe contristare —, ma deve risolversi in nulla. Perché, difatti, se qualcuno col racconto d’una storia suscita in noi una grande aspettazione, e, giunti alla fine, ne riconosciamo la falsità, proviamo un dispiacere; come, per esempio, quando ci si racconta di persone, che, per un grande dolore, in una notte hanno visto diventar bianchi i loro capelli. Se, invece, un altro furbo, Per far la pariglia con questa storia, racconta molto circostanziatamente il dolore d’un mercante che, ritornando in Europa dalle Indie con tutto il suo avere in mercanzie, è obbligato da una forte tempesta a gittare a mare ogni cosa, e si dispera al punto che nella stessa notte la sua parrucca diventa grigia, — noi ridiamo, e proviamo un diletto, perché il nostro errore per una cosa che del resto ci è indifferente, o piuttosto l’idea che seguiamo, è per noi come una palla che per un certo tempo gettiamo di qua e di là, pensando soltanto ad afferrarla e a ritenerla. Qui non è l’uscita di un bugiardo o di uno sciocco, che suscita diletto; perché quest’ultima storia, anche raccontata con un tono serio, per se stessa farebbe scoppiare in un riso sincero tutta una riunione; mentre la precedente d’ordinario non sarebbe nemmeno giudicata degna di attenzione.
È da notare che in tutti questi casi lo scherzo deve sempre contener qualcosa, che per un istante possa produrre illusione; sicché, quando l’illusione è dissipata, l’animo si rivolge indietro per provarla di nuovo, e così, per un rapido alternarsi di tensioni e rilassamenti, si trova sospinto e ondeggiante di qua e di là: e, poiché ciò che, per così dire, tendeva la corda, vien meno d’un tratto (non per un rilassamento progressivo), ne risulta necessariamente un movimento dell’animo, e accordato ad esso, un movimento interno del corpo, che si prolunga involontariamente, e produce stanchezza ma anche allegria (gli effetti di un movimento favorevole alla salute).
Difatti, se si ammette che con tutti i nostri pensieri sia sempre congiunto armonicamente qualche movimento negli organi del corpo, si comprenderà abbastanza come a quegli istantanei passaggi dell’animo da un punto di vista all’altro, per considerare il suo oggetto, possa corrispondere un alternarsi di tensioni e rilassamenti delle parti elastiche dei nostri visceri, che si comunica al diaframma (come in quelli che soffrono il solletico), in modo che i polmoni espellono l’aria a rapidi intervalli e si produce così un movimento favorevole alla salute, il quale, e non ciò che avviene nell’animo, è la vera causa del piacere per un pensiero che in fondo non rappresenta niente. — Voltaire diceva che, in compenso delle molte miserie della vita, il cielo ci ha dato due cose: la speranza e il sonno. Avrebbe potuto aggiungervi il riso, supposto che potessimo disporre facilmente dei mezzi per produrlo negli uomini sensati, e che non fossero così rari lo spirito e l’originalità comica necessarii, come invece è comune il talento d’immaginare delle cose che rompono la testa, come fanno i sofisti del misticismo, o che fanno rompere il collo, come fa il genio, o che spaccano il cuore, come fanno i romanzieri sentimentali (ed anche i moralisti della stessa specie).
Sicché, mi pare, si può concedere ad Epicuro che ogni diletto, anche quando sia occasionato da concetti che suscitano idee estetiche, è una sensazione animale cioè corporea; senza che perciò si faccia minimamente torto al sentimento spirituale della stima per le idee morali, che non è un diletto, ma una stima di sé (dell’umanità in noi), che ci eleva al di sopra del bisogno del diletto; e senza che si faccia torto neppure al sentimento meno nobile del gusto.
Qualcosa di questi due sentimenti, il sentimento morale e quello del gusto, si trova nell’ingenuità, che è lo sfogo dell’originaria sincerità naturale dell’umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda natura. Si ride della semplicità, che ancora non ha imparato a fingere; ma si gode anche della semplicità della natura che a quell’arte sa giocare un tiro. Si aspettava ciò che accade giornalmente, una condotta affettata in vista della bella apparenza; ed ecco la natura incorrotta ed innocente, che non ci si aspettava d’incontrare, e che, anche colui che l’ha messa in luce, non pensava di scoprire. Poiché qui quella bella, ma falsa apparenza, che d'ordinario ha tanto peso nel nostro giudizio, si risolve d un tratto nel nulla, e giacché quel furbo che è in ciascuno di noi si svela quasi da sé, si produce un movimento dell’animo in due direzioni contrarie, il quale nello stesso tempo dà al corpo una scossa salutare. Ma poiché si vede che non è ancora del tutto estinta nella natura umana ciò che è infinitamente migliore di ogni convenienza sociale, la sincerità del carattere (o almeno la disposizione a tale sincerità), a questo giuoco dell’immaginazione si congiunge la serietà e la stima. Siccome però quella rivelazione dura poco, e si riaffaccia subito il velo dell’arte di fingere, vi si aggiunge nel tempo stesso una specie di compassione, o un movimento di tenerezza, che, come giuoco, può ben congiungersi, e infatti si congiunge ordinariamente, col nostro ridere cordiale, e spesso compensa colui che ha dato occasione al riso, dell’imbarazzo di non essersi scaltrito rispetto alle convenzioni umane. — Un’arte d’esser ingenuo è perciò una contradizione in termini; ma è possibile rappresentare l’ingenuità in una persona immaginaria; e, sebbene rara, questa è arte bella. Con l’ingenuità non dev’essere scambiata quella franca semplicità, la quale non dissimula la natura soltanto perché non comprende che cosa sia l’arte del vivere in società.
Si può riportare anche la maniera umoristica a ciò che, rallegrando, è affine assai al piacere che nasce dal riso, ed appartiene all’originalità dello spirito, ma non proprio al talento per le arti belle. L’umore19 bene inteso significa cioè il talento di mettersi volontariamente in una certa disposizione d’animo, in cui tutte le cose son giudicate in modo del tutto diverso dall’ordinario (perfino al rovescio), e pure conformemente a certi principii razionali che sono nella disposizione stessa. Chi va soggetto involontariamente a questi cambiamenti, si dice lunatico; ma colui che ha facoltà di assumerli volontariamente e con uno scopo (per produrre una vivace rappresentazione che col contrasto suscita il riso), si chiama umorista, e umoristico il suo modo di vedere. Ma intanto questo modo appartiene più alle arti piacevoli che alle belle arti, perché l’oggetto di queste deve sempre mostrare in sé una certa dignità, e perciò esige serietà nella rappresentazione, come il gusto nel giudizio.
Per esser dialettica una facoltà del giudizio deve essere innanzi tutto ragionante20, vale a dire i suoi giudizii debbono, a priori, pretendere all’universalità*19 perché la dialettica consiste nellopposizione di tali giudizii. Perciò la contradizione tra giudizii estetici sensibili (sul piacevole e lo spiacevole) non è dialettica. Anche il contrasto tra i giudizi di gusto, quando ciascuno fa appello semplice-mente al gusto proprio, non costituisce una dialettica del gusto; perché nessuno pensa di fare una regola universale del proprio giudizio. Sicché non resta altro concetto di una dialettica, che possa riguardare il gusto, se non quello di una dialettica della critica del gusto (non del gusto stesso), considerata nei suoi principii; qui, infatti, s’incontrano naturalmente ed inevitabilmente, sul principio della possibilità dei giudizii di gusto in generale, concetti reciprocamente contradittorii. La critica trascendentale del gusto comprenderà dunque una parte, che possa avere il nome di dialettica del Giudizio estetico, soltanto se si trovi tra i principii di questa facoltà un’antinomia, la quale ne faccia dubbia la legittimità, e per conseguenza l’intima possibilità.
Il primo luogo comune del gusto sta in questa proposizione, colla quale ognuno che sia privo di gusto crede di difendersi da ogni biasimo: ognuno ha il proprio gusto. Il che non significa altro se non che il fondamento determinante di questo giudizio è puramente soggettivo (piacere o dolore); e che il giudizio non ha alcun dritto all’approvazione necessaria degli altri.
Il secondo luogo comune del gusto, invocato anche da quelli che riconoscono al giudizio di gusto il diritto alla validità per ognuno, è: del gusto non si può disputare. Il che significa che il fondamento determinante d’un giudizio di gusto può bene essere oggettivo, ma non si può riportare a concetti determinati, e che quindi non si può decidere niente, in questo giudizio, mediante dimostrazioni, sebbene si possa a ragione contendere. Perché il contendere e il disputare si accordano in questo che, nell’uno e nell’altro modo, si cerca di produrre l’accordo dei giudizii ponendoli l’uno contro l’altro; ma sono poi differenti, in quanto col disputare si spera di conseguire lo scopo mediante concetti determinati a guisa di argomenti, e perciò si ammettono come principii del giudizio concetti oggettivi. Quando ciò si consideri come impossibile, diventa anche impossibile il disputare.
Si vede facilmente che tra questi due luoghi comuni manca una proposizione, che veramente non è passata in proverbio, ma è ammessa da tutti implicitamente; cioè, sul gusto si può contendere (sebbene non si possa disputare). Ma questa proposizione è proprio l’opposto della prima. Perché dove è lecito contendere, vi può essere la speranza dell’accordo; si può quindi contare su principii del giudizio, che non abbiano una validità puramente individuale e che non siano, quindi, soltanto soggettivi; ed è ciò a cui si oppone recisamente il detto: ognuno ha il proprio gusto.
Riguardo al principio del gusto si presenta dunque la seguente antinomia:
1 ) Tesi. Il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti; perché altrimenti di esso si potrebbe disputare (decidere mediante prove).
2 ) Antitesi. Il giudizio di gusto si fonda sopra concetti; perché altrimenti non si potrebbe neppure contendere, qualunque fosse la diversità dei giudizi (non si potrebbe pretendere alla necessaria approvazione altrui).
Non è possibile togliere la contradizione tra questi principii impliciti in ogni giudizio di gusto (i quali non sono poi altro che le due proprietà del giudizio di gusto esposte innanzi all’Analitica), se non dimostrando che il concetto al quale si riferisce l’oggetto di questa specie di giudizii, non è preso nello stesso significato nelle due massime del Giudizio estetico; e che questo doppio significato, o punto di vista, nel giudicare, è necessario al nostro Giudizio trascendentale; ma che anche è inevitabile, come illusione naturale, l’apparenza, che deriva dalla confusione dell’uno con l’altro.
A qualche concetto deve riferirsi il giudizio di gusto, perché altrimenti esso non potrebbe affatto pretendere alla validità necessaria per ognuno. Ma esso non può esser dimostrato mediante un concetto, perché un concetto o è determinabile, o è in se stesso indeterminato e insieme indeterminabile. Della prima specie è il concetto dell'intelletto, il quale è determinabile per via di predicati dell'intuizione sensibile, che gli può corrispondere; della seconda specie è il concetto razionale del soprasensibile, che sta a fondamento di ogni intuizione, e che non può essere perciò ulteriormente determinato per via teoretica.
Ora, il giudizio di gusto concerne oggetti dei sensi, ma non per determinarne un concetto per l’intelletto; perché esso non è un giudizio di conoscenza. E quindi, in quanto rappresentazione intuitiva individuale relativa al sentimento di piacere, è un giudizio particolare21, e perciò la sua validità sarebbe ristretta all’individuo giudicante; l’oggetto è per me oggetto di piacere, e per gli altri può non avere questa qualità; — ognuno ha il proprio gusto.
Tuttavia nel giudizio di gusto è compresa, senza dubbio, una relazione più estesa della rappresentazione dell’oggetto (e in pari tempo anche del soggetto), per cui noi consideriamo questa specie di giudizii come valevoli per ognuno, e che deve avere necessariamente a fondamento un concetto; ma un concetto non determinabile per via dell’intuizione; un concetto col quale non si conosce niente, e che quindi non fornisce alcuna prova pel giudizio di gusto. Ma un concetto siffatto non è altro che il puro concetto razionale del soprasensibile, che sta a fondamento dell’oggetto (ed anche del soggetto giudicante) in quanto oggetto sensibile, e quindi fenomeno. Poiché, se si prescinde da questo riguardo, non trova scampo la pretesa del giudizio di gusto alla validità universale; se il concetto su cui esso si fonda fosse semplicemente un concetto confuso dell’intelletto, come quello della perfezione, al quale si potrebbe far corrispondere l’intuizione sensibile del bello, sarebbe almeno possibile fondare il giudizio di gusto su prove; il che contradice alla tesi.
Ora cade ogni contradizione, quando io dico: il giudizio di gusto si fonda su un concetto (d’un fondamento in generale della finalità soggettiva della natura rispetto al Giudizio), su di un concetto pel quale, è vero, nulla può essere conosciuto e provato riguardo all’oggetto, perché esso è in sé indeterminabile ed inutile per la conoscenza; che tuttavia però dà al giudizio la validità per ognuno (restando in ognuno il giudizio singolare, concomitante immediatamente all’intuizione); perché forse il principio determinante del giudizio sta nel concetto di ciò che può essere considerato come il sostrato soprasensibile dell’umanità.
Per risolvere un’antinomia è necessario dimostrare che è possibile che due proposizioni, in apparenza contradittorie, in realtà non si contradicono, potendo sussistere luna accanto all’altra, se anche l’esplicazione della possibilità del loro concetto trascenda la nostra facoltà conoscitiva. Che tale apparenza sia anche naturale ed inevitabile per la ragione umana, e perché essa sussista ancora quando, risoluta l’apparenza contradittoria, non può più ingannare, — si comprenderà in conseguenza.
Noi diamo, difatti, nei due giudizii contradittorii, lo stesso significato al concetto sul quale si deve fondare l’universalità del giudizio, e tuttavia ricaviamo da esso due predicati opposti. Nella tesi perciò si dovrebbe dire: il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti determinati; e invece nell’antitesi: il giudizio di gusto si fonda sopra un concetto, sebbene indeterminato (cioè quello del sostrato soprasensibile dei fenomeni); e allora tra l’una e l’altra non vi sarebbe più alcuna contradizione.
Oltre la soluzione del contrasto tra le pretese e contropretese del gusto, non si può fare altro. Dare un principio oggettivo determinato del gusto, col quale i giudizii si possano dirigere, esaminare e dimostrare, è assolutamente impossibile; perché allora non si tratterebbe più di giudizio di gusto. Può essere soltanto mostrato il principio soggettivo, cioè l’idea indeterminata in noi del soprasensibile, come l’unica chiave per spiegare questa nostra facoltà di cui a noi stessi le sorgenti sono sconosciute; ma non è possibile chiarirla ulteriormente in altro modo.
Sta a fondamento dell’antinomia qui esposta e risoluta il vero concetto del gusto, cioè d’un Giudizio estetico puramente riflettente; e qui sono conciliati i due principii in apparenza contradittorii, in quanto entrambi possono essere veri; ciò che è anche sufficiente. Se, al contrario, si ponesse la ragione determinante del gusto nel piacevole, come fanno alcuni (a causa della singolarità della rappresentazione che sta a fondamento del giudizio di gusto), o come altri vogliono (a causa dell’universalità della medesima), nel principio della perfezione, e si derivassero le corrispondenti definizioni del gusto; si verrebbe ad avere un’antinomia assolutamente insolubile, onde si dedurrebbe che entrambe le proposizioni opposte (ma non puramente contradittorie) sono false; il che dimostra che il concetto su cui ciascuna è fondata, è in se stesso contradittorio. Si vede dunque che la soluzione dell’antinomia del Giudizio estetico prende una via analoga a quella che seguì la critica nella soluzione delle antinomie della ragion pura teoretica; e che qui, come nella critica della ragion pratica, le antinomie ci costringono a guardare al di là del sensibile, e a cercare nel soprasensibile il punto di unione di tutte le nostre facoltà a priori; poiché non resta alcun’altra via d’uscita per mettere la ragione in accordo con se medesima.
Poiché abbiamo così di frequente occasione nella filosofia trascendentale di distinguere le idee dai concetti dell’intelletto, può essere utile introdurre delle espressioni tecniche adeguate alla loro differenza. Credo che non si obietterà nulla se io ne propongo qui qualcuna. — Le idee, nel significato più generale, sono rappresentazioni riferite ad un oggetto secondo un certo principio (oggettivo o soggettivo), in quanto esse però non possono mai divenire una conoscenza dell’oggetto stesso. Esse o sono riferite ad una intuizione secondo un principio puramente soggettivo dell’accordo delle facoltà conoscitive (l’immaginazione e l’intelletto), e allora si dicono estetiche: o son riferite ad un concetto secondo un principio oggettivo, senza poter fornire però una conoscenza dell'oggetto, e si chiamano idee della ragione; nel qual caso il concetto è un concetto trascendente, che è diverso dal concetto dell’intelletto, cui si può sempre sottoporre una esperienza corrispondente adeguata, e si chiama perciò immanente.
Un’idea estetica non può divenire una conoscenza, perché essa è un’intuizione (dell’immaginazione), alla quale non si può mai trovare un concetto adeguato. Un’idea della ragione non può mai diventare una conoscenza, perché contiene un concetto (del soprasensibile), al quale non può esser mai data un’intuizione adeguata.
Ora io credo che si potrebbe chiamare l’idea estetica una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione e l’idea della ragione un concetto indimostrabile della ragione. Di entrambe è presupposto che non sono senza alcun fondamento, ma (secondo la precedente definizione di idea in generale) sono prodotte conformemente a certi principii delle facoltà conoscitive, a cui esse appartengono (quella ai principii soggettivi, questa agli oggettivi).
I concetti dell’intelletto debbono, come tali, esser sempre dimostrabili (se per dimostrare s’intende semplicemente, come nell’anatomia, l’esibire); vale a dire, l’oggetto loro corrispondente deve sempre poter essere dato nell’intuizione (pura o empirica); perché soltanto in tal modo possono diventar conoscenze. Il concetto della grandezza può esser dato a priori nell’intuizione dello spazio, per esempio di una linea retta, etc.; il concetto di causa nell’impenetrabilità, nell’urto dei corpi, etc. Sicché entrambi possono essere attestati per via di un’intuizione empirica, vale a dire il pensiero può esserne provato (dimostrato, presentato) con un esempio; e ciò deve poter avvenire, altrimenti non si è sicuri che il pensiero non sia vuoto, senza oggetto.
Nella logica ci serviamo comunemente delle espressioni «dimostrabile» e «indimostrabile» soltanto riguardo alle proposizioni; ma meglio sarebbero indicate le prime chiamandole proposizioni mediatamente certe, e le seconde col nome di immediatamente certe, perché la filosofia pura ha anch’essa delle proposizioni di queste due specie, se con ciò s’intendono delle proposizioni vere, suscettibili o no di dimostrazione. Ma essa, in quanto filosofia, mediante principii a priori può provare bensì, non dimostrare, a meno che non si voglia interamente prescindere dal senso della parola, pel quale dimostrare (ostendere, exhibere) significa esibire il proprio concetto nell’intuizione (o con prove, o anche in una semplice definizione); in un’intuizione, che se resta a priori, si chiama la costruzione del concetto, ma se è anche empirica, costituisce la presentazione dell’oggetto, con la quale al concetto viene assicurata la realtà oggettiva. Così si dice di un anatomico che egli dimostra l’occhio umano, quando, sezionando quest’organo, rende intuitivo il concetto che prima ha esposto discorsivamente.
In conseguenza di ciò il concetto razionale del sostrato soprasensibile di tutti i fenomeni in generale, o anche di ciò che deve esser posto a fondamento della nostra volontà in relazione con le leggi morali, vale a dire della libertà trascendentale, — questo concetto è già, secondo la specie, un concetto indimostrabile e un’idea della ragione, mentre quello della virtù è tale secondo il grado; perché al primo nulla si può far corrispondere, secondo la qualità, nell’esperienza, laddove rispetto al secondo, nessun prodotto empirico di quella causalità raggiunge il grado, che l’idea della ragione prescrive come regola.
Come in un’idea della ragione l’immaginazione, con le sue intuizioni, non raggiunge il concetto dato, così in un’idea estetica l’intelletto, coi suoi concetti, non raggiunge mai l’intera intima intuizione dell’immaginazione, che questa congiunge a una rappresentazione data. Ora, poiché il riportare una rappresentazione dell’immaginazione ai concetti, si dice esporla; l’idea estetica si può chiamare una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione (nel suo libero giuoco). Io avrò ancora occasione in seguito di dire qualche cosa di questa specie di idee; ed ora noterò soltanto che le due specie di idee, così quelle della ragione come quelle estetiche, debbono avere i loro principii; e debbono averli nella ragione, quelle nei principii oggettivi, queste nei principii soggettivi dell’uso di tale facoltà.
Dopo di che si può anche definire il genio la facoltà delle idee estetiche, mostrando in pari tempo perché nei prodotti del genio è la natura (del soggetto), non uno scopo premeditato, che dà la regola dell’arte (della produzione del bello). Difatti, poiché il bello non può esser giudicato mediante concetti, ma secondo la finalità che è nella disposizione dell’immaginazione ad accordarsi con la facoltà dei concetti in generale, non bisogna cercare qui regole e precetti; soltanto ciò che è semplicemente natura nel soggetto, e non può essere concepito sotto regole o concetti, cioè il sostrato soprasensibile di tutte le sue facoltà (che nessun concetto dell’intelletto raggiunge), per conseguenza ciò che fa dell’accordo di tutte le nostre facoltà conoscitive lo scopo ultimo dato alla nostra natura dall’intelligibile: — ecco quello che deve servire come misura soggettiva a quella finalità estetica, ma incondizionata, nelle arti belle, che esige legittimamente di piacere ad ognuno. Sicché, non potendosi assegnare a tale finalità un principio oggettivo, resta solo possibile ch’essa abbia a fondamento a priori un principio soggettivo e tuttavia universale.
Qui si presenta spontaneamente la seguente importante considerazione: vi sono, cioè, tre specie di antinomie della ragion pura, le quali però si accordano in questo, che la costringono ad abbandonare il presupposto, d’altra parte ben naturale, che gli oggetti dei sensi siano cose in sé, a farli anzi valere semplicemente come fenomeni, e a supporre in loro un sostrato intelligibile (qualche cosa di soprasensibile, il cui concetto è soltanto un’idea e non permette una vera conoscenza). Senza una tale antinomia, la ragione non potrebbe mai decidersi ad accettare un principio, che restringe in tal modo il campo della sua speculazione, e consentire al sacrifizio completo di tante e così brillanti speranze; perché anche ora che, a compensare tale perdita, le si offre un campo assai più vasto dal punto di vista pratico, pare che essa non possa separarsi senza dolore da quelle speranze e sciogliersi dalla sua antica affezione.
Il fatto che vi son tre specie di antinomie dipende dall’esservi tre facoltà conoscitive, intelletto, Giudizio e ragione, di cui ciascuna (in quanto facoltà di conoscere superiore) deve avere i suoi principii a priori; perché la ragione, in quanto giudica di questi principii, e del loro uso, esige assolutamente riguardo ad essi, pel condizionato dato, l’incondizionato: il quale però non si lascia trovare mai quando si considera il sensibile come appartenente alle cose in sé, e non gli si sottopone invece, come a semplice fenomeno, qualche cosa di soprasensibile come cosa in sé (il sostrato intelligibile della natura, fuori e dentro di noi). Vi sono dunque: 1) per la facoltà di conoscere, un’antinomia della ragióne relativamente all’uso teoretico dell’intelletto spinto fino all’incondizionato; 2) pel sentimento del piacere e dispiacere, un’antinomia della ragione circa l’uso estetico della facoltà del giudizio; 3) per la facoltà di desiderare un’antinomia relativamente all’uso pratico della ragione in quanto autonomia legislatrice: poiché tutte queste facoltà hanno i loro principii superiori a priori, e, conformemente ad un’esigenza inevitabile della ragione, debbono secondo questi principii giudicare e poter determinare il loro oggetto anche incondizionatamente.
Riguardo alle due antinomie, che risultano dall’uso teoretico e pratico di queste superiori facoltà di conoscere, abbiamo già mostrato altrove la loro inevitabilità quando in tale specie di giudizio non si considerava il sostrato soprasensibile degli oggetti dati, in quanto fenomeni, e, per contrario, la loro solubilità non appena si faceva tale considerazione. In quanto ora all’antinomia che risulta dall’uso della facoltà del giudizio conformemente all’esigenza della ragione, e alla soluzione che ne abbiamo data, osserveremo che non vi sono se non due mezzi di evitarla: o si nega che il giudizio di gusto estetico abbia a fondamento un principio a priori, e si pensa per conseguenza che ogni pretesa al consenso universale e necessario è vuota ed infondata, e che un giudizio di gusto dev’esser tenuto per giusto soltanto perché capita che parecchi vi si accordino; e ciò ancora non perché si supponga sotto questo accordo un principio a priori, ma (come nel gusto del palato) perché i soggetti casualmente sono organizzati allo stesso modo; oppure si dovrebbe ammettere che il giudizio del gusto è propriamente un occulto giudizio della ragione sulla perfezione che essa scopre in una cosa e nel rapporto, in questa, del molteplice ad uno scopo, e che quindi esso è chiamato estetico solo per l’oscurità di questa nostra riflessione, sebbene in fondo sia un giudizio teleologico: in questo caso si troverebbe che è inutile e nulla la soluzione dell’antinomia mediante idee trascendentali e si potrebbero conciliare le leggi del gusto con gli oggetti del senso, non in quanto semplici fenomeni, ma anche come cose in sé. Ma quanto valore abbiano questi due espedienti lo abbiamo mostrato in parecchi luoghi dell’esposizione dei giudizii di gusto.
Ma se si concede almeno alla nostra deduzione che essa è sulla buona via, sebbene non sia ancora chiarita in tutte le sue parti, ci si fanno incontro tre idee: in primo luogo, l’idea del soprasensibile in generale, senz'altra determinazione, come sostrato della natura; secondo, l’idea del soprasensibile, come principio della finalità soggettiva della natura per la nostra facoltà di conoscere; terzo, l’idea del soprasensibile, come principio dei fini della libertà, e come principio dell’accordo di quei fini con la libertà nella moralità.
Si può, in primo luogo, o porre il principio del gusto in questo, che esso giudica sempre in base a motivi determinanti empirici e quindi dati soltanto a posteriori mediante i sensi, o ammettere che esso giudica in base a un fondamento a priori. La prima tesi sarebbe l’empirismo della critica del gusto, la seconda il razionalismo della medesima. Secondo la prima, l’oggetto del nostro piacere non sarebbe distinto dal piacevole; per la seconda, se il giudizio riposasse sopra concetti determinati, non sarebbe distinto dal buono; e così ogni bellezza sarebbe bandita dal mondo e al suo posto non resterebbe se non un nome particolare per esprimere forse un miscuglio delle due specie precedenti di piacere. Senonché noi abbiamo mostrato che vi sono anche a priori fondamenti del piacere, che possono accordarsi col principio del razionalismo, pur non potendo essere ricondotti a concetti determinati.
Il razionalismo del principio del gusto, invece, o è quello del realismo della finalità o quello dell’idealismo della medesima. Ora, poiché un giudizio di gusto non è punto un giudizio di conoscenza, e la bellezza non è una qualità dell’oggetto in se stesso considerato, il razionalismo del principio del gusto non può mai consistere in questo, che la finalità di quel giudizio sia pensata come oggettiva, vale a dire che il giudizio sia teoreticamente e quindi anche logicamente (sebbene in maniera confusa) riferito alla perfezione dell’oggetto; ma soltanto come estetica, si riferisca, nel soggetto, all’accordo della rappresentazione nell’immaginazione coi principii essenziali della facoltà del giudizio in generale. Per conseguenza, anche secondo il principio del razionalismo, la differenza tra il realismo e l’idealismo del giudizio di gusto può esser posta solo in ciò, che nel primo caso si considera quella finalità soggettiva come uno scopo reale (intenzionale) della natura (o dell’arte) per accordarsi col nostro Giudizio; nel secondo soltanto come un accordo finalistico senza scopo, che si produce da sé e casualmente, accordo che risponde all’esigenza del Giudizio rispetto alla natura e alle sue forme prodotte secondo leggi particolari.
Si potrebbe accettare questa considerazione in favore del realismo della finalità estetica nella natura: le belle forme nel regno della natura organizzata parlano forte a vantaggio della tesi che la produzione del bello abbia a fondamento l’idea di esso nella causa produttrice, cioè uno scopo a favore della nostra immaginazione. I fiori, la figura di intere piante, l’eleganza delle forme in ogni specie di animali, inutile per loro, ma come fatta apposta pel nostro gusto, specialmente la varietà e l’armonia dei colori (nel fagiano, nei crostacei, negli insetti, e perfino nei fiori più comuni), varietà e armonia che tanto piacciono ed attraggono la vista; tutte queste cose che riguardano semplicemente la superficie e anche in questa non hanno relazione con la figura che potrebbe essere necessaria ai fini interni dell’organismo, sembra che siano fatte apposta per la contemplazione esterna: ed esse danno un gran peso all’opinione che ammette nella natura scopi effettivi rispetto alla nostra facoltà del giudizio estetico.
Senonché contro tale opinione sta non soltanto la ragione con la sua massima di evitare per quanto è possibile dappertutto l’inutile moltiplicazione dei principii; ma la natura mostra dovunque nelle sue libere formazioni una tendenza meccanica alla produzione di forme, le quali sembrano bensì fatte per l’uso estetico del nostro Giudizio, senza però darci la menoma ragione di supporre che sia perciò necessaria qualche cosa oltre il loro meccanismo in quanto semplice natura, in modo che le forme stesse, senz’alcuna idea che loro serva di fondamento, possano essere finali rispetto al nostro giudizio. Io intendo per libera formazione della natura quella per cui, evaporando o sparendo una parte di un fluido in riposo (talvolta il semplice calorico), ciò che resta prende nel solidificarsi una determinata figura o struttura, che è diversa secondo la specifica differenza delle materie, ma è costante per la stessa materia. Questo però nella supposizione che si tratti di vera fluidità, che la materia cioè vi sia completamente disciolta, e non si abbia un semplice miscuglio di parti solide in sospensione.
La formazione avviene allora per precipitato, vale a dire con una solidificazione istantanea, non con un passaggio progressivo dallo stato liquido allo stato solido, ma come d’un colpo; il quale passaggio si chiama cristallizzazione. L’esempio più comune di questa specie di formazione è la congelazione dell’acqua, nella .quale si formano dapprima degli aghi di ghiaccio, che s’incrociano formando angoli di 60 gradi, mentre altri aghi vengono a porsi ad ogni punta dei primi, finché tutto sia congelato; sicché, durante questo tempo, l’acqua che sta tra gli aghi di ghiaccio non diventa a poco a poco più solida, ma resta così completamente liquida come potrebbe essere ad una temperatura molto superiore, e tuttavia ha la stessa temperatura del ghiaccio. La materia che si libera, e sparisce istantaneamente al momento della solidificazione, è una quantità considerevole di calorico, la quale, liberandosi, poiché non serviva ad altro che a mantenere lo stato liquido, lascia il nuovo ghiaccio niente affatto più freddo di quanto era l’acqua liquida poco prima.
Molti sali e molte pietre che hanno figura cristallina vengono prodotti appunto da sostanze terrose disciolte, non si sa in qual modo, nell’acqua. Così si formano le configurazioni drusiche di molti minerali, della galena cubica, dell’argento rosso, etc., verisimilmente, per soluzione nell’acqua e precipitato delle parti, che da qualche causa sono obbligate a lasciare quel veicolo e ad unirsi in forme esteriori determinate.
Ma, anche internamente, tutte quelle materie che erano allo stato fluido solo per effetto del calore e si sono solidificate col raffreddamento, mostrano nella frattura una struttura determinata, e da ciò ci fanno supporre che, se il loro peso o il contatto dell’aria non l’avessero impedito, esse avrebbero mostrato anche al di fuori la loro figura specificamente propria; ciò che si è osservato in alcuni metalli induriti solo alla superficie dopo la fusione, decantando la parte liquida interna e facendo solidificare liberamente ciò che ancora rimaneva dentro. Molte cristallizzazioni minerali, come lo spato, l’ematite, l’aragonite offrono spesso figure così belle come solo l’arte potrebbe immaginare; e le stalattiti, che sono nell’antro di Antiparo, non sono altro che il prodotto dell’acqua stillata attraverso strati di gesso.
Lo stato fluido è verosimilmente anteriore, in generale allo stato solido, e così le piante come i corpi degli animali sono formati da una sostanza nutritiva fluida, in quanto questa prende forma nel riposo; certamente questa prende forma da principio secondo una disposizione originaria verso scopi (che dev'esser giudicata, come sarà dimostrato nella seconda parte, non esteticamente, ma teleologicamente, secondo il principio del realismo); ma in pari tempo forse essa si compone e si forma in libertà, secondo la legge universale dell’affinità delle materie. Ora, poiché i vapori d’acqua che si trovano in una atmosfera, che è un miscuglio di differenti gas, col raffreddamento si separano da questi ultimi e producono dei cristalli di neve, i quali, secondo le diversità dei gas atmosferici, presentano spesso delle forme artistiche e singolarmente belle; così, senza toglier nulla al principio teleologico del nostro giudizio dell’organizzazione, si può ben pensare che la bellezza dei fiori, del piumaggio degli uccelli, delle conchiglie, per la forma come pel colore, possa essere attribuita alla natura e al suo potere di produrre liberamente, senz’alcuno scopo particolare, secondo le leggi chimiche, mediante l’accumulamento della materia necessaria all’organizzazione, certe forme che presentano una finalità estetica.
Lo stato fluido è verosimilmente anteriore, in generale allo stato solido, e così le piante come i corpi degli animali sono formati da una sostanza nutritiva fluida, in quanto questa prende forma nel riposo; certamente questa prende forma da principio secondo una disposizione originaria verso scopi (che dev'esser giudicata, come sarà dimostrato nella seconda parte, non esteticamente, ma teleologicamente, secondo il principio del realismo); ma in pari tempo forse essa si compone e si forma in libertà, secondo la legge universale dell’affinità delle materie. Ora, poiché i vapori d’acqua che si trovano in una atmosfera, che è un miscuglio di differenti gas, col raffreddamento si separano da questi ultimi e producono dei cristalli di neve, i quali, secondo le diversità dei gas atmosferici, presentano spesso delle forme artistiche e singolarmente belle; così, senza toglier nulla al principio teleologico del nostro giudizio dell’organizzazione, si può ben pensare che la bellezza dei fiori, del piumaggio degli uccelli, delle conchiglie, per la forma come pel colore, possa essere attribuita alla natura e al suo potere di produrre liberamente, senz’alcuno scopo particolare, secondo le leggi chimiche, mediante l’accumulamento della materia necessaria all’organizzazione, certe forme che presentano una finalità estetica.
Ma ciò che dimostra direttamente che il principio dell idealità della finalità nel bello naturale è quello che noi poniamo sempre a fondamento del giudizio estetico, e che non ci permette di usare come principio esplicativo il realismo di uno scopo rispetto alla nostra facoltà rappresentativa, è che, quando noi giudichiamo della belezza in generale, cerchiamo in noi stessi a priori il criterio del giudizio, e la facoltà del giudizio estetico, quando si tratta di vedere se qualche cosa è bella o no, è per se stessa legislatrice; il che non è possibile quando si ammette il realismo della finalità della natura, perché allora covremmo apprendere dalla natura stessa quali sono gli oggetti da trovar belli, e il giudizio di gusto sarebbe sottoposto a principii empirici. Poiché, difatti, in questa specie di giudizii non si tratta di sapere che cosa è la natura, o quale scopo essa si propone rispetto a noi, ma qual è l’effetto che produce in noi. La sua finalità sarebbe sempre una finalità oggettiva se avesse prodotto le sue forme pel nostro piacere; non sarebbe punto una finalità soggettiva, la quale riposa sul libero giuoco dell’immaginazione, e in cui siamo noi che accogliamo la natura con favore, non è essa che offre un favore a noi. La proprietà che ha la natura di fornirci l’occasione di percepire l’intima finalità nei rapporti delle facoltà dell’animo, quando giudichiamo di certi suoi prodotti, e di percepirla come necessaria ed universale in virtù di un fondamento soprasensibile, non può essere uno scopo della natura, o meglio noi non possiamo considerarla come tale; perché altrimenti il giudizio così determinato sarebbe eteronomo e non libero ed autonomo, come si conviene ad un giudizio di gusto.
Ancora più chiaramente si vede il principio dell’idealismo della finalità nell’arte bella. In essa non si potrebbe ammettere un realismo estetico fondato sulle sensazioni (perché allora non sarebbe più un’arte bella, ma solo un’arte piacevole): e ciò essa ha di comune con la bella natura. Ma che il piacere dato da idee estetiche non debba dipendere dal conseguimento di fini determinati (in quanto l’arte sarebbe meccanica), e, per conseguenza, che anche nel razionalismo del principio vi sia a fondamento l’idealità, non la realtà, dello scopo; — si vede chiaramente anche da ciò, che l’arte bella, come tale, non può essere considerata come un prodotto dell’intelletto e della scienza, ma del genio, e che quindi essa riceve la sua regola da idee estetiche, le quali sono essenzialmente diverse da idee razionali di fini determinati.
Allo stesso modo che l’idealità degli oggetti dei sensi in quanto fenomeni è la sola maniera di spiegare la possibilità che, le loro forme siano determinate a priori, — l’idealismo della finalità, nel giudizio del bello naturale ed artistico, è l’unica ipotesi con cui la critica possa spiegare la possibilità di un giudizio di gusto che abbia a priori la pretesa alla validità universale (senza però fondare sopra concetti la finalità che è rappresentata nell’oggetto).
Per provare la realtà dei nostri concetti son necessarie sempre le intuizioni. Se i concetti sono empirici, le intuizioni si chiamano esempii; e si chiamano schemi, quando i concetti sono concetti puri dell’intelletto. Ma si esige l’impossibile quando si vuol veder provata la realtà oggettiva dei concetti della ragione, cioè delle idee, sia anche a vantaggio della conoscenza teoretica; poiché non si può assolutamente dare alcuna intuizione ad esse adeguata.
L’ipotesi (esibizione, subiectio sub adspectum), in quanto è qualche cosa di sensibile, è duplice; schematica, quando l’intuizione corrispondente ad un concetto dell’intelletto è data a priori; simbolica, quando ad un concetto che può esser pensato solo dalla ragione, e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, vien sottoposta un’intuizione, nei cui confronti il procedimento del Giudizio è soltanto analogo a quello dello schematismo; vale a dire, che si accorda con questo soltanto secondo la regola del procedimento, non secondo l’intuizione stessa, e quindi soltanto secondo la forma della riflessione, non secondo il contenuto.
A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso della parola simbolico per designare un modo di rappresentazione opposto a quello intuitivo; perché il simbolico non è che una specie del modo intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (exhibitiones); non sono caratterismi, cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell'oggetto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione, secondo la legge dell’associazione immaginativa, e quindi per uno scopo soggettivo; tali sono, come semplici espressioni dei concetti, o le parole oppure i segni visibili (gli algebrici, ed anche i mimici)*20.
Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o schemi o simboli, e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia (per la quale ci serviamo anche di intuizioni empiriche), in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo. È in tal modo che si rappresenta uno stato monarchico come un corpo animato, quando esso sia governato da leggi popolari sue, e invece come una semplice macchina (una specie di mulino a braccia), quando sia dominato da un’unica assoluta volontà; in tutti i due casi la rappresentazione è soltanto simbolica. Non c’è, è vero, alcuna somiglianza tra uno stato dispotico e un mulino a braccia; ma l’analogia sta tra le regole con le quali riflettiamo sulle due cose e la loro causalità. Questo fatto è stato finora poco chiarito, sebbene meriti un più profondo esame; ma non è questo il luogo di intrattenervisi. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione. Tali sono le parole fondamento (appoggio, base), dipendere (essere tenuto dall’alto), derivare da qualche cosa (invece di seguire), sostanza (il sostegno degli accidenti, come dice Locke), ed innumerevoli altre ipotiposi non schematiche, ma simboliche, ed altre espressioni che designano concetti, non mediante intuizioni dirette, ma soltanto secondo l’analogia con queste, cioè col trasferimento della riflessione su di un oggetto dell’intuizione ad un concetto del tutto diverso, al quale forse non potrà inai corrispondere direttamente un’intuizione. Se si può già chiamare conoscenza un semplice modo di rappresentazione (il che certo è permesso, quando essa non è un principio della determinazione teoretica dell’oggetto per quello che l’oggetto è in se stesso, ma un principio della determinazione pratica, per ciò che l’idea di esso dev’essere per noi e pel suo uso appropriato); allora tutta la nostra conoscenza di Dio è puramente simbolica; e chi la ritiene schematica, con i suoi attributi di intelletto, volontà, etc., che attestano la loro realtà oggettiva soltanto negli esseri di questo mondo, cade nell’antropomorfismo; così come chi in essa ripudia ogni modo di rappresentazione intuitiva, cade nel deismo, pel quale non si può conoscere assolutamente niente, nemmeno dal punto di vista pratico.
Ora io dico che il bello è il simbolo del bene morale. E che anche solo sotto questo punto di vista (di una relazione che è naturale in ognuno, ed ognuno esige dagli altri come un dovere) esso piace con la pretesa al consenso universale, mentre in esso l’animo si sente come nobilitato ed elevato sulla semplice capacità di provar piacere dalle impressioni dei sensi, ed apprezza il valore degli altri secondo una massima simile del loro Giudizio. È l’intelligibile ciò cui mira il gusto, come è stato dimostrato nel paragrafo precedente; ad esso, cioè, in cui si accordano anche le nostre facoltà superiori della conoscenza, e senza del quale nascerebbe una profonda contradizione da la natura delle facoltà conoscitive e le pretese del gusto. In questa facoltà di Giudizio non si vede, come quando è empirico, sottoposto all’eteronomia delle leggi dell esperienza: riguardo agli oggetti di un piacere così puro esso dà a se stesso la legge, come fa la ragione riguardo alla facoltà di desiderare; e, sia per questa interna possibilità che è nel soggetto, sia per la possibilità esterna una natura che si accordi con la prima, il Giudizio si vede legato a qualche cosa che è nel soggetto stesso e fuori di esso, che non è natura né libertà, ma è congiunto col principio di quest’ultima, vale a dire col soprasensile, nel quale la facoltà teoretica e la pratica si congiungono in una maniera comune, ma sconosciuta. Vogliamo indicare alcuni punti di questa analogia senza per altro lasciare inosservate le differenze.
1) Il bello piace immediatamente (ma solo nell’intuizione riflettente, non, come la moralità, nel concetto). 2) Esso piace senza alcun interesse (il bene morale è bensì necessariamente legato con un interesse, ma non con un interesse che precede il giudizio di piacere, perché anzi l’interesse è prodotto dal giudizio). 3) La libertà dell’immaginazione (quindi della sensibilità della nostra facoltà) è rappresentata nel giudizio del bello come in accordo con la legalità dell’intelletto (nel giudizio morale, la libertà del volere è concepita come accordo della volontà con se stessa secondo le leggi universali della ragione). 4) Il principio soggettivo del giudizio del bello è rappresentato come universale, cioè valevole per ognuno, ma non conoscibile mediante alcun concetto universale (il principio oggettivo della moralità è rappresentato anch’esso come universale, cioè valido per tutti i soggetti e nello stesso tempo per tutte le azioni di ogni soggetto, ma anche come conoscibile mediante un concetto universale). Perciò il giudizio morale è non soltanto capace di principii costitutivi determinati, ma non è possibile se non sul fondamento delle massime che derivano da quei principii e dalla loro universalità.
L’osservazione di questa analogia è familiare anche al senso comune; e chiamiamo spesso gli oggetti belli della natura o dell’arte con termini che sembrano avere per principio un giudizio morale. Diciamo maestosi e magnifici degli edifici e degli alberi, ridenti e gai i campi; anche i colori li chiamiamo innocenti, modesti, teneri, perche eccitano sensazioni, le quali hanno qualche cosa di analogo con la coscienza di uno stato d’animo prodotto da giudizii morali. Il gusto rende possibile così il passaggio senza un salto troppo brusco, dall’attrattiva dei sensi all’interesse morale abituale, rappresentando l’immaginazione anche nella sua libertà come capace di esser determinata in modo da accordarsi con l’intelletto, e insegnando a trovare perfino negli oggetti dei sensi, anche senza attrazione sensibile, un libero piacere.
La divisione di una critica in dottrina degli elementi e dottrina del metodo (metodologia), la quale precede la scienza, non può essere applicata alla critica del gusto; perché non v’è, né può esservi, una scienza del bello, e il giudizio del gusto non è determinabile per mezzo di principii. Ciò che si potrebbe dire scientifico in ogni arte, ciò che concerne la verità nella esibizione del suo oggetto, è bensì la condizione imprescindibile (conditio sine qua non) dell’arte bella, ma non è l’arte stessa. Sicché vi è per l’arte bella soltanto una maniera (modus), non un metodo (methodus). Il maestro deve far vedere all’allievo ciò che deve fare e come lo deve fare; e le regole generali alle quali infine egli riconduce il suo procedimento possono piuttosto servire all’occasione per ricordare all’allievo certi punti principali, anziché ad essergli prescritte. Qui però bisogna aver riguardo ad un certo ideale, che l’arte deve avere davanti agli occhi, sebbene nella pratica non possa mai raggiungerlo interamente. Solo svegliando l’immaginazione dell’allievo all'adeguatezza ad un concetto dato; facendogli notare l’insufficienza dell’espressione rispetto all’idea che il concetto stesso non raggiunge, perché è un’idea estetica; e mediante una critica rigorosa, si potrà impedire che gli esempii che gli sono proposti siano considerati da lui senz'altro come tipi e modelli da imitare, i quali non possano essere sottoposti ad una norma più alta e al suo proprio giudizio; il che soffocherebbe il genio e con esso anche la libertà dell’immaginazione nella sua conformità a leggi, senza cui non è possibile alcun’arte bella e nemmeno un gusto che la giudichi esattamente.
La propedeutica di tutte le arti belle, in quanto mira al grado supremo della loro perfezione, sembra che non consista nei precetti, ma nella coltura delle facoltà dell’animo per via di quelle conoscenze preliminari che si chiamano humaniora, probabilmente perché umanità significa da un lato il sentimento universale della simpatia e dall’altro la facoltà di poter comunicare intimamente ed universalmente; due proprietà che, prese insieme, costituiscono la socievolezza propria dell’umanità, per cui essa si differenzia dalla limitatezza propria della vita animale. L’epoca e i popoli, in cui la spinta viva a una vita associata regolata da leggi che fa di un popolo una comunità durevole, lottò con le grandi difficoltà in cui si avvolge l’arduo problema dell’unione della libertà (e quindi anche dell’eguaglianza) con la costrizione (piuttosto col rispetto e la sottomissione al dovere, che con la paura); quest’epoca e questo popolo dovettero trovare dapprima l’arte della comunicazione scambievole delle idee tra la parte più colta e la parte più rozza, l’accordo dello sviluppo e del raffinamento della prima con la semplicità naturale e l’originalità della seconda, stabilendo in tal modo quel mezzo tra la più alta coltura e la semplice natura, che costituisce anche per il gusto, in quanto senso comune degli uomini, quella giusta misura, che non può essere data secondo regole generali.
Difficilmente un’epoca successiva potrà far a meno di quei modelli, perché essa si terrà sempre meno vicino alla natura, e infine, se non ne avesse degli esempii permanenti, sarebbe appena in istato di farsi un concetto di quella felice unione, nello stesso popolo, della costrizione legale propria della più alta coltura con la forza e la sicurezza della libera natura, che sente il proprio valore.
Ma, poiché in fondo il gusto è una facoltà di giudicare dalla rappresentazione sensibile delle idee morali (mediante una certa analogia della riflessione su l’una e le altre), e poiché ancora da questa facoltà, e da una maggiore capacità (fondata su di essa) di avvertire il sentimento risultante dalle idee morali (che si chiama sentimento morale) deriva quel piacere che il gusto proclama valido per l’umanità in generale e non pel sentimento particolare di ciascuno; si vede chiaramente che la vera propedeutica per fondare il gusto è lo sviluppo delle idee morali e la coltura del sentimento morale; perché solamente quando la sensibilità è d’accordo con questo sentimento, il vero gusto può ricevere una forma determinata ed immutabile.
*1. La definizione del gusto, messa qui a fondamento, è la seguente: esso è la facoltà di giudicare del bello. Ma che cosa si richieda affinché un oggetto si possa chiamare bello, sarà messo in evidenza dall’analisi dei giudizii del gusto. I momenti, cui ha riguardo questa facoltà del giudizio nella sua riflessione, ho cercato di giudicarli sulla scorta delle funzioni logiche (perché nel giudizio di gusto è pur sempre contenuta qualche relazione con l’intelletto). Ho cominciato dal momento della qualità, perché il giudizio estetico del bello ha riguardo ad esso in primo luogo.↩
*2. Un giudizio sopra un oggetto del piacere può essere del tutto disinteressato ed insieme molto interessante, vale a dire che esso può non fondarsi sopra alcun interesse, ma produrne uno esso stesso; tali sono i giudizii morali. Ma i giudizii di gusto non fondano per se stessi alcun interesse. Solo nella società diventa interessante l’aver gusto, di che la ragione sarà data in sèguito. ↩
*3. L'obbligazione al godimento è un’assurdità manifesta. E tale è anche una pretesa obbligazione a qualunque azione, che abbia per scopo unicamente il piacere, sia anche questo spirituale (o abbellito) quando si voglia, o perfino uno di quei piaceri mistici cosiddetti celesti. ↩
*4. I modelli del gusto, relativamente alle arti della parola, debbono essere presi da una lingua morta e dotta: da una lingua morta, per non subire i cambiamenti che colpiscono inevitabilmente le lingue viventi, per cui le espressioni nobili una volta diventano triviali, quelle che erano in uso diventano vecchie, e le nuove hanno una breve durata; in una lingua dotta, perché vi sia una grammatica non sottoposta alle variazioni arbitrarie della moda, e che conservi le sue regole immutabili.↩
*5. Si troverà che un volto perfettamente regolare, quale un pittore potrebbe desiderare d’avere per modello, ordinariamente non esprime niente; gli è che esso non ha nulla di caratteristico, e quindi esprime piuttosto l’idea della specie che il carattere proprio d’una persona. Il caratteristico di questa specie, quando sia esagerato, cioè pregiudichi all’idea normale stessa (alla finalità della specie), si chiama caricatura. L’esperienza dimostra pure che tali volti perfettamente regolari d’ordinario annunziano soltanto degli uomini mediocri nell’interno; probabilmente (se è lecito ammettere che la natura esprima esteriormente le proporzioni interne) perché, quando nessuna disposizione dell’animo si eleva al disopra di quella proporzione necessaria perché un uomo sia esente da difetti, non è da aspettarsi nulla di ciò che si chiama genio, nel quale la natura sembra uscire dalle proporzioni ordinarie delle facoltà dell’animo a profitto di una sola.↩
*6. Contro questa definizione si potrebbe obiettare che vi son cose nelle quali si vede una forma finale, senza riconoscervi uno scopo, — per esempio, questi utensili di pietra che si son trovati spesso nelle tombe antiche, e che hanno un buco che forma una specie di manico —; e che non son dichiarate belle, pure presentando chiaramente nella loro figura una finalità, di cui non si conosce lo scopo. Ma basta scorgere che sono oggetti dell’arte per affermare che la loro figura si riferisce a qualche intenzione, ad uno scopo determinato. È perciò che non vi è piacere immediato nella loro intuizione. Invece un fiore, per esempio un tulipano, è ritenuto bello, perché nella sua percezione si nota una certa finalità, che, per quanto possiamo giudicarne, non si riferisce ad alcuno scopo.↩
*7. Gli affetti sono specificamente distinti dalle passioni. I primi si riferiscono solo al sentimento, le seconde appartengono alla facoltà di desiderare, e sono inclinazioni che rendono difficile o impossibile ogni determinazione della volontà per mezzo di principii. I primi sono impetuosi ed irriflessi, le seconde durevoli e riflesse: così lo sdegno, come collera, è un affetto, e come odio (desiderio di vendetta) è una passione. La passione non può essere chiamata sublime mai e in nessuna relazione; perché, se nell’affetto la libertà spirituale è impedita, nella passione è addirittura soppressa.↩
*8. Vedi la traduzione tedesca del suo scritto: Ricerche filosofiche sull’origine dei nostri concetti del bello e del sublime. Riga, Hartknoch 17738. ↩
*9. Per essere in dritto di esigere il consenso universale in un giudizio della facoltà estetica di giudicare, il quale riposi unicamente su principii soggettivi, è sufficiente ammettere: 1) che in ogni uomo le condizioni soggettive di questa facoltà sono le stesse, per ciò che concerne il rapporto delle facoltà conoscitive, che vi son messe in attività, con una conoscenza in generale; il che dev’esser vero, perché altrimenti gli uomini non potrebbero comunicarsi le loro rappresentazioni e la conoscenza stessa; 2) che il giudizio non ha in vista se non questo rapporto (e quindi la condizione formale della facoltà di giudicare), e che è puro, cioè non mescolato né con concetti dell’oggetto, né con sensazioni, in quanto ragioni determinanti. Quando manchi questa condizione, si fa un’applicazione illegittima di un dritto, che ci è dato da una legge, ad un caso particolare; ma con ciò non è distrutto il dritto in generale. ↩
*10. Si vede subito che l'illuminismo (Aufklärung) è una cosa facile in tesi, ma difficile e lunga ad ottenersi in ipotesi; perché il non esser passivo con la propria ragione, facendola essere sempre legislatrice di se stessa, è qualcosa di molto facile per un uomo che vuol restar fedele al suo scopo essenziale e non desidera sapere ciò che è al disopra della sua intelligenza; ma poiché la tendenza a sapere al di là si può appena impedire, e non mancherà mai chi promette con molta sicurezza di potere appagare questo desiderio di sapere, sarà molto difficile mantenere o stabilire la semplice negativa (che costituisce il vero illuminismo) nel modo di pensare (specialmente presso l’opinione pubblica).↩
*11. Si potrebbe chiamare il gusto sensus communis aestbeticus, e l’intelligenza comune sensus communis logicus.↩
*12. Nel mio paese, un uomo del popolo cui si proponga un problema come quello dell’uovo di Colombo risponde che quella non è arte, ma scienza, vale a dire che chi sa la cosa può farla: e proprio lo stesso dice di tutte le pretese arti dei giocolieri. Quella del funambolo, invece, egli non esiterà punto a chiamarla arte. ↩
*13. Forse non è stato mai detto qualche cosa di più sublime, o espresso in un modo più sublime un pensiero, come in quell’iscrizione del tempio d’Iside (la madre natura): «Io sono tutto ciò che è, che tu e che sarà, e nessun mortale ha sollevato il mio velo». Segnet si servì di questa idea per mezzo di una figura ingegnosa messa nel frontespizio della sua fisica, affine di riempire di un sacro orrore l’allievo che si accingeva ad introdurre in questo tempio, e di disporre il suo spirito ad una solenne attenzione. ↩
*14. Le tre prime facoltà trovano nella quarta la loro unione. Hume nella sua storia dà ad intendere agli inglesi che, sebbene essi non cedano in nulla agli altri popoli del mondo rispetto alle tre prime facoltà, isolatamente considerate, debbono cedere ai loro vicini, i francesi, relativamente alla facoltà unificatrice.↩
*15. II lettore non considererà questo abbozzo di una possibile divisione delle belle arti come una teoria nell’intenzione dell’autore. Si tratta di uno di quei tanti tentativi che si possono, e si debbono, fare. ↩
*16. Pare strano che il giardinaggio possa essere considerato come una specie di pittura, sebbene rappresenti le sue forme materialmente; ma, poiché esso le trae realmente dalla natura (gli alberi, i cespugli, le erbe, i fiori li trasse, almeno originariamente, dalle selve e dai campi), e non è un’arte come la plastica, poiché non è condizionato nella sua composizione (come l’architettura) da alcun concetto dell’oggetto e del suo scopo, ma soltanto dal libero giuoco dell’immaginazione nella contemplazione; esso si accorda con la pittura semplicemente estetica, che non ha alcun tema determinato (mette insieme gradevolmente aria, terra e acqua con luci ed ombre). — In generale il lettore terrà tutto ciò in conto di un tentativo, fatto per riportare le belle arti a un principio, che, in questo caso, è quello dell’espressione di idee estetiche (secondo l’analogia di un linguaggio), e non lo riguarderà come una deduzione definitiva da quel principio.↩
*17. Debbo confessare che una bella poesia mi ha dato sempre un diletto puro, laddove la lettura del miglior discorso di un oratore del popolo romano o di un oratore moderno, del parlamento o della cattedra, per me è stata sempre accompagnata dallo spiacevole sentimento di disapprovazione per un’arte insidiosa, che, in cose importanti, vuol muovere gli uomini, come fossero macchine, ad un giudizio cui una riflessione calma deve togliere presso di essi tutto il suo peso. L’eloquenza e l’arte del dire (insieme, retorica) appartengono alle arti belle; ma l’arte oratoria (ars oratoria), in quanto arte di servirsi della debolezza umana ai propri fini (siano supposti o siano realmente buoni quanto si voglia), non merita alcuna stima. Cosi quest’arte raggiunse il suo massimo grado, ad Atene e a Roma, in un tempo in cui lo stato correva alla rovina e il vero patriottismo era estinto. Chi, con una chiara visione delle cose, possiede la lingua nella sua ricchezza e purezza, con un’immaginazione feconda ed abile nell’esibizione delle sue idee, s’interessa vivamente e cordialmente al vero bene, è il vir bonus dicendi peritus, l’oratore senz’arte, ma pieno d’efficacia, quale lo domanda Cicerone, senza che peraltro egli stesso sia rimasto sempre fedele a questo ideale.↩
*18. Quelli che hanno raccomandato, negli esercizi religiosi domestici, anche il canto di inni religiosi, non hanno riflettuto che con una divozione così rumorosa (già perciò generalmente farisaica) imponevano una grande molestia al pubblico, obbligando il vicinato o a prender parte al canto o a rinunziare ad ogni occupazione mentale. ↩
*19. Si può chiamare giudizio ragionante (iudicium ratiocinans) ogni giudizio che si proclama universale; in quanto esso può far da maggiore in un sillogismo. Invece si può chiamare giudizio razionale (iudicium ratiocinatum) soltanto quello che è concepito come la conclusione d’un sillogismo, per conseguenza come fondato a priori. ↩
*20. II modo intuitivo della conoscenza deve essere opposto al discorsivo (non al simbolico). Il primo è o schematico, per via della dimostrazione, o simbolico, come rappresentazione secondo una semplice analogia.↩
1. «Sachem», titolo di capo, in popolazioni indiane [T.].↩
2. II testo di Kant ha: «im Gebrauche» (nell’uso): «im Gerüche» è correzione di B. Erdmann, accettata dal Vorländer [T.].↩
3. Nella la e 2a edizione: indeterminata. (V.). ↩
4. Autore di una History of Sumatra, London 18113 [T.].↩
5. NICOLA SAVARY (1750-1785), viaggiatore e autore delle Lettres sur l’Egypte, Paris 1788-9 [T.].↩
6. Hor. Ben. de Saussure (1740-1799), naturalista ginevrino, celebre per aver fatto pel primo l’ascensione del Monte Bianco [T.].↩
7. 1ª ed. (V.).
8. Trad. it., Milano 1804 [T.].↩
9. vernünftelnd.↩
10. ihre Reflexion.↩
11. Gemeinsinn.↩
12. Pietro Camper (1722-1789), anatomico olandese [T.].↩
13. Schöne Wissenschaften; sono, presso a poco, le belle lettere nostre [T.]. ↩
14. Geist.↩
15. È l’epistola al maresciallo Keith, Sur les vaines terreurs de la mort et les frayeurs d’une autre vie: nelle Oeuvres du philosophe de Sans-Souci, 1750, vol. II. Qui è restituito il testo francese: Kant dà la traduzione in prosa [T.].↩
16. geistreiche.↩
17. Affectibilität [T.]. ↩
18. Selbständiges Wohlgefallen [T.].↩
19. Laune; il LESSING (Hamburgische Dramaturgie, 22 marzo 1768; Werke, ed. Göring, XII, 170-1), distinguendo la Laune dall'humour inglese, dice che quella risponde piuttosto all’humeur francese [T.].↩
20. Vernünftelnd↩
21. Privaturtheil, giudizio privato [T.].↩
Indice dei Critica del Giudizio
Ultima modifica 2024.01