[Indice dei Critica del Giudizio]
Allorché col considerare la filosofia in quanto essa contiene i principii della conoscenza razionale delle cose mediante concetti (e non semplicemente, come la logica, principii della forma del pensiero in generale, senza distinguerne gli oggetti), la si divide, come si fa comunemente, in teoretica e pratica, — si ha perfettamente ragione di condursi in tal guisa. Ma allora è necessario che anche i concetti, i quali assegnano il loro oggetto ai principii di questa conoscenza razionale, siano specificamente differenti; perché altrimenti essi non giustificherebbero una divisione, la quale suppone sempre un’opposizione dei principii della conoscenza razionale propria delle diverse parti di una scienza.
Ma non vi sono se non due specie di concetti, che ammettano altrettanti principii differenti della possibilità dei loro oggetti; cioè i concetti della natura e il concetto della libertà. E, poiché i primi rendono possibile la conoscenza teoretica, mediante principii a priori, e il secondo invece non contiene già nel suo stesso concetto, riguardo a questa, che un principio negativo (della semplice opposizione), mentre stabilisce per la determinazione della volontà principii estensivi, che perciò si chiamano pratici; la filosofia è divisa con ragione in due parti, del tutto diverse riguardo ai principii, cioè in teoretica in quanto filosofia della natura, e pratica in quanto filosofia morale (perché così è chiamata la legislazione pratica della ragione secondo il concetto della libertà). Ma finora una grande confusione ha dominato nell’uso di queste espressioni per la divisione dei diversi principii, e quindi della filosofia: si identificava ciò che è pratico secondo i concetti della natura con ciò che è pratico secondo il concetto della libertà; e così sotto la stessa denominazione di filosofia teoretica e pratica, si faceva una divisione, con la quale effettivamente non si divideva niente (poiché le due parti potevano avere gli stessi principii).
La volontà, in quanto facoltà di desiderare, è una. delle varie cause naturali che sono nel mondo, cioè quella che opera secondo concetti; e tutto ciò che è rappresentato da una volontà come possibile (o necessario), si chiama praticamente possibile (o necessario); per distinguerlo dalla possibilità o necessità fisica di un effetto, la cui causa non è determinata secondo concetti (ma, come nella materia inanimata, dal meccanismo, e, negli animali, dall’istinto). — Ora qui, riguardo al pratico, si lascia indeterminato se il concetto, che dà la regola alla causalità della volontà, sia un concetto della natura o un concetto della libertà.
Ma quest’ultima distinzione è essenziale, poiché, se il concetto che determina la causalità è un concetto della natura, i principii saranno tecnico-pratici; se invece è un concetto della libertà, saranno etico-pratici; e siccome nella divisione d’una scienza razionale importa unicamente quella differenza di oggetti la cui conoscenza abbisogna di principii differenti, i primi apparterranno alla filosofia teoretica (in quanto dottrina della natura), e i secondi invece costituiranno essi soli la seconda parte, cioè la filosofia pratica (in quanto dottrina dei costumi).
Tutte le regole tecnico-pratiche (cioè quelle dell’arte e dell’abilità in generale, ed anche della prudenza, in quanto attitudine ad avere influenza sugli uomini e sulla loro volontà), in quanto i loro principii riposano su concetti, debbono essere annoverate soltanto tra i corollari della filosofia teoretica. Perché esse riguardano solo la possibilità delle cose secondo concetti della natura, quali sono non soltanto i mezzi reperibili a tal fine nella natura, ma anche la volontà (come facoltà di desiderare, e quindi come facoltà naturale), in quanto può essere determinata in modo conforme a quelle regole da motivi naturali. Pure tali regole pratiche non si chiamano leggi (come le leggi fisiche), ma soltanto precetti; e ciò perché la volontà non sta solamente sotto il concetto della natura, ma anche sotto quello della libertà, in rapporto a cui i suoi principii si chiamano leggi, e, insieme con le loro conseguenze, costituiscono essi soli la seconda parte della filosofia, cioè la pratica.
Allo stesso modo che la soluzione dei problemi della geometria pura non appartiene ad una parte speciale di questa scienza, e che l’agrimensura non merita il nome di geometria pratica, come una seconda parte della geometria in generale, e distinta dalla geometria pura; così, e a più forte ragione, non dev’essere riguardata come una parte pratica della scienza della natura l’arte meccanica o chimica delle esperienze o delle osservazioni, ed infine non devono essere considerate come filosofia pratica l’economia domestica, l’agricoltura, la politica, l’arte del condursi in società, i precetti della dietetica, e neppure la dottrina generale della felicità e l’arte di frenare le inclinazioni e reprimere gli affetti in vista della felicità stessa; quasi che tutte queste cose costituiscano la seconda parte della filosofia in generale. Esse tutte, difatti, non contengono se non regole dell’abilità, per conseguenza tecnicopratiche, destinate a produrre un effetto, che è possibile secondo i concetti naturali delle cause ed effetti; i quali concetti, poiché appartengono alla filosofia teoretica, sono sottoposti a quei precetti quali semplici corollari tratti dalla filosofia teoretica (dalla scienza della natura), e perciò non possono pretendere di avere un posto in una speciale filosofia, che si chiami pratica. Per contrario, i precetti etico-pratici, che si fondano interamente sul concetto della libertà ed escludono ogni partecipazione della natura nella determinazione della volontà, costituiscono una specie tutta particolare di precetti; i quali, come le regole cui obbedisce la natura, si chiamano semplicemente leggi, ma non riposano, come queste, su condizioni sensibili, sibbene sopra un principio soprasensibile, e richiedono esclusivamente per sé, accanto alla parte teoretica della filosofia, un’altra parte sotto il nome di filosofia pratica.
Si vede da ciò che un insieme di precetti pratici, dati dalla filosofia, non costituisce punto una parte speciale della filosofia stessa, accanto alla parte teoretica, pel solo fatto che essi sono pratici; perché essi potrebbero essere pratici egualmente, se i loro principii (come regole tecnicopratiche) fossero tratti dalla conoscenza teoretica della natura; bisogna, invece, che il loro principio non sia derivato dal concetto della natura, che ha sempre per condizione dati sensibili, e riposi per conseguenza sul soprasensibile, che solo il concetto della libertà ci fa conoscere mediante leggi formali; e quindi bisogna che i precetti siano etico-pratici, cioè che non siano soltanto precetti e regole relative a questo o quello scopo, ma leggi senza precedente riferimento a scopi ed intenzioni.
Ma l’insieme di tutti gli oggetti ai quali son riferiti quei concetti, per darne, se è possibile, una conoscenza, può essere diviso secondo la varia sufficienza o insufficienza delle nostre facoltà rispetto a tale scopo.
I concetti hanno un loro campo, in quanto sono riferiti ad oggetti, a prescindere dalla possibilità della conoscenza degli oggetti stessi; e questo campo è determinato unicamente dal rapporto del loro oggetto con la nostra facoltà di conoscere in generale. — La parte di questo campo, in cui è possibile per noi la conoscenza, è un territorio (territorium) per questi concetti e per la facoltà di conoscere a ciò richiesta. La parte del territorio, in cui questi concetti sono legislativi, è il dominio (ditio) di essi e della facoltà di conoscere corrispondente. Sicché i concetti dell’esperienza hanno bensì il loro territorio nella natura, che è l’insieme di tutti gli oggetti del senso, ma non vi hanno alcun dominio (vi hanno soltanto il loro domicilio, domicilium); perché essi sono formati bensì secondo leggi, ma non sono legislativi, e le regole che si fondano su di essi sono empiriche, epperò contingenti.
Tutta la nostra facoltà di conoscere ha due domimi, quello dei concetti della natura e quello del concetto della libertà; perché mediante entrambi essa è legislatrice a priori. Ora la filosofia si divide anche, come questa facoltà, in teoretica e pratica. Ma il territorio, su cui fonda il suo dominio e su cui esercita la sua legislazione, è sempre soltanto l’insieme degli oggetti di ogni esperienza possibile, in quanto essi non sono considerati se non come semplici fenomeni; perché altrimenti non si potrebbe pensare alcuna legislazione dell’intelletto relativa a tali oggetti.
La legislazione mediante concetti naturali avviene mediante l’intelletto, ed è teoretica. La legislazione mediante il concetto di libertà è data dalla ragione, ed è puramente pratica. Soltanto nel campo pratico la ragione può essere legislatrice: relativamente alla conoscenza teoretica (della natura), essa può solo trarre da leggi date (in quanto è conoscitrice di leggi mediante l’intelletto) conseguenze, che debbono però restare sempre nei limiti della natura. Ma, viceversa, la ragione non è legislatrice dovunque vi siano regole pratiche, perché queste possono anche essere tecnico-pratiche.
L’intelletto e la ragione hanno dunque due legislazioni differenti su di un solo e medesimo territorio dell’esperienza, senza che l’una possa pregiudicare l’altra. Perché ha così poco influsso il concetto della natura sulla legislazione fornita dal concetto della libertà, quanto poco questo turba la legislazione della natura. — La possibilità di pensare, almeno senza contradizione, la coesistenza delle due legislazioni, e delle facoltà relative nello stesso soggetto, fu dimostrata dalla critica della ragion pura, che annientò le obiezioni che le si muovono rivelando in esse l’illusione dialettica.
Ma, che questi due diversi dominii che si limitano perpetuamente, — non nelle loro legislazioni, è vero, ma nei loro effetti nel mondo sensibile, — non possano costituirne uno solo, dipende da ciò: il concetto della natura può ben rappresentare i suoi oggetti nell’intuizione, ma non come cose in sé, sibbene solo come fenomeni; il concetto della libertà invece può rappresentare il suo oggetto come cosa in sé, ma non nell’intuizione; per conseguenza, nessuno dei due può dare una conoscenza teoretica del suo oggetto (e perfino del soggetto pensante) come cosa in sé, cioè del soprasensibile, la cui idea deve esser posta alla base della possibilità di tutti quegli oggetti dell’esperienza, ma per se stessa non può mai essere elevata ed estesa fino a farne una conoscenza.
V’è dunque un campo illimitato, ma anche inaccessibile a tutta la nostra facoltà di conoscere, cioè il campo del soprasensibile, dove non troviamo un territorio per noi, e sul quale non possiamo avere per conseguenza, né pei concetti dell’intelletto né per quelli della ragione, un dominio di conoscenza teoretica; un campo che noi dobbiamo bensì occupare con idee a vantaggio tanto dell’uso teoretico che pratico della ragione, senza poter dare però a queste idee, in relazione con le leggi che derivano dal concetto della libertà, se non una realtà pratica: con che la nostra conoscenza teoretica non si estende menomamente fino al soprasensibile.
Ora, sebbene vi sia un immensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura, o il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, o il soprasensibile, in modo che non è possibile nessun passaggio dal primo al secondo (mediante l’uso teoretico della ragione), quasi fossero due mondi tanto diversi, che il primo non potesse avere alcun influsso sul secondo; tuttavia il secondo deve avere un influsso sul primo, cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi, e la natura, per conseguenza, deve poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi, che costituiscono la sua forma, possa almeno accordarsi con la possibilità degli scopi, che in essa debbono essere realizzati secondo le leggi della libertà. — Sicché vi deve essere un fondamento dell’unità tra il soprasensibile, che sta a fondamento della natura, e quello che il concetto della libertà contiene praticamente; un fondamento il cui concetto è insufficiente, in verità, a darne la conoscenza, sia teoreticamente che praticamente, e quindi non ha alcun dominio proprio, ma che permette nondimeno il passaggio dal modo di pensare secondo i principii dell’uno al modo di pensare secondo i principii dell’altro.
La critica delle facoltà di conoscere, considerate in ciò che esse possono fornire a priori, non ha propriamente alcun dominio per riguardo agli oggetti; perché essa non è una dottrina, ma ha solo da ricercare se e come, secondo le condizioni delle nostre facoltà, queste possano fornire una dottrina. Il suo campo si estende a tutte le loro pretese, per chiuderle nei limiti della loro legittimità. Ma ciò che non può entrare nella divisione della filosofia può entrare tuttavia, come parte principale, nella critica della facoltà pura di conoscere in generale, se questa facoltà contiene principii che per se stessi non siano validi né per l’uso teoretico né per l’uso pratico.
I concetti della natura, contenenti il fondamento di ogni conoscenza teorica a priori, riposavano sulla legislazione dell’intelletto. — Il concetto della libertà, che conteneva il fondamento di tutti i precetti pratici a priori e indipendenti da ogni condizione sensibile, riposava sulla legislazione della ragione. Sicché le due facoltà, oltre a poter essere applicate secondo la forma logica a principii di qualunque origine essi siano, hanno ancora ciascuna, secondo il proprio contenuto, una loro legislazione, al disopra della quale non ve n’è alcun’altra (a priori), e che perciò giustifica la divisione della filosofia in teoretica e pratica.
Ma nella famiglia delle facoltà conoscitive superiori vi è ancora un termine medio tra l’intelletto e la ragione. Questo termine medio è il Giudizio; del quale si ha ragione di presumere, per analogia, che contenga anch’es-so, se non una sua propria legislazione, almeno un principio proprio di ricercare secondo le leggi, e che in ogni caso sarebbe un principio a priori puramente soggettivo; un principio che, se anche non avrà dominio su verun campo di oggetti, potrà tuttavia avere un qualche suo territorio, così costituito che in esso soltanto quel principio sia valido.
Ma vi è ancora (a giudicarne per analogia) un’altra ragione di mettere in connessione il Giudizio con un altro ordine delle nostre facoltà rappresentative, ragione che sembra ancora più importante di quella della parentela colla famiglia delle facoltà conoscitive. Tutte le facoltà o capacità dell’anima possono infatti essere ricondotte a queste tre, che non si lasciano più a loro volta derivare da un fondamento comune: la facoltà di conoscere, il sentimento del piacere e dispiacere, e la facoltà di desiderare*1. Per la facoltà di conoscere solo l’intelletto è legislatore, se esso è riferito (come dev’essere, allorché è considerato per sé, senza intrusione della facoltà di desiderare), quale facoltà di una conoscenza te or etica, alla natura, rispetto alla quale soltanto (in quanto fenomeno) ci è possibile dare leggi mediante concetti della natura a priori, i quali propriamente sono puri concetti dell’intelletto. — Per la facoltà di desiderare, considerata come una facoltà superiore secondo il concetto della libertà, soltanto la ragione (in cui unicamente risiede questo concetto) è legislatrice a priori. — Ora il sentimento del piacere si trova tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare, allo stesso modo che il Giudizio si trova tra l’intelletto e la ragione. Si può dunque supporre, almeno provvisoriamente, che la facoltà del Giudizio contenga anch’essa per sé un principio a priori, e che, essendo il piacere o il dispiacere necessariamente connesso con la facoltà di desiderare (o che preceda il principio di questa facoltà, quando essa è inferiore; o segua soltanto, come nella facoltà superiore di desiderare, dalla determinazione di essa mediante la legge morale), la facoltà stessa del Giudizio effettui ancora un passaggio dalla pura facoltà di conoscere, vale a dire dal dominio dei concetti della natura, al dominio del concetto della libertà; allo stesso modo che nell’uso logico rende possibile il passaggio dall’intelletto alla ragione.
Così, sebbene la filosofia non possa essere divisa se non in due parti principali, la teoretica e la pratica, e tutto ciò che potremmo dire dei principii proprii della facoltà del Giudizio dovrebbe essere riportato alla parte teoretica, cioè alla conoscenza razionale fondata sopra concetti della natura, tuttavia la critica della ragion pura, — che deve stabilire tutto ciò, prima d’intraprendere la costruzione del suo sistema, a vantaggio della possibilità del sistema stesso, — resta divisa in tre parti: la critica dell’intelletto puro, del Giudizio puro e della ragion pura: facoltà, che son dette pure, perché son legislative a priori.
Il Giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), il Giudizio che opera la sussunzione del particolare (anche se esso, in quanto Giudizio trascendentale, fornisce a priori le condizioni secondo le quali soltanto può avvenire la sussunzione a quell’universale), è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l’universale, esso è semplicemente riflettente.
Il Giudizio determinante sotto le leggi trascendentali universali date dall’intelletto, è soltanto sussuntivo; la legge gli è prescritta a priori, e così esso non ha bisogno di pensare da sé ad una legge per poter sottoporre all’universale il particolare della natura. — Ma vi son così molteplici forme nella natura, e del pari sono tante le modificazioni dei concetti trascendentali universali della natura, le quali son lasciate indeterminate da quelle leggi che fornisce a priori l’intelletto puro, — poiché tali leggi non riguardano se non la possibilità di una natura (come oggetto dei sensi) in generale, — che vi debbono essere perciò anche leggi, le quali, in quanto empiriche, potranno ben essere contingenti secondo il modo di vedere del nostro intelletto, ma che, per essere chiamate leggi (com’è richiesto anche dal concetto di una natura), debbono essere considerate come necessarie secondo un principio, sebbene a noi sconosciuto, dell’unità del molteplice. — Il Giudizio riflettente, che è obbligato a risalire dal particolare della natura all’universale, ha dunque bisogno di un principio, che esso non può ricavare dall’esperienza, perché è un principio, che deve fondare appunto l’unità di tutti i principii empirici sotto principii parimente empirici ma superiori, e quindi la possibilità della subordinazione sistematica di tali principii. Questo principio trascendentale il Giudizio riflettente può dunque darselo soltanto esso stesso come legge, non derivarlo da altro (perché allora diventerebbe Giudizio determinante); né può prescriverlo alla natura, poiché la riflessione sulle leggi della natura si accomoda alla natura, ma questa non si accomoda alle condizioni con le quali noi aspiriamo a formarci di essa un concetto, che è del tutto contingente rispetto alle condizioni stesse.
Ora questo principio non può essere altro che il seguente: poiché le leggi universali della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, che le prescrive ad essa (sebbene soltanto secondo il concetto universale della natura in quanto tale), le leggi particolari empiriche, rispetto a ciò che dalle prime vi è stato lasciato indeterminato, debbono essere considerate secondo un’unità, quale avrebbe potuto stabilire un intelletto (quand’anche non il nostro) a vantaggio della nostra facoltà di conoscere, per render possibile un sistema dell’esperienza secondo particolari leggi della natura. Non è che si debba ammettere la reale esistenza di tale intelletto (poiché questa idea serve come principio solo al Giudizio riflettente, per riflettere, non per determinare) ma per tal modo la facoltà del giudizio dà a se stessa, e non alla natura, una legge.
Ora, poiché il concetto di un oggetto, in quanto contiene anche il principio della realtà di questo oggetto, si chiama scopo, e l’accordo di una cosa con quella disposizione delle cose, che è possibile soltanto secondo scopi, si chiama la finalità della forma di queste cose; il principio del Giudizio, riguardo alla forma delle cose della natura sottoposte a leggi empiriche in generale, è la finalità della natura nella sua molteplicità. In altri termini, la natura è rappresentata mediante questo concetto come se ci sia un intelletto che contenga il principio che dia unità al molteplice delle leggi empiriche di essa.
La finalità della natura è, dunque, un particolare concetto a priori, che ha la sua origine unicamente nel Giudizio riflettente. Perché ai prodotti della natura non si può attribuire qualcosa come un rapporto della natura a scopi, ma si può soltanto adoperare quel concetto per riflettere su di essa in vista del legame dei fenomeni, che è dato da leggi empiriche. Questo concetto è anche del tutto diverso dalla finalità pratica (dell’arte umana o anche della morale), sebbene sia pensato secondo un’analogia con questa finalità.
È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto), — per esempio, come sostanza, — per conoscere a priori la proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può vedere interamente a priori, che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo. — Così, come mostrerò tra poco, il principio della finalità della natura (nella varietà delle sue leggi empiriche) è un principio trascendentale. Perché il concetto degli oggetti, in quanto sono pensati come sottoposti ad esso, non è che il concetto puro di oggetti della possibile conoscenza d’esperienza in genere, e non contiene nulla di empirico. Invece il principio della finalità pratica, che dev’essere pensato nell’idea della determinazione di una volontà libera, sarebbe un principio metafisico; perché il concetto di una facoltà di desiderare in quanto volontà deve essere dato empiricamente (non appartiene ai predicati trascendentali). Nondimeno entrambi i principi! non sono empirici, ma a priori, perché a legare il predicato col concetto empirico del soggetto dei loro giudizi, non è necessaria alcuna ulteriore esperienza, e il legame può essere scorto interamente a priori.
Che il concetto di una finalità della natura appartenga ai principii trascendentali si può vedere a sufficienza dalle massime del Giudizio, che son poste a priori a fondamento dell’investigazione della natura, e che tuttavia non riguardano se non la possibilità dell’esperienza, e, per conseguenza, della conoscenza della natura, ma non semplicemente come natura in generale, sibbene come natura determinata mediante una molteplicità di leggi particolari. — Esse si presentano come sentenze della metafisica, frequenti nel corso di questa scienza, ma sparse, all’occasione di alcune regole, di cui non si può dimostrare la necessità per mezzo di concetti. «La natura prende il più breve cammino» (lex parsimoniae); « essa non fa alcun salto, né nella serie dei suoi cambiamenti, né nella giustapposizione delle sue forme specificamente diverse» (lex continui in natura); «nella grande varietà delle sue leggi empiriche vi è l’unità sotto pochi principii» (principia praeter necessitatem non sunt multiplicanda); e simili.
Ma significa disconoscer interamente la natura di questi principii, quando, a dimostrarne l’origine, si ricorre alla via psicologica. Perché essi non ci dicono ciò che avviene, vale a dire secondo quali regole le nostre facoltà conoscitive compiono realmente il loro ufficio: non come si giudica, ma come si deve giudicare; e questa necessità logica oggettiva non si ottiene quando i principii sono semplicemente empirici. Sicché la finalità della natura rispetto alle nostre facoltà conoscitive e al loro uso, finalità che traspare chiaramente dalle facoltà medesime, è un principio trascendentale dei giudizii, e quindi richiede anche una deduzione trascendentale, con cui deve essere cercato a priori nelle fonti della conoscenza il fondamento di un tal modo di giudicare.
Noi troviamo bensì in primo luogo, nei fondamenti della possibilità dell’esperienza, qualcosa di necessario, cioè le leggi universali senza le quali non può esser pensata la natura in generale (come oggetto dei sensi); e tali leggi riposano sulle categorie, applicate alle condizioni formali di ogni nostra intuizione possibile, in quanto è data egualmente a priori. Il Giudizio, sotto queste leggi, è determinante perché non ha da far altro che sussumere sotto leggi date. Per esempio, l’intelletto dice: ogni cangiamento ha la sua causa (è questa una legge universale della natura); il Giudizio trascendentale non deve se non fornire a priori la condizione, che permetta di sussumere sotto il dato concetto dell’intelletto: cioè la successione delle determinazioni di un’unica e sola cosa. E questa legge è riconosciuta come assolutamente necessaria per la natura in generale (come oggetto di possibile esperienza). — Ma gli oggetti della conoscenza empirica, oltre questa determinazione formale del tempo, sono anche determinati, — o determinabili, per quanto se ne possa giudicare a priori, — in diversi modi; sicché nature specificamente differenti, a prescindere da ciò che hanno di comune in quanto appartengono alla natura in generale, possono essere cause in una infinità di maniere diverse; ed ognuna di queste maniere (secondo il concetto di una causa in generale) deve avere la sua regola, che sia legge, e per conseguenza abbia il carattere della necessità, sebbene noi, per la natura e i limiti delle nostre facoltà conoscitive, non scorgiamo punto questa necessità. Dobbiamo quindi pensare che nella natura, considerandola nelle sue leggi puramente empiriche, siano possibili leggi empiriche infinitamente varie, che, tuttavia, son contingenti per noi (non possono essere conosciute a priori); e secondo le quali giudichiamo come contingente l’unità della natura nelle sue leggi empiriche, e la possibilità dell’unità dell’esperienza (in quanto sistema di leggi empiriche). Ma, poiché bisogna necessariamente presupporre ed ammettere una tale unità, perché altrimenti non si troverebbe una generale connessione delle conoscenze empiriche da formarne un’esperienza totale (le leggi universali dell’esperienza ci mostrano bensì questa connessione delle cose secondo il loro genere, in quanto cose naturali in generale, ma non in quanto si considerino specificamente, come esseri particolari della natura), il Giudizio deve ammettere pel proprio uso, come principio a priori, che ciò che è contingente per noi nelle leggi particolari (empiriche) della natura, contenga tuttavia un’unità conforme a leggi nella composizione del molteplice in un’esperienza possibile in sé, sebbene tale unità noi non possiamo comprenderla e la possiamo soltanto pensare. Per conseguenza, essendo tale unità — che noi riconosciamo bensì conforme ad uno scopo necessario (ad un bisogno) dell’intelletto, ma nello stesso tempo còme contingente in sé, — rappresentata come finalità degli oggetti (in questo caso, della natura), il Giudizio che, relativamente alle cose sottoposte a leggi empiriche possibili (ancora da scoprire), è soltanto riflettente, deve pensare la natura, riguardo a queste ultime secondo un principio della finalità per la nostra facoltà di conoscere, che è espresso nelle massime anzidette del Giudizio. Questo concetto trascendentale di una finalità della natura non è né un concetto della natura né un concetto della libertà, perché esso non attribuisce niente all’oggetto (della natura), ma rappresenta soltanto l’unico modo che noi dobbiamo seguire nella riflessione sugli oggetti della natura allo scopo di ottenere un’esperienza coerente in tutto nel suo complesso; per conseguenza, esso è un principio soggettivo (una massima) del Giudizio. Perciò, come se si trattasse di un caso felice e favorevole al nostro scopo, noi proviamo un sentimento di piacere (propriamente, di liberazione da un bisogno), quando c’imbattiamo, tra le leggi puramente empiriche, in siffatta unità sistematica; sebbene dobbiamo necessariamente ammettere l’esistenza dell’unità stessa, senza poterla tuttavia né comprendere né dimostrare.
Per convincersi dell’esattezza della deduzione di questo concetto e della necessità di ammetterlo come un principio trascendentale della conoscenza, basta pensare all’importanza di questo problema: delle percezioni date di una natura che contiene un’infinita varietà di leggi empiriche, fare un’esperienza coerente; il quale problema sta a priori nel nostro intelletto. L’intelletto, in verità, è in possesso a priori di leggi universali della natura, senza cui non potrebbe esservi alcun oggetto d’esperienza; ma esso ha bisogno, inoltre, di un certo ordine della natura nelle leggi particolari, che esso può conoscere solo empiricamente e che rispetto ad esso son contingenti. Queste regole, senza le quali non potrebbe esservi passaggio dall’analogia generale di una esperienza possibile in generale all’analogia particolare, l’intelletto deve pensarle come leggi (vale a dire, come necessarie); perché altrimenti esse non costituirebbero un ordine della natura; e ciò, malgrado che l’intelletto non conosca la loro necessità né possa mai conoscerla. Così, sebbene l’intelletto non possa determinar nulla a priori rispetto ad esse (agli oggetti), deve nondimeno, per cercare queste cosiddette leggi empiriche, porre a fondamento di ogni riflessione su di esse un principio a priori, che cioè esse rendano possibile un ordine conoscibile della natura, un principio che è espresso dalle seguenti proposizioni: nella natura v’è una subordinazione di generi e specie, che noi possiamo trovare; i generi si approssimano sempre più ad un principio comune, in modo che è possibile il passaggio dall’uno all’altro, e quindi a uno più elevato; se da principio pare inevitabile al nostro intelletto che si debbano ammettere per gli effetti specificamente diversi della natura altrettante differenti specie di causalità, esse nondimeno possono restringersi sotto un minimo numero di principii, che noi dobbiamo ricercare, etc. Questo accordo della natura con la nostra facoltà di conoscere è presupposto a priori dal Giudizio, allo scopo di riflettere su di essa secondo le sue leggi empiriche; ma l’accordo è riconosciuto nel tempo stesso dall’intelletto oggettivamente come contingente, e soltanto il Giudizio lo attribuisce alla natura come una finalità trascendentale (rispetto alla facoltà conoscitiva del soggetto); perché senza questa supposizione non avremmo alcun ordine della natura secondo leggi empiriche e per conseguenza non vi sarebbe nessuna guida per l’esperienza e la ricerca in tanta varietà delle leggi stesse.
Difatti, è agevole pensare che, malgrado l’uniformità delle cose naturali rispetto a quelle leggi universali senza cui la forma d’una conoscenza d’esperienza in genere sarebbe impossibile, la differenza specifica delle leggi empiriche della natura e dei loro effetti potrebbe essere così grande, che sarebbe impossibile pel nostro intelletto di scoprirvi un ordine comprensibile, di dividere i suoi prodotti in generi e specie, in modo da applicare i principii della spiegazione e dell’intelligenza dell’uno alla spiegazione e all’intelligenza dell’altro, e di giungere a un’esperienza coerente da una materia così confusa (in realtà, soltanto infinitamente varia e non adeguata alla nostra facoltà comprensiva).
Il Giudizio ha in sé, dunque, anche un principio a priori della possibilità della natura, ma soltanto dal punto di vista soggettivo, col quale prescrive, non già alla natura (in quanto autonomia), ma a se stesso (in quanto eauto-nomia) una legge per la riflessione della natura, che si potrebbe chiamare la legge della specificazione della natura relativamente alle sue leggi empiriche: una legge, che esso non conosce a priori nella natura, ma ammette, — a fine di render comprensibile all’intelletto un ordine della natura nella ripartizione che esso fa delle sue leggi universali, — quando vuol subordinare a queste la molteplicità delle leggi particolari. Sicché, quando si dice che la natura specifica le sue leggi universali secondo il principio d’una finalità relativa alla nostra facoltà di conoscere, vale a dire in conformità alla funzione necessaria dell’intelletto umano, che è quella di trovare l’universale, cui dev’essere ricondotto il particolare fornito dalla percezione, e il legame nell’unità del principio pel diverso (che è l’universale rispetto a ciascuna specie) non si prescrive in tal modo una legge alla natura, né se ne ricava una da essa con l’osservazione (sebbene quel principio possa essere confermato da questa). Giacché non si tratta di un principio del Giudizio determinante, ma semplicemente di quello riflettente; si vuole soltanto, qualunque sia la disposizione delle leggi universali della natura, poter rintracciare le sue leggi empiriche mediante quel principio e le massime che ne derivano, perché, senza ciò, noi non possiamo, con l’uso del nostro intelletto, estendere la nostra esperienza ed acquistar conoscenza.
L’accordo pensato della natura, nella varietà delle sue leggi particolari, col nostro bisogno di trovare per essa principii universali, deve esser giudicato come contingente, per quanto ne possiamo sapere; ma nello stesso tempo come inevitabile per bisogno del nostro intelletto, e quindi come una finalità per la quale la natura si accorda col nostro intento, ma soltanto in quanto questo mira alla conoscenza. — Le leggi universali dell’intelletto, che sono nel tempo stesso leggi della natura, sono tanto necessarie rispetto ad esso (sebbene derivate dalla spontaneità) quanto le leggi del movimento della materia; la loro origine non presuppone alcun intento rispetto alle nostre facoltà conoscitive, perché è soltanto per mezzo di esse che noi giungiamo a un concetto di ciò che è la conoscenza delle cose (della natura); ed esse appartengono necessariamente alla natura in quanto oggetto della nostra conoscenza in generale. Ma che l’ordine della natura nelle sue leggi particolari, in questa varietà ed eterogeneità, almeno possibili, che trascendono ogni nostra facoltà di comprensione, sia realmente conforme a questa facoltà, è, per quanto ci è dato di scorgere, qualche cosa di contingente; e la scoperta di tale ordine è un’impresa dell’intelletto, che viene compiuta avendo di mira un fine necessario dell’intelletto stesso, e cioè l’unificazione dei principii nella natura: un fine, che il Giudizio deve poi attribuire alla natura, perché l’intelletto non le può prescrivere alcuna legge a questo proposito.
Il conseguimento di qualunque scopo è accompagnato dal sentimento di piacere; e, se la condizione dello scopo è una rappresentazione a priori, come, in questo caso, è un principio per Giudizio riflettente in generale, il sentimento di piacere è anch’esso determinato mediante un principio a priori e valido per ognuno; e, precisamente, è determinato soltanto mediante la relazione dell’oggetto con la facoltà di conoscere, senza che il concetto della finalità riguardi menomamente la facoltà di desiderare, distinguendosi così interamente da ogni finalità pratica della natura.
Infatti, se la concordanza delle percezioni con le leggi fondate sui concetti universali della natura (le categorie) non produce il minimo effetto sul sentimento di piacere, né può produrne alcuno, perché l’intelletto in tal caso agisce necessariamente, secondo la propria natura, e senza intenzione; per converso, la scoperta dell’unione di due o parecchie leggi empiriche eterogenee della natura sotto uno stesso principio è fonte di un notevolissimo piacere: spesso anzi di un’ammirazione, la quale non cessa quando anche l’oggetto sia abbastanza conosciuto. Certamente, noi non troviamo più un piacere notevole nella possibilità di abbracciare la natura e l’unità della sua divisione in generi e specie, onde soltanto son possibili i concetti empirici e quindi la conoscenza della natura stessa nelle sue leggi particolari; ma questo piacere si ebbe senza dubbio a suo tempo, ed è soltanto perché la più comune esperienza non sarebbe possibile senza di esso, che si è andato via via confondendo con la semplice conoscenza, e non è stato più particolarmente notato. — Si richiede dunque qualche cosa che, nel giudicare della natura, richiami l’attenzione sulla sua finalità rispetto al nostro intelletto, uno studio di ricondurre, per quanto è possibile, leggi eterogenee a leggi più alte, sebbene sempre empiriche, per provare, se riusciamo nell’intento, quel piacere che deriva dalla concordanza della natura con la nostra facoltà di conoscere, concordanza che noi consideriamo come puramente contingente. Per contrario, ci dispiacerebbe senz’altro una rappresentazione della natura, con la quale fossimo minacciati di vedere la minima nostra ricerca, eccedente la più comune esperienza, urtare contro un’eterogeneità delle leggi naturali, la quale mettesse il nostro intelletto nell’impossibilità di ricondurre le leggi particolari alle leggi empiriche generali; perché ciò ripugna al principio della specificazione soggettivamente finale3 della natura nei suoi generi, e al nostro Giudizio che riflette su tale specificazione.
Tuttavia questa supposizione del Giudizio lascia cosi indeterminato fino a qual punto quella finalità ideale della natura rispetto alla nostra facoltà conoscitiva debba essere estesa, che, se ci si dicesse che una più profonda o più vasta conoscenza della natura mediante l’osservazione deve alla fine imbattersi in una varietà di leggi che nessun intelletto umano può ricondurre ad un principio, noi pure saremmo soddisfatti; sebbene preferiremmo che qualcuno ci desse questa speranza: quanto più conosceremo intimamente la natura, o quanto più potremo ragguagliare le parti ancora ignote a quelle che si conoscono, tanto più la troveremo semplice nei suoi principii, e, allargandosi la nostra esperienza, la troveremo sempre più unitaria nell’apparente eterogeneità delle sue leggi empiriche. Perché, difatti, il nostro Giudizio c’impone di seguire, per quanto è possibile, il principio dell’accordo della natura con la nostra facoltà conoscitiva, senza decidere (poiché non è un Giudizio determinante che ci dà questa regola) se esso ha o non dei limiti; giacché noi possiamo bensì determinare i limiti dell’uso razionale delle nostre facoltà conoscitive, ma nessuna determinazione di confini è possibile nel campo dell’esperienza.
il nostro intelletto nell’impossibilità di ricondurre le leggi particolari alle leggi empiriche generali; perché ciò ripugna al principio della specificazione soggettivamente finale3 della natura nei suoi generi, e al nostro Giudizio che riflette su tale specificazione.Tuttavia questa supposizione del Giudizio lascia cosi indeterminato fino a qual punto quella finalità ideale della natura rispetto alla nostra facoltà conoscitiva debba essere estesa, che, se ci si dicesse che una più profonda o più vasta conoscenza della natura mediante l’osservazione deve alla fine imbattersi in una varietà di leggi che nessun intelletto umano può ricondurre ad un principio, noi pure saremmo soddisfatti; sebbene preferiremmo che qualcuno ci desse questa speranza: quanto più conosceremo intimamente la natura, o quanto più potremo ragguagliare le parti ancora ignote a quelle che si conoscono, tanto più la troveremo semplice nei suoi principii, e, allargandosi la nostra esperienza, la troveremo sempre più unitaria nell’apparente eterogeneità delle sue leggi empiriche. Perché, difatti, il nostro Giudizio c’impone di seguire, per quanto è possibile, il principio dell’accordo della natura con la nostra facoltà conoscitiva, senza decidere (poiché non è un Giudizio determinante che ci dà questa regola) se esso ha o non dei limiti; giacché noi possiamo bensì determinare i limiti dell’uso razionale delle nostre facoltà conoscitive, ma nessuna determinazione di confini è possibile nel campo dell’esperienza.
Ciò che è puramente soggettivo nella rappresentazione di un oggetto, vale a dire ciò che costituisce il suo rapporto col soggetto, non con l’oggetto, è la sua qualità estetica; quello invece che in essa serve alla determinazione dell’oggetto (alla conoscenza), o può servire a quest’uso, costituisce il suo valore logico. Nella conoscenza di un oggetto dei sensi hanno luogo entrambe le relazioni. Nella rappresentazione sensibile delle cose fuori di me, la qualità dello spazio, nel quale io le intuisco, è l’elemento semplicemente soggettivo della rappresentazione (pel quale resta indeterminato ciò che esse sono come oggetti in sé), e per tale relazione l’oggetto è concepito soltanto come fenomeno; ma lo spazio, malgrado la sua qualità puramente soggettiva, non cessa di essere un elemento di conoscenza delle cose in quanto fenomeni. La sensazione (in questo caso, la sensazione esterna) esprime appunto l’elemento puramente soggettivo delle nostre rappresentazioni delle cose fuori di noi, e propriamente il loro elemento materiale (reale, ciò con cui è dato qualcosa di esistente), proprio come lo spazio esprime la semplice forma a priori della possibilità della loro intuizione; e tuttavia la sensazione viene anche usata per la conoscenza degli oggetti esterni.
Ma quell’elemento soggettivo di una rappresentazione che non può essere elemento di conoscenza, è il piacere o il dispiacere congiunto con la rappresentazione stessa: perché con l’uno o con l’altro io non conosco niente dell’oggetto rappresentato, benché essi possano bene essere l’effetto di qualche conoscenza. Ora la finalità di un oggetto, in quanto è rappresentata nella percezione, non è una proprietà dell’oggetto stesso (perché tale proprietà non può essere percepita), sebbene possa esser desunta dalla conoscenza degli oggetti. Sicché la finalità, che precede la conoscenza di un oggetto, e che, anche quando non si voglia usare la rappresentazione in vista di una conoscenza, è immediatamente legata con la rappresentazione stessa, è l’elemento soggettivo di essa, ciò che non può mai divenire elemento di una conoscenza. Si dice perciò che l’oggetto è conforme al fine, solo perché la sua rappresentazione è legata immediatamente col sentimento di piacere; e questa rappresentazione stessa è una rappresentazione estetica della finalità. — Rimane solo il problema se vi è in genere una simile rappresentazione della finalità.
Quando il piacere è legato con la semplice apprensione (apprehensio) della forma di un oggetto dell’intuizione, senza riferimento di essa ad un concetto in vista di una conoscenza determinata, la rappresentazione non è riferita all’oggetto, ma unicamente al soggetto; e il piacere non può esprimere altro che l’accordo dell’oggetto con le facoltà conoscitive che sono in giuoco nel Giudizio riflettente, e in quanto esse sono in giuoco, e quindi soltanto una finalità soggettiva formale dell’oggetto. Giacché quella apprensione delle forme nell’immaginazione non può mai avvenire, senza che il Giudizio riflettente almeno le paragoni, anche inintenzionalmente, con la sua facoltà di riferire le intuizioni ai concetti. Ora, se in questa comparazione l’immaginazione (come facoltà delle intuizioni a priori) si trova d’accordo spontaneamente con l’intelletto, come facoltà dei concetti, mediante una rappresentazione data, ed è suscitato un sentimento di piacere, allora l’oggetto deve essere riguardato come conforme al fine rispetto al Giudizio riflettente. Un giudizio cosiffatto è un giudizio estetico sulla finalità dell’oggetto, e che non si fonda sopra alcun concetto dato dell’oggetto, né ne fornisce alcuno. Si giudica cioè la forma dell’oggetto (non l’elemento materiale della sua rappresentazione, come sensazione), nella semplice riflessione su di essa — senza alcuna mira a un concetto che se ne potrebbe ricavare — come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tal oggetto; e questo piacere viene pure considerato connesso con tale rappresentazione in modo necessario, e quindi non solo per il soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. L’oggetto allora si chiama bello, e la facoltà di giudicare mediante tale piacere (e, per conseguenza, universalmente) si chiama gusto. Poiché, infatti, il fondamento del piacere è posto soltanto nella forma dell’oggetto rispetto alla riflessione in generale, epperò non in qualche sensazione dell’oggetto anche senza riferimento ad un concetto che contenga uno scopo: ciò che si accorda con la rappresentazione dell’oggetto nella riflessione, di cui le condizioni a priori hanno un valore universale, è solo la legittimità, nel soggetto, dell’uso empirico del Giudizio in generale (unità dell’immaginazione e dell’intelletto); e, poiché questa concordanza dell’oggetto con le facoltà del soggetto è contingente, ne risulta la rappresentazione di una finalità dell’oggetto rispetto alle facoltà conoscitive del soggetto.
Ora questo piacere, come ogni piacere, o dispiacere che non sia prodotto dal concetto della libertà (vale a dire, mediante la determinazione anteriore della facoltà superiore di desiderare, per via della ragion pura), non può essere mai considerato secondo concetti come necessariamente legato con la rappresentazione di un oggetto; ed invece deve essere riconosciuto come congiunto necessariamente con quella, soltanto mediante la percezione riflessa, e, per conseguenza, come tutti i giudizii empirici, esso non può attribuirsi alcuna necessità oggettiva e pretendere a priori alla validità universale. Ma il giudizio di gusto, come tutti i giudizii empirici, ha soltanto la pretesa di esser valido per ognuno; ciò che, malgrado l’intima contingenza di esso, è sempre possibile. Ciò che vi è qui di strano e di singolare è, che non un concetto empirico, ma un sentimento di piacere (e quindi nessun concetto), debba essere dal giudizio di gusto attribuito ad ognuno, come se fosse un predicato legato alla conoscenza dall’oggetto e debba esser congiunto con la rappresentazione dell’oggetto stesso.
Un giudizio singolare di esperienza, quello, per esempio, di colui che in un cristallo di rocca percepisce una goccia d’acqua mobile, esige con ragione di essere condiviso da tutti, perché esso è stato dato secondo le condizioni generali del Giudizio determinante, sotto le leggi di una esperienza possibile in genere. Allo stesso modo pretende con ragione al consenso di ognuno colui che, riflettendo semplicemente sulla forma di un oggetto, senza aver in vista alcun concetto, prova piacere, sebbene questo giudizio sia empirico e singolare, perché il fondamento di questo piacere si trova nella condizione universale, sebbene soggettiva, dei giudizii riflettenti, cioè nell’accordo finalistico, richiesto da ogni conoscenza empirica, di un oggetto (di un prodotto dell’arte o della natura) col rapporto delle facoltà conoscitive tra loro (l’immaginazione e l’intelletto). Sicché il piacere nel giudizio di gusto dipende, è vero, da una rappresentazione empirica, e non può essere legato a priori con un concetto (non si può determinare a priori quale oggetto debba accordarsi col gusto, e quale no: bisogna farne esperienza); ma il piacere è fondamento di tale giudizio sol perché si ha coscienza che esso riposa unicamente sulla riflessione e sulle condizioni universali, sebbene soltanto soggettive, dell’accordo della riflessione stessa con la conoscenza degli oggetti in generale, rispetto al quale accordo la forma dell’oggetto è conforme al fine.
Per questa ragione, che la possibilità dei giudizii di gusto presuppone un principio a priori, essi, considerati nella loro possibilità medesima, sono anche sottoposti ad una critica; quantunque questo principio non sia né un principio conoscitivo per l’intelletto, né un principio pratico per la volontà, e quindi non sia determinante a priori.
Ma la capacità che noi abbiamo di trarre un piacere dalla riflessione sulla forma delle cose (della natura come dell’arte) non dimostra soltanto una finalità degli oggetti rispetto al Giudizio riflettente, conformemente al concetto della natura che è nel soggetto, ma anche, per converso, del soggetto rispetto agli oggetti considerati nella loro forma, o perfino nell’assenza di forma, in virtù del concetto della libertà; donde deriva che il giudizio estetico non si deve riferire soltanto, in quanto giudizio di gusto al bello, ma anche, in quanto proviene da un sentimento spirituale al sublime; e che perciò la critica del Giudizio estetico dev’essere divisa in due parti principali corrispondenti a questi due giudizii.
La finalità di un oggetto dato dall’esperienza può esser rappresentata, o in quanto riposa su di un fondamento puramente soggettivo, come accordo della forma dell’oggetto, nell’apprensione (apprehensio) di esso anteriore ad ogni concetto, con le facoltà di conoscere, a fine di riunire l’intuizione coi concetti facendone una conoscenza in genere; oppure, in quanto riposa su di un fondamento oggettivo, come accordo della forma dell’oggetto con la possibilità della cosa stessa, secondo un concetto di essa che precede e contiene il fondamento della sua forma. Noi abbiamo visto che la rappresentazione della finalità della prima specie riposa sul piacere immediato per la forma dell’oggetto, nella semplice riflessione sulla forma medesima; sicché la rappresentazione della seconda specie di finalità, — poiché questa non riferisce la forma dell’oggetto alle facoltà conoscitive del soggetto nell’apprensione di essa, e la riferisce invece ad una determinata conoscenza dell’oggetto, sotto un concetto dato, — non ha da fare col sentimento di piacere suscitato dalle cose, ma con l’intelletto, nel giudizio che esso ne dà. Quando il concetto d’un oggetto è dato, il compito del Giudizio consiste nel metterlo in una esibizione (exhibitio), servendosene per la conoscenza: consiste cioè nel porre accanto al concetto un’intuizione corrispondente; avvenga ciò per mezzo della nostra propria immaginazione, come nell’arte, quando realizziamo il concetto precedentemente formato di un oggetto e che ci proponiamo come scopo, o avvenga per mezzo della natura, nella sua tecnica (come nei corpi organizzati), quando noi per giudicare dei suoi prodotti le attribuiamo il nostro concetto di scopo; nel qual caso non ci rappresentiamo semplicemente la finalità della natura nella forma della cosa, ma il prodotto è rappresentato come uno scopo della natura. — Sebbene il nostro concetto di una finalità soggettiva della natura, nelle forme che essa prende secondo leggi empiriche, non sia un concetto dell’oggetto, ma solo un principio che usa il Giudizio per formarsi concetti nell’immensa varietà della natura (per potervisi orientare), nondimeno noi attribuiamo alla natura quasi un riferimento alla nostra facoltà di conoscere, secondo l’analogia di uno scopo; e così possiamo riguardare la bellezza naturale come l’esibizione del concetto della finalità formale (puramente soggettiva), e i fini della natura come esibizione del concetto di una finalità reale (oggettiva), giudicando della prima col gusto (esteticamente, per mezzo del sentimento di piacere), e dei secondi con l’intelletto e con la ragione (logicamente, secondo concetti).
Su ciò si fonda la divisione della critica del Giudizio in critica del Giudizio estetico e critica del Giudizio teleologico; comprendendo nella prima la facoltà di giudicare la finalità formale (detta anche altrimenti soggettiva) per via del sentimento di piacere o dispiacere, e nella seconda la facoltà di giudicare la finalità reale (oggettiva) della natura, mediante l’intelletto e la ragione.
La parte che comprende il Giudizio estetico, è essenziale in una critica del Giudizio, perché essa sola contiene un principio, sul quale il Giudizio fonda interamente a priori la sua riflessione sulla natura: cioè il principio di una finalità formale della natura, secondo le sue leggi particolari (empiriche), rispetto alla nostra facoltà di conoscere, ovvero d’una finalità senza cui l’intelletto non si ritroverebbe nella natura; dove, al contrario, non può esser indicato alcun fondamento a priori, né la possibilità di questo può esser tratta dal concetto di una natura considerata come oggetto dell’esperienza così in generale come in particolare, è chiaro che debbano esservi fini oggettivi della natura, cioè cose che son possibili soltanto come suoi fini; ma solo il Giudizio, pur non avendo in sé a priori un principio per questo scopo, contiene la regola per applicare il concetto di scopo a vantaggio della ragione, in casi determinati (di certi prodotti), dopo che già quel principio trascendentale ha preparato l’intelletto ad applicare alla natura il concetto di uno scopo (almeno secondo la forma).
Ma il principio trascendentale, pel quale ci rappresentiamo nella forma di una cosa una finalità della natura in rapporto soggettivo con la nostra facoltà di conoscere, e come se fosse un principio per giudicare di quella forma, lascia del tutto indeterminato dove e in quali casi devo giudicare un prodotto secondo un principio della finalità, anziché semplicemente secondo le leggi universali della natura; e lascia al Giudizio estetico il compito di trovare nel gusto la corrispondenza di questo prodotto (della sua forma) con le nostre facoltà di conoscere (giacché il Giudizio estetico non decide mediante l’accordo con concetti, ma per mezzo del sentimento di piacere). Il Giudizio teleologico, invece, determina le condizioni sotto le quali qualche cosa (per esempio, un corpo organizzato) sia da giudicarsi secondo l’idea di uno scopo della natura; ma esso non può trarre dal concetto della natura, in quanto oggetto d’esperienza, alcun principio che ci autorizzi ad attribuirle a priori una relazione con scopi o anche soltanto a ammetterne in modo indeterminato, basandosi sull’esperienza reale di tali prodotti; e la ragione è questa: che debbono esser date molte esperienze particolari, e debbono essere considerate nell’unità del loro principio, perché si possa riconoscere solo empiricamente una finalità oggettiva di un certo oggetto. — Il Giudizio estetico è, dunque, una particolare facoltà di giudicar delle cose secondo una regola, ma non secondo concetti. Il Giudizio teleologico non è una facoltà, ma è semplicemente il Giudizio riflettente in generale, in quanto procede non soltanto secondo concetti, come in generale nella conoscenza teoretica, ma, riguardo a certi oggetti naturali, secondo principii particolari, vale a dire come un Giudizio puramente riflettente, che non determina oggetti; sicché, considerato nella sua applicazione, esso appartiene alla parte teoretica della filosofia, e in virtù dei suoi principii particolari che non sono determinanti, come dovrebbero essere in una dottrina, deve costituire anche una parte speciale della critica; mentre il Giudizio estetico non porta alcun contributo alla conoscenza dei suoi oggetti, e deve essere riportato perciò soltanto alla critica del soggetto giudicante e delle sue facoltà conoscitive, — che è la propedeutica di ogni filosofia, — in quanto queste facoltà son capaci di principii a priori qualunque possa essere il loro uso (teoretico o pratico).
L’intelletto è legislatore a priori per la natura come oggetto dei sensi, in vista di una conoscenza teoretica di essa in un’esperienza possibile. La ragione è legislatrice a priori per la libertà e per la sua propria causalità, in quanto elemento soprasensibile del soggetto, in vista di una conoscenza pratica incondizionata. Il dominio del concetto della natura, che è sottomesso alla prima legislazione, e quello del concetto della libertà, sottomesso alla seconda, sono interamente separati, contro ogni influsso reciproco che potrebbero avere (ciascuno secondo le sue leggi fondamentali), dal grande abisso che divide il soprasensibile dai fenomeni. Il concetto della libertà non determina niente riguardo alla conoscenza teoretica della natura; e proprio allo stesso modo il concetto della natura non determina niente riguardo alle leggi pratiche della libertà; sicché è impossibile gettare un ponte tra l’uno e l’altro dominio. — Ma, se i principii che determinano la causalità secondo il concetto della libertà (e la regola pratica che esso contiene) non risiedono nella natura, e il sensibile non può determinare il soprasensibile nel soggetto, il contrario nondimeno è possibile (non relativamente alla conoscenza della natura, ma rispetto alle conseguenze che il soprasensibile può avere sul sensibile); e questo è già contenuto nel concetto di una causalità della libertà, il cui effetto secondo le leggi formali della libertà stessa, deve attuarsi nel mondo; sebbene la parola causa, usata a proposito del soprasensibile, indichi soltanto il motivo che determina la causalità delle cose naturali a produrre un effetto in conformità alle proprie leggi, ma insieme anche in accordo col principio formale delle leggi della ragione; certo non si può comprendere la possibilità di questo fatto, ma si può sufficientemente confutare l’obbiezione di chi pretende di scorgervi una contraddizione*2. — L’effetto prodotto secondo il concetto della libertà (o il fenomeno ad esso corrispondente nel mondo sensibile) è lo scopo finale, che deve esistere, e che perciò è presupposto come possibile nella natura (del soggetto, in quanto essere sensibile, cioè in quanto uomo). Il Giudizio, che presuppone questa possibilità a priori e senza riguardo al pratico, fornisce il concetto intermediario tra i concetti della natura e quello della libertà, concetto che rende possibile il passaggio dalla ragion pura teoretica alla ragion pura pratica, dalla conformità alle leggi secondo l’una, allo scopo finale secondo l’altra, ponendo il concetto di una finalità della natura; perché in tal modo si conosce la possibilità dello scopo finale, che può esser realizzato soltanto nella natura, e d’accordo con le sue leggi.
Con la possibilità delle sue leggi a priori per la natura, l’intelletto dà una prova che questa è conosciuta da noi soltanto come fenomeno; e perciò rinvia nel tempo stesso a un sostrato soprasensibile di essa, che lascia nondimeno interamente indeterminato. Il Giudizio, mediante il suo principio a priori, che serve a giudicare la natura secondo le sue possibili leggi particolari, rende quel sostrato soprasensibile (in noi e fuori di noi) determinabile per mezzo della facoltà intellettuale. Al sostrato stesso la ragione, con la sua legge pratica a priori, dà la determinazione; e così il Giudizio rende possibile il passaggio dal dominio del concetto della natura a quello del concetto della libertà.
Se si considerano le facoltà dell’anima in generale come facoltà superiori, cioè come capaci di autonomia, l’intelletto è, per la facoltà conoscitiva (della conoscenza teoretica della natura), quella che contiene i principii costitutivi a priori; quella, che contiene questi principii pel sentimento di piacere e dispiacere, è il Giudizio, indipendentemente da concetti e sensazioni che potrebbero determinare la facoltà di desiderare, e perciò essere immediatamente pratici; per la facoltà di desiderare, è la ragione, la quale è pratica immediatamente, senza l’intervento di qualunque piacere, qualunque sia la sua origine, e dà a questa facoltà, in quanto facoltà superiore, lo scopo finale, che include il puro piacere intellettuale relativamente all’oggetto. — Il concetto, che ha il Giudizio di una finalità della natura, appartiene anche ai concetti della natura, ma solo come principio regolativo della facoltà di conoscere; sebbene il giudizio estetico su certi oggetti (della natura o dell’arte), il quale dà luogo a quel concetto, sia un principio costitutivo rispetto al sentimento di piacere o dispiacere. La spontaneità nel giuoco delle facoltà conoscitive, il cui accordo contiene il fondamento di questo piacere, rende atto quel concetto a far da intermediario tra il dominio del concetto della natura e quello del concetto della libertà nelle sue conseguenze, perché essa favorisce nel tempo stesso la capacità dell’animo pel sentimento morale. — II seguente quadro può facilitare una vista d’insieme su tutte le facoltà superiori, considerate nella loro unità sistematica*3.
Facoltà di conoscere |
Principii a priori |
Applicazione alla |
Intelletto |
Conformità a leggi |
Natura |
*1. Dei concetti di cui si fa uso come principii empirici, quando si ha ragione di supporre che essi abbiano relazione con la pura facoltà di conoscere a priori, è utile, a cagione di questa relazione, di tentare una definizione trascendentale, cioè mediante categorie pure, dacché queste bastano da sole a dar la differenza tra il concetto in questione e gli altri concetti. Si segue in ciò l’esempio del matematico, che lascia indeterminati i dati empirici del suo problema e riduce soltanto il loro rapporto, nella pura sintesi di essi, al concetto dell’aritmetica pura, generalizzando in tal modo la soluzione del problema. — Mi si è rimproverato un procedimento simile (Critica della ragion pratica, prefazione), biasimando questa definizione della facoltà di desiderare: la facoltà di essere, mercé le proprie rappresentazioni, la causa della realtà degli oggetti di tali rappresentazioni: perché, si è detto, i desiderii fantastici1 sono anche desiderii, e ognuno nondimeno riconosce che essi da soli non possono realizzare il loro oggetto. — Ma ciò prova soltanto che nell’uomo vi sono anche desidcrii, pei quali egli si trova in contradizione con se medesimo; perché egli tende alla realizzazione del suo oggetto soltanto mediante la sua rappresentazione, da cui non può aspettarsi niente, dacché sa che le sue forze meccaniche (se così debbo chiamare quelle che non sono psicologiche), le quali dovrebbero essere determinate da quella rappresentazione a realizzare l’oggetto (quindi, mediatamente), o non sono sufficienti, o si volgono all'impossibile, come per esempio se debbono fare che l’avvenuto-non sia avvenuto (O mihi praeterilos... etc.), o annullare, nell’attesa impaziente, l’intervallo che ci divide dal momento desiderato. — Sebbene in tali desideri! fantastici noi siamo coscienti dell’insufficienza (o, perfino, dell’incapacità) delle nostre rappresentazioni a divenir cause dei loro oggetti, tuttavia il rapporto di esse, in quanto cause, e per conseguenza la rappresentazione della loro causalità, è contenuto anche in qualsiasi desiderio, ma è soprattutto visibile quando il desiderio è un affetto, vale a dire una vera brama. Perché questi desiderii, col dilatare ed afflosciare il cuore, e quindi con l’esaurire le forze, dimostrano che queste forze sono ripetutamente tese dalle rappresentazioni, ma fan poi sempre ricader l’animo nella depressione, per la constatata impossibilità di realizzarli. Anche le preghiere per scongiurare mali grandi, e, per quel che si crede, inevitabili, ed alcuni mezzi superstiziosi per raggiungere scopi naturalmente impossibili, dimostrano la relazione causale delle rappresentazioni coi loro oggetti, la quale nemmeno dalla coscienza della loro insufficienza a produrre l’effetto può essere arrestata nella sua spinta. — Ma perché nella nostra natura è stata messa questa propensione a desiderii dichiarati vani dalla coscienza? È questa una questione di teleologia antropologica. Pare che se noi dovessimo determinarci ad usare le nostre forze soltanto dopo esserci assicurati della sufficienza della nostra facoltà a produrre un oggetto, le forze stesse resterebbero in gran parte senza applicazione. Giacché ordinariamente noi impariamo a conoscere le nostre forze, soltanto col saggiarle. Questa illusione dei desiderii vani è, dunque, la conseguenza di un benefico ordine della nostra natura2. ↩
*2. Una delle tante pretese contraddizioni, che si trovano in questa differenziazione assoluta tra la causalità naturale e la causalità della libertà, consiste nel rimprovero che mi si fa, dicendo che quando io parlo di ostacoli che la natura oppone alla causalità secondo le leggi della libertà (le leggi morali), o delle facilitazioni che essa le offre, ammetto un’efficacia della prima sulla seconda. Ma, purché si voglia comprendere ciò che è stato detto, è facile prevenire questa cattiva interpretazione. L’ostacolo o la facilitazione non sono tra la natura e la libertà, ma tra la natura in quanto fenomeno e gli effetti della libertà in quanto fenomeni nel mondo sensibile; e la causalità stessa della libertà (della ragion pura e pratica) è la causalità di una causa naturale sottoposta alla libertà (la causalità del soggetto, in quanto uomo, cioè considerato come fenomeno), di una causa la cui determinazione è fondata nell’intelligibile, che è pensato sotto la libertà, sebbene in una maniera inesplicabile (proprio come ciò che costituisce il sostrato soprasensibile della natura).↩
*3. Si è trovato sospetto che, quasi sempre, le mie divisioni nella filosofia pura riescano triadiche. Ma ciò è nella natura stessa della cosa. Se una divisione dev’esser fatta a priori, o sarà analitica secondo il principio di contraddizione, ed allora è sempre in due parti (quodlibet ens est aut A aut non A); o sarà sintetica, e, se in tal caso deve esser derivata da concetti a priori (non, come in matematica, dall’intuizione corrispondente a priori al concetto), essa, — secondo ciò che è richiesto dall’unità sintetica in generale, cioè: 1° la condizione, 2° un condizionato, 3° il concetto, che nasce dall’unione della condizione col condizionato, — dovrà essere necessariamente una tricotomia. ↩
1. «Wünsche», desiderii: abbiamo aggiunto l’aggettivo «fantastici», usato poco dopo da Kant, per serbare il senso che abbiamo assunto per la parola «desiderio», la quale per noi corrisponde a «Begehrung» (vedi n. 2 a p. 3) [T.].↩
2. Questa nota fu aggiunta da Kant nella seconda edizione [T.]. ↩
3. Traduciamo «zweckmässig», che significa «adeguato allo scopo», con l’aggettivo «finale», quando non vi sia luogo ad equivoco [T.].↩
Indice dei Critica del Giudizio
Ultima modifica 2024.01