Il libro nero del comunismo

 


INTRODUZIONE: Parte prima.
UNO STATO CONTRO IL SUO POPOLO

Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusio

7. COLLETTIVIZZAZIONE FORZATA E DEKULAKIZZAZIONE
Come confermano gli archivi oggi accessibili, la collettivizzazione forzata delle campagne fu una vera e propria guerra, dichiarata dallo Stato sovietico contro un'intera nazione di piccoli produttori agricoli. Furono deportati oltre 2 milioni di contadini di cui un milione 800 mila solo nel 1930-1931; 6 milioni morirono di fame, centinaia di migliaia perirono nelle zone di deportazione: queste poche cifre danno la misura della tragedia umana provocata dal «grande attacco» contro la classe contadina. Questa guerra non finì nell'inverno 1929-1930, ma durò invece almeno fino alla metà degli anni Trenta, e culminò negli anni 1932-1933: in questo periodo si verificò una terribile carestia, provocata deliberatamente dalle autorità per piegare la resistenza della classe contadina. La violenza esercitata contro i contadini permise di sperimentare metodi che in seguito furono applicati contro altri gruppi sociali. In questo senso, ciò rappresenta una tappa decisiva nello sviluppo del Terrore staliniano.

Nel suo rapporto al plenum del Comitato centrale del novembre del 1929 Vjaceslav Molotov aveva dichiarato: «Nell'ambito del piano quinquennale i ritmi della collettivizzazione non costituiscono un problema.... Restano novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, quattro mesi e mezzo durante i quali, se gli imperialisti non ci attaccano direttamente, dobbiamo effettuare uno sfondamento decisivo nell'ambito dell'economia e della collettivizzazione». Le decisioni del plenum ratificarono questo balzo in avanti. Una commissione elaborò un nuovo calendario di collettivizzazione, che fu promulgato il 5 gennaio 1930 dopo molte revisioni al rialzo. Entro l'autunno del 1930 dovevano essere totalmente collettivizzati il Caucaso settentrionale, il Basso e il Medio Volga; le altre regioni cerealicole un anno dopo.

Già il 27 dicembre 1929 Stalin aveva annunciato il passaggio dalla «limitazione delle tendenze sfruttatrici dei kulak alla liquidazione dei kulak come classe». Una commissione dell'Ufficio politico, presieduta da Molotov, fu incaricata di mettere a punto i dettagli pratici per effettuarlo. La commissione individuò tre categorie di kulak: i primi, «impegnati in attività controrivoluzionarie», dovevano essere arrestati e trasferiti nei campi di lavoro della G.P.U., o in caso di resistenza giustiziati; le loro famiglie sarebbero state deportate e i beni confiscati. I kulak della seconda categoria, che esprimevano «un'opposizione meno attiva», ma erano «comunque arcisfruttatori, e quindi naturalmente inclini ad aiutare la controrivoluzione», dovevano essere arrestati e deportati insieme ai familiari in regioni remote del paese. Infine i kulak di terza categoria, definiti «fedeli al regime», sarebbero stati insediati d'ufficio al margine dei distretti in cui risiedevano, «fuori dalle zone collettivizzate, su terre che necessitano di essere bonificate». Il decreto precisava: «La quantità di colture di kulak da liquidare entro quattro mesi ... deve essere compresa fra il 3 e il 5 per cento del numero totale delle colture»; si trattava di una cifra indicativa che avrebbe dovuto guidare le operazioni di dekulakizzazione . Le operazioni venivano coordinate in ciascun distretto da una trojka composta dal primo segretario del Comitato del partito, dal presidente del Comitato esecutivo dei soviet e dal responsabile locale della G.P.U., ed erano condotte da commissioni e brigate di dekulakizzazione. La lista dei kulak di prima categoria, che in base al «piano indicativo» stabilito dall'Ufficio politico comprendeva 60 mila capifamiglia, era di competenza esclusiva della polizia politica. Le liste dei kulak delle altre categorie, invece, venivano approntate in loco, tenendo conto delle «raccomandazioni» degli «attivisti» del villaggio. Chi erano questi attivisti? Uno dei più intimi collaboratori di Stalin, Sergo Ordzonikidze, li descriveva così: «Dato che nei villaggi non ci sono militanti del Partito, in generale vi abbiamo collocato un "giovane comunista", affiancandogli due o tre contadini poveri; questo "attivo" è incaricato di regolare direttamente tutte le questioni del villaggio: collettivizzazione, dekulakizzazione». Le istruzioni erano chiare: collettivizzare il maggior numero di colture possibile, e arrestare i recalcitranti bollandoli come kulak.

Questi sistemi, com'è logico, provocavano abusi e regolamenti di conti di ogni genere. Come definire il kulak? E un kulak di seconda categoria o uno di terza? Nel gennaio-febbraio del 1930, per individuare la coltura di un kulak non si poteva nemmeno più ricorrere ai criteri che negli anni precedenti erano stati pazientemente elaborati dopo infinite discussioni da vari ideologi ed economisti del Partito. Infatti nell'ultimo anno i kulak si erano molto impoveriti per far fronte alle imposte sempre più pesanti. In assenza di segni esteriori di ricchezza, le commissioni dovevano ricorrere alle liste fiscali conservate dai soviet rurali, spesso vecchie e incomplete, alle informazioni della G.P.U., alle denunce di vicini allettati dalla possibilità di saccheggiare i beni altrui. Anziché seguire le istruzioni ufficiali, compilando un inventario preciso e dettagliato dei beni per poi trasferirli al fondo inalienabile del kolhoz, le brigate di dekulakizzazione si attenevano al principio: «Mangiamo e beviamo, è tutto nostro». Come osservava un rapporto della G.P.U. proveniente dalla provincia di Smolensk, «i dekulakizzatori toglievano ai contadini agiati gli abiti invernali e la biancheria calda, impadronendosi in primo luogo delle scarpe. Lasciavano i kulak in mutande, e prendevano tutto, comprese le vecchie scarpe di gomma, i vestiti delle donne, 50 copechi di tè, attizzatoi, brocche... Le brigate confiscavano persino i piccoli guanciali posti sotto la testa dei bambini, persino la "kascia" che cuoceva sul fuoco e che spalmavano sulle icone dopo averle infrante» . Gli averi dei contadini dekulakizzati spesso venivano semplicemente messi al sacco o venduti all'asta a prezzi irrisori; alcune izba furono acquistate da membri delle brigate di dekulakizzazione per 60 copechi, delle mucche per 15 copechi, cioè a prezzi diverse centinaia di volte inferiori all'effettivo valore. Oltre a dare possibilità di saccheggio illimitate, spesso la dekulakizzazione serviva anche da pretesto per regolare conti personali.

In queste condizioni, non stupisce che in certi distretti i contadini dekulakizzati fossero all'80-90 per cento "serednjak", contadini medi. Bisognava raggiungere, e se possibile superare, il numero «indicativo» di kulak stabilito dalle autorità locali! I contadini venivano arrestati e deportati per aver venduto dei cereali al mercato durante l'estate, per aver assunto un bracciante agricolo per due mesi nel 1925 o nel 1926, per aver posseduto due samovar, per aver ammazzato un maiale nel settembre del 1929 «allo scopo di consumarlo e sottrarlo così all'appropriazione socialista». Un contadino veniva arrestato con il pretesto di essersi «dato al commercio», mentre era solo un contadino povero che vendeva i suoi prodotti; un altro veniva deportato con il pretesto che suo zio era stato ufficiale zarista, un altro ancora era bollato come kulak per la sua «frequentazione assidua della chiesa». Ma il più delle volte il semplice fatto di essersi opposti apertamente alla collettivizzazione bastava per essere considerati kulak. Nelle brigate di dekulakizzazione regnava una confusione tale da causare talvolta assurdità vere e proprie. In un borgo dell'Ucraina, per citare solo un esempio, un "serednjak" membro di una brigata di dekulakizzazione fu arrestato come kulak dai rappresentanti di un'altra brigata di dekulakizzazione di stanza all'altra estremità del borgo! Tuttavia, dopo una prima fase che a qualcuno servì da pretesto per regolare vecchi conti, o semplicemente per darsi al saccheggio, la comunità contadina non tardò a coalizzarsi contro i «dekulakizzatori» e i «collettivizzatori». Nel gennaio del 1930 la G.P.U. registrò 402 rivolte e «manifestazioni di massa» contadine contro la collettivizzazione e la dekulakizzazione, 1048 in febbraio e 6528 in marzo .

Questa resistenza massiccia e inattesa della classe contadina indusse il potere a modificare temporaneamente i suoi piani. Il 2 marzo 1930 tutti i giornali sovietici pubblicarono il famoso articolo "La vertigine del successo", in cui Stalin condannava «le numerose distorsioni al principio del volontariato nell'adesione dei contadini ai kolhoz», imputando gli «eccessi» della collettivizzazione ai responsabili locali «ebbri di successo». L'impatto dell'articolo fu immediato: durante il solo mese di marzo, più di 5 milioni di contadini lasciarono i kolhoz. Ma le sommosse e i disordini provocati dalla riappropriazione, spesso violenta, degli arnesi e del bestiame da parte dei proprietari non cessarono. Per tutto il mese di marzo le autorità centrali ricevettero quotidianamente rapporti della G.P.U. in cui si riferiva di insurrezioni massicce nell'Ucraina occidentale, nella regione centrale delle Terre nere, nel Caucaso settentrionale, nel Kazakistan. In questo mese cruciale la G.P.U. contò in totale oltre 6500 «manifestazioni di massa», più di 800 delle quali dovettero essere «soffocate dalle forze armate». Nel corso di questi incidenti oltre 1500 funzionari furono uccisi, feriti o picchiati di santa ragione. Il numero delle vittime fra gli insorti è ignoto, ma dev'essere nell'ordine di alcune migliaia .

All'inizio di aprile il potere fu costretto a fare altre concessioni. Inviò alle autorità locali molte circolari in cui si chiedeva di rallentare il ritmo della collettivizzazione, ammettendo che esisteva il pericolo reale «di una vera ondata di guerre contadine» e «dell'annientamento fisico della metà dei funzionari locali del potere sovietico». In aprile il numero delle rivolte e delle manifestazioni contadine calò, pur restando comunque imponente: 1992 casi registrati dalla G.P.U. A partire dall'estate diminuirono ancora più in fretta: 886 rivolte in giugno, 618 in luglio, 256 in agosto. Complessivamente, nel 1930 quasi 2 milioni 500 mila contadini parteciparono a quasi 14 mila rivolte, sommosse e manifestazioni di massa contro il regime. Le regioni più colpite furono l'Ucraina (e soprattutto l'Ucraina occidentale, in cui interi distretti sfuggirono al controllo del regime, specialmente alle frontiere con la Polonia e con la Romania), la regione delle Terre nere, il Caucaso settentrionale .

Una delle peculiarità di questi movimenti era il ruolo chiave che vi svolgevano le donne, mandate in prima linea nella speranza che non avrebbero subito punizioni troppo severe . Le autorità erano particolarmente colpite dalle manifestazioni di protesta dei contadini contro la chiusura delle chiese o la collettivizzazione delle mucche da latte, che metteva a rischio la sopravvivenza stessa dei loro figli, ma va sottolineato che ci furono anche numerosi scontri sanguinosi fra le squadre della G.P.U. e gruppi di contadini armati di forconi e di scuri. Centinaia di soviet furono messi al sacco; i comitati contadini assumevano per qualche ora o qualche giorno la direzione dei villaggi, formulando liste di rivendicazioni in cui erano citate alla rinfusa la restituzione degli utensili e del bestiame confiscati, lo scioglimento dei kolhoz, il ripristino della libertà di commercio, la riapertura delle chiese, la restituzione ai kulak dei loro beni, il ritorno dei contadini deportati, l'abolizione del potere bolscevico o... la restaurazione dell'«Ucraina indipendente» . I contadini riuscirono, soprattutto in marzo e in aprile, a sconvolgere i piani governativi di collettivizzazione accelerata, ma il loro successo fu di breve durata. A differenza di quanto era accaduto nel 1920-1921, non riuscirono a organizzarsi davvero, a trovare dei capi, a federarsi almeno a livello regionale. Le rivolte contadine fallirono per mancanza di tempo, poiché il regime reagiva in fretta, per mancanza di quadri, che erano stati decimati durante la guerra civile, e per mancanza di armi, che erano state via via confiscate nel corso degli anni Venti.

La repressione fu terribile. Solo nei distretti di confine dell'Ucraina occidentale, alla fine di marzo del 1930 il «rastrellamento degli elementi controrivoluzionari» condusse all'arresto di oltre 15 mila persone. Inoltre, nel giro di 40 giorni, dal primo febbraio al 15 marzo, la G.P.U. dell'Ucraina arrestò altre 26 mila persone, 650 delle quali furono fucilate. Secondo i dati della G.P.U., nel 1930 soltanto gli organi giudiziari speciali della polizia politica condannarono a morte 20200 persone.

Mentre proseguiva la repressione degli «elementi controrivoluzionari», la G.P.U. applicava la Direttiva n. 44/21 di G. Jagoda sull'arresto di 60 mila kulak di prima categoria. A giudicare dai rapporti quotidiani inviati a Jagoda, l'operazione fu condotta con rapidità: il primo rapporto, datato 6 febbraio, attesta l'arresto di 15985 individui; il 9 febbraio, per citare l'espressione usata dalla G.P.U., erano state «ritirate dalla circolazione» 25245 persone. Un «rapporto segreto» ("specsvodka") datato 15 febbraio precisava: «Fra liquidazioni, individui ritirati dalla circolazione e operazioni di massa, si arriva a un totale di 64589 persone, di cui 52166 ritirate durante operazioni preparatorie (prima categoria), e 12423 ritirate nel corso di operazioni di massa». In pochi giorni il «piano» di liquidazione di 60 mila kulak di prima categoria era stato superato. In realtà, i kulak rappresentavano soltanto una parte delle persone «ritirate dalla circolazione». Gli agenti locali della G.P.U. avevano approfittato dell'occasione per «ripulire» il proprio distretto dagli «elementi estranei alla società», fra cui figuravano «poliziotti dell'ancien régime», «ufficiali bianchi», «servitori del culto», «monache», «artigiani rurali», ex «commercianti», «membri dell'intellighenzia rurale» e «altri». In calce al rapporto del 15 febbraio 1930, che specificava le varie categorie di individui arrestati nel quadro della liquidazione dei kulak di prima categoria, Jagoda scrisse: «Le regioni di Nord-Est e Leningrado non hanno capito le nostre direttive oppure non vogliono capirle: "bisogna obbligarli a capire". Non stiamo ripulendo il territorio da popi, commercianti e altri. Se dicono 'altri' vuol dire che non sanno "chi arrestano". Avremo tutto il tempo per sbarazzarci dei popi e dei commercianti, oggi bisogna centrare con precisione l'obiettivo: "i kulak", e i kulak controrivoluzionari». Quanti individui arrestati nel quadro dell'operazione di «liquidazione dei kulak di prima categoria» furono giustiziati? A tutt'oggi non ci sono dati disponibili.

I kulak «di prima categoria» costituirono senza dubbio una parte notevole dei primi contingenti di detenuti trasferiti nei campi di lavoro. Nell'estate del 1930 la G.P.U. aveva già organizzato una vasta rete di campi. Il complesso penitenziario più antico, quello delle isole Soloveckie, continuò a estendersi sul litorale del Mar Bianco, dalla Carelia alla regione di Arcangelo. Oltre 40 mila detenuti costruivano la strada Kem'-Uhta e assicuravano la maggior parte della produzione di legname esportata dal porto di Arcangelo. Il gruppo dei campi settentrionali, che contava circa 40 mila detenuti, era attivo nella costruzione di una ferrovia di 300 chilometri fra Ust', Sysol'sk e Pinjug, e di una strada di 280 chilometri fra Ust', Sysol'sk e Uhta. Nel gruppo dei campi estremoorientali, i 15 mila detenuti costituivano la sola manodopera del cantiere della linea ferroviaria di Boguciacinsk. Un quarto gruppo, detto della Vigera e che contava 20 mila detenuti circa, forniva la manodopera del cantiere del grande complesso chimico di Berezniki, negli Urali. Infine, il Gruppo dei campi siberiani, forte di 24 mila detenuti circa, collaborava alla costruzione della linea ferroviaria Tomsk-Enisejsk e del complesso metallurgico di Kuzneck.

Nel giro di un anno e mezzo, dalla fine del 1928 all'estate del 1930, la manodopera penitenziaria sfruttata nei campi della G.P.U. aumentò del 350 per cento, passando da 40 mila a 140 mila detenuti circa. I successi nello sfruttamento di questa forza lavoro incoraggiarono il potere ad avviare nuovi grandi progetti. Nel giugno 1930 il governo decise di costruire un canale lungo 240 chilometri, che doveva essere scavato per la maggior parte nella roccia granitica e che avrebbe collegato il Mar Baltico al Mar Bianco. A causa della mancanza di mezzi tecnici e di macchinari, per il faraonico progetto era necessaria una manodopera di almeno 120 mila detenuti, che come unici utensili avevano picconi, pale e carriole. Ma nell'estate del 1930, in piena dekulakizzazione, la manodopera penitenziaria non era certo un prodotto deficitario!

In realtà, la massa dei dekulakizzati era tale - oltre 700 mila persone alla fine del 1930, oltre un milione 800 mila alla fine del 1931 - che le «strutture di inquadramento» non riuscivano a «star loro dietro». Le operazioni di deportazione dell'immensa maggioranza dei kulak, detti di «seconda» e «terza» categoria, si svolsero nell'improvvisazione e nell'anarchia assolute. Produssero una forma senza precedenti di «deportazione-abbandono» che sul piano economico non rendeva nulla alle autorità, anche se uno degli obiettivi principali della dekulakizzazione era di valorizzare per mezzo dei deportati le regioni inospitali ma ricche di risorse naturali del paese . Le deportazioni dei kulak di seconda categoria incominciarono nella prima settimana di febbraio del 1930. Secondo il piano approvato dall'Ufficio politico, 60 mila famiglie dovevano essere deportate durante la prima fase, la cui conclusione era prevista per la fine d'aprile. La zona settentrionale doveva accogliere 45 mila famiglie, gli Urali 15 mila. Tuttavia il 16 febbraio Stalin telegrafò a Eihe, primo segretario del Comitato regionale di partito della Siberia occidentale: «E' inammissibile che la Siberia e il Kazakistan pretendano di non essere pronti per accogliere i deportati. Tra ora e la fine di aprile la Siberia deve assolutamente accogliere 15 mila famiglie». In risposta Eihe inviò a Mosca un «preventivo» in cui erano calcolati i costi di «installazione» del contingente di deportati pianificato: si trattava di 40 milioni di rubli, somma che non ricevette mai .

Insomma, le operazioni di deportazione furono caratterizzate dalla completa assenza di coordinamento fra i diversi anelli della catena. I contadini arrestati furono parcheggiati per settimane in locali improvvisati - caserme, edifici amministrativi, stazioni - da cui molti di loro riuscirono a fuggire. La G.P.U. aveva previsto per la prima fase 240 convogli di 53 vagoni: secondo le norme stabilite dalla G.P.U., ciascun treno doveva essere costituito da 44 carri bestiame per 40 deportati ciascuno, di 8 vagoni per il trasporto degli utensili, degli approvvigionamenti e dei pochi averi dei deportati, entro un limite di 480 chilogrammi a famiglia, e di una carrozza per il trasporto delle guardie. Come testimonia l'aspra corrispondenza fra la G.P.U. e il commissariato del popolo per i Trasporti, i convogli arrivavano con il contagocce. Restavano fermi per settimane con il loro carico umano nei grandi centri di smistamento, a Vologda, Kotlas, Rostov, Sverdlovsk e Omsk. Lo stazionamento prolungato dei convogli di proscritti, che contenevano un gran numero di donne, bambini e vecchi, di solito non passava inosservato alla popolazione locale: lo attestano numerose lettere collettive inviate a Mosca, che stigmatizzavano il «massacro degli innocenti», ed erano firmate dal «collettivo degli impiegati e operai di Vologda» o dai «ferrovieri di Kotlas» .

Nei convogli fermi in pieno inverno su qualche binario morto, nell'attesa di un luogo di destinazione dove si potessero «installare» i deportati, il freddo, la mancanza di igiene, le epidemie mietevano, a seconda dei treni, un certo numero di vittime; ma non disponiamo di molti dati per gli anni 1930-1931. Una volta giunti in treno a una stazione, spesso gli uomini validi venivano divisi dalla famiglia, che era collocata provvisoriamente in baracche costruite in fretta; partivano poi sotto scorta verso i «luoghi di colonizzazione» situati, come previsto dalle istruzioni ufficiali, «a distanza dalle vie di comunicazione». L'interminabile odissea proseguiva quindi per molte altre centinaia di chilometri, con o senza famiglia, d'inverno su carovane di slitte, d'estate su carrette o a piedi. Dal punto di vista pratico, quest'ultima tappa dell'odissea dei kulak di seconda categoria era spesso simile alla deportazione dei kulak di terza categoria, trasferiti nei «territori che devono essere bonificati all'interno della loro regione»; in Siberia o negli Urali tali regioni coprivano infatti diverse centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Il 7 marzo 1930 le autorità del distretto di Tomsk, in Siberia occidentale, riferivano: «Le prime carovane di kulak di terza categoria sono arrivate a piedi, senza cavalli, slitte, finimenti ... In generale, i cavalli attaccati ai convogli sono assolutamente inadatti a spostamenti di 300 chilometri e più, perché quando si sono formate le carovane tutti i cavalli buoni appartenenti ai deportati sono stati sostituiti con ronzini.... Vista la situazione, non c'è nemmeno da parlare di trasportare i beni e gli approvvigionamenti per due mesi cui hanno diritto i kulak. Inoltre non si sa che fare dei bambini e dei vecchi, che rappresentano oltre il 50 per cento del contingente» .

In un altro rapporto dello stesso tenore, il Comitato esecutivo centrale della Siberia occidentale dimostrava per assurdo l'impossibilità di mettere in atto le istruzioni della G.P.U. riguardo alla deportazione di 4902 kulak di terza categoria di due distretti della provincia di Novosibirsk. «Trasportare per 370 chilometri di strade esecrabili le 8560 tonnellate di cereali e foraggio cui i deportati avrebbero teoricamente diritto "per il viaggio e l'insediamento" comporterebbe la mobilitazione di 28909 cavalli e di 7227 sorveglianti (un sorvegliante ogni quattro cavalli).» Il rapporto concludeva: «Attuare questa operazione comprometterebbe la campagna della semina di primavera, in quanto i cavalli, spossati, avrebbero bisogno di un lungo periodo di riposo ... Perciò è indispensabile ridurre notevolmente le provviste che i deportati sono autorizzati a portare con sé» .

Quindi i deportati dovettero stabilirsi nelle loro sedi senza provviste né arnesi, molto spesso senza un riparo; nel settembre del 1930 un rapporto proveniente dalla regione di Arcangelo ammetteva che, delle 1641 abitazioni «programmate» per i deportati, ne erano state costruite soltanto 7! I deportati si «insediarono» su qualche pezzo di terra, in mezzo alla steppa o alla taiga. A quel punto i più fortunati, che avevano avuto la possibilità di portare qualche attrezzo, potevano cercare di costruirsi un rifugio rudimentale, molto spesso la tradizionale "zemljanka", un semplice buco in terra ricoperto di rami. In certi casi, quando migliaia di deportati erano destinati a zone vicine a qualche grande cantiere o sito industriale in costruzione, venivano alloggiati in baracche sommarie, su letti a castello a tre piani, in diverse centinaia per ogni baracca. Quante delle 1.803.392 persone ufficialmente deportate durante la dekulakizzazione del 1930-1931 morirono di freddo e di fame nei primi mesi della loro «nuova vita»? Negli archivi di Novosibirsk è stato conservato un documento sorprendente, il rapporto inviato a Stalin nel maggio del 1933 da un istruttore del Comitato di partito di Narym, in Siberia occidentale, sulla sorte riservata a tre convogli che contenevano oltre 6000 deportati provenienti da Mosca e da Leningrado. Per quanto più tardo e relativo a un'altra categoria di deportati, non contadini ma «elementi declassati» cacciati dalla nuova «città socialista» a partire dalla fine del 1932, questo documento illustra una situazione che non era certo eccezionale, e che potremmo definire «deportazione-abbandono».

Ecco alcuni estratti di questa terribile testimonianza:

    "Il 29 e il 30 aprile 1933, ci sono stati inviati via treno da Mosca e da Leningrado due convogli di elementi declassati. Arrivati a Tomsk, questi elementi sono stati caricati su chiatte e sono stati sbarcati, gli uni il 18 maggio e gli altri il 26 maggio, sull'isola di Nazino, situata alla confluenza dell'Ob' e del Nazina. Il primo convoglio comprendeva 5070 persone, il secondo 1044, per un totale di 6114 persone. Le condizioni di trasporto erano spaventose: cibo insufficiente e disgustoso, mancanza d'aria e di spazio, vessazioni subite dai più deboli ... Risultato: una mortalità di circa 35-40 persone al giorno. Tuttavia queste condizioni di vita si sono dimostrate un vero e proprio lusso rispetto a quello che aspettava i deportati sull'isola di Nazino (da dove dovevano essere spediti a gruppi alla loro destinazione finale, i settori di colonizzazione situati a monte del fiume Nazina). L'isola di Nazino è un luogo totalmente vergine, senza ombra di abitazione ... Niente attrezzi, niente sementi, niente cibo... La nuova vita è incominciata. Il giorno dopo l'arrivo del primo convoglio, il 19 maggio, ha iniziato a nevicare e si è alzato il vento. Affamati, dimagriti, senza un tetto, senza attrezzi... i deportati si sono ritrovati in una situazione senza via di uscita. Riuscivano solo ad accendere dei fuochi per tentare di sfuggire al freddo. La gente ha incominciato a morire ...
    Il primo giorno sono stati sepolti 295 cadaveri ... Solo il quarto o il quinto giorno dopo l'arrivo dei deportati sull'isola le autorità hanno inviato per nave un po' di farina, in ragione di qualche etto a persona. Dopo aver ricevuto la loro magra razione, le persone correvano verso la riva e tentavano di diluire con l'acqua un po' della farina nella 'sciapka', nei pantaloni o nella giacca. Ma moltissimi deportati tentavano di ingoiare la farina così com'era, e spesso morivano soffocati. Nel corso di tutto il soggiorno sull'isola i deportati non hanno ricevuto nient'altro che un po' di farina. I più intraprendenti si sforzavano di cuocere delle gallette, ma non c'era l'ombra di un recipiente ... Ben presto si sono verificati casi di cannibalismo ... Alla fine del mese di giugno è incominciato l'invio dei deportati verso i cosiddetti villaggi di colonizzazione. Erano situati a circa 200 chilometri dall'isola risalendo il Nazina, in piena taiga. Villaggi o non villaggi, quella era natura vergine. Ciò nonostante si è riusciti a costruire un forno primitivo, e questo ha permesso di produrre una specie di pane. Ma per il resto non c'erano molti cambiamenti rispetto alla vita sull'isola di Nazino: stesso ozio, stessi fuochi, stessa miseria. L'unica differenza era quella specie di pane, distribuito a intervalli di alcuni giorni. La gente continuava a morire. Un solo esempio. Delle 78 persone imbarcate sull'isola verso il quinto settore di colonizzazione, solo 12 sono arrivate vive. Ben presto le autorità hanno ammesso che quei luoghi non erano colonizzabili, e tutto il contingente dei sopravvissuti è stato rispedito a valle in nave. Le evasioni si moltiplicavano ... A partire dalla seconda metà di luglio i deportati sopravvissuti, cui infine avevano dato alcuni arnesi, hanno incominciato a costruire dei ripari seminterrati nel terreno nei nuovi luoghi di insediamento ... Ci sono stati ancora alcuni casi di cannibalismo ... Ma la vita ha ripreso progressivamente i suoi diritti: i deportati si sono rimessi a lavorare, ma avevano l'organismo talmente logoro che, anche quando ricevevano 750-1000 grammi di pane al giorno, continuavano ad ammalarsi, a crepare, a mangiare muschio, erba, foglie eccetera. Risultato: su 6100 persone partite da Tomsk (cui vanno aggiunte 500- 700 persone mandate nella regione da altri luoghi di provenienza), il 20 agosto restavano in vita soltanto 2200 persone circa".

Quante Nazino ci furono, quanti casi analoghi di deportazione- abbandono? Alcune cifre danno la misura delle perdite. Fra il febbraio del 1930 e il dicembre del 1931 furono deportati un po' più di un milione 800 mila dekulakizzati. Ma il primo gennaio 1932, quando le autorità effettuarono una prima verifica generale, furono recensite soltanto 1 milione 317022 persone . Le perdite raggiungevano il mezzo milione, cioè quasi il 30 per cento dei deportati. Certo, il numero di coloro che erano riusciti a fuggire era senza dubbio alto . Nel 1932 l'evoluzione dei «contingenti» fu oggetto per la prima volta di uno studio sistematico da parte della G.P.U., che dall'estate del 1931 era l'unica responsabile dei deportati, ormai definiti «coloni speciali», in tutte le fasi dell'operazione, dalla deportazione fino alla gestione dei «villaggi di colonizzazione». Secondo questo studio c'erano stati oltre 210 mila evasi e circa 90 mila morti. Nel 1933, anno della grande carestia, le autorità registrarono 151601 decessi su un milione 142022 coloni speciali censiti il primo gennaio 1933. Quindi nel 1932 il tasso di mortalità annua era del 6,8 per cento circa, nel 1933 del 13,3 per cento. Per gli anni 1930-1931 disponiamo soltanto di dati parziali, ma eloquenti: nel 1931 la mortalità era dell'1,3 per cento fra i deportati del Kazakistan, dello 0,8 per cento fra quelli della Siberia occidentale. Per quanto riguarda la mortalità infantile, oscillava fra l'8 e il 12 per cento... al mese, con punte del 15 per cento a Magnitogorsk. Dal primo giugno 1931 al primo giugno 1932 la mortalità fra i deportati della regione di Narym, in Siberia occidentale, raggiunse l'11,7 per cento annuo. Nel complesso, è poco probabile che nel 1930-1931 il tasso di mortalità fosse inferiore a quello del 1932: senz'altro si avvicinava al 10 per cento annuo, e forse lo superava. Perciò, si può calcolare che in tre anni morirono durante la deportazione circa 300 mila persone .

Per le autorità centrali, preoccupate di «rendere redditizio» il lavoro di quelli che definivano «trasferiti speciali» oppure, a partire dal 1932, «coloni di lavoro», la deportazione-abbandono era solo un ripiego, imputabile, come scriveva N. Puzickij, uno dei dirigenti della G.P.U. responsabili dei coloni di lavoro, «alla negligenza criminale e alla miopia politica dei responsabili locali che non hanno assimilato l'idea della colonizzazione da parte degli ex kulak» .

Nel marzo del 1931, per porre fine all'«insopportabile confusione della manodopera deportata», fu istituita una commissione speciale in contatto diretto con l'Ufficio politico, presieduta da V. Andreev e in cui Jagoda aveva un ruolo determinante. L'obiettivo primario della commissione era «una gestione razionale ed efficace dei coloni di lavoro». Infatti le prime inchieste condotte dalla commissione avevano rilevato che la produttività della manodopera deportata era quasi nulla. Per esempio, su 300 mila coloni di lavoro insediati negli Urali, nell'aprile del 1931 solo l'8 per cento era assegnato «al taglio dei boschi e ad altri lavori produttivi»; gli altri adulti validi «costruivano alloggi per se stessi... e si davano da fare per sopravvivere». Un altro documento ammetteva che nel complesso le operazioni di dekulakizzazione avevano costituito una perdita per lo Stato: il valore medio dei beni confiscati ai kulak nel 1930 ammontava a 564 rubli per coltura, una somma irrisoria (equivalente a mezza mensilità di salario di un operaio), e questo la diceva lunga sulla pretesa «agiatezza» dei kulak. Quanto alle spese affrontate per la deportazione dei kulak, ammontavano a oltre 1000 rubli a famiglia!

Secondo la Commissione Andreev, la razionalizzazione della gestione dei coloni di lavoro doveva incominciare con la riorganizzazione amministrativa delle strutture responsabili dei deportati. Durante l'estate del 1931 la G.P.U. ottenne il monopolio della gestione amministrativa dei «popolamenti speciali», che fino a quel momento dipendevano dalle autorità locali. Fu istituita tutta una rete di «comandi» ("komandatura"), una vera e propria amministrazione parallela che permetteva alla G.P.U. di godere di una specie di extraterritorialità e di controllare completamente immensi territori in cui i coloni speciali costituivano ormai il grosso della popolazione. I coloni erano inoltre soggetti a un regolamento interno molto severo. Erano sottoposti a domicilio coatto e venivano impiegati dall'amministrazione in un'impresa statale oppure in una «cooperativa agricola o artigianale a statuto speciale, diretta dal comandante locale dell'O.G.P.U.», o ancora in lavori di costruzione e manutenzione di strade o di dissodamento. Naturalmente, sia standard di produttività sia salari erano sottoposti a uno statuto speciale: in media gli standard erano dal 30 al 50 per cento superiori a quelli dei lavoratori liberi; per quanto riguarda i salari, quando venivano corrisposti, subivano una ritenuta che andava dal 15 al 25 per cento, versata direttamente all'amministrazione della G.P.U.

In realtà, come attestano i documenti della Commissione Andreev, la G.P.U. era molto soddisfatta del «costo di inquadramento» dei coloni di lavoro, che era inferiore di nove volte a quello dei detenuti dei campi; per esempio, nel giugno del 1933 i 203 mila coloni speciali della Siberia occidentale, ripartiti in 83 comandi, erano sorvegliati da appena 971 persone L'obiettivo della G.P.U. era di fornire, previo versamento di una commissione costituita da una percentuale sui salari e da una somma forfettaria per contratto, la "propria" manodopera a un certo numero di grandi complessi industriali incaricati dello sfruttamento delle risorse naturali nelle regioni settentrionali e orientali del paese, come Uralesprom (sfruttamento forestale), Uralugol', Vostugol' (carbone), Vostokstal' (acciaierie), Cvetmetzoloto (minerali non ferrosi), Kuznecstroj (metallurgia) eccetera. In linea di principio, l'impresa si incaricava di assicurare le infrastrutture abitative, scolastiche e di approvvigionamento dei deportati. In realtà, come ammettevano gli stessi funzionari della G.P.U., le imprese avevano la tendenza a considerare una risorsa gratuita questa manodopera che si trovava in una condizione ambigua, tra la semilibertà e la semidetenzione. I coloni di lavoro spesso non ricevevano alcun salario, in quanto le somme che guadagnavano erano in genere inferiori a quelle trattenute dall'amministrazione per la costruzione delle baracche, gli utensili, le quote obbligatorie in favore dei sindacati, il prestito di Stato eccetera.

Erano dei veri paria, iscritti nell'ultima categoria di razionamento, sempre vittime della fame ma anche di ogni tipo di vessazione e di abuso. Fra gli abusi più palesi sottolineati nei rapporti dell'amministrazione c'erano l'istituzione di standard irrealizzabili, il mancato versamento dei salari, il pestaggio dei deportati o la loro reclusione in pieno inverno in prigioni improvvisate senza alcun riscaldamento, il baratto delle deportate «con mercanzie da parte dei comandanti della G.P.U.» o il loro invio come domestiche gratuite «tuttofare» ai capetti locali. Questa osservazione del direttore di un'impresa forestale degli Urali in cui erano impiegati coloni di lavoro, citata e criticata in un rapporto della G.P.U. del 1933, riassumeva bene lo stato d'animo di molti dirigenti verso questo tipo di manodopera, che poteva essere sfruttata a volontà: «Potremmo liquidarvi tutti, perché comunque la G.P.U. ci manderà al vostro posto un'altra infornata di centomila come voi!».

A poco a poco, da un punto di vista strettamente produttivo, l'utilizzo di coloni di lavoro diventò più razionale. Dal 1932 si assistette a un progressivo abbandono delle «zone di popolamento» o di «colonizzazione» più inospitali in favore dei grandi cantieri, dei poli minerari e industriali. In certi settori la manodopera deportata, che lavorava nelle stesse imprese o negli stessi cantieri dei lavoratori liberi e viveva in baracche contigue, era molto numerosa, e talvolta predominante. Nelle miniere del Kuzbass, alla fine del 1933, gli oltre 41 mila coloni di lavoro rappresentavano il 47 per cento del totale dei minatori. A Magnitogorsk i 42462 deportati registrati nel settembre del 1932 costituivano i due terzi della popolazione locale . Erano costretti a risiedere in quattro zone di popolamento speciale, a una distanza che andava da 2 a 6 chilometri dal luogo di costruzione principale, ma lavoravano nelle stesse squadre degli operai liberi, e questa situazione tendeva a cancellare almeno in parte il limite fra la diversa condizione degli uni e degli altri. Per forza di cose, e cioè per gli imperativi economici, gli ex dekulakizzati, diventati coloni di lavoro, si reintegravano in una società segnata da una penalizzazione generale dei rapporti sociali, e in cui nessuno sapeva chi sarebbero stati i prossimi esclusi.

8. LA GRANDE CARESTIA
Per lungo tempo la grande carestia del 1932-1933, che - secondo fonti oggi incontestabili - provocò oltre 6 milioni di vittime, ha rappresentato uno degli «spazi bianchi» nella storia dell'Unione Sovietica . Tale catastrofe tuttavia non fu come tutte le altre, una qualsiasi nella serie di carestie che a intervalli regolari si abbattevano sulla Russia zarista. Fu una diretta conseguenza del nuovo sistema di «sfruttamento militar-feudale» dei contadini (secondo l'espressione del dirigente bolscevico antistalinista Nikolaj Buharin), attuato all'epoca della collettivizzazione forzata, e una tragica esemplificazione dello spaventoso regresso sociale che accompagnò l'assalto sferrato dal potere sovietico contro le campagne alla fine degli anni Venti.

A differenza della carestia del 1921-1922, ammessa anche dalle autorità sovietiche, le quali ricorsero in larga misura agli aiuti internazionali, quella del 1932-1933 fu sempre negata dal regime, che all'estero si servì della propaganda per soffocare le rare voci levatesi per attirare l'attenzione sulla tragedia, e nel suo sforzo fu aiutato moltissimo da «testimonianze» sollecitate, come quella di Edouard Herriot, deputato francese e leader del Partito radicale. Herriot, che visitò l'Ucraina nell'estate del 1933, proclamò ai quattro venti di aver visto soltanto «orti colcosiani ammirevolmente irrigati e coltivati» e «raccolti decisamente ammirevoli», per arrivare infine alla perentoria conclusione: «Ho attraversato l'Ucraina. Ebbene, dichiaro di averla trovata tale e quale un giardino in pieno rigoglio» . La sua cecità era in primo luogo dovuta a una formidabile messinscena organizzata dalla G.P.U. in onore degli ospiti stranieri, che seguivano un itinerario tutto kolhoz e scuole materne modello. Era evidentemente un accecamento corroborato da considerazioni politiche, in particolare da parte dei dirigenti francesi allora al potere, i quali si preoccupavano di non interrompere il processo di riavvicinamento iniziato con l'Unione Sovietica mentre la Germania diventava più minacciosa, in seguito alla recente ascesa al potere di Adolf Hitler.

Tuttavia un certo numero di dirigenti politici di alto rango, in particolare tedeschi e italiani, vennero a conoscenza della carestia del 1932-1933 con notevole precisione. I rapporti inviati al governo dai diplomatici italiani di stanza a Har'kov, Odessa o Novorossijsk, scoperti e pubblicati in anni recenti dallo storico italiano Andrea Graziosi , mostrano come Mussolini, che li leggeva attentamente, fosse informato di ogni aspetto della situazione, e tuttavia si sia astenuto dal servirsene per alimentare la propaganda anticomunista. Al contrario l'estate del 1933 fu segnata dalla firma di un trattato commerciale italo-sovietico, seguita da quella di un patto di amicizia e di non aggressione. La verità sulla grande carestia, negata o sacrificata alla ragione di Stato, ricordata in pubblicazioni a tiratura ridotta curate dalle associazioni di ucraini fuorusciti, cominciò a imporsi soltanto dopo la seconda metà degli anni Ottanta, dopo che furono pubblicati vari studi e ricerche, sia di storici occidentali sia di studiosi dell'ex Unione Sovietica.

Ovviamente non è possibile comprendere la carestia del 1932-1933 senza darle la giusta collocazione nel contesto dei nuovi rapporti instauratisi fra Stato sovietico e ceto contadino in seguito alla collettivizzazione forzata. Nelle campagne collettivizzate il kolhoz aveva un ruolo strategico. La sua funzione era assicurare allo Stato consegne prestabilite di prodotti agricoli, grazie a un salasso sempre più alto del raccolto «collettivo». Ogni autunno la campagna di ammasso si trasformava in un'autentica prova di forza fra lo Stato e un ceto contadino che faceva uno sforzo disperato per trattenere una parte del raccolto. La posta in gioco era cospicua: per lo Stato il prelievo, per il contadino la sopravvivenza. Quanto più le regioni erano fertili, tanto più erano salassate. Nel 1930 lo Stato raccolse il 30 per cento della produzione agricola in Ucraina, il 38 per cento nelle ricche pianure del Kuban', nella regione settentrionale del Caucaso, il 33 per cento del raccolto del Kazakistan. Nel 1931, con un raccolto di gran lunga più ridotto, le quote prelevate furono rispettivamente del 41,5, del 47 e del 39,5 per cento. Un prelievo simile non poteva non sconvolgere del tutto il ciclo produttivo; basti ricordare qui che nella fase della NEP i contadini mettevano in vendita soltanto il 15-20 per cento del raccolto, riservandone il 12- 15 per cento per la semina, il 25-30 per cento al bestiame e il resto al consumo proprio. Era inevitabile il conflitto fra i contadini, decisi a ricorrere a ogni sorta di stratagemma per conservare una parte del proprio raccolto, e le autorità locali, costrette a realizzare a ogni costo un piano che era sempre meno realistico: nel 1932 le quote stabilite per l'ammasso superavano quelle dell'anno precedente del 32 per cento .

Nel 1932 la campagna per l'ammasso ebbe un inizio piuttosto fiacco. Appena si cominciò a mietere il nuovo raccolto i colcosiani si sforzarono di nasconderne una parte o di «rubarla» durante la notte. Si formò un vero e proprio «fronte di resistenza passiva», sostenuto dall'accordo tacito e reciproco che spesso univa il colcosiano e il gendarme, il gendarme e il contabile, il contabile e il direttore del kolhoz, a sua volta contadino di recente promozione, e infine il direttore e il segretario del Partito locale. Per «prendere i cereali» le autorità centrali dovettero inviare nuove «squadre d'assalto» reclutate in città, fra i komsomol e i comunisti.

Ecco che cosa scriveva ai propri superiori gerarchici, a proposito dell'autentico clima di guerra che allora regnava nelle campagne, un istruttore del Comitato esecutivo centrale, inviato in missione in un distretto cerealicolo del Basso Volga:

    "Gli arresti e le perquisizioni sono eseguiti dai soggetti più vari: dai membri del soviet rurale, da ogni sorta di agenti, dalle squadre di assalto, da qualsiasi komsomol che abbia voglia di darsi da fare. Quest'anno il 12 per cento circa dei proprietari coltivatori del distretto è passato davanti al tribunale, senza contare i kulak deportati, i contadini colpiti da ammende eccetera. Secondo i calcoli dell'ex viceprocuratore del distretto, nel corso dell'ultimo anno il 15 per cento della popolazione adulta è rimasto vittima della repressione sotto varie forme. Se si aggiunge che nell'ultimo mese circa ottocento proprietari coltivatori sono stati espulsi dai kolhoz, si avrà un'idea della vastità della repressione compiuta nel distretto ... Se si escludono i casi in cui la repressione di massa è davvero giustificata, occorre dire che l'efficacia delle misure repressive continua a diminuire quanto più diventa difficile metterle in atto allorché superano una certa soglia ... Tutte le prigioni sono piene da scoppiare. In quella di Balasciov ci sono cinque volte più detenuti del previsto, e a Elan', nel piccolo carcere del distretto, si trovano 610 persone. In quest'ultimo mese la prigione di Balasciov ha «restituito» a Elan' 78 condannati, 48 dei quali avevano meno di dieci anni; 21 sono stati subito rilasciati ... Per concludere su questo famoso metodo, il solo adottato qui - il metodo della forza -, due parole a proposito dei contadini singoli, nei confronti dei quali si fa di tutto per dissuaderli dal seminare e dal produrre.
    Il seguente esempio mostra fino a qual punto essi sono terrorizzati: a Morty un contadino singolo, che aveva realizzato il piano al 100 per cento, è venuto a trovare il compagno Fomicev, presidente del Comitato esecutivo del distretto, e gli ha chiesto di farlo deportare nel Nord, perché, ha spiegato, in ogni modo «in queste condizioni non si può più vivere». Altrettanto esemplare la petizione, firmata da sedici contadini singoli del soviet rurale di Aleksandrov, in cui i firmatari chiedono di essere deportati fuori della loro regione! ... In breve, la sola forma di «lavoro di massa» è «l'assalto»: si «prendono d'assalto» le sementi, i crediti, l'allevamento del bestiame, si «va all'assalto» del lavoro eccetera. Non si fa niente senza «assalto».... Si «assedia» di notte, dalle 9-10 di sera fino all'alba. L'«assalto» si svolge nel modo seguente: la «squadra d'assalto», in sessione in una izba, «convoca» a turno tutte le persone che non hanno adempiuto al tale o talaltro obbligo o piano e con mezzi vari le «convince» a onorare i propri impegni. Ciascuna persona iscritta nell'elenco viene «assediata» in questo modo e si va avanti così per tutta la notte".

Nell'arsenale della repressione aveva un ruolo decisivo una legge famosa, promulgata il 7 agosto 1932, al culmine della guerra tra ceto contadino e regime, secondo la quale chiunque fosse riconosciuto colpevole di «ogni furto o dilapidazione della proprietà socialista» era condannato a dieci anni di campo di concentramento o alla pena di morte. Tra il popolo questa disposizione era nota col nome di «legge delle spighe», perché il più delle volte chi era condannato in base a essa aveva rubato qualche spiga di grano o di segale nei campi colcosiani. Grazie a questa legge scellerata, fra l'agosto del 1932 e il dicembre del 1933 furono condannate oltre 125 mila persone, 5400 delle quali alla pena capitale .

A dispetto di tali provvedimenti draconiani, il grano non «rientrava». A metà ottobre 1932 il piano di ammasso per le principali regioni cerealicole del paese era stato realizzato soltanto per il 15-20 per cento. Il 22 ottobre 1932 l'Ufficio politico decise quindi di inviare in Ucraina e nel Caucaso settentrionale due commissioni straordinarie, una diretta da Vjaceslav Molotov, l'altra da Lazar' Kaganovic, allo scopo di «accelerare gli ammassi» . Il 2 novembre giunse a Rostov sul Don la Commissione Kaganovic, di cui faceva parte Genrih Jagoda, e subito convocò una riunione di tutti i segretari di distretto del Partito della regione del Caucaso settentrionale, al termine della quale fu approvata la seguente risoluzione: «In seguito al fallimento particolarmente vergognoso del piano di ammasso dei cereali, gli organismi locali del Partito devono essere obbligati a contrastare il sabotaggio organizzato dai kulak controrivoluzionari, e ad annientare la resistenza dei comunisti rurali e dei presidenti di kolhoz che sono a capo di tale sabotaggio». Nei confronti di un certo numero di distretti inseriti nella «lista nera» (secondo la terminologia ufficiale) furono approvati i seguenti provvedimenti: ritiro di tutti i prodotti dai negozi, blocco totale del commercio, immediato rimborso di tutti i crediti in corso, imposizione straordinaria di tasse, arresto di tutti i «sabotatori», «elementi estranei» e «controrivoluzionari» con procedura accelerata, sotto l'egida della G.P.U. Se il «sabotaggio» fosse proseguito, la popolazione avrebbe potuto essere sottoposta alla deportazione in massa. Nella regione del Caucaso settentrionale, di grande importanza strategica per la produzione agricola, durante il solo novembre del 1932, primo mese di «lotta contro il sabotaggio», furono arrestati 5000 comunisti rurali, giudicati colpevoli di «criminale compiacenza» nei confronti del «sabotaggio» della campagna di ammasso, oltre a 15 mila colcosiani. In dicembre cominciarono deportazioni in massa non più dei soli kulak, ma di interi villaggi, in particolare di "stanic" cosacche, che nel 1920 erano già state colpite da provvedimenti analoghi . Il numero di coloni speciali riprese a salire rapidamente. Mentre nel 1932, secondo i dati dell'amministrazione dei gulag ("Gosudarstverlnoe Upravlenie Lagerej", Amministrazione centrale dei campi), erano arrivati 71236 deportati, nel 1933 si registrò un afflusso di 268091 coloni speciali .

In Ucraina la Commissione Molotov si comportò in modo analogo; i distretti in cui il piano di ammasso non era stato attuato furono inseriti nella «lista nera», con tutte le conseguenze descritte in precedenza: epurazione degli organi di partito locali, arresti in massa non solo di colcosiani, ma anche dei dirigenti del kolhoz, presunti colpevoli di «minimizzare la produzione». Ben presto gli stessi provvedimenti furono estesi ad altre regioni cerealicole. Tali metodi repressivi erano in grado di assicurare allo Stato la vittoria nella guerra contro i contadini? In una relazione ufficiale, il console italiano di Novorossijsk argomentava con notevole perspicacia la sua risposta negativa:

    "L'apparato sovietico, preponderante per armamento e potenza, si trova in effetti nell'impossibilità di uscire vittorioso da una o più battaglie in campo aperto; il nemico non è raggruppato, è disperso, e lo esaurisce in una infinita serie di minuscole operazioni: qui un campo non è stato sarchiato, là sono stati occultati alcuni quintali di grano; senza contare un trattore inattivo, un altro guastato volutamente, un terzo che gira a vuoto invece di lavorare... E poi si constata che un magazzino è stato saccheggiato, che i libri contabili, grandi o piccoli, sono tenuti male o falsificati, che i direttori dei kolhoz, per paura o per cattiva volontà, nei loro rapporti non dichiarano il vero... E così via, all'infinito, e ricominciando sempre in questo territorio immenso! ... Il nemico dev'essere rintracciato casa per casa, villaggio per villaggio: come attingere acqua con un secchio sfondato!" .
Così, per sconfiggere «il nemico», rimaneva soltanto una soluzione: affamarlo.

Fin dall'estate del 1932 Mosca ricevette i primi rapporti che prevedevano il rischio di una «situazione alimentare critica» per l'inverno 1932-1933. Nell'agosto del 1932 Molotov riferì all'Ufficio politico che esisteva «una concreta minaccia di carestia perfino nei distretti in cui si era avuto un eccellente raccolto», proponendo tuttavia di attuare a tutti i costi il piano di ammasso. Nello stesso mese d'agosto, il presidente del Consiglio dei commissari del popolo del Kazakistan, Isaev, avvertì Stalin dell'estensione della carestia nella sua repubblica, dove la collettivizzazione e la riduzione alla vita sedentaria degli abitanti, nomadi per tradizione, ne aveva del tutto dissestato l'economia. Perfino staliniani di ferro come Stanislav Kosior, primo segretario del Partito comunista di Ucraina, o Mihail Hataevic, primo segretario del Partito della regione di Dnepropetrovsk, chiesero a Stalin e a Molotov di ridurre le quote del piano. Nel novembre del 1932 Hataevic scriveva a Molotov: «Affinché in avvenire la produzione possa aumentare in conformità alle esigenze dello Stato proletario, noi dobbiamo prendere in considerazione le esigenze minime dei colcosiani, altrimenti non ci sarà più nessuno per seminare e assicurare la produzione».

Molotov rispose: «La sua posizione è profondamente scorretta e non bolscevica. Noi bolscevichi non possiamo mettere né al decimo né al secondo posto le esigenze dello Stato, esigenze determinate con esattezza dalle risoluzioni del Partito» .

Pochi giorni dopo l'Ufficio politico inviava alle autorità locali una circolare in cui si ordinava che i kolhoz inadempienti rispetto alle quote del piano fossero subito privati di «tutto il grano in loro possesso, comprese le cosiddette riserve per la semina»!

Milioni di contadini, nelle più ricche regioni agricole dell'Unione Sovietica, costretti a consegnare tutte le loro magre riserve sotto minaccia o sotto tortura, non avendo né i mezzi né la possibilità di comprare nulla, si trovarono preda della carestia e non ebbero altra risorsa che emigrare verso le città. Ma poco prima, il 27 dicembre 1932, il governo aveva introdotto l'obbligo del passaporto interno e della registrazione dei residenti urbani, allo scopo di limitare l'esodo rurale, di «liquidare il parassitismo sociale» e «combattere l'infiltrazione di kulak nelle città». Perciò, per fronteggiare il fenomeno dei contadini in fuga dalle campagne per la sopravvivenza, il 22 gennaio 1933 fu emanata una circolare che in pratica programmava la condanna a morte di milioni di affamati: era stata firmata da Stalin e Molotov e ordinava alle autorità locali, in particolare alla G.P.U., di impedire «con ogni mezzo ai contadini dell'Ucraina e del Caucaso settentrionale di partire in massa verso le città. Dopo l'arresto degli elementi controrivoluzionari, gli altri fuggitivi saranno ricondotti nei luoghi di residenza». La circolare spiegava la situazione in questo modo: «Il Comitato centrale e il governo hanno la prova che tale esodo in massa dei contadini è organizzato dai nemici del potere sovietico, dai controrivoluzionari e dagli agenti polacchi, a scopo di propaganda contro il sistema colcosiano in particolare e il potere sovietico in generale» .

In tutte le regioni colpite dalla carestia fu immediatamente sospesa la vendita dei biglietti ferroviari e furono istituiti blocchi stradali, controllati dalle unità speciali della G.P.U., per impedire ai contadini di lasciare le province di residenza. Ai primi di marzo del 1933 un rapporto della polizia politica precisava che in un mese, nell'ambito delle operazioni destinate a limitare l'esodo dei contadini affamati verso le città, erano state fermate 219460 persone e 186588 erano state «ricondotte alle regioni di origine»; le altre furono arrestate e processate. Il rapporto taceva però sulla sorte delle persone espulse dalle città.

Su questo punto ecco la testimonianza del console italiano a Har'kov, nel cuore di una regione fra le più colpite dalla carestia:

    "Da una settimana è stato organizzato un servizio per raccogliere i bambini abbandonati. Infatti, oltre ai contadini che affluiscono alla città perché in campagna non hanno più speranza di sopravvivere, ci sono i bambini che erano stati portati qui e sono stati poi abbandonati dai genitori, tornati ai loro villaggi per morire. Sperano che in città qualcuno si prenda cura della loro prole ... Da una settimana gli 'dvornik' [portinai] in camicia bianca sono stati mobilitati, e pattugliano la città per portare i bambini nel più vicino posto di polizia ... Verso mezzanotte cominciano a trasportarli, sui camion, fino alla stazione merci di Severo-Donec, dove riuniscono anche i bambini trovati nelle stazioni e sui treni, le famiglie di contadini, gli anziani rimasti isolati, tutti quelli che hanno rastrellato in città durante la giornata. C'è del personale medico ... che fa la «selezione». Quelli che non si sono ancora gonfiati e hanno qualche probabilità di sopravvivere sono avviati ai baraccamenti di Holodnaja Gora, dove agonizza una popolazione di circa 8000 anime, essenzialmente bambini, stesi sulla paglia, nei capannoni ... Quelli che si sono gonfiati sono trasportati con i treni merci in aperta campagna, e abbandonati a 50-60 chilometri dalla città, in modo che muoiano senza essere visti da nessuno ... All'arrivo nel luogo stabilito, si scavano grandi fosse e si tolgono dai vagoni tutti i morti" .

Nella primavera del 1933 la mortalità nelle campagne arrivò al culmine: alla fame si aggiunse il tifo; in borgate con varie migliaia di abitanti sopravvissero soltanto poche decine di persone. I rapporti della G.P.U., così come quelli dei diplomatici italiani a Har'kov, segnalano casi di cannibalismo: «Ogni notte si raccolgono a Har'kov circa 250 cadaveri di persone morte di fame o di tifo. Si è osservato che in moltissimi casi i corpi erano privi di fegato, evidentemente asportato attraverso un ampio squarcio. La polizia ha finito col cogliere sul fatto alcuni dei misteriosi "amputatori", i quali hanno confessato di aver preparato con quelle carni il ripieno dei "pirozok" [piccoli sformati di pasta farciti] che poi hanno venduto al mercato».

Nell'aprile del 1933 lo scrittore Mihail Sciolohov, transitando in un centro abitato del Kuban', scrisse a Stalin due lettere in cui riferiva nei particolari il modo in cui le autorità locali avevano torturato i colcosiani colpiti dalla carestia per estorcere loro tutte le riserve; chiedeva al primo segretario di inviare sul luogo soccorsi alimentari. Nel rispondergli Stalin non esitò a rivelare la propria posizione: i contadini avevano il giusto castigo per aver «fatto scioperi e sabotaggi» e per aver «cercato di scalzare il potere sovietico dichiarandogli guerra a oltranza» . Nell'anno 1933, mentre milioni di contadini morivano di fame, il governo sovietico continuava a vendere all'estero 18 milioni di quintali di grano per «le esigenze dell'industrializzazione».

Gli archivi demografici e i censimenti del 1937 e del 1939, tenuti segreti fino ad anni recentissimi, permettono di valutare la portata della carestia del 1933. In termini geografici «l'area della fame» corrispondeva alla totalità dell'Ucraina, a una parte della regione delle Terre nere, alle ricche pianure del Don, del Kuban' e del Caucaso settentrionale, a gran parte del Kazakistan. Circa 40 milioni di persone soffrirono per la carestia; nelle zone più colpite, come le aree agricole intorno a Har'kov, fra gennaio e giugno del 1933 la mortalità risultò decuplicata rispetto alla media: nel giugno del 1933 si ebbero 100 mila decessi nella regione di Har'kov, contro i 9000 del giugno del 1932. Si deve inoltre osservare che erano numerosissime le morti non registrate. E se è vero che la campagna fu colpita più duramente delle città, neppure queste ultime furono risparmiate: in un anno Har'kov perdette oltre 120 mila abitanti, Krasnodar 40 mila, Stavropol' 20 mila.

Le perdite demografiche, in parte provocate dalla carestia, non furono trascurabili nemmeno fuori dall'«area della fame». Nelle zone rurali della regione moscovita fra il gennaio e il giugno del 1933 la mortalità crebbe del 50 per cento; nella città di Ivanovo, dove nel 1932 erano scoppiate sommosse per la fame, nel primo semestre del 1933 la mortalità crebbe del 35 per cento. Nel 1933, considerando il paese nel suo complesso, il numero dei decessi aumentò di oltre 6 milioni di unità. Poiché questo incremento si deve soprattutto alla carestia, si può verosimilmente attribuire a quest'ultima un bilancio di circa 6 milioni di vittime. Il ceto contadino ucraino pagò il tributo più pesante, con almeno 4 milioni di morti; nel Kazakistan i morti furono circa un milione, in particolare fra la popolazione nomade, che la collettivizzazione aveva privato di tutto il bestiame e costretto con la forza alla vita stanziale: nel Caucaso settentrionale e nella regione delle Terre nere i morti furono un milione...

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[Box: ESTRATTO della lettera inviata a Stalin, il 4 aprile 1933, dall'autore del "Placido" Don, Mihail Sciolohov.
Compagno Stalin!
La mancata attuazione del piano di conferimento dei cereali nel distretto Vescenskij, come in molti altri del Caucaso settentrionale, non è dovuta a eventuali «sabotaggi di kulak», ma alla cattiva gestione degli organi di partito locali...
Nello scorso dicembre, per accelerare la campagna di ammasso, il Comitato regionale del Partito ha inviato un «plenipotenziario», il compagno Ovcinnikov, il quale ha preso i seguenti provvedimenti: 1. Requisire tutti i cereali disponibili, compreso l'«anticipo», dato dalla direzione dei kolhoz ai colcosiani per la semina del prossimo raccolto; 2. Ripartire tra le famiglie le consegne dovute allo Stato da ogni kolhoz. Qual è stato il risultato? Quando sono cominciate le requisizioni, i contadini si sono messi a nascondere e a sotterrare il grano. Adesso, una parola sugli effetti numerici di tutte queste requisizioni. Cereali «trovati»: 5930 quintali... Ed ecco alcuni dei metodi usati per riavere queste 593 tonnellate, una parte delle quali era sotto terra... dal 1918!
Il metodo del freddo... Si spoglia il colcosiano e lo si lascia «al freddo», nudo, in un capannone. Spesso sono state messe «al freddo» intere squadre di colcosiani.
Il metodo del caldo. Si bagnano con il cherosene i piedi e l'orlo delle gonne delle colcosiane e vi si dà fuoco. Poi si spegne il fuoco e si ricomincia...
Nel kolhoz Napolovskij un certo Plotkin, «plenipotenziario» del Comitato di distretto, quando interrogava i colcosiani li costringeva a stendersi su una stufa arroventata, e poi li «refrigerava», rinchiudendoli nudi dentro un hangar...
Nel kolhoz Lebjazenskij i colcosiani venivano fatti allineare al muro e poi si simulava una esecuzione...
Perciò, se la mia lettera le sembra degna dell'attenzione del Comitato centrale, mandi dei comunisti autentici, con il coraggio di smascherare tutti coloro che in questo distretto hanno sferrato un colpo mortale alla costruzione colcosiana... Lei è la nostra sola speranza.
Suo Mihail Sciolohov
(Archivi della presidenza, 45/1182717-22).

Ed ecco la risposta di Stalin a M. Sciolohov, in data 6 maggio 1933.

    "Caro compagno Sciolohov,
    grazie per le sue due lettere. Il soccorso che chiede è stato accordato. Ho mandato il compagno Skiriatov per sbrigare le faccende di cui mi parla; le chiedo di aiutarlo. Ecco fatto. Ma non è tutto qui, compagno Sciolohov, quel che volevo scriverle. Infatti il quadro che le sue lettere descrivono io lo definirei non oggettivo, e a tale proposito vorrei dirle due parole.
    L'ho ringraziata per le sue lettere, che rivelano un piccolo malanno del nostro apparato e dimostrano come nel voler fare bene, ossia disarmare i nostri nemici, certi nostri funzionari del Partito se la prendono con i nostri amici e possono addirittura diventare sadici. Ma queste osservazioni non significano che io sia IN TUTTO d'accordo con lei. Lei vede UN aspetto delle cose, e non lo vede male. Ma è soltanto UN aspetto. In politica, per non sbagliare - e le sue lettere non sono letteratura, sono politica pura - occorre saper vedere L'ALTRO aspetto della realtà. E l'altro aspetto è che gli stimati agricoltori del suo distretto, e non solo del suo, hanno fatto scioperi e sabotaggi, ed erano pronti a lasciare senza pane gli operai e l'Armata rossa! ll fatto che si trattasse di un sabotaggio silenzioso e in apparenza pacifico (senza spargimento di sangue) è un fatto che non cambia per nulla la sostanza della faccenda, ossia che quegli stimati agricoltori hanno cercato di scalzare il potere sovietico. Facendogli guerra a oltranza, caro compagno Sciolohov!
    Beninteso, tali precisazioni non possono giustificare gli abusi che secondo lei sono stati commessi dai nostri funzionari. E i colpevoli dovranno rispondere del loro comportamento. Ma è chiaro come il sole che i nostri stimati agricoltori non sono innocenti agnellini, come si potrebbe pensare leggendo le sue lettere.
    Dunque, stia bene. Le stringo la mano.
    Suo I. Stalin
    (Archivi della presidenza, 3/61/549/194).]
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Cinque anni prima del Grande terrore che colpì in primo luogo l'intellighenzia e i ranghi intermedi dell'economia e del Partito, la grande carestia del 1932-1933, apogeo del secondo atto della guerra anticontadina intrapresa dal Partito-Stato nel 1929, appare un episodio decisivo nell'attuazione di un sistema repressivo sperimentato di volta in volta e, a seconda delle opportunità politiche contingenti, contro l'uno o l'altro gruppo sociale. Si assiste alla proliferazione di piccoli tiranni e despoti locali, pronti a tutto per estorcere le ultime provviste ai contadini; è l'avvento della barbarie. L'estorsione diventa prassi quotidiana, i bambini sono abbandonati, ricompare il cannibalismo, insieme alle epidemie e al brigantaggio; si costruiscono le «baracche della morte», e sotto la sferza del Partito-Stato i contadini conoscono una nuova forma di servitù. Come scriveva acutamente Sergo Ordzonikidze, nel gennaio del 1934, a Sergej Kirov: «I nostri funzionari che hanno conosciuto la situazione del 1932-1933 e hanno saputo essere all'altezza sono davvero come acciaio temperato. Penso che con loro costruiremo uno Stato quale la storia non ne ha ancora conosciuti». Dobbiamo vedere in questa carestia, come oggi fanno alcuni pubblicisti e storici ucraini, un «genocidio del popolo ucraino»? . Non si può negare che i contadini ucraini siano stati le vittime principali della carestia del 1932-1933, e che già nel 1929 tale «assalto» fosse stato preceduto da numerose offensive, prima contro l'intellighenzia ucraina, accusata di «deviazionismo nazionalista», e quindi, dal 1932 in poi, contro una parte dei comunisti ucraini. E' incontestabile che si possa parlare della «ucrainofobia di Stalin», per riprendere l'espressione di Andrej Saharov. Tuttavia è altrettanto importante notare che la repressione per mezzo della carestia ha colpito in pari misura le province cosacche del Kuban' e del Don e il Kazakistan. In quest'ultima repubblica la collettivizzazione e la vita stanziale imposta alle popolazioni nomadi dal 1930 in poi avevano avuto effetti disastrosi: in due anni andò perduto l'80 per cento del bestiame. Due milioni di kazaki, privati dei loro beni, ridotti alla fame, emigrarono in parte verso l'Asia centrale (circa mezzo milione), in parte verso la Cina (un milione e mezzo circa).

In realtà in numerose regioni, come l'Ucraina e le province cosacche, e perfino in alcuni distretti delle Terre nere, la carestia sembra l'episodio finale nel conflitto fra Stato bolscevico e ceto contadino, cominciato negli anni 1918-1922. Infatti si può constatare una notevole coincidenza fra le zone in cui le requisizioni del 1918-1921 e la collettivizzazione del 1929-1930 avevano incontrato più forte resistenza e le zone colpite dalla carestia. Su 14 mila sommosse e rivolte contadine registrate nel 1930 dalla G.P.U., oltre l'85 per cento si verificò nelle regioni «castigate» dalla carestia del 1932- 1933. Le più colpite dalla grande carestia del 1932-1933 sono le regioni agricole più ricche e più dinamiche, quelle che avevano più da dare allo Stato e al tempo stesso avevano più da perdere con il sistema di estorsione della produzione agricola attuato in base alla collettivizzazione forzata.

9. «ELEMENTI ESTRANEI ALLA SOCIETA'» E CICLI DI REPRESSIONE
Il tributo più pesante al progetto staliniano di radicale trasformazione della società fu pagato, è vero, dal ceto contadino nel suo complesso, ma anche altri gruppi, definiti «estranei» alla «nuova società socialista», furono a diverso titolo messi al bando, privati dei diritti civili, espulsi dal posto di lavoro e dall'abitazione, retrocessi nella scala sociale, esiliati: le vittime principali della «rivoluzione anticapitalista» cominciata nei primi anni Trenta furono gli «specialisti borghesi», gli ex aristocratici, i membri del clero e delle professioni liberali, i piccoli imprenditori privati, i commercianti e gli artigiani. Ma anche la «gente comune» delle città, che non rientrava nella categoria canonica del «proletariato operaio protagonista dell'edificazione del socialismo», subì una certa quota di provvedimenti repressivi, tutti miranti a riportare sotto il giogo - e alla conformità ideologica - una società considerata recalcitrante a marciare verso il progresso.

***

Il famoso processo di Sciahty aveva chiaramente segnalato la fine della tregua fra il regime e gli «specialisti» cominciata nel 1921. Alla vigilia del lancio del primo piano quinquennale la lezione politica scaturita dal processo di Sciahty era evidente a tutti: lo scetticismo, l'indecisione, l'indifferenza nei confronti dell'opera intrapresa dal Partito potevano soltanto sfociare nel «sabotaggio»: dubitare equivaleva già a tradire. Lo "speceedstvo" - alla lettera, il continuo «stuzzicare lo specialista» - aveva radici profonde nella mentalità bolscevica, e la base fu pronta a cogliere il segnale politico costituito dal processo di Sciahty. Gli "spec" erano destinati a diventare i capri espiatori sia dei fallimenti dell'economia sia delle frustrazioni dovute al precipitare del tenore di vita. Dalla fine del 1928 migliaia di impiegati dell'industria e di ingegneri «borghesi» furono licenziati, privati delle tessere annonarie, esclusi dai servizi sanitari, talvolta sfrattati dall'abitazione. Nel 1929 migliaia di funzionari del Gosplan ("Gosudarstvennyj narodnohozjajstvennyj plan", Piano economico statale), del Consiglio supremo dell'economia nazionale, dei commissariati del popolo per le Finanze, il Commercio e l'Agricoltura furono epurati, adducendo pretesti come «deviazionismo di destra», «sabotaggio», appartenenza a una «classe estranea alla società», anche se effettivamente l'80 per cento degli alti funzionari delle Finanze vi erano impiegati già sotto il regime zarista .

La campagna di epurazione di alcune amministrazioni divenne più rigorosa dopo l'estate del 1930, quando Stalin, volendo farla finita per sempre con i «destrorsi», e in particolare con Rykov, ancora insediato alla carica di capo del governo, decise di dimostrare che questo gruppo era in collegamento con gli «specialisti sabotatori». Nell'agosto-settembre del 1930 la G.P.U. moltiplicò gli arresti di specialisti di chiara fama che occupavano posti importanti nel Gosplan, nella Banca di Stato e nei commissariati del popolo per le Finanze, il Commercio e l'Agricoltura. Fra le personalità arrestate avevano particolare rilievo il professor Kondrat'ev (l'inventore dei famosi «cicli Kondrat'ev» e viceministro per l'Approvvigionamento nel governo provvisorio del 1917, che dirigeva l'Istituto della congiuntura del commissariato del popolo per le Finanze), i professori Makarov e Ciajanov, titolari di cariche elevate nel commissariato del popolo per l'Agricoltura, il professor Sadyrin, membro della direzione della Banca nazionale dell'URSS, Groman, esperto di statistica economica tra i più noti del Gosplan, il professor Ramzin, e altri eminenti specialisti .

La G.P.U., debitamente istruita da Stalin, il quale seguiva con particolare attenzione le vicende degli «specialisti borghesi», aveva preparato una serie di incartamenti per dimostrare l'esistenza di una rete di organizzazioni antisovietiche collegate l'una all'altra nell'ambito di un presunto «Partito contadino del lavoro» diretto da Kondrat'ev e di un altrettanto fantomatico «Partito industriale» diretto da Ramzin. I funzionari incaricati dell'istruttoria riuscirono a estorcere a un certo numero di arrestati una serie di «confessioni» riguardanti sia i contatti avuti con i «destrorsi» Rykov, Buharin e Syrcov, sia la partecipazione a immaginari complotti miranti a eliminare Stalin e a rovesciare il regime sovietico con l'aiuto di organizzazioni antisovietiche dell'emigrazione e di servizi segreti stranieri. La G.P.U. si spinse ancora oltre: riuscì a strappare a due istruttori dell'Accademia militare la «confessione» circa un complotto che si andava preparando sotto la guida di Mihail Tuhacevskij, capo di Stato maggiore dell'Armata rossa. Come appare dalla lettera inviata allora a Sergo Ordzonikidze, in quel momento Stalin non si azzardò a far arrestare Tuhacevskij, preferendo colpire altri bersagli, gli «specialisti sabotatori» .

Tale episodio è significativo perché dimostra chiaramente come già nel 1930 fossero rodati a perfezione i marchingegni tecnici con i quali si inventavano le imprese di cosiddetti «gruppi di terroristi», costituiti da comunisti contrari alla linea staliniana. Per il momento Stalin non voleva e non poteva spingersi oltre. Le provocazioni e le manovre di quel periodo avevano sempre obiettivi tutto sommato abbastanza modesti: scoraggiare gli ultimi oppositori della linea staliniana all'interno del Partito, spaventare tutti gli indecisi e tutti gli esitanti.

Il 22 settembre 1930 la «Pravda» pubblicò le «confessioni» di 48 funzionari dei commissariati del popolo per il Commercio e per le Finanze, che ammettevano di essere colpevoli «delle difficoltà di approvvigionamento nel paese e della scomparsa dalla circolazione delle monete d'argento». Alcuni giorni prima, in una lettera a Molotov, Stalin aveva dettato le proprie direttive riguardo alla situazione: «Dobbiamo: a. Attuare la radicale epurazione dell'apparato del commissariato del popolo per le Finanze e della Banca di Stato, nonostante gli strepiti dei comunisti dubbiosi come Pjatakov o Brjuhanov. b. Fucilare senz'altro due o tre decine di sabotatori infiltrati in tali apparati... c. Proseguire, su tutto il territorio dell'URSS, le operazioni della G.P.U. miranti a recuperare le monete d'argento in circolazione». Il 25 settembre 1930 i 48 specialisti furono giustiziati .

Nei mesi successivi furono allestiti parecchi processi identici: alcuni si svolsero a porte chiuse, come quello contro gli «specialisti del Consiglio supremo dell'economia nazionale» o del «Partito contadino del lavoro»; altri furono pubblici, come il processo del «Partito industriale», durante il quale otto imputati «confessarono» di aver costituito una vasta rete, formata da duemila specialisti, con il compito di organizzare la sovversione dell'economia, su istigazione di certe ambasciate straniere. Simili processi servivano ad alimentare il mito del sabotaggio che, insieme a quello del complotto, avrebbe costituito il fulcro dell'apparato ideologico staliniano.

Fra il 1928 e il 1931 furono esclusi dalla funzione pubblica 138 mila funzionari, 23 mila dei quali vennero privati dei diritti civili in quanto classificati nella prima categoria («nemici del potere sovietico») . La caccia agli specialisti si accentuò ancora di più nelle aziende, sottoposte a una pressione produttivistica che accentuava fenomeni come gli incidenti sul lavoro, la fabbricazione di prodotti difettosi, i guasti ai macchinari. Dal gennaio del 1930 al giugno del 1931 il 48 per cento degli ingegneri del Donbass furono licenziati o arrestati; nel primo semestre del 1931 furono «smascherati» 4500 «specialisti sabotatori» soltanto nel settore dei trasporti. La persecuzione degli specialisti si sommava alla consuetudine di fissare obiettivi irrealizzabili al di fuori di qualsiasi controllo, al tracollo della produttività e della disciplina del lavoro, al disprezzo ostentato per le esigenze imprescindibili dell'economia: come risultato finale, il funzionamento delle aziende subiva continui dissesti.

La portata della crisi era tale da costringere la direzione del Partito a varare alcuni «correttivi». Il 10 luglio 1931 l'Ufficio politico approvò una serie di provvedimenti che tendevano a limitare l'arbitrio cui erano soggetti gli "spec" dal 1928: immediata liberazione di diverse migliaia di ingegneri e tecnici, «prioritariamente nell'industria metallurgica e nei bacini carboniferi», abolizione delle discriminazioni che impedivano ai loro figli di accedere alle scuole superiori, divieto per la G.P.U. di arrestare uno specialista senza il consenso preliminare del commissariato del popolo di cui era dipendente. La semplice enunciazione di tali provvedimenti basta a comprovare quanto fossero estese le discriminazioni e la repressione da cui erano state colpite, dopo il processo di Sciahty, decine di migliaia di ingegneri, di agronomi, di tecnici e di amministratori a tutti i livelli .

Fra le altre categorie bandite dalla «nuova società socialista» figuravano in particolare i membri del clero. Negli anni 1929-1930 lo Stato sovietico lanciò contro la Chiesa la seconda grande offensiva dopo quella del 1918-1922. Alla fine degli anni Venti, sebbene un certo numero di prelati avesse contestato la dichiarazione di fedeltà al potere sovietico del metropolita Sergij, successore del patriarca Tihon, la Chiesa ortodossa aveva ancora una grande importanza nella società. Su 54692 chiese attive nel 1914, circa 39 mila erano ancora aperte al culto all'inizio del 1929 . Emel'jan Jaroslavskij, presidente della Lega dei senzadio, fondata nel 1925, riconosceva che sui 130 milioni di abitanti del paese, erano meno di 10 milioni coloro che «avevano rotto» con la religione.

L'offensiva antireligiosa del 1929-1930 si svolse in due fasi. Nella prima, tra la primavera e l'estate del 1929, fu riattivata e inasprita la legislazione antireligiosa vigente nel 1918-1922. L'8 aprile 1929 fu promulgato un importante decreto che sottoponeva la vita delle parrocchie a un controllo più stretto da parte delle autorità locali, imponendo ulteriori restrizioni all'attività delle associazioni religiose. Ormai, ogni attività «che superasse i limiti della pura e semplice soddisfazione delle aspirazioni religiose» ricadeva sotto i rigori della legge, in particolare del comma 10 del temibile articolo 58 del Codice penale, in base al quale «ogni sfruttamento dei pregiudizi religiosi delle masse ... mirante a indebolire lo Stato» era passibile «di una pena variabile da una detenzione minima di tre anni fino alla pena capitale». Il 26 agosto 1929 il governo istituì la settimana con cinque giorni lavorativi continui e uno di riposo; in questo modo si eliminava la pausa della domenica come giorno di riposo comune alla totalità della popolazione. Il provvedimento avrebbe dovuto «facilitare la lotta per lo sradicamento della religione» . I vari decreti erano un semplice preludio a interventi più diretti, che costituirono la seconda fase dell'offensiva antireligiosa. Nell'ottobre del 1929 fu ordinato il sequestro delle campane: «Il suono delle campane infrange il diritto al riposo delle grandi masse atee nei centri urbani e rurali». I ministri del culto furono assimilati ai kulak: oberati di imposte (fra il 1928 e il 1930 i tributi che i sacerdoti ortodossi dovevano versare furono decuplicati), privati dei diritti civili (ossia, nello specifico, delle tessere annonarie e di ogni sorta di assistenza medica), spesso arrestati, più tardi esiliati o deportati. Secondo dati incompleti, nel 1930 furono sottoposti a dekulakizzazione oltre 13 mila ministri del culto. In molti villaggi e borghi il simbolico segnale di apertura della collettivizzazione era la chiusura della chiesa, mentre il processo di dekulakizzazione cominciava dal prete. E' significativo che, fra le sommosse e le insurrezioni contadine registrate nel 1930, nel 14 per cento circa dei casi il motivo scatenante sia stato la chiusura delle chiese e la confisca delle campane . La campagna antireligiosa raggiunse l'acme nell'inverno del 1929-1930: al primo marzo 1930 risultavano chiuse o demolite 6715 chiese. E' vero che in seguito al famoso articolo di Stalin intitolato "La vertigine del successo", uscito il 2 marzo 1930, il Comitato centrale emanò una risoluzione in cui cinicamente si censuravano le «inammissibili deviazioni nella lotta contro i pregiudizi religiosi, in particolare la chiusura delle chiese per disposizione amministrativa, senza il consenso degli abitanti»: ma questa condanna formale non ebbe il minimo effetto sulla sorte dei ministri del culto deportati.

Negli anni successivi le offensive su vasta scala contro la Chiesa lasciarono il passo a forme di disturbo capillare, attuate giorno per giorno nei confronti dei ministri del culto e delle associazioni religiose. Le autorità locali proseguivano la loro attività repressiva rifacendosi a una libera interpretazione dei 68 articoli del Decreto dell'8 aprile 1929; per quanto riguardava la chiusura delle chiese andavano ben oltre le proprie prerogative, imponendola per i più diversi motivi: edifici decrepiti o in «condizioni contrarie alle norme igieniche», «assenza di copertura assicurativa», mancato pagamento delle imposte e degli altri innumerevoli tributi da cui erano oppressi i membri delle associazioni religiose. Alcuni ministri del culto, rimasti privi di diritti civili, impossibilitati a esercitare il magistero e a guadagnarsi da vivere con un impiego salariato, arbitrariamente bollati come «parassiti che vivono di redditi non salariali», non ebbero altra soluzione che diventare «preti erranti», conducendo un'esistenza clandestina ai margini della società. In tal modo, soprattutto nelle province di Voronez e di Tambov, nacquero alcuni movimenti scismatici che si opponevano alla politica di fedeltà al potere sovietico di cui era fautore il metropolita Sergij.

I fedeli di Aleksej Buj, vescovo di Voronez, arrestato nel 1929 per l'intransigenza con cui respingeva ogni compromesso fra la Chiesa e il regime, costituirono una Chiesa autonoma, la «Vera Chiesa ortodossa», dotata di un proprio clero, spesso «errante», ordinato al di fuori della gerarchia ecclesiale guidata dal patriarca Sergij. Non avendo a disposizione edifici per il culto, gli adepti di questa «Chiesa del deserto» si riunivano a pregare nei luoghi più disparati: abitazioni private, romitori, grotte . Contro i «veri cristiani ortodossi», come essi stessi si definivano, la persecuzione fu particolarmente accanita; furono arrestati in molte migliaia e deportati nelle colonie speciali o reclusi nei campi di lavoro. Quanto alla Chiesa ortodossa, la costante pressione esercitata dalle autorità provocò un calo nettissimo nel numero dei luoghi di culto e dei membri del clero, anche se il 70 per cento degli adulti continuava a dichiararsi credente, come dimostrò più tardi il censimento (annullato) del 1937. Alla data del primo aprile 1936 in URSS rimanevano aperte al culto soltanto 15835 chiese ortodosse (il 28 per cento del totale dell'epoca prerivoluzionaria), 4830 moschee (il 32 per cento del totale di prima della rivoluzione) e poche decine di chiese cattoliche e protestanti. Il totale dei ministri del culto ufficialmente censiti non superava le 17857 unità, contro le 112629 del 1914 e le circa 70 mila ancora esistenti nel 1928. Per citare la formula ufficiale, il clero non era altro che «un relitto delle classi moribonde» .

***

I kulak, gli "spec" e i membri del clero non furono le uniche vittime della «rivoluzione anticapitalista» dei primi anni Trenta. Nel gennaio 1930 le autorità lanciarono una vasta campagna di «estromissione degli imprenditori privati», un'operazione che prendeva di mira in modo specifico commercianti, artigiani e alcuni esponenti delle professioni liberali: in totale, circa un milione e mezzo di individui, che all'epoca della NEP avevano esercitato la propria attività nel settore privato, d'altronde di modestissime dimensioni. Tali imprenditori privati, che in media investivano nel commercio un capitale non superiore ai 1000 rubli, e nel 98 per cento dei casi non avevano neppure un dipendente salariato, furono rapidamente estromessi con vari espedienti: imponendo loro tasse decuplicate, confiscandone i beni e poi privandoli dei diritti civili in quanto «elementi declassati», «nullafacenti» o «stranieri», così come ne era stato privato un gruppo eterogeneo, costituito da «ex aristocratici» e da altri «membri delle classi possidenti e dell'apparato statale zarista». In un decreto del 12 dicembre 1930 si elencavano oltre trenta categorie di "liscenec", ossia di cittadini privati dei diritti civili: «ex proprietari terrieri», «ex commercianti», «ex aristocratici», «ex poliziotti», «ex funzionari zaristi», «ex kulak», «ex locatari o proprietari di imprese private», «ex ufficiali bianchi», ministri del culto, monaci, monache, «ex membri di partiti politici» eccetera. Le discriminazioni imposte ai "liscenec" (i quali nel 1932 costituivano il 4 per cento dell'elettorato, ossia, insieme alle famiglie, 7 milioni di persone) evidentemente non si limitavano alla privazione del diritto di voto. Nel 1929-1932 non avere diritto al voto significava infatti perdere ogni diritto all'abitazione, ai servizi sanitari e alle tessere annonarie. Nel 1933-1934 furono decisi provvedimenti ancor più severi, fino a circoscrivere l'intera categoria con un'operazione specifica: l'imposizione del passaporto interno obbligatorio, con la quale si intendeva epurare le città dagli «elementi declassati» .

La collettivizzazione forzata delle campagne, accompagnandosi a una spinta accelerata verso l'industrializzazione, aveva troncato alla radice le strutture sociali e i modi di vita rurali, spingendo i ceti contadini verso le città in una valanga migratoria. La Russia contadina si trasformò in un paese di vagabondi, "Rus' brodjnzaja". Tra la fine del 1928 e la fine del 1932 le città sovietiche furono sommerse da un'alluvione di contadini, costituita, secondo calcoli di stima, da 12 milioni di individui che fuggivano dalla collettivizzazione e dall'eliminazione dei kulak. Le sole regioni di Mosca e Leningrado «accolsero» più di 3 milioni e mezzo di emigranti, fra i quali un buon numero di contadini intraprendenti che avevano preferito scappare dal villaggio, «autodekulakizzandosi», se necessario, piuttosto che entrare a far parte delle fattorie collettive. Questa mano d'opera, che si accontentava di poco, nel 1930-1931 fu assorbita senza difficoltà dagli innumerevoli cantieri in funzione; ma dal 1932 in poi le autorità cominciarono a preoccuparsi per l'afflusso in massa, senza controlli, di una popolazione vagabonda che «ruralizzava» la città, luogo del potere e vetrina del nuovo ordine socialista, e metteva a repentaglio tutto il sistema annonario, laboriosamente costruito dal 1929 in poi (con un numero di «aventi diritto» che dai 26 milioni dei primi mesi del 1930 arrivò a circa 40 milioni alla fine del 1932), trasformando le fabbriche in immensi «accampamenti di nomadi». In fondo, i nuovi arrivati non potevano forse essere considerati responsabili di tutta una serie di «fenomeni negativi» individuati dalle autorità come motivo di cronica disorganizzazione della produzione: assenteismo, crollo nella disciplina del lavoro, teppismo, fabbricazione di pezzi difettosi, aumento dell'alcolismo e della criminalità? .

Per combattere una simile "stihija" (vocabolo che si riferisce agli elementi della natura in quanto caos primigenio, ma è usato anche per indicare l'anarchia e il disordine sociale), nel novembre-dicembre del 1932 le autorità vararono una serie di provvedimenti repressivi, a partire dalla novità assoluta di introdurre sanzioni penali nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, fino al tentativo di epurare le città dagli «elementi estranei alla società». La Legge del 15 novembre 1932 prevedeva sanzioni severe contro l'assenteismo: i contravventori potevano essere puniti con il licenziamento in tronco, la confisca delle tessere annonarie, l'espulsione dall'abitazione. La norma aveva l'esplicito obiettivo di smascherare gli «pseudo-operai». Il Decreto del 4 dicembre 1932, che attribuiva alle imprese la responsabilità di distribuire le nuove tessere annonarie, aveva in primo luogo lo scopo di eliminare tutte le «anime morte» e i «parassiti» indebitamente iscritti negli elenchi municipali di razionamento compilati con scarsa attenzione.

Ma la chiave di volta del dispositivo fu l'introduzione del passaporto interno, il 27 dicembre 1932. Con la «passaportizzazione» della popolazione si intendevano raggiungere vari obiettivi, enunciati in modo esplicito nel preambolo del decreto: liquidare il «parassitismo sociale», limitare l'«infiltrazione» dei kulak nei centri urbani e l'attività dei kulak stessi nei mercati, frenare l'esodo rurale, salvaguardare la purezza sociale delle città. I servizi di polizia distribuivano un passaporto a tutti i cittadini adulti, ossia maggiori di sedici anni, in possesso dei diritti civili, come pure ai ferrovieri, ai dipendenti fissi dei cantieri di costruzione, agli operai agricoli delle fattorie di Stato; ma il documento era valido soltanto se era provvisto di un timbro ufficiale, certificante il domicilio legale del cittadino ("propiska"). La "propiska" era l'elemento cruciale dello statuto del cittadino, con i peculiari vantaggi che ne derivavano: tessera annonaria, previdenza sociale, diritto all'abitazione. Le città furono divise in due categorie: «aperte» o «chiuse». Le città «chiuse» (Mosca, Leningrado, Kiev, Odessa, Minsk, Har'kov, Rostov sul Don, in un primo tempo Vladivostok) godevano di uno statuto privilegiato, avevano assicurato un congruo approvvigionamento e permettevano di ottenere il domicilio permanente soltanto per filiazione, per matrimonio o grazie all'assunzione in un impiego specifico che comportasse il diritto alla "propiska"; nelle città «aperte» la "propiska" si otteneva con maggiore facilità.

L'attuazione delle norme che introducevano il «passaporto interno» per l'intera popolazione si prolungò per tutto il 1933 (furono consegnati 27 milioni di passaporti) e permise alle autorità di depurare le città degli elementi indesiderabili. A Mosca il bilancio della prima settimana di introduzione del nuovo ordinamento, cominciata il 5 gennaio 1933, fu la «scoperta» di 3450 «ex Guardie bianche, ex kulak e altri elementi criminali». In totale, nelle «città chiuse» il passaporto fu rifiutato a circa 385 mila persone, che furono costrette a lasciare la propria residenza entro dieci giorni, con il divieto di stabilirsi in permanenza in un'altra città, fosse pure una di quelle «aperte». In un rapporto del 13 agosto 1934 il capo del Dipartimento passaporti dell'N.K.V.D. riconosceva: «A questa cifra occorre beninteso aggiungere tutti coloro che hanno preferito abbandonare le città di propria iniziativa, appena è stata annunciata l'operazione "passaporto interno", sapendo che non avrebbero potuto ottenerlo. Per esempio a Magnitogorsk hanno lasciato la città 35 mila persone circa ... A Mosca, durante i primi due mesi dell'operazione, la popolazione è diminuita di 60 mila unità. A Leningrado in un solo mese sono scomparse nel nulla 54 mila persone». Nelle città «aperte» l'operazione permise di espellere oltre 420 mila persone .

I controlli di polizia e le retate di individui privi di documenti ebbero come effetto la condanna all'esilio di centinaia di migliaia di persone. Nel dicembre del 1933 Genrih Jagoda ordinò ai suoi servizi di «ripulire» ogni settimana le stazioni e i mercati delle città «chiuse». Nei primi otto mesi del 1934 nelle sole città «chiuse» furono fermate per infrazioni al regime dei passaporti oltre 630 mila persone; 65661 di esse furono imprigionate con provvedimento amministrativo e poi in genere deportate come «elementi declassati» con lo statuto di coloni speciali, 3596 furono deferite ai tribunali e 175627 esiliate senza avere lo statuto di coloni speciali; gli altri se la cavarono con una semplice multa .

Le operazioni più spettacolari ebbero luogo durante il 1933: fra il 28 giugno e il 3 luglio furono arrestati e deportati in «villaggi di lavoro» siberiani 5470 zingari moscoviti ; fra l'8 e il 12 luglio furono arrestati e deportati 4750 «elementi declassati» di Kiev; nell'aprile, giugno e luglio del 1933 si ebbero retate e deportazioni di tre contingenti di «elementi declassati» a Mosca e a Leningrado , per un totale di oltre 18 mila persone. Il primo dei tre gruppi fu trasportato sull'isolotto di Nazino, dove in un mese perirono i due terzi dei detenuti.

Circa l'identità di alcuni fra i cosiddetti «elementi declassati», deportati in seguito a un semplice controllo di polizia, ecco cosa scriveva l'istruttore del Partito di Narym, nel rapporto che abbiamo già citato:

    "Potrei fornire molteplici esempi di deportazioni del tutto ingiustificate. Purtroppo, tutte queste persone, amici, operai, membri del Partito, sono morte perché erano le meno adatte a sopravvivere in quelle condizioni: Novozilov Vladimir, di Mosca, autista della fabbrica «Compressore» di Mosca, tre volte premiato, con moglie e figlio a Mosca; stava per andare al cinema con la moglie: mentre lei si preparava, è sceso a comprare le sigarette senza portare i documenti con sé, e in strada è incappato in una retata. La Vinogradova, colcosiana, andava a trovare il fratello, capo della milizia dell'ottavo settore, a Mosca: appena scesa dal treno in una delle stazioni cittadine è stata presa in una retata e deportata. Vojkin Nikolaj Vasil'evic, membro del Komsomol dal 1929, operaio nella fabbrica «L'operaio tessile rosso» di Serpuhov, premiato tre volte; andava a una partita di calcio, di domenica, e aveva dimenticato di portare con sé i documenti: preso nella retata, deportato. Matveev, I. M., operaio edile, dipendente del cantiere della Fabbrica di panificazione n. 9; aveva un passaporto da lavoratore stagionale, valido fino a dicembre 1933: preso nella retata con passaporto e tutto; diceva che nessuno aveva voluto neppure dare un'occhiata ai suoi documenti" .

L'epurazione compiuta nelle città nel 1933 fu accompagnata da numerose altre operazioni, condotte con cura e nello stesso spirito sia nelle amministrazioni sia nelle imprese. Nella primavera di quell'anno fu epurato l'8 per cento del personale addetto ai trasporti ferroviari, settore strategico diretto con pugno di ferro da Andreev e poi da Kaganovic: un totale di 20 mila persone circa. Troviamo descritta una di queste operazioni, «l'eliminazione degli elementi controrivoluzionari e antisovietici nelle ferrovie», in un rapporto del capo del Dipartimento trasporti della G.P.U., datato 5 gennaio 1933:

    "Le operazioni di pulizia effettuate dal Dipartimento trasporti della G.P.U. dell'ottava regione hanno dato i seguenti risultati. Penultima epurazione: 700 persone arrestate e deferite ai tribunali, di cui: ladri di bagagli 325, teppisti ed elementi criminali 221, banditi 27, controrivoluzionari 127; 73 ladri di bagagli organizzati in bande sono stati passati per le armi. Durante l'ultima epurazione ... sono state arrestate circa 200 persone. Si tratta soprattutto di kulak. Inoltre sono stati licenziati con provvedimento amministrativo 300 elementi poco fidati. Negli ultimi quattro mesi sono state quindi eliminate dalla rete, in una maniera o nell'altra, 1250 persone; le operazioni di pulizia proseguono" .

Nella primavera del 1934 il governo adottò una serie di provvedimenti repressivi nei confronti dei giovani vagabondi e delinquenti minorili che, in seguito alla dekulakizzazione, alla carestia, al generale abbrutimento dei rapporti sociali, erano sempre più numerosi nelle città. Il 7 aprile 1935 l'Ufficio politico emanò un decreto in base al quale si prescriveva: «Deferire alla giustizia, in vista dell'applicazione di tutte le sanzioni penali previste dalla legge, gli adolescenti dai dodici anni in poi giudicati colpevoli di furti, di atti di violenza, di danneggiamenti alle persone, di atti di mutilazione e di assassinio». Pochi giorni dopo il governo inviò agli uffici della pubblica accusa una direttiva segreta, in cui si precisava che le sanzioni penali da applicare agli adolescenti non escludevano neppure «la suprema sanzione in difesa della società», ossia la pena di morte: erano perciò abrogate le disposizioni del Codice penale che in passato vietavano di comminare ai minorenni la pena capitale . In parallelo l'N.K.V.D. ebbe l'incarico di riorganizzare le «case di accoglienza e di residenza obbligata dei minori» fino ad allora dipendenti dal commissariato del popolo per l'Istruzione, e di costituire una rete di «colonie di lavoro» destinate ai minorenni.

Tuttavia la crescente diffusione della delinquenza giovanile e del vagabondaggio resero del tutto inefficaci tali provvedimenti, come appare da un rapporto relativo alla «liquidazione del vagabondaggio minorile nel periodo dal primo luglio 1935 al primo ottobre 1937»:

    "Nonostante la riorganizzazione dei servizi, la situazione non è affatto migliorata ... Dal febbraio del 1937 si osserva un forte afflusso di vagabondi dalle zone rurali, in particolare dalle regioni colpite dal cattivo raccolto del 1936 ... L'abbandono in massa delle campagne da parte dei fanciulli, a causa di temporanee difficoltà materiali attraversate dalle famiglie di origine, si spiega non solo con la scadente organizzazione delle casse di mutuo soccorso dei kolhoz, ma anche con le pratiche criminali dei dirigenti di numerose fattorie collettive, che, volendo sbarazzarsi dei giovani accattoni e dei vagabondi, concedono a questi ultimi un «attestato di vagabondaggio e di mendicità» e li avviano alle stazioni e città più vicine ... Dal canto loro, l'amministrazione delle ferrovie e la polizia ferroviaria, invece di arrestare i minorenni vagabondi e indirizzarli ai centri di accoglienza e di distribuzione dell'N.K.V.D., si ostinano a collocarli a forza sui treni di passaggio «per ripulire il loro settore» ... e così i vagabondi si ritrovano nelle grandi città" .
Bastano poche cifre per farsi un'idea dell'estensione del fenomeno: nel solo anno 1936 transitarono dalle «case di accoglienza» dell'N.K.V.D. oltre 125 mila minorenni; dal 1935 al 1939 oltre 155 mila furono reclusi nelle colonie di lavoro dell'N.K.V.D., e 92 mila bambini fra i dodici e i sedici anni furono deferiti a un tribunale soltanto nel periodo 1936-1939. Alla data del primo aprile 1939 oltre 10 mila minorenni erano incarcerati nel sistema dei campi del gulag.

Nella prima metà degli anni Trenta l'attività repressiva esercitata dal Partito-Stato contro la società si svolse con fasi di intensità variabile, veri e propri cicli in cui i momenti di scontro violento, con tutto il loro seguito di provvedimenti terroristici e di epurazioni in massa, si alternavano ai momenti di pausa che permettevano di ritrovare un certo equilibrio, o meglio frenavano il conflitto permanente, evitando che la situazione precipitasse verso il caos, fuori da ogni possibile controllo.

La primavera del 1933 segnò senza dubbio l'apogeo di un primo grande ciclo del terrore, cominciato alla fine del 1929 con la dekulakizzazione; fu il momento in cui le autorità si trovarono a dover affrontare problemi davvero inediti, in primo luogo quello di garantire che i campi venissero lavorati nelle regioni devastate dalla carestia, in modo da provvedere al futuro raccolto. Nell'autunno del 1932 un importante dirigente del Partito a livello regionale aveva ammonito: «Se non teniamo conto delle esigenze minime dei colcosiani non avremo più nessuno che semini e ci assicuri la produzione».

Inoltre, che fare delle centinaia di migliaia di imputati di cui erano affollate le prigioni, e che il sistema dei campi non era neppure in grado di sfruttare? Nel marzo del 1933 un altro responsabile locale del Partito si domandava: «Quale effetto possono avere sulla popolazione le nostre leggi ultrarepressive, quando sappiamo che su proposta della pubblica accusa sono già state liberate centinaia di colcosiani, condannati soltanto il mese scorso a due anni e oltre di carcere per aver sabotato la semina?».

Le risposte che le autorità fornirono nel corso dell'estate del 1933 a queste due situazioni limite rivelavano due orientamenti diversi: il modo di combinarli, di alternarli, di mantenerne il fragile equilibrio avrebbe caratterizzato il periodo fra l'estate del 1933 e l'autunno del 1936, prima che si scatenasse il Grande terrore.

La risposta delle autorità al primo interrogativo - come assicurare il lavoro dei campi, e quindi il prossimo raccolto, nelle regioni devastate dalla carestia? - fu la più sbrigativa possibile: si organizzarono massicce retate della popolazione urbana, che venne inviata nei campi "manu militari".

Il 20 luglio 1933 il console italiano di Har'kov scriveva: «La mobilitazione delle forze cittadine ha assunto enormi proporzioni ... In questa settimana, ogni giorno sono state mandate in campagna almeno 20 mila persone ... L'altro ieri hanno setacciato il bazar, catturato tutte le persone valide, uomini, donne, adolescenti di entrambi i sessi: la G.P.U. li ha scortati alla stazione e sono stati mandati nei campi» .

L'arrivo in massa dei residenti urbani nelle campagne affamate provocava inevitabili tensioni: i contadini incendiavano le baracche in cui erano stati alloggiati i «mobilitati»; d'altra parte le autorità non mancavano di ammonire questi ultimi a non avventurarsi nei villaggi, «popolati da cannibali». Tuttavia la situazione meteorologica era straordinariamente favorevole, tutta la manodopera urbana disponibile era stata mobilitata, e i superstiti, relegati nei propri villaggi e posti di fronte all'alternativa se coltivare le terre che non gli appartenevano più o morire, seguirono il proprio istinto di sopravvivenza: quindi, le regioni che nel 1932-1933 erano state colpite dalla carestia, nell'autunno del 1933 fornirono un raccolto tutto sommato onorevole.

Alla seconda domanda - che fare della valanga di detenuti che affollava le prigioni? - il potere rispose in modo pragmatico: furono scarcerate parecchie centinaia di migliaia di persone. In una circolare confidenziale del Comitato centrale, dell'8 maggio 1933, si riconosceva la necessità di «regolamentare gli arresti ... da chiunque effettuati», di «sfollare i luoghi di detenzione» e di «portare il totale dei detenuti da 800 mila a 400 mila entro due mesi, senza considerare quelli dei campi» . L'operazione di «sfollamento» durò quasi un anno e furono liberati circa 320 mila arrestati.

L'anno 1934 fu caratterizzato da una certa attenuazione della politica repressiva. Si ebbe infatti un forte calo nel numero di condanne pronunciate in processi seguiti dalla G.P.U., crollate a 79 mila contro le 240 mila del 1933 . Fu inoltre riorganizzata la polizia politica: in base al Decreto del 10 luglio 1934 la G.P.U. diventava un dipartimento del nuovo commissariato del popolo per gli Interni, unificato sull'intero territorio dell'URSS, e in tal modo sembrava fondersi con altri dipartimenti meno temuti, come la milizia operaia e contadina, le guardie di confine eccetera. La «nuova» polizia politica, indicata con la stessa sigla del commissariato del popolo per gli Interni, in russo "Narodnyj komissariat vnutrennih del", ovvero N.K.V.D., perdeva alcune sue prerogative giudiziarie: terminata l'istruttoria i fascicoli dovevano essere «trasmessi agli organi giudiziari competenti», e l'N.K.V.D. non era più autorizzata a ordinare esecuzioni capitali senza l'avallo delle autorità politiche centrali. Inoltre si istituiva una procedura di appello: tutte le condanne a morte dovevano essere confermate da una commissione dell'Ufficio politico.

Tali direttive, presentate come miranti a «rafforzare la legalità socialista», ebbero però effetti limitatissimi: il controllo sui mandati di arresto emanati dalla pubblica accusa si rivelò inesistente, perché il procuratore generale Vyscinskij lasciava agli organi della repressione la massima libertà di agire. D'altronde, dal settembre del 1934 in poi, l'Ufficio politico fu il primo a trasgredire le norme emanate per sua stessa iniziativa circa la ratifica delle condanne a morte: autorizzò infatti i responsabili di un certo numero di regioni a tralasciare di riferire a Mosca sulle sentenze capitali pronunciate a livello locale. Il periodo di bonaccia fu di breve durata.

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Un nuovo ciclo di repressione fu scatenato dall'assassinio di Sergej Kirov, membro dell'Ufficio politico e primo segretario dell'organizzazione partitica di Leningrado: il primo dicembre 1934 Kirov era stato ucciso da Leonid Nikolaev, un giovane comunista esaltato che era riuscito a entrare armato nella sede della direzione del Partito di Leningrado, l'ex istituto Smolny.

Per decenni è prevalsa l'opinione che lo stesso Stalin avesse avuto una parte diretta nell'assassinio del proprio «rivale» politico più temibile, opinione confermata dalle «rivelazioni» del «Rapporto segreto», presentato la notte fra il 24 e il 25 febbraio 1956 da Nikita Hrusc‰v ai delegati sovietici riuniti nel Ventesimo Congresso del P.C.U.S. Ma in epoca recente l'ipotesi è stata confutata, in particolare nell'opera di Alla Kirilina , che ha potuto attingere a fonti di archivio inedite prima di allora; resta peraltro verissimo che Stalin si servì largamente dell'assassinio di Kirov per raggiungere i propri fini politici. Infatti l'attentato rappresentava la sensazionale materializzazione di una metafora cruciale nell'armamentario retorico staliniano: quella del complotto.

Permetteva quindi di alimentare un clima di crisi e di tensione e, al momento opportuno, poteva servire come prova tangibile - in realtà, come unico elemento costitutivo - dell'esistenza di una vasta cospirazione che minacciava il paese, i suoi dirigenti, il socialismo; in prospettiva forniva poi un'eccellente giustificazione alle debolezze del sistema: se le cose andavano male, se la vita era difficile invece di essere, secondo la famosa espressione di Stalin, «allegra e felice», la colpa era «degli assassini di Kirov».

Poche ore dopo che era stata diffusa la notizia dell'assassinio, Stalin stilò il testo di un decreto noto sotto il nome di Legge del primo dicembre: un provvedimento legislativo straordinario, emanato per decisione personale di Stalin e sancito dall'Ufficio politico soltanto due giorni dopo, in cui si prescriveva di ridurre a dieci giorni la fase istruttoria nei processi per terrorismo, di portarli in giudizio in assenza delle parti e di applicare immediatamente le sentenze capitali. La legge rappresentava una rottura netta con le procedure fissate pochi mesi prima, e sarebbe stata lo strumento ideale per attuare il Grande terrore .

Nelle settimane seguenti fu accusato di attività terroristiche un gran numero di ex oppositori di Stalin all'interno del Partito. Il 22 dicembre 1934 la stampa annunciò che l'«odioso delitto» era opera di un «gruppo terroristico clandestino» composto da tredici ex «zinovievisti» pentiti, oltre che da Nikolaev, e diretto da un presunto «Centro di Leningrado». Tutti i membri del gruppo furono giudicati a porte chiuse il 28 e 29 dicembre, condannati a morte e subito giustiziati. Il 9 gennaio 1935 ebbe inizio il processo contro il mitico «Centro controrivoluzionario zinovievista di Leningrado», con 77 imputati, fra i quali molti illustri militanti del Partito che in passato si erano opposti alla linea staliniana: furono tutti condannati alla carcerazione. La scoperta del Centro di Leningrado permise di mettere le mani su un «Centro di Mosca», che si pretendeva formato da 19 membri, compresi gli stessi Zinov'ev e Kamenev. Essi furono accusati di «complicità ideologica» con gli assassini di Kirov e processati il 16 gennaio 1935. Zinov'ev e Kamenev ammisero che «la trascorsa attività dell'opposizione, per la forza delle circostanze oggettive, non poteva non costituire uno stimolo alla degenerazione di questi criminali». Il riconoscimento di tale stupefacente «complicità ideologica», sopravvenuto dopo una serie di pentimenti e rinnegamenti pubblici, e che in futuro avrebbe esposto i due ex dirigenti ad apparire come vittime espiatorie in una parodia di giustizia, costò loro per il momento la condanna rispettivamente a cinque e dieci anni di carcere. In due mesi, fra il dicembre del 1934 e il febbraio del 1935, in base alle nuove procedure instaurate dalla legge sul terrorismo del primo dicembre furono condannate in totale 6500 persone.

Subito dopo la condanna di Zinov'ev e Kamenev, il Comitato centrale inviò a tutti gli organi di partito una circolare segreta, intitolata "Lezioni da trarre dagli eventi connessi all'ignobile assassinio del compagno Kirov". Nel testo si affermava l'esistenza di un complotto guidato da «due centri zinovievisti ... copertura di una organizzazione di Guardie bianche», e si ricordava come la storia del Partito fosse stata e continuasse a essere una lotta permanente contro i «gruppi antipartito»: trotzkisti, «centristi democratici», «deviazionisti di destra», «sinistrorsi aborti della destra» eccetera. Quindi erano sospetti tutti coloro che in un momento o nell'altro si erano pronunciati contro la direzione di Stalin: la caccia ai passati oppositori divenne più accanita. Alla fine del gennaio del 1935, 988 ex sostenitori di Zinov'ev furono espulsi da Leningrado ed esiliati in Siberia e Iacuzia. Il Comitato centrale ordinò a tutti gli organismi locali del Partito di compilare elenchi dei comunisti che nel 1926- 1928 erano stati radiati perché appartenenti al «blocco trotzkista e trotzkista-zinovievista». Gli arresti compiuti in seguito partirono appunto da questi elenchi. Nel maggio 1935 Stalin fece spedire agli organi locali del Partito una nuova lettera del Comitato centrale, in cui si ordinava che la tessera di ogni comunista fosse sottoposta a una minuziosa verifica.

L'«enorme importanza politica» della campagna di verifica delle tessere era dimostrata in maniera clamorosa dalla versione ufficiale, secondo cui l'assassinio di Kirov era stato perpetrato da un individuo penetrato nello Smolny grazie a una «falsa» tessera di partito. La campagna si prolungò per oltre sei mesi, con l'attivo contributo dell'apparato della polizia politica: l'N.K.V.D. forniva agli organi di partito i fascicoli raccolti sui comunisti «poco fidati», mentre a loro volta gli organismi partitici comunicavano all'N.K.V.D. le informazioni riguardanti gli iscritti espulsi durante la campagna di «verifica». Il bilancio di quest'ultima fu l'espulsione dal Partito del 9 per cento degli aderenti, ossia circa 250 mila persone .

Secondo dati incompleti, presentati al plenum del Comitato centrale convocato alla fine del dicembre 1935 da Nikolaj Ezov, capo del Dipartimento centrale dei funzionari e responsabile dell'operazione, nel corso della campagna furono arrestati 15218 «nemici» espulsi dal Partito. Tuttavia, secondo Ezov, l'epurazione era stata condotta molto male: era durata il triplo del tempo previsto, a causa della «cattiva volontà, ai limiti del sabotaggio», di un gran numero di «elementi burocratizzati installati negli apparati». Nonostante gli appelli delle autorità centrali a smascherare trotzkisti e zinovievisti, soltanto il 3 per cento degli esclusi apparteneva a queste categorie: spesso i dirigenti locali del Partito si erano mostrati riluttanti «a prendere contatto con gli organi dell'N.K.V.D. e a fornire al Centro un elenco individuale delle persone da mandare senz'altro in esilio, su mandato amministrativo». In breve, secondo Ezov, la campagna di verifica delle tessere aveva rivelato fino a qual punto la «cautela solidale» degli apparati partitici locali intralciasse qualsiasi efficace controllo da parte delle autorità centrali su quel che davvero accadeva nel paese . Era un insegnamento fondamentale, di cui Stalin si sarebbe ricordato.

L'ondata di terrore scatenata all'indomani dell'assassinio di Kirov non travolse soltanto coloro che un tempo all'interno del Partito avevano rappresentato l'opposizione: con il pretesto che «terroristi delle Guardie bianche avevano varcato la frontiera occidentale dell'URSS», il 27 dicembre 1934 l'Ufficio politico decretò la deportazione di duemila «famiglie antisovietiche» delle province confinanti dell'Ucraina. Analogamente, il 15 marzo 1935 fu deciso di deportare «in Kazakistan e nella Siberia occidentale ... tutti gli elementi poco fidati delle province di confine della regione di Leningrado e della repubblica autonoma di Carelia». Si trattava soprattutto di finlandesi, le prime vittime delle deportazioni etniche che avrebbero raggiunto il culmine durante la guerra. La prima grande deportazione, riguardante circa 10 mila persone, scelte in base a criteri di nazionalità, fu seguita nella primavera del 1936 da una seconda, che coinvolse oltre 15 mila famiglie e 50 mila persone circa, polacchi e tedeschi di Ucraina che furono deportati nella regione di Karaganda, nel Kazakistan, e assegnati alle fattorie collettive.

Come dimostra la quantità di sentenze di condanna emesse nei processi seguiti dall'N.K.V.D. nel 1935 (267 mila) e nel 1936 (oltre 274 mila), in questi due anni il ciclo repressivo divampò di nuovo; nello stesso periodo furono anche varate alcune, rare, misure più rassicuranti: la soppressione della categoria dei "liscenec", l'annullamento delle condanne a periodi di reclusione inferiori ai cinque anni inflitte ai colcosiani, la liberazione anticipata di 37 mila persone condannate in base alla Legge del 7 agosto 1932, la restituzione dei diritti civili ai coloni speciali deportati, l'abrogazione delle discriminazioni che impedivano ai figli di deportati di accedere all'insegnamento superiore. Ma si trattava di provvedimenti contraddittori: i kulak deportati, che in linea di principio dopo cinque anni di esilio avrebbero dovuto essere reintegrati nei diritti civili, non potevano però lasciare il domicilio coatto. Appena si videro restituiti i propri diritti, cominciarono a tornare nei loro villaggi, provocando una sequela di problemi inestricabili: era forse possibile lasciarli entrare nel kolhoz? Dove potevano abitare, dal momento che i loro beni e le loro case erano stati confiscati? La logica della repressione poteva tollerare soltanto qualche pausa, ma non consentiva di tornare indietro.

Le tensioni fra il regime e la società si accentuarono ancora quando le autorità decisero di ricuperare il movimento stacanovista (nato dopo il famoso «record» ottenuto dal minatore Aleksej Stahanov, che aveva aumentato di quattordici volte le quote di produzione del carbone attuando una formidabile organizzazione di squadra) e di promuovere una vasta campagna produttivistica. Nel novembre del 1935, appena due mesi dopo il celebre record di Stahanov, a Mosca si riunì una conferenza dei lavoratori di avanguardia, alla quale Stalin intervenne sottolineando il carattere «profondamente rivoluzionario di un movimento liberato dal conservatorismo degli ingegneri, dei tecnici e dei dirigenti di azienda». Nelle condizioni in cui funzionava l'industria sovietica dell'epoca, l'organizzazione di giornate, settimane o decadi stacanovistiche dissestava la produzione in modo permanente: i macchinari si deterioravano, gli incidenti sul lavoro diventavano più frequenti, ai record seguiva una fase di crollo della produzione. Naturalmente, ricollegandosi allo "speceedstzvo" degli anni 1928-1931, le autorità imputarono le difficoltà economiche ai sabotatori che a loro dire si erano infiltrati tra i funzionari, gli ingegneri e gli specialisti. Una parola imprudente nei confronti degli stacanovisti, una serie di interruzioni nei ritmi produttivi, un incidente tecnico erano considerati atti controrivoluzionari. Nel primo semestre del 1936 oltre 14 mila funzionari dell'industria furono arrestati con l'accusa di sabotaggio. Stalin si servì della campagna stacanovista per irrigidire ancora di più la sua politica repressiva e scatenare una nuova ondata di terrore senza precedenti, destinata a entrare nella storia con il nome di «Grande terrore».


Ultima modifica 05.12.2003