Violenze, repressioni, terrori nell'Unione Sovietica (di Nicolas Werth).
1. Paradossi e malintesi dell'Ottobre
2. Il «braccio armato della dittatura del proletariato»
3. Il Terrore rosso
4. La «sporca guerra»
5. Da Tambov alla grande carestia
6. Dalla tregua alla «grande svolta»
7. Collettivizzazione forzata e dekulakizzazione
8. La grande carestia
9. «Elementi estranei alla società» e cicli di repressione
10. Il Grande terrore (1936-1938)
11. L'impero dei campi
12. L'altra faccia della vittoria
13. Apogeo e crisi del gulag
14. L'ultimo complotto
15. L'uscita dallo stalinismo
In conclusio
7.
COLLETTIVIZZAZIONE FORZATA E DEKULAKIZZAZIONE
Come confermano gli archivi oggi accessibili, la collettivizzazione
forzata delle campagne fu una vera e propria guerra, dichiarata dallo
Stato sovietico contro un'intera nazione di piccoli produttori
agricoli. Furono deportati oltre 2 milioni di contadini di cui un
milione 800 mila solo nel 1930-1931; 6 milioni morirono di fame,
centinaia di migliaia perirono nelle zone di deportazione: queste
poche cifre danno la misura della tragedia umana provocata dal «grande
attacco» contro la classe contadina. Questa guerra non finì
nell'inverno 1929-1930, ma durò invece almeno fino alla metà degli
anni Trenta, e culminò negli anni 1932-1933: in questo periodo si
verificò una terribile carestia, provocata deliberatamente dalle
autorità per piegare la resistenza della classe contadina. La violenza
esercitata contro i contadini permise di sperimentare metodi che in
seguito furono applicati contro altri gruppi sociali. In questo senso,
ciò rappresenta una tappa decisiva nello sviluppo del Terrore
staliniano.
Nel suo rapporto al plenum del Comitato centrale del novembre del 1929 Vjaceslav Molotov aveva dichiarato: «Nell'ambito del piano quinquennale i ritmi della collettivizzazione non costituiscono un problema.... Restano novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, quattro mesi e mezzo durante i quali, se gli imperialisti non ci attaccano direttamente, dobbiamo effettuare uno sfondamento decisivo nell'ambito dell'economia e della collettivizzazione». Le decisioni del plenum ratificarono questo balzo in avanti. Una commissione elaborò un nuovo calendario di collettivizzazione, che fu promulgato il 5 gennaio 1930 dopo molte revisioni al rialzo. Entro l'autunno del 1930 dovevano essere totalmente collettivizzati il Caucaso settentrionale, il Basso e il Medio Volga; le altre regioni cerealicole un anno dopo.
Già il 27 dicembre 1929 Stalin aveva annunciato il passaggio dalla «limitazione delle tendenze sfruttatrici dei kulak alla liquidazione dei kulak come classe». Una commissione dell'Ufficio politico, presieduta da Molotov, fu incaricata di mettere a punto i dettagli pratici per effettuarlo. La commissione individuò tre categorie di kulak: i primi, «impegnati in attività controrivoluzionarie», dovevano essere arrestati e trasferiti nei campi di lavoro della G.P.U., o in caso di resistenza giustiziati; le loro famiglie sarebbero state deportate e i beni confiscati. I kulak della seconda categoria, che esprimevano «un'opposizione meno attiva», ma erano «comunque arcisfruttatori, e quindi naturalmente inclini ad aiutare la controrivoluzione», dovevano essere arrestati e deportati insieme ai familiari in regioni remote del paese. Infine i kulak di terza categoria, definiti «fedeli al regime», sarebbero stati insediati d'ufficio al margine dei distretti in cui risiedevano, «fuori dalle zone collettivizzate, su terre che necessitano di essere bonificate». Il decreto precisava: «La quantità di colture di kulak da liquidare entro quattro mesi ... deve essere compresa fra il 3 e il 5 per cento del numero totale delle colture»; si trattava di una cifra indicativa che avrebbe dovuto guidare le operazioni di dekulakizzazione . Le operazioni venivano coordinate in ciascun distretto da una trojka composta dal primo segretario del Comitato del partito, dal presidente del Comitato esecutivo dei soviet e dal responsabile locale della G.P.U., ed erano condotte da commissioni e brigate di dekulakizzazione. La lista dei kulak di prima categoria, che in base al «piano indicativo» stabilito dall'Ufficio politico comprendeva 60 mila capifamiglia, era di competenza esclusiva della polizia politica. Le liste dei kulak delle altre categorie, invece, venivano approntate in loco, tenendo conto delle «raccomandazioni» degli «attivisti» del villaggio. Chi erano questi attivisti? Uno dei più intimi collaboratori di Stalin, Sergo Ordzonikidze, li descriveva così: «Dato che nei villaggi non ci sono militanti del Partito, in generale vi abbiamo collocato un "giovane comunista", affiancandogli due o tre contadini poveri; questo "attivo" è incaricato di regolare direttamente tutte le questioni del villaggio: collettivizzazione, dekulakizzazione». Le istruzioni erano chiare: collettivizzare il maggior numero di colture possibile, e arrestare i recalcitranti bollandoli come kulak.
Questi sistemi, com'è logico, provocavano abusi e regolamenti di conti di ogni genere. Come definire il kulak? E un kulak di seconda categoria o uno di terza? Nel gennaio-febbraio del 1930, per individuare la coltura di un kulak non si poteva nemmeno più ricorrere ai criteri che negli anni precedenti erano stati pazientemente elaborati dopo infinite discussioni da vari ideologi ed economisti del Partito. Infatti nell'ultimo anno i kulak si erano molto impoveriti per far fronte alle imposte sempre più pesanti. In assenza di segni esteriori di ricchezza, le commissioni dovevano ricorrere alle liste fiscali conservate dai soviet rurali, spesso vecchie e incomplete, alle informazioni della G.P.U., alle denunce di vicini allettati dalla possibilità di saccheggiare i beni altrui. Anziché seguire le istruzioni ufficiali, compilando un inventario preciso e dettagliato dei beni per poi trasferirli al fondo inalienabile del kolhoz, le brigate di dekulakizzazione si attenevano al principio: «Mangiamo e beviamo, è tutto nostro». Come osservava un rapporto della G.P.U. proveniente dalla provincia di Smolensk, «i dekulakizzatori toglievano ai contadini agiati gli abiti invernali e la biancheria calda, impadronendosi in primo luogo delle scarpe. Lasciavano i kulak in mutande, e prendevano tutto, comprese le vecchie scarpe di gomma, i vestiti delle donne, 50 copechi di tè, attizzatoi, brocche... Le brigate confiscavano persino i piccoli guanciali posti sotto la testa dei bambini, persino la "kascia" che cuoceva sul fuoco e che spalmavano sulle icone dopo averle infrante» . Gli averi dei contadini dekulakizzati spesso venivano semplicemente messi al sacco o venduti all'asta a prezzi irrisori; alcune izba furono acquistate da membri delle brigate di dekulakizzazione per 60 copechi, delle mucche per 15 copechi, cioè a prezzi diverse centinaia di volte inferiori all'effettivo valore. Oltre a dare possibilità di saccheggio illimitate, spesso la dekulakizzazione serviva anche da pretesto per regolare conti personali.
In queste condizioni, non stupisce che in certi distretti i contadini dekulakizzati fossero all'80-90 per cento "serednjak", contadini medi. Bisognava raggiungere, e se possibile superare, il numero «indicativo» di kulak stabilito dalle autorità locali! I contadini venivano arrestati e deportati per aver venduto dei cereali al mercato durante l'estate, per aver assunto un bracciante agricolo per due mesi nel 1925 o nel 1926, per aver posseduto due samovar, per aver ammazzato un maiale nel settembre del 1929 «allo scopo di consumarlo e sottrarlo così all'appropriazione socialista». Un contadino veniva arrestato con il pretesto di essersi «dato al commercio», mentre era solo un contadino povero che vendeva i suoi prodotti; un altro veniva deportato con il pretesto che suo zio era stato ufficiale zarista, un altro ancora era bollato come kulak per la sua «frequentazione assidua della chiesa». Ma il più delle volte il semplice fatto di essersi opposti apertamente alla collettivizzazione bastava per essere considerati kulak. Nelle brigate di dekulakizzazione regnava una confusione tale da causare talvolta assurdità vere e proprie. In un borgo dell'Ucraina, per citare solo un esempio, un "serednjak" membro di una brigata di dekulakizzazione fu arrestato come kulak dai rappresentanti di un'altra brigata di dekulakizzazione di stanza all'altra estremità del borgo! Tuttavia, dopo una prima fase che a qualcuno servì da pretesto per regolare vecchi conti, o semplicemente per darsi al saccheggio, la comunità contadina non tardò a coalizzarsi contro i «dekulakizzatori» e i «collettivizzatori». Nel gennaio del 1930 la G.P.U. registrò 402 rivolte e «manifestazioni di massa» contadine contro la collettivizzazione e la dekulakizzazione, 1048 in febbraio e 6528 in marzo .
Questa resistenza massiccia e inattesa della classe contadina indusse il potere a modificare temporaneamente i suoi piani. Il 2 marzo 1930 tutti i giornali sovietici pubblicarono il famoso articolo "La vertigine del successo", in cui Stalin condannava «le numerose distorsioni al principio del volontariato nell'adesione dei contadini ai kolhoz», imputando gli «eccessi» della collettivizzazione ai responsabili locali «ebbri di successo». L'impatto dell'articolo fu immediato: durante il solo mese di marzo, più di 5 milioni di contadini lasciarono i kolhoz. Ma le sommosse e i disordini provocati dalla riappropriazione, spesso violenta, degli arnesi e del bestiame da parte dei proprietari non cessarono. Per tutto il mese di marzo le autorità centrali ricevettero quotidianamente rapporti della G.P.U. in cui si riferiva di insurrezioni massicce nell'Ucraina occidentale, nella regione centrale delle Terre nere, nel Caucaso settentrionale, nel Kazakistan. In questo mese cruciale la G.P.U. contò in totale oltre 6500 «manifestazioni di massa», più di 800 delle quali dovettero essere «soffocate dalle forze armate». Nel corso di questi incidenti oltre 1500 funzionari furono uccisi, feriti o picchiati di santa ragione. Il numero delle vittime fra gli insorti è ignoto, ma dev'essere nell'ordine di alcune migliaia .
All'inizio di aprile il potere fu costretto a fare altre concessioni. Inviò alle autorità locali molte circolari in cui si chiedeva di rallentare il ritmo della collettivizzazione, ammettendo che esisteva il pericolo reale «di una vera ondata di guerre contadine» e «dell'annientamento fisico della metà dei funzionari locali del potere sovietico». In aprile il numero delle rivolte e delle manifestazioni contadine calò, pur restando comunque imponente: 1992 casi registrati dalla G.P.U. A partire dall'estate diminuirono ancora più in fretta: 886 rivolte in giugno, 618 in luglio, 256 in agosto. Complessivamente, nel 1930 quasi 2 milioni 500 mila contadini parteciparono a quasi 14 mila rivolte, sommosse e manifestazioni di massa contro il regime. Le regioni più colpite furono l'Ucraina (e soprattutto l'Ucraina occidentale, in cui interi distretti sfuggirono al controllo del regime, specialmente alle frontiere con la Polonia e con la Romania), la regione delle Terre nere, il Caucaso settentrionale .
Una delle peculiarità di questi movimenti era il ruolo chiave che vi svolgevano le donne, mandate in prima linea nella speranza che non avrebbero subito punizioni troppo severe . Le autorità erano particolarmente colpite dalle manifestazioni di protesta dei contadini contro la chiusura delle chiese o la collettivizzazione delle mucche da latte, che metteva a rischio la sopravvivenza stessa dei loro figli, ma va sottolineato che ci furono anche numerosi scontri sanguinosi fra le squadre della G.P.U. e gruppi di contadini armati di forconi e di scuri. Centinaia di soviet furono messi al sacco; i comitati contadini assumevano per qualche ora o qualche giorno la direzione dei villaggi, formulando liste di rivendicazioni in cui erano citate alla rinfusa la restituzione degli utensili e del bestiame confiscati, lo scioglimento dei kolhoz, il ripristino della libertà di commercio, la riapertura delle chiese, la restituzione ai kulak dei loro beni, il ritorno dei contadini deportati, l'abolizione del potere bolscevico o... la restaurazione dell'«Ucraina indipendente» . I contadini riuscirono, soprattutto in marzo e in aprile, a sconvolgere i piani governativi di collettivizzazione accelerata, ma il loro successo fu di breve durata. A differenza di quanto era accaduto nel 1920-1921, non riuscirono a organizzarsi davvero, a trovare dei capi, a federarsi almeno a livello regionale. Le rivolte contadine fallirono per mancanza di tempo, poiché il regime reagiva in fretta, per mancanza di quadri, che erano stati decimati durante la guerra civile, e per mancanza di armi, che erano state via via confiscate nel corso degli anni Venti.
La repressione fu terribile. Solo nei distretti di confine dell'Ucraina occidentale, alla fine di marzo del 1930 il «rastrellamento degli elementi controrivoluzionari» condusse all'arresto di oltre 15 mila persone. Inoltre, nel giro di 40 giorni, dal primo febbraio al 15 marzo, la G.P.U. dell'Ucraina arrestò altre 26 mila persone, 650 delle quali furono fucilate. Secondo i dati della G.P.U., nel 1930 soltanto gli organi giudiziari speciali della polizia politica condannarono a morte 20200 persone.
Mentre proseguiva la repressione degli «elementi controrivoluzionari», la G.P.U. applicava la Direttiva n. 44/21 di G. Jagoda sull'arresto di 60 mila kulak di prima categoria. A giudicare dai rapporti quotidiani inviati a Jagoda, l'operazione fu condotta con rapidità: il primo rapporto, datato 6 febbraio, attesta l'arresto di 15985 individui; il 9 febbraio, per citare l'espressione usata dalla G.P.U., erano state «ritirate dalla circolazione» 25245 persone. Un «rapporto segreto» ("specsvodka") datato 15 febbraio precisava: «Fra liquidazioni, individui ritirati dalla circolazione e operazioni di massa, si arriva a un totale di 64589 persone, di cui 52166 ritirate durante operazioni preparatorie (prima categoria), e 12423 ritirate nel corso di operazioni di massa». In pochi giorni il «piano» di liquidazione di 60 mila kulak di prima categoria era stato superato. In realtà, i kulak rappresentavano soltanto una parte delle persone «ritirate dalla circolazione». Gli agenti locali della G.P.U. avevano approfittato dell'occasione per «ripulire» il proprio distretto dagli «elementi estranei alla società», fra cui figuravano «poliziotti dell'ancien régime», «ufficiali bianchi», «servitori del culto», «monache», «artigiani rurali», ex «commercianti», «membri dell'intellighenzia rurale» e «altri». In calce al rapporto del 15 febbraio 1930, che specificava le varie categorie di individui arrestati nel quadro della liquidazione dei kulak di prima categoria, Jagoda scrisse: «Le regioni di Nord-Est e Leningrado non hanno capito le nostre direttive oppure non vogliono capirle: "bisogna obbligarli a capire". Non stiamo ripulendo il territorio da popi, commercianti e altri. Se dicono 'altri' vuol dire che non sanno "chi arrestano". Avremo tutto il tempo per sbarazzarci dei popi e dei commercianti, oggi bisogna centrare con precisione l'obiettivo: "i kulak", e i kulak controrivoluzionari». Quanti individui arrestati nel quadro dell'operazione di «liquidazione dei kulak di prima categoria» furono giustiziati? A tutt'oggi non ci sono dati disponibili.
I kulak «di prima categoria» costituirono senza dubbio una parte notevole dei primi contingenti di detenuti trasferiti nei campi di lavoro. Nell'estate del 1930 la G.P.U. aveva già organizzato una vasta rete di campi. Il complesso penitenziario più antico, quello delle isole Soloveckie, continuò a estendersi sul litorale del Mar Bianco, dalla Carelia alla regione di Arcangelo. Oltre 40 mila detenuti costruivano la strada Kem'-Uhta e assicuravano la maggior parte della produzione di legname esportata dal porto di Arcangelo. Il gruppo dei campi settentrionali, che contava circa 40 mila detenuti, era attivo nella costruzione di una ferrovia di 300 chilometri fra Ust', Sysol'sk e Pinjug, e di una strada di 280 chilometri fra Ust', Sysol'sk e Uhta. Nel gruppo dei campi estremoorientali, i 15 mila detenuti costituivano la sola manodopera del cantiere della linea ferroviaria di Boguciacinsk. Un quarto gruppo, detto della Vigera e che contava 20 mila detenuti circa, forniva la manodopera del cantiere del grande complesso chimico di Berezniki, negli Urali. Infine, il Gruppo dei campi siberiani, forte di 24 mila detenuti circa, collaborava alla costruzione della linea ferroviaria Tomsk-Enisejsk e del complesso metallurgico di Kuzneck.
Nel giro di un anno e mezzo, dalla fine del 1928 all'estate del 1930, la manodopera penitenziaria sfruttata nei campi della G.P.U. aumentò del 350 per cento, passando da 40 mila a 140 mila detenuti circa. I successi nello sfruttamento di questa forza lavoro incoraggiarono il potere ad avviare nuovi grandi progetti. Nel giugno 1930 il governo decise di costruire un canale lungo 240 chilometri, che doveva essere scavato per la maggior parte nella roccia granitica e che avrebbe collegato il Mar Baltico al Mar Bianco. A causa della mancanza di mezzi tecnici e di macchinari, per il faraonico progetto era necessaria una manodopera di almeno 120 mila detenuti, che come unici utensili avevano picconi, pale e carriole. Ma nell'estate del 1930, in piena dekulakizzazione, la manodopera penitenziaria non era certo un prodotto deficitario!
In realtà, la massa dei dekulakizzati era tale - oltre 700 mila persone alla fine del 1930, oltre un milione 800 mila alla fine del 1931 - che le «strutture di inquadramento» non riuscivano a «star loro dietro». Le operazioni di deportazione dell'immensa maggioranza dei kulak, detti di «seconda» e «terza» categoria, si svolsero nell'improvvisazione e nell'anarchia assolute. Produssero una forma senza precedenti di «deportazione-abbandono» che sul piano economico non rendeva nulla alle autorità, anche se uno degli obiettivi principali della dekulakizzazione era di valorizzare per mezzo dei deportati le regioni inospitali ma ricche di risorse naturali del paese . Le deportazioni dei kulak di seconda categoria incominciarono nella prima settimana di febbraio del 1930. Secondo il piano approvato dall'Ufficio politico, 60 mila famiglie dovevano essere deportate durante la prima fase, la cui conclusione era prevista per la fine d'aprile. La zona settentrionale doveva accogliere 45 mila famiglie, gli Urali 15 mila. Tuttavia il 16 febbraio Stalin telegrafò a Eihe, primo segretario del Comitato regionale di partito della Siberia occidentale: «E' inammissibile che la Siberia e il Kazakistan pretendano di non essere pronti per accogliere i deportati. Tra ora e la fine di aprile la Siberia deve assolutamente accogliere 15 mila famiglie». In risposta Eihe inviò a Mosca un «preventivo» in cui erano calcolati i costi di «installazione» del contingente di deportati pianificato: si trattava di 40 milioni di rubli, somma che non ricevette mai .
Insomma, le operazioni di deportazione furono caratterizzate dalla completa assenza di coordinamento fra i diversi anelli della catena. I contadini arrestati furono parcheggiati per settimane in locali improvvisati - caserme, edifici amministrativi, stazioni - da cui molti di loro riuscirono a fuggire. La G.P.U. aveva previsto per la prima fase 240 convogli di 53 vagoni: secondo le norme stabilite dalla G.P.U., ciascun treno doveva essere costituito da 44 carri bestiame per 40 deportati ciascuno, di 8 vagoni per il trasporto degli utensili, degli approvvigionamenti e dei pochi averi dei deportati, entro un limite di 480 chilogrammi a famiglia, e di una carrozza per il trasporto delle guardie. Come testimonia l'aspra corrispondenza fra la G.P.U. e il commissariato del popolo per i Trasporti, i convogli arrivavano con il contagocce. Restavano fermi per settimane con il loro carico umano nei grandi centri di smistamento, a Vologda, Kotlas, Rostov, Sverdlovsk e Omsk. Lo stazionamento prolungato dei convogli di proscritti, che contenevano un gran numero di donne, bambini e vecchi, di solito non passava inosservato alla popolazione locale: lo attestano numerose lettere collettive inviate a Mosca, che stigmatizzavano il «massacro degli innocenti», ed erano firmate dal «collettivo degli impiegati e operai di Vologda» o dai «ferrovieri di Kotlas» .
Nei convogli fermi in pieno inverno su qualche binario morto, nell'attesa di un luogo di destinazione dove si potessero «installare» i deportati, il freddo, la mancanza di igiene, le epidemie mietevano, a seconda dei treni, un certo numero di vittime; ma non disponiamo di molti dati per gli anni 1930-1931. Una volta giunti in treno a una stazione, spesso gli uomini validi venivano divisi dalla famiglia, che era collocata provvisoriamente in baracche costruite in fretta; partivano poi sotto scorta verso i «luoghi di colonizzazione» situati, come previsto dalle istruzioni ufficiali, «a distanza dalle vie di comunicazione». L'interminabile odissea proseguiva quindi per molte altre centinaia di chilometri, con o senza famiglia, d'inverno su carovane di slitte, d'estate su carrette o a piedi. Dal punto di vista pratico, quest'ultima tappa dell'odissea dei kulak di seconda categoria era spesso simile alla deportazione dei kulak di terza categoria, trasferiti nei «territori che devono essere bonificati all'interno della loro regione»; in Siberia o negli Urali tali regioni coprivano infatti diverse centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Il 7 marzo 1930 le autorità del distretto di Tomsk, in Siberia occidentale, riferivano: «Le prime carovane di kulak di terza categoria sono arrivate a piedi, senza cavalli, slitte, finimenti ... In generale, i cavalli attaccati ai convogli sono assolutamente inadatti a spostamenti di 300 chilometri e più, perché quando si sono formate le carovane tutti i cavalli buoni appartenenti ai deportati sono stati sostituiti con ronzini.... Vista la situazione, non c'è nemmeno da parlare di trasportare i beni e gli approvvigionamenti per due mesi cui hanno diritto i kulak. Inoltre non si sa che fare dei bambini e dei vecchi, che rappresentano oltre il 50 per cento del contingente» .
In un altro rapporto dello stesso tenore, il Comitato esecutivo centrale della Siberia occidentale dimostrava per assurdo l'impossibilità di mettere in atto le istruzioni della G.P.U. riguardo alla deportazione di 4902 kulak di terza categoria di due distretti della provincia di Novosibirsk. «Trasportare per 370 chilometri di strade esecrabili le 8560 tonnellate di cereali e foraggio cui i deportati avrebbero teoricamente diritto "per il viaggio e l'insediamento" comporterebbe la mobilitazione di 28909 cavalli e di 7227 sorveglianti (un sorvegliante ogni quattro cavalli).» Il rapporto concludeva: «Attuare questa operazione comprometterebbe la campagna della semina di primavera, in quanto i cavalli, spossati, avrebbero bisogno di un lungo periodo di riposo ... Perciò è indispensabile ridurre notevolmente le provviste che i deportati sono autorizzati a portare con sé» .
Quindi i deportati dovettero stabilirsi nelle loro sedi senza provviste né arnesi, molto spesso senza un riparo; nel settembre del 1930 un rapporto proveniente dalla regione di Arcangelo ammetteva che, delle 1641 abitazioni «programmate» per i deportati, ne erano state costruite soltanto 7! I deportati si «insediarono» su qualche pezzo di terra, in mezzo alla steppa o alla taiga. A quel punto i più fortunati, che avevano avuto la possibilità di portare qualche attrezzo, potevano cercare di costruirsi un rifugio rudimentale, molto spesso la tradizionale "zemljanka", un semplice buco in terra ricoperto di rami. In certi casi, quando migliaia di deportati erano destinati a zone vicine a qualche grande cantiere o sito industriale in costruzione, venivano alloggiati in baracche sommarie, su letti a castello a tre piani, in diverse centinaia per ogni baracca. Quante delle 1.803.392 persone ufficialmente deportate durante la dekulakizzazione del 1930-1931 morirono di freddo e di fame nei primi mesi della loro «nuova vita»? Negli archivi di Novosibirsk è stato conservato un documento sorprendente, il rapporto inviato a Stalin nel maggio del 1933 da un istruttore del Comitato di partito di Narym, in Siberia occidentale, sulla sorte riservata a tre convogli che contenevano oltre 6000 deportati provenienti da Mosca e da Leningrado. Per quanto più tardo e relativo a un'altra categoria di deportati, non contadini ma «elementi declassati» cacciati dalla nuova «città socialista» a partire dalla fine del 1932, questo documento illustra una situazione che non era certo eccezionale, e che potremmo definire «deportazione-abbandono».
Ecco alcuni estratti di questa terribile testimonianza:
Quante Nazino ci furono, quanti casi analoghi di deportazione- abbandono? Alcune cifre danno la misura delle perdite. Fra il febbraio del 1930 e il dicembre del 1931 furono deportati un po' più di un milione 800 mila dekulakizzati. Ma il primo gennaio 1932, quando le autorità effettuarono una prima verifica generale, furono recensite soltanto 1 milione 317022 persone . Le perdite raggiungevano il mezzo milione, cioè quasi il 30 per cento dei deportati. Certo, il numero di coloro che erano riusciti a fuggire era senza dubbio alto . Nel 1932 l'evoluzione dei «contingenti» fu oggetto per la prima volta di uno studio sistematico da parte della G.P.U., che dall'estate del 1931 era l'unica responsabile dei deportati, ormai definiti «coloni speciali», in tutte le fasi dell'operazione, dalla deportazione fino alla gestione dei «villaggi di colonizzazione». Secondo questo studio c'erano stati oltre 210 mila evasi e circa 90 mila morti. Nel 1933, anno della grande carestia, le autorità registrarono 151601 decessi su un milione 142022 coloni speciali censiti il primo gennaio 1933. Quindi nel 1932 il tasso di mortalità annua era del 6,8 per cento circa, nel 1933 del 13,3 per cento. Per gli anni 1930-1931 disponiamo soltanto di dati parziali, ma eloquenti: nel 1931 la mortalità era dell'1,3 per cento fra i deportati del Kazakistan, dello 0,8 per cento fra quelli della Siberia occidentale. Per quanto riguarda la mortalità infantile, oscillava fra l'8 e il 12 per cento... al mese, con punte del 15 per cento a Magnitogorsk. Dal primo giugno 1931 al primo giugno 1932 la mortalità fra i deportati della regione di Narym, in Siberia occidentale, raggiunse l'11,7 per cento annuo. Nel complesso, è poco probabile che nel 1930-1931 il tasso di mortalità fosse inferiore a quello del 1932: senz'altro si avvicinava al 10 per cento annuo, e forse lo superava. Perciò, si può calcolare che in tre anni morirono durante la deportazione circa 300 mila persone .
Per le autorità centrali, preoccupate di «rendere redditizio» il lavoro di quelli che definivano «trasferiti speciali» oppure, a partire dal 1932, «coloni di lavoro», la deportazione-abbandono era solo un ripiego, imputabile, come scriveva N. Puzickij, uno dei dirigenti della G.P.U. responsabili dei coloni di lavoro, «alla negligenza criminale e alla miopia politica dei responsabili locali che non hanno assimilato l'idea della colonizzazione da parte degli ex kulak» .
Nel marzo del 1931, per porre fine all'«insopportabile confusione della manodopera deportata», fu istituita una commissione speciale in contatto diretto con l'Ufficio politico, presieduta da V. Andreev e in cui Jagoda aveva un ruolo determinante. L'obiettivo primario della commissione era «una gestione razionale ed efficace dei coloni di lavoro». Infatti le prime inchieste condotte dalla commissione avevano rilevato che la produttività della manodopera deportata era quasi nulla. Per esempio, su 300 mila coloni di lavoro insediati negli Urali, nell'aprile del 1931 solo l'8 per cento era assegnato «al taglio dei boschi e ad altri lavori produttivi»; gli altri adulti validi «costruivano alloggi per se stessi... e si davano da fare per sopravvivere». Un altro documento ammetteva che nel complesso le operazioni di dekulakizzazione avevano costituito una perdita per lo Stato: il valore medio dei beni confiscati ai kulak nel 1930 ammontava a 564 rubli per coltura, una somma irrisoria (equivalente a mezza mensilità di salario di un operaio), e questo la diceva lunga sulla pretesa «agiatezza» dei kulak. Quanto alle spese affrontate per la deportazione dei kulak, ammontavano a oltre 1000 rubli a famiglia!
Secondo la Commissione Andreev, la razionalizzazione della gestione dei coloni di lavoro doveva incominciare con la riorganizzazione amministrativa delle strutture responsabili dei deportati. Durante l'estate del 1931 la G.P.U. ottenne il monopolio della gestione amministrativa dei «popolamenti speciali», che fino a quel momento dipendevano dalle autorità locali. Fu istituita tutta una rete di «comandi» ("komandatura"), una vera e propria amministrazione parallela che permetteva alla G.P.U. di godere di una specie di extraterritorialità e di controllare completamente immensi territori in cui i coloni speciali costituivano ormai il grosso della popolazione. I coloni erano inoltre soggetti a un regolamento interno molto severo. Erano sottoposti a domicilio coatto e venivano impiegati dall'amministrazione in un'impresa statale oppure in una «cooperativa agricola o artigianale a statuto speciale, diretta dal comandante locale dell'O.G.P.U.», o ancora in lavori di costruzione e manutenzione di strade o di dissodamento. Naturalmente, sia standard di produttività sia salari erano sottoposti a uno statuto speciale: in media gli standard erano dal 30 al 50 per cento superiori a quelli dei lavoratori liberi; per quanto riguarda i salari, quando venivano corrisposti, subivano una ritenuta che andava dal 15 al 25 per cento, versata direttamente all'amministrazione della G.P.U.
In realtà, come attestano i documenti della Commissione Andreev, la G.P.U. era molto soddisfatta del «costo di inquadramento» dei coloni di lavoro, che era inferiore di nove volte a quello dei detenuti dei campi; per esempio, nel giugno del 1933 i 203 mila coloni speciali della Siberia occidentale, ripartiti in 83 comandi, erano sorvegliati da appena 971 persone L'obiettivo della G.P.U. era di fornire, previo versamento di una commissione costituita da una percentuale sui salari e da una somma forfettaria per contratto, la "propria" manodopera a un certo numero di grandi complessi industriali incaricati dello sfruttamento delle risorse naturali nelle regioni settentrionali e orientali del paese, come Uralesprom (sfruttamento forestale), Uralugol', Vostugol' (carbone), Vostokstal' (acciaierie), Cvetmetzoloto (minerali non ferrosi), Kuznecstroj (metallurgia) eccetera. In linea di principio, l'impresa si incaricava di assicurare le infrastrutture abitative, scolastiche e di approvvigionamento dei deportati. In realtà, come ammettevano gli stessi funzionari della G.P.U., le imprese avevano la tendenza a considerare una risorsa gratuita questa manodopera che si trovava in una condizione ambigua, tra la semilibertà e la semidetenzione. I coloni di lavoro spesso non ricevevano alcun salario, in quanto le somme che guadagnavano erano in genere inferiori a quelle trattenute dall'amministrazione per la costruzione delle baracche, gli utensili, le quote obbligatorie in favore dei sindacati, il prestito di Stato eccetera.
Erano dei veri paria, iscritti nell'ultima categoria di razionamento, sempre vittime della fame ma anche di ogni tipo di vessazione e di abuso. Fra gli abusi più palesi sottolineati nei rapporti dell'amministrazione c'erano l'istituzione di standard irrealizzabili, il mancato versamento dei salari, il pestaggio dei deportati o la loro reclusione in pieno inverno in prigioni improvvisate senza alcun riscaldamento, il baratto delle deportate «con mercanzie da parte dei comandanti della G.P.U.» o il loro invio come domestiche gratuite «tuttofare» ai capetti locali. Questa osservazione del direttore di un'impresa forestale degli Urali in cui erano impiegati coloni di lavoro, citata e criticata in un rapporto della G.P.U. del 1933, riassumeva bene lo stato d'animo di molti dirigenti verso questo tipo di manodopera, che poteva essere sfruttata a volontà: «Potremmo liquidarvi tutti, perché comunque la G.P.U. ci manderà al vostro posto un'altra infornata di centomila come voi!».
A poco a poco, da un punto di vista strettamente produttivo, l'utilizzo di coloni di lavoro diventò più razionale. Dal 1932 si assistette a un progressivo abbandono delle «zone di popolamento» o di «colonizzazione» più inospitali in favore dei grandi cantieri, dei poli minerari e industriali. In certi settori la manodopera deportata, che lavorava nelle stesse imprese o negli stessi cantieri dei lavoratori liberi e viveva in baracche contigue, era molto numerosa, e talvolta predominante. Nelle miniere del Kuzbass, alla fine del 1933, gli oltre 41 mila coloni di lavoro rappresentavano il 47 per cento del totale dei minatori. A Magnitogorsk i 42462 deportati registrati nel settembre del 1932 costituivano i due terzi della popolazione locale . Erano costretti a risiedere in quattro zone di popolamento speciale, a una distanza che andava da 2 a 6 chilometri dal luogo di costruzione principale, ma lavoravano nelle stesse squadre degli operai liberi, e questa situazione tendeva a cancellare almeno in parte il limite fra la diversa condizione degli uni e degli altri. Per forza di cose, e cioè per gli imperativi economici, gli ex dekulakizzati, diventati coloni di lavoro, si reintegravano in una società segnata da una penalizzazione generale dei rapporti sociali, e in cui nessuno sapeva chi sarebbero stati i prossimi esclusi.