Archivio Paul Mattick

Paul Mattick 1983

Marx e Keynes,
i limiti dell’economia mista

Epilogo

Fonte: Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista

Trascritto per il MIA da Francesco Sartor


 

 

Marx non contemplava uno stadio intermedio tra il capitalismo dell’iniziativa privata e il socialismo. La sua differenziazione piuttosto netta tra feudalismo, capitalismo e socialismo favoriva una certa «regolarità» e «semplicità» nelle sue aspettative rivoluzionarie. Egli riconosceva però che la sua storia della nascita del capitalismo riguardava solo l’Europa occidentale, ed era contrario ad ogni tentativo di trasformarla in una «teoria storico-filosofica del cammino generale dello sviluppo, fatalmente imposto a tutti i popoli, quali che siano le circostanze storiche in cui essi si trovano». 1 Marx, come pure Engels, ritenevano che lo sviluppo potesse seguire un cammino differente da quello seguito nell’Europa occidentale, e che fosse possibile abbreviare il cammino che portava al socialismo i paesi in condizioni precapitalistiche, sulla scia di vittoriose rivoluzioni proletarie nei paesi dell’Occidente. Essi consideravano le tendenze al capitalismo di stato presenti nelle nazioni capitalistiche sviluppate come indicazioni della imminente rivoluzione socialista senza prevedere la funzione che tali tendenze avrebbero avuto nel trasformare i sistemi di produzione precapitalistici in sistemi di capitalismo di stato.

Noi ora sappiamo che le rivoluzioni sociali nei paesi capitalisticamente sottosviluppati non ripetono, né possono ripetere, la forma di sviluppo del capitalismo occidentale, ma tendono a introdurre le strutture del capitalismo di stato. Esse non sono rivoluzioni socialiste in senso marxiano anche se si avvalgono dell’ideologia marxiana. L’idea che la rivoluzione del capitalismo di stato significhi

vittoria del socialismo anche nelle nazioni industrialmente avanzate gode di una certa credibilità perché tali rivoluzioni sembrano portare a logica conclusione la crescente presenza dello stato nella determinazione della produzione e della vita sociale in generale, e perché seguono la forma stabilita dai sistemi di capitalismo di stato costituiti, che in modo abbastanza generale sono considerati socialisti. In questi sistemi, però, l’istituzione del capitalismo di stato non ha avuto la funzione di abolire il proletariato, ma di aiutarlo a formarsi rapidamente, aiutando perciò una rapida formazione di capitale. Nei paesi industrialmente avanzati il capitalismo di stato sarebbe un sistema altrettanto irrazionale di quello che lo ha preceduto, poiché le difficoltà della formazione di capitale si possono risolvere non attraverso un aumento dello sfruttamento, ma solo attraverso la sua eliminazione.

Comunque, nel capitalismo di stato, i paesi industrialmente avanzati potrebbero mantenere un sistema di differenze di classe proprio come fanno le nazioni povere. Non avrebbero la «scusa» dei paesi sottosviluppati, è vero, ma potrebbero creare un apparato politico di repressione che eliminerebbe la necessità di averla. Si avrebbe quindi una rivoluzione, ma non una rivoluzione socialista. Questa infatti deve significare precisamente la creazione di una struttura sociale in cui gli stessi produttori controllano il proprio prodotto e la sua distribuzione. Essa si può concepire solo come una rivoluzione con la quale la classe operaia mette fine ai rapporti di classe. «Ciò che Marx – e prima di lui, nel 1843, Flora Tristan – enunciavano con una sola proposizione, vale a dire che “l’emancipazione della classe operaia dev’essere conquistata dalla stessa classe operaia” rimane il postulato implicito di ogni genuino pensiero socialista» 2 .

Marx era convinto che la contraddizione tra sviluppo delle forze di produzione della società e i ristretti rapporti di produzione capitalistici sarebbe superata con una rivoluzione che, mettendo fine alla struttura di classe della società – il fondamentale antagonismo di questa – aprirebbe la strada a un mondo socialista. Una tale rivoluzione sociale non ha avuto luogo: e non è stata neppure risolta la contraddizione della produzione capitalistica come produzione sociale. La produzione è ancora dappertutto produzione di capitale, e il mondo capitalistico rimane un mondo di crisi.

In questo contesto, il keynesismo riflette semplicemente la transizione del capitalismo dalla sua fase di libertà di mercato alla sua fase di intervento dello stato e fornisce una ideologia a chi momentaneamente si avvantaggia di questa tradizione. Esso non tocca i problemi che hanno occupato Marx. Finché il modo di produzione capitalistico rimane dominante, il marxismo conserverà la sua rilevanza, poiché non si occupa di questa o quella tecnica di produzione capitalistica, né di cambiamenti sociali nella struttura di tale produzione, ma solo della sua definitiva abolizione.

Può darsi che il socialismo sia una illusione e che la società sia condannata a rimanere società di classe. Ma questa conclusione non si può ricavare soltanto dal fatto che le recenti rivoluzioni non hanno distrutto i rapporti di sfruttamento di classe. Le rivoluzioni del secolo xx sono state dirette contro un capitalismo incapace di estendere le condizioni della propria esistenza, impotente ad aumentare il proletariato industriale e perciò il proprio dominio di classe. Pure il capitalismo ha disorganizzato e distrutto preesistenti forme di organizzazione sociale e modi di produzione col subordinare la produzione mondiale a un mercato mondiale determinato dagli interessi particolaristici dei grandi centri di produzione del capitale. Le vecchie classi dominanti delle nazioni saccheggiate non avevano né l’interesse né la forza di opporsi alla penetrazione del capitale estero. Doveva spettare alle stesse masse impoverite di ribellarsi al duplice giogo dello sfruttamento estero e interno, nonché alla miseria ancor più grande della disoccupazione risultante dalla mancanza di tale sfruttamento. Poiché il loro stato di miseria era dovuto all’asservimento di classe e nazionale, i loro movimenti di liberazione hanno avuto, ed ancora hanno, carattere rivoluzionario e nazionale.

Non c’è ancora il modo di superare l’angusto carattere nazionalistico di queste rivoluzioni per la completa mancanza di un movimento operaio rivoluzionario internazionale capace di dare a queste lotte nazionali forma operativa più ampia e obiettivi più estesi di quanto possa essere il semplice processo di capitalizzazione attuato con mezzi rivoluzionari. Qualunque cosa possano essere in grado di fare, queste rivoluzioni non possono condurre al socialismo inteso come alternativa al moderno capitalismo. Esse non sono altro che una delle tante espressioni della disintegrazione dell’economia di mercato capitalistica come sistema mondiale, e solo in quanto tali alimentano l’esigenza generale di un sistema di produzione sociale più razionale. Il problema delle nazioni arretrate non può essere risolto prescindendo dai problemi che assillano le nazioni avanzate. La soluzione valida per le une e per le altre sta in un cambiamento rivoluzionario che partendo dalle nazioni avanzate prepari la strada a una integrazione socialista dell’economia mondiale. I paesi sviluppati, infatti, come non si possono sviluppare socialisticamente in un mondo dominato dalla produzione capitalistica, così non si possono sviluppare capitalisticamente in un mondo dominato da sistemi di produzione socialisti. La chiave dello sviluppo socialista dei paesi sottosviluppati è la trasformazione socialista della parte capitalisticamente avanzata del mondo.

Tuttavia non sembra che questa chiave si adatti alla situazione reale. È perfettamente evidente che i paesi industrialmente avanzati del mondo hanno i mezzi per industrializzare le regioni sottosviluppate in un periodo di tempo piuttosto breve e per eliminare quasi immediatamente la fame e la miseria con la semplice utilizzazione a fini produttivi delle spese impiegate nella produzione di superfluo. Ma non si vedono ancora le forza sociali che desiderino cogliere questa occasione e dare in tal modo pace e tranquillità al mondo. Invece, gli aspetti distruttivi della produzione capitalistica assumono carattere sempre più violento: all’interno, con il continuo aumento della produzione di superfluo; all’esterno, portando il superfluo in territori occupati da popoli riluttanti a sottomettersi alle esigenze di profitto di potenze straniere, esigenze che potrebbero solo significare la fine di quei popoli.

Non è possibile attendersi che le forze che si avvantaggino dello status quo e per la propria esistenza e il proprio futuro dipendono dal perpetuarsi di tale status quo vogliono cambiare i propri metodi abdicando alla propria dominante posizione di classe. Per mezzo dell’«economia mista» tali forze sono finora riuscite a impedire la creazione di condizioni sociali capaci di condurre a movimenti sociali anticapitalistici. In questo senso, il keynesismo è stato il «salvatore» del capitalismo, anche se per propria natura e per la natura del capitalismo esso può essere utile solo temporaneamente. Con o senza la piena occupazione, l’economia mista in tutte le nazioni capitalistiche è un fatto sociale che in alcune di tali nazioni si è dimostrato capace non solo di evitare depressioni su larga scala, ma anche di creare condizioni mai viste di prosperità, consentendo in tal modo a tutti i benestanti di definire il capitalismo società dell’opulenza.

Praticamente e ideologicamente, la seconda guerra mondiale e le sue conseguenze hanno eclissato quasi completamente il socialismo della classe operaia. Ma perché continui a mancare una efficace opposizione al capitalismo il sistema deve avere la capacità di mantenere date condizioni di vita delle popolazione lavoratrice. Se questo dovesse rivelarsi impossibile, l’attuale coesione sociale del sistema capitalistico può benissimo andare nuovamente perduta – come è avvenuto in precedenti crisi di lunga durata. Solo nel presupposto che tutti nuovi problemi sociali si possano risolvere nell’ambito delle esistenti istituzioni sociali è possibile negare alla classe operaia – la grande maggioranza della popolazione nei paesi industrialmente avanzati – di assumere il ruolo storico che le spetta, ruolo che deve necessariamente essere di opposizione e trova quindi espressione in una ravvivata o nuova coscienza rivoluzionaria.

Il temporaneo successo delle politiche keynesiane ha dato origine alla convinzione che si è finalmente trovato il modo di affrontare efficacemente le difficoltà del capitalismo e quindi dissolvere le potenziali capacità rivoluzionarie del sistema. Ma questa convinzione è una illusione che si basa sul velo monetario che ricopre tutte le attività capitalistiche. Se il velo si toglie, diventa evidente che la continua applicazione del keynesismo implica l’autodistruzione della produzione capitalistica. L’ottimismo della «nuova economia» non fa altro che confondere il differimento di un problema con la sua scomparsa.

Se la coscienza rivoluzionaria dipende dalla miseria è indubbio che le sofferenza che attendono la popolazione del mondo supereranno ogni precedente esperienza, fino a colpire anche la privilegiata minoranza di operai nei paesi industrialmente avanzati, che ancora si credono immuni dalle conseguenze delle proprie attività. Quando il livello generale dell’oppressione aumenta, la particolare situazione di «opulenza» si dissolverà, poiché i benefici dell’aumento di produttività verranno assorbiti dalla accanita concorrenza per accaparrarsi i profitti sempre minori della produzione mondiale. Anche prima, la guerra e le sue conseguenze portavano con sé una miseria sociale di dimensioni sconosciute persino nei giorni più oscuri della «rivoluzione industriale», superiori a tutto ciò che Marx stesso aveva potuto dire delle miserevoli condizioni della popolazione lavoratrice. Solo non tenendo conto dei costi sociali della guerra e della depressione è stato possibile affermare che lo sviluppo capitalistico non ha comportato «miseria di massa, oppressione, schiavitù, degradazione e sfruttamento», e solo circoscrivendo l’argomento al campo limitato delle statistiche salariali di pochi paesi si è potuto dire che Marx aveva sbagliato nel preconizzare l’aumento della miseria nel corso dell’accumulazione capitalistica. Ma questa predizione marxiana è ricavata dalla legge generale dell’accumulazione capitalistica e della sua tendenza storica, e non soltanto dal carattere di merce della forza-lavoro e dalle mutevoli fortune di questa nel mercato del lavoro. Quella legge comprende tutti gli aspetti che lo sviluppo capitalistico assume per via della concorrenza, della crisi e della guerra. Non si può ragionevolmente sostenere che le condizioni di prosperità avutesi in alcuni paesi per effetto della seconda guerra mondiale, e il conseguente ulteriore miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni di questi paesi, siano sufficiente compenso delle condizioni di crisi quasi permanente nella maggior parte del mondo e delle quasi incredibili condizioni di sofferenza, di sfruttamento e di degradazione di milioni di persone durante e dopo la guerra.

Gli stessi elevati livelli di vita raggiunti da larghi strati di popolazione operaia nei paesi industrialmente avanzati possono diventare pregiudizievoli all’espansione capitalistica. Infatti, il mantenimento di tali livelli in condizioni di decrescente redditività richiede un continuo aumento di produzione non redditizia. A sua volta, questo implica il bisogno di aumentare continuamente la produttività del lavoro, e questo nelle condizioni attuali significa continuo aumento di disoccupazione. L’esigenza di provvedere ai disoccupati crea anch’essa un aggravio di spesa che, aggiunto a tutte le altre spese a fini di «opulenza», metterà presto o tardi a durissima prova anche le capacità economiche e tecniche più cospicue. Questo non vuol dire che l’«opulenza» alimenta la rivoluzione, ma solo che non c’è affatto bisogno dell’impoverimento assoluto per produrre sentimenti rivoluzionari. Non c’è bisogno di ridurre la gente in miseria perché essa cominci a ribellarsi; la ribellione può nascere non appena la gente vede colpire profondamente il proprio abituale livello di vita o si vede impedire l’accesso al livello di vita che considera proprio. La gente che sta bene economicamente trova difficile sopportare le privazioni ed è tenacemente attaccata all’abituale livello di vita. In questo senso, la parziale perdita della diffusa «opulenza» può bastare a distruggere l’esistente consenso.

Marx una volta ha detto che «il proprietario o è rivoluzionario o non esiste». Attualmente esso non esiste e può darsi che voglia continuare a non esistere. Ma la cosa non è certa. Evidentemente, le idee sovversive germogliano solo in condizioni di malcontento che ancora non esistono nelle condizioni di prosperità – sia pure falsa – della società odierna. Gli strati più poveri nelle economie miste, pur essendo cospicue minoranze, sono sempre minoranze, per cui la loro opposizione rimane inespressa. Non possono quindi diventare una forza sociale abbastanza solida per opporsi agli interessi particolaristici rappresentati dall’ideologia dominante. Le sporadiche ribellioni dettate dalla disperazione sono facilmente dominate dalle autorità che rappresentano la maggioranza soddisfatta, la quale nel suo seno comprende anche la massa del proletariato. Gli strati più poveri possono essere decimanti dalle stesse condizioni di esistenza in cui vivono. Ma con il loro aumento numerico – che pure esiste – aumenta altresì la frequenza delle loro proteste, insieme con la consapevolezza da parte di molti benpensanti di potersi trovare ben presto tra i rifiuti del capitalismo. A giudicare dal passato, l’aumento di miseria sociale dà forza a questa miseria e la forza conduce ad azioni coscienti intese a far cessare le condizioni di miseria. Naturalmente, le forme del passato possono essere valide per il futuro; l’epoca delle rivoluzioni può benissimo essere finita. Ma se non possiamo giudicare in base alle esperienze passate, siamo nell’impossibilità di giudicare. In tal caso tutto è possibile: anche una rivoluzione della classe operaia.

Questa rivoluzione possibile presuppone che il proletariato continui a esistere: ma si pretende che il proletariato stia finendo, non solo in rapporto alla sua mancanza di coscienza di classe ma anche in rapporto alle sue funzioni sociali. Spesso si fa una distinzione tra «classe operaia classica», vale a dire, il proletariato industriale in senso marxiano, e moderna popolazione lavoratrice, che solo in piccola parte è occupata nella produzione. Ma questa distinzione è artificiosa, poiché ciò che differenzia il proletariato dalla borghesia non è una serie determinata di occupazioni, ma la mancanza di controllo del proletariato sui propri mezzi di sussistenza, mancanza che discende dalla mancanza di controllo sui mezzi di produzione. Anche se il numero dei lavoratori occupati nelle industrie improduttive, i cosiddetti servizi, è oggi maggiore, la loro posizione sociale nei confronti dei capitalisti rimane immutata. Per la concentrazione del capitale e l’eliminazione dei piccoli proprietari, il numero dei proletari è oggi maggiore di prima. Naturalmente è vero che buona parte di questi proletari ricevono redditi che consentono condizioni di vita borghesi o piccolo-borghesi. Ma la maggioranza, per ciò che concerne le condizioni di vita, rientra nella categoria dei lavoratori salariati, qualunque sia il grado del loro lavoro improduttivo.

Quando dichiarava che la classe operaia aveva la «missione storica» di metter fine al sistema capitalistico, Marx parlava, come può essere desunto dalla sua teoria dell’accumulazione, della espropriazione dei pochi da parte dei molti. Egli vedeva giustamente che l’espansione del capitale è anche polarizzata nella società in una piccola minoranza di capitalisti da un lato e in una vasta maggioranza di lavoratori privi di capitale, costretti a vendere la loro forza-lavoro per esistere, dall’altro. Il proletariato industriale di cento anni fa oggi si è ingrandito fino a diventare una massa amorfa di lavoratori salariati, che dipendono tutti dalle vicissitudini degli eventi di mercato e delle mutevoli fortune del processo di accumulazione. Qualunque cosa pensino di se stessi, essi non appartengono alla classe dominante, ma a quella dominata. Il capitalismo è fondamentalmente una società di due classi, nonostante tutte le differenze di stato all’interno di ciascuna classe. La classe dominante è la classe che prende le decisioni; l’altra classe, a prescindere dalle differenziazioni interne, è alla mercé di queste decisioni, che sono prese in vista di determinate esigenze del capitale e determinano le condizioni generali della società. La classe dominante non può agire diversamente da come agisce; in modi stupidi o intelligenti, essa farà tutto il possibile per perpetuarsi come classe dominante. Coloro che stanno fuori del processo decisionale possono disapprovare le decisioni prese o perché queste possono non corrispondere ai propri interessi o perché sono convinti che le cose si dovrebbero fare diversamente. Ma per cambiare queste decisioni essi devono avere un potere loro proprio.

Le decisioni dei governarti, qualunque esse siano, devono trovare attuazione nella sfera della produzione perché il modo di distribuzione dipende da quello di produzione. Senza il controllo del processo di produzione, nessuna decisione è possibile, nessuna classe può governare. Il controllo della produzione è esercitato con il controllo dei mezzi di produzione, con l’ideologia con la forza. Ma proprietà, ideologia e forza da sole non bastano, non possono produrre alcunché. L’intero edificio sociale di basa sul lavoro produttivo. I lavoratori produttivi hanno quindi a loro disposizione più forza potenziale di ogni altro gruppo sociale, o di tutti gli altri gruppi sociali messi insieme. Per rendere effettiva questa forza potenziale c’è solo bisogno che i produttori si rendano contro delle realtà sociali e applichino queste conoscenza ai loro propri fini.

La negazione di questo fatto è il compito principale della ideologia borghese, come si rileva dalle sue teorie economiche e dal generale discredito in cui è tenuto il lavoro produttivo. Comunque, malgrado la diffusa opinione della sempre minore importanza del proletariato industriale, quest’ultimo viene seguito con maggiore attenzione di prima, perché la sua potenziale capacità di controllare la società in effetti non è stata mai così grande. La «socializzazione» tecnico-organizzativa della produzione, vale a dire l’interdipendenza di tutta la popolazione in un ininterrotto flusso di produzione, dà alla classe operaia un potere quasi assoluto di vita e di morte sulla società attraverso la semplice cessazione del lavoro. Pur non potendo esser questa la loro intenzione, poiché la classe operaia fa parte della società, i lavoratori potrebbero tuttavia scuotere la società dalle fondamenta se decidessero di cambiarne la struttura. È per questa ragione, che i sindacati operai sono stati inseriti negli ordinamenti della società capitalistica – con il fine di controllare le vertenze industriali – che i governi, compresi quelli laburisti, approvano leggi antisciopero, e che i regimi totalitari, più consapevoli della forza potenziale dell’azione sindacale, mettono addirittura fuorilegge gli scioperi.

Poiché, volendo, ha il potere di cambiare la società, il proletariato industriale ora, come prima, è la classe da cui dipende la trasformazione della società. Se questo potere non esistesse, se la sua applicazione non fosse una reale possibilità, non vi sarebbe alcuna speranza di vincere le forze materiali di repressione che ancora esistono. È vero che tutte le lotte sociali sono anche lotte ideologiche; ma il successo nella lotta per una nuova società ha bisogno di una leva materiale capace di scardinare le difese dello status quo. Non è del tutto inconcepibile che la crescente irrazionalità del capitalismo determini tra la popolazione, indipendentemente dalle sue origini di classe, una diffusa azione di rigetto e la crescente convinzione che lo sfruttamento di classe e i rapporti che ne derivano, non sono più necessari e non hanno più senso, poiché la società si può riorganizzare in modo che tutti ne siano avvantaggiati. Tuttavia, per tale società, e necessario combattere ancora con tutti i mezzi disponibili sia nella sfera ideologica sia nel campo degli effettivi rapporti di classe.

Il passato comportamento della classe operaia e la indispensabile presenza dei lavoratori per realizzare il socialismo, ci fanno sembrare quest’ultimo più lontano che mai. Ma è dubbio che la classe operaia voglia sopportare indefinitamente tutto ciò che il sistema capitalistico ha in serbo per lei. Basta solo pensare a ciò che con tutta probabilità è destinato a succedere, se non avviene una rivoluzione socialista, per accettare la possibilità di un diverso comportamento da parte della popolazione lavoratrice. Ciò che è destinato a succedere in una certa misura sta già succedendo, e la proiezione quantitativa del presente futuro fa vedere quanto sia utopistico voler risolvere i problemi sociali del capitalismo con mezzi capitalistici. La guerra che gli Americani conducono attualmente nell’Asia sud-orientale, per esempio, può benissimo coinvolgere prima l’Estremo Oriente e poi il mondo intero. In vista di questa prospettiva, per non parlare delle inevitabili nuove crisi del capitalismo mondiale, l’espressione «socialismo o barbarie» esprime solo le uniche due alternative reali.

NOTE

1 K. Marx, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale, cit., p.157.


2 M. Rubel, Reflexions on Utopia and Revolution, in Socialist Humanism (a cura di E. Fromm), New York 1966, p.216 [trad. it., Umanesimo socialista, Bari 1972].