Paul Mattick 1971

Divisione del lavoro e coscienza di classe


 

 

5. Lavoratori e studenti

Una cosa è certa, e l'abbiamo già sottolineata: i lavoratori, in conformità alla loro situazione di classe, si curano poco di sapere se il loro lavoro è produttivo o improduttivo; ciò che interessa loro è il livello di vita legato al loro lavoro. Così, la degradazione di questo livello di vita e la ricomparsa della disoccupazione, dovute a un abbassamento del tasso di accumulazione - che la proliferazione del lavoro improduttivo permette di controbilanciare solo temporaneamente - possono avere l'effetto di radicalizzarli. Qualsiasi cosa si sia affermata, a torto o a ragione, sulle insufficienze della "prospettiva della catastrofe", la storia del movimento operaio mostra con tutta chiarezza che la coscienza di classe rivoluzionaria si manifesta soltanto in tempi di crisi particolarmente profonda. Le lotte di classe che non mirano ancora a fissarsi degli obbiettivi di classe e non vanno al di là delle rivendicazioni salariali, sono in sè delle reazioni spontanee a un deterioramento lento o brutale della condizione del proletariato; lo si è visto or non è molto in Polonia ed è quel che avvenne nel 1968 in Francia.

E' solo nei momenti di crisi che può svilupparsi la coscienza di classe rivoluzionaria. In sè la coscienza di appartenere alla classe operaia non ha molta importanza; in ogni caso, essa esiste ovunque. E' vero che ci sono dei poveretti che, pur appartenendo al proletariato, non si considerano operai. Ma, tutto sommato, i lavoratori sanno benissimo di appartenere a una classe antagonista a quella capitalistica. Indipendentemente dal sistema dei salari, essi sanno anche che sono sfruttati e che creano del profitto a vantaggio del capitale, e ciò quand'anche essi ritengano necessaria l'esistenza del capitale, come è dimostrato dalle trattative salariali e dal fatto che essi rinunciano a conoscere i bilanci effettivi delle aziende per vedere fino a che punto sono sfruttati.

Se si pensa un momento all'enorme potenza che fronteggia il proletariato e le sue aspirazioni di classe, si comprenderà perché i lavoratori preferiscono adattarsi alle condizioni del momento piuttosto che attaccarle. Essi non hanno né il tempo né la voglia di dilungarsi -- a guisa di rivoluzionari professionisti -- in contestazioni destinate a durare all'infinito, dato che la politica capitalistica suscita una opposizione permanente. E se essi trovano talvolta qualche soddisfazione di carattere ideologico in attività politiche con programmi a lunga scadenza, queste non hanno molto a che vedere con le loro immediate esigenze. Una frazione dei lavoratori aderisce a organizzazioni politiche ma ciò non significa che siano disposti a portare avanti un'azione rivoluzionaria reale. Un'altra frazione adotta incondizionatamente l'ideologia borghese, ma ciò non significa che essa sia disposta a sostenere senza riserve la borghesia. Indifferenti, le grandi masse aderiscono all'ordine costituito, senza peraltro consentirvi, e cercano di inserirsi alla men peggio, poiché non sono in grado di concepirne un altro.

Fin tanto che la classe dirigente è capace di fondare sull'economia il suo potere politico -- grazie a una prosperità reale o facile -, è vano sperare che la coscienza della classe operaia assuma un carattere rivoluzionario. Ma è un tratto distintivo del capitalismo la sua incapacità di dominare il corso del proprio sviluppo economico. L'interventismo politico-economico di questi ultimi vent'anni non ha cambiato nulla a tutto ciò. Esso ha dimostrato soltanto che, nella misura in cui aumenta la produttività del lavoro, il lavoro improduttivo si estende e che, con questo stesso espediente, è possibile avvicinarsi alla piena occupazione con una produzione in costante aumento.

Ma l'aumento della produzione non può durare, poiché e legato a una diminuzione delle possibilità aperte alla valorizzazione del capitale. Oggi come oggi, nel caso del capitalismo americano, il più sviluppato che esista, la produzione globale effettiva tende a scendere e la disoccupazione a crescere. In breve, sia a causa della rinascita dei fattori di crisi che si credeva fossero scomparsi per sempre, che dell'esaurimento delle possibilità di far crescere la produzione a detrimento della valorizzazione del capitale, tutto sembra indicare che l'integrazione dei lavoratori al sistema subirà a sua volta un cambiamento.

All'origine delle concezioni di Marcuse, di Baran e di Sweezy, secondo cui sarebbe vano attendersi una rivoluzione operaia nei paesi a capitalismo avanzato, poiché gli operai dell'industria sono perfettamente integrati nel sistema e sono diventati una minoranza dal punto di vista sociale, stanno sia il loro passato personale, sia la delusione da essi provata per il corso assunto dalla storia. Per diversi lustri, infatti, questi uomini hanno sostenuto lo stalinismo, e ancor oggi essi vedono nel sistema capitalistico di Stato un preliminare inevitabile verso la società socialista. Ora, questo sistema implica la persistenza dei rapporti capitalistici di produzione -- la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione. E' dunque facile capire perché le loro analisi di classe hanno un punto di partenza diverso. Invece di pigliarsela con il capitalismo di Stato, essi criticano unicamente gli errori e le deviazioni della burocrazia dirigente e li condannano per ragioni politiche o morali. Rifiutandosi ormai di avallare il capitalismo di Stato nella sua forma sovietica, essi sono tanto più propensi a prendere pienamente partito a favore delle sue versioni cinese, cubana o nord-vietnamita.

Allorché si cessa di stabilire un legame specifico tra rivoluzione socialista e rapporti capitale-lavoro, si può aderire a qualsiasi movimento che, su tutt'altre basi, insorga contro la forma dominante del capitale. Secondo la teoria leninista, per esempio, l'imperialismo costituisce una manifestazione inevitabile del capitalismo moderno e una delle condizioni principali della sua espansione. Il capitalismo è quindi minacciato dall'interno e dall'esterno, dal movimento operaio da una parte dal movimento antimperialista dall'altra. Quest'ultimo, per definizione, non può essere soltanto operaio; esso è dunque costretto ad appoggiarsi ai contadini poveri; diretto dalla categoria, in via di formazione, degli intellettuali, esso mira, in nome della liberazione nazionale, a rovesciare il potere delle classi che, nei paesi oppressi, fanno lega con l'imperialismo e, quindi, ad abbattere l'imperialismo stesso. La tesi che postula l'unità della lotta delle classe proletarie nei paesi a capitalismo avanzato e delle lotte antimperialiste dei paesi in cui lo sviluppo industriale è stato impedito, ha avuto come conseguenze, sul pieno teorico, la trasformazione del marxismo in marxismo-leninismo.

Senza voler entrare nei particolari di queste tesi, basterà constatare che le speranze a cui essa è stata associata non si sono finora realizzate. Certamente, la seconda guerra mondiale ha creato una nuova situazione, permettendo a numerosi paesi coloniali e semi-coloniali di ottenere l'autodeterminazione politica; certamente, esiste un movimento di lotta -- che, pur essendo mondiale, non è perciò meno debole -- contro lo sfruttamento e l'oppressione a cui l'imperialismo sottopone i paesi sottosviluppati; ma il movimento operaio dei paesi imperialisti non ha fatto sue queste cause. Quel che nel quadro di una crisi mondiale generalizzata avrebbe potuto diventare una probabilità, si è trasformato in illusione in seguito alla ripresa economica effettiva che ha avuto luogo dopo la seconda guerra mondiale. E anche se questa ripresa non faceva che precedere nuove crisi, che si producevano secondo modalità che rinviavano al carattere insolubile delle contraddizioni del capitalismo, le prosperità di cui godono i paesi avanzati ha pur sempre l'effetto di soffocare ogni velleità di solidarietà rivoluzionaria.

Per il fatto stesso di essere legato alle particolarità nazionali di paesi molto diversi, e alle relazioni che questi paesi hanno con altri stati, il movimento nazionalista rivoluzionario è destinato a concepirsi in termini molto diversi e a porsi degli obbiettivi che non lo sono meno. Non lo vediamo forse rifarsi, tanto per fare un esempio, e ideologie nazionaliste borghesi, o nazionalsocialiste, o ancora comuniste? Ma in sostanza si tratta sempre non di sollevazione di operai rivoluzionari che tentano di rovesciare i rapporti di produzione capitalistici, ma di rivolte che vogliono farla finite con une miseria generale, che resta incurabile finchè dura l'egemonia imperialista. In questo quadro, gli agenti ideologici di questi movimenti sono gli intellettuali e gli studenti contestatori, che cercano di ottenere l'appoggio delle categorie più povere della popolazione e di certe frazioni delle classi medie, dato che le une e le altre vedono nello sviluppo nazionale senza ostacoli la via per migliorare le proprie condizioni. Dotata anche di virtù proprie, l'ideologia nazionalista risveglia simpatie anche negli ambienti che non hanno nulla da aspettarsi dalle realizzazione dell'autodeterminazione.

Solo uno sviluppo industriale accelerato permette di liquidare la miseria e l'arretratezza; ma esso va contro gli interessi immediati delle potenze imperialistiche. In linee di massima, il capitale internazionale non si oppone all'industrializzazione capitalistica dei paesi sottosviluppati, cioè all'allargamento del plusvalore e all'aumento della produttività del lavoro. Tuttavia, questo processo può realizzarsi solo grazie elle valorizzazione del capitale esistente. Ora, dato che il rendimento di quest'ultimo è in tal modo minacciato si verifica un abbassamento degli investimenti su scala internazionale e soprattutto nelle regioni arretrate. Poiché gran parte del plusvalore creato in queste regioni non vi è investito, me serve e valorizzare i capitali ivi introdotti delle grandi potenze, la scrematura del plusvalore e la diminuzione dell'arrivo di capitali freschi hanno il duplice effetto di depauperarle più che mai e di generare per riflesso agitazioni sociali. In breve, sono le caratteristiche della produzione capitalistica che le impediscono di ampliarsi a un ritmo sostenuto.

Alla stessa stregua, le lotte contro l'imperialismo e per le riforme sociali diventa, per i paesi sottosviluppati, questione di vita o di morte; e le riforme hanno come premesse l'espropriazione del capitale sia straniero che locale. E' a queste indispensabili misure di esproprio che i movimenti nazionalisti rivoluzionari devono la loro aureola socialista. Ma esse non conducono per ciò stesso al socialismo, cioè al diritto che i produttori hanno di di sporre del prodotto del loro lavoro e della sua distribuzione. Nei paesi a capitalismo avanzato la coscienza di classe rivoluzionaria non ha permesso finora di capire chiaramente che il socialismo non può essere se non l'opera degli stessi lavoratori, e che nessun partito (o coalizione di partiti), una volta arrivato al potere, li gratificherà mai del socialismo. Oltre ad essere afflitte dalla stessa carenza soggettiva, le masse sfruttate e depauperate dei paesi sottosviluppati vivono all'interno di società che oggettivamente per la loro struttura impediscono la realizzazione del socialismo. Queste società devono quindi recuperare, all'occorrenza con mezzi inediti, il loro ritardo in fatto di sviluppo capitalistico. Esse ignorano ancora la polarizzazione delle classi, che caratterizza il capitalismo moderno; inoltre, per coordinare i diversi interessi particolari -- tra cui giocano un ruolo notevole quelli dei contadini, proprietari e non ? è indispensabile creare un potere statale che fronteggi la società e la regga. Questo potere statale indipendente, personificato dalla sua burocrazia, assume le funzioni che nei paesi capitalistici di vecchio stile, erano l'appannaggio della borghesia. La burocrazia diventa una nuova classe dirigente, il suo arrivo al potere essendo la premessa di ogni sviluppo economico. Può darsi che gli elementi posti alla testa dei movimenti nazionalisti rivoluzionari non abbiano coscienza di operare in tal senso; ma questo è un risultato che, nonostante tutto, resta invisibile finché le masse sono incapaci di creare da sè le forme d'organizzazione che permettano di uscire dall'impasse legata a questa nuova "divisione rivoluzionaria del lavoro". Nei paesi sottosviluppati e una cosa inconcepibile; nei paesi avanzati è una possibilità.

Questa possibilità appartiene tuttavia al futuro. Finora, infatti, i lavoratori di questi paesi non hanno cercato di conquistare il diritto all'autodeterminazione, neppure in seno alle loro organizzazioni. Ora, se gli stessi lavoratori non sono finora insorti contro i rapporti di produzione capitalistici, non c'è da stupirsi che gli studenti siano stati meno capaci ancora, anche per la loro particolare situazione di classe, di prendere come punto di partenza per la loro azione i rapporti sociali fondamentali. Se gli operai non sono rivoluzionari, non esiste una situazione rivoluzionaria su cui gli studenti possano regolare il loro movimento. E se, malgrado tutto, essi optano per l'opposizione e la vogliono dimostrare concretamente, non hanno altra scelta che manifestare in termini estremamente generosi la loro indignazione per i "lati cattivi" della dominazione capitalistica, ma non possono rivolgere la loro azione verso problemi reali, verso problemi di base, perché in tal caso non susciterebbero la minima eco.

Il movimento studentesco stesso non ha niente di particolarmente sorprendente; sarebbe stato molto strano che gli studenti non avessero reagito alla crescente barbarie capitalistica, e ciò quand'anche si fossero resi conto che la loro opposizione non poteva avere per il momento conseguenze pratiche. Poiché tale movimento non ha alcun legame con i rapporti di produzione, le tendenze antiautoritarie, che lo contrassegnarono all'inizio, ebbero sulle prime un carattere ambiguo e furono la diretta conseguenza del suo isolamento. Incapace di trasformare da sè solo l'ordine costituito, esso non aveva altra scelta che una contestazione destinata a non avere grandi risultati. Dato che non poteva influire veramente sul corso degli eventi, cercò di erigersi a coscienza universale, nella speranza di risvegliare per lo meno qualche eco. Le circostanze che spinsero il movimento studentesco a optare per l'antiautoritarismo, dovevano conferirgli un carattere elitario perfettamente suscettibile, in altre circostanze, di sboccare nell'autoritarismo. Di fronte alla passività degli operai, il radicalismo degli studenti ricade di conseguenza nelle teorie leniniste della rivoluzione e dell'organizzazione. Poiché queste teorie hanno un senso reale nei paesi del cosiddetto "terzo mondo", uno può immaginare, pur vivendo in un paese capitalista, di essere un rivoluzionario grazie a una semplice identificazione con il movimento antimperialista. Pur sbagliandosi di grosso, questo movimen to rivoluzionario ha un minimo di fondamento; poiché una politica socialista non può essere che antimperialista.

Va da sè che il movimento socialista combatte lo sfruttamento e l'oppressione in tutte le sue forme. Tuttavia, per vincere l'imperialismo, bisogna abbattere il capitalismo. Lottare contro l'uno significa continuare il combattimento contro l'altro. Senza dubbio, tutti i movimenti di protesta contro l'imperialismo e i suoi crimini, come ogni sabotaggio che serva a indebolirlo, danno il loro contributo. Ma credere che il fronte comune degli antimperialisti dei paesi oppressi e dei paesi oppressori abbia questi fini, è chiudere ancora una volta gli occhi di fronte alla realtà. Parole d'ordine come il grido di guerra cubano "patria o morte", o quella di Marcuse che parla dell' "ascesa della Cina al rango di grande potenza comunista" [17] dovrebbero essere respinte e biasimate dai lavoratori e dagli studenti dei paesi capitalisti allo stesso modo delle imprese imperialistiche delle loro rispettive borghesie.

Per i rivoluzionari dei paesi dominati militarmente ed economicamente sarebbe d'altra parte assurdo rinunciare a realizzare i propri scopi, come pure fare assegnamento su una rivoluzione proletaria nei paesi imperialistici per annientare l'imperialismo. E' così che il movimento nazionalista rivoluzionario si sviluppa in funzione delle sue necessità proprie, senza tener conto dell'atteggiamento preso dal movimento operaio dei paesi imperialistici. Mentre questo isolamento non fa che ledere gravemente le sue possibilità di successo, le vittorie da esso definitivamente acquisite hanno conseguenze non meno nefaste sia per l'uno che per l'altro dei due movimenti. Infatti, in caso di vittorie del genere, il nemico di ieri diviene l'alleato di oggi, come si è verificato per esempio per l'Algeria e per numerosi Stati africani, o ancora l'indipendenza strappata agli Stati Uniti ha, come nel caso di Cuba, la conseguenza di porre i paesi sotto il dominio dell'Unione Sovietica. Dato che nelle condizioni attuali un'autodeterminazione economica è inconcepibile sul piano nazionale, anche l'autodeterminazione è irrealizzabile, e consiste unicamente nell'assoggettamento all'una piuttosto che all'altra fra le grandi potenze imperialistiche.

Se il marxismo-leninismo aveva ancora un senso all'epoca in cui la guerra del 1914-18 e i suoi postumi consentivano di sperare in una rivoluzione mondiale, quanto è successo in seguito ha messo in luce il fatto che le teorie leniniste, strettamente connesse a condizioni di tempo e di luogo molto particolari, erano inapplicabili nei paesi a capitalismo avanzato. La cosa che stupisce perciò è constatare che, senza tener minimo conto di mezzo secolo di esperienze, si tenta daccapo di spingere la rivoluzione proletaria sulla via del leninismo. Cosa tanto più singolare, d'altra parte, in quanto gli operai dei paesi cosiddetti "socialisti" hanno già cominciato a insorgere, con scioperi e rivolte, contro i loro nuovi sfruttatori e oppressori.

Ciò ha causato senz'altro una fuga in avanti, tanto che il modello di comunismo autoritario, tipico del bolscevismo russo, si è alienato tutte le simpatie, che si sono rivolte decisamente verso il comunismo più liberale della Cina e di Cuba. Ma ciò significa cadere dalla padella nella brace, poiché "l'accumulazione primitiva" impone alle masse lavoratrici degli ultimi due paesi citati sacrifici ben più pesanti ancora di quelli che esse hanno dovuto affrontare nell'Unione Sovietica e nell'Europa orientale. I metodi di governo e le tecniche di manipolazione differiscono certamente tra i due tipi di comunismo, ma nel primo come nel secondo caso il popolo, lungi dal poter decidere del proprio destino, subisce il dispotismo di una nuova classe dirigente, a cui solo una nuova rivoluzione potrà togliere il monopolio del potere, interrompendone una volta per sempre la riproduzione.

Comunque sia, se si considera l'azione rivoluzionaria prescindendo dalle sue conseguenze sociali, si capisce subito che i metodi dei movimenti nazionalistici rivoluzionari avrebbero, nel contesto del capitalismo moderno, risultati completamente diversi da quelli che hanno nei paesi sottosviluppati. A giudicare dalle apparenze, Lenin aveva ragione di affermare che il proletariato lasciato a se stesso era incapace di crearsi una coscienza di classe rivoluzionaria e che aveva quindi bisogno di essere diretta dagli intellettuali provenienti dalla piccola borghesia. Così la preparazione e lo scatenamento della rivoluzione -- considerata in sè, indipendentemente dai suoi risultati -- poneva di colpo il problema della suddivisione dei ruoli tra operai e intellettuali. Poiché, in questa visuale, la teoria precede la prassi, sia prima che dopo la rivoluzione la direzione del movimento rivoluzionario doveva spettare agli intellettuali, a "quelli che sanno", incaricati poi di vegliare sull'attuazione del nuovo sistema. Anche per questo, gli studenti rivoluzionari, quando s'interrogano oggi sul proprio ruolo nella lotta di classe -- in quanto studenti, intellettuali e teorici -- possono concepirsi non come una classe dirigente, ma come gli elementi primi della rivoluzione e del socialismo, in perfetto accordo con gli interessi del proletariato.

C'è da sperare che i lavoratori, quando la loro coscienza di classe assumerà un carattere rivoluzionario, vedranno tutto ciò con altri occhi. Poiché essi non ignorano la situazione reale esistente nei "Paesi socialisti" e il tipo di rapporti sociali ivi dominante, tutto porta a credere che essi respingeranno con fermezza le pretese di qualsiasi partito a gestire il movimento rivoluzionario e la società in via di formazione. Inoltre, a prescindere da queste considerazioni, una cosa è certa: il movimento rivoluzionario dovrà inglobare il proletariato come classe e creare organizzazioni capaci di trasformare da cima a fondo i rapporti di produzione, stroncando contemporaneamente la possibilità di un'evoluzione verso il capitalismo di Stato. Di fronte a questa necessità, e quindi a questa possibilità, di sviluppo, sarebbe inutile invocare l'esistenza, in qualche paese capitalistico, di partiti comunisti forti e addurre i tentativi di costituirne altri su modelli esterni. Se questi partiti sussistono, è perché di comunista non hanno che il nome. Comportandosi come partiti riformisti; essi non hanno nè l'intenzione nè la possibilità di abbattere il sistema capitalistico.

Benché la storia dei partiti operai tradizionali si presenti in fin dei conti come un'esperienza negativa, i lavoratori che hanno preoccupazioni di carattere politico tenteranno ancora e sempre di stabilire tra loro dei legami organizzativi per dare alla loro propaganda un'efficacia maggiore e costituire una base in vista dell'azione rivoluzionaria. Solo che si verifichi la possibilità, e assisteremo alla costituzione di un'organizzazione o di un partito rivoluzionario. Ogni nuovo partito operaio è destinato per definizione a contrapporsi ai partiti già esistenti; così non è da escludersi che un cambiamento della situazione faccia nascere nuove organizzazioni rivoluzionarie che, facendo tesoro dell'esperienza passata, riconoscano non più a parole il primato della classe sul partito e non permettano a quest'ultimo di degenerare come fine a se stesso. Ma, intanto, bisogna deplorare una volta per tutte la sopravvivenza di formazioni tradizionali e l'inesistenza di organizzazioni rivoluzionarie nuove, che rispondano alle autentiche esigenze di lotta della classe proletaria.

Il movimento socialista e il movimento studentesco sono due cose ovviamente diverse. Ma ciò non vieta agli studenti di essere socialisti e di prender parte come tali alla creazione di nuove organizzazioni rivoluzionarie. Tuttavia, finché gli operai non si uniscono ai loro sforzi, queste organizzazioni, lasciate a sè, sono incapaci di cambiare alcunché dell'ordine costituito, pur essendo senza dubbio adatte a far fronte a certi bisogni della vita universitaria. In compenso, quando i lavoratori stessi stanno per crearsi una coscienza di classe rivoluzionaria, l'attività a parole e fatti nella quale gli studenti s'impegnano può contribuire ad accelerare il corso degli eventi. Da questo momento in poi il movimento studentesco dovrà cessare di esistere in quanto tale e rifluire nei movimento operaio, diventando una parte, senza interessi specifici da difendere, del movimento più generale.

Note

17. Frankfurter Rundsclrau, cit.


6. Possibili prospettive
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