Riassunto del Capitale fu scritto nel 1868 per la rivista liberale di sinistra inglese The Fortnightly Review, ma rifiutata la pubblicazione restò nell'attuale forma manoscritta frammentaria e non definitiva. Il Riassunto sarà pubblicato in russo nel 1929; in originale tedesco nel 1933.
Difficoltà di scrivere un compendio sono che Il capitale è l'esito di 25 anni di studio dell'economia politica e che Marx ed Engels erano attanagliati da occupazioni personali e politiche. Ma essi comunque ne sentivano l'esigenza perché l'accoglienza era ostacolata dall'egemonia dell'economia borghese che stima la forma del capitale (la produzione rivolta all'appropriazione di lavoro altrui) come forma naturale della produzione sociale, anziché forma storica. Perciò per Marx ed Engels serve far propaganda in ogni modo e magari colla firma di persone stimate neutrali. Addirittura può convenire attaccare il libro dal punto di vista borghese. A quel tempo tale strepito era uopo per trovare editori stranieri. Il 28 giugno 1878 Engels scriverà una recensione, che firmerà il magistrato Samuel Moore. Ma la recensione sarà rifiutata. Uscirà in russo nel 1926. Circa il Riassunto non si può seguirne la stesura (quando le lettere parlano di estratti de Il capitale mancano accenni precisi ad esso). Comunque, seppur scritto con provvisoria approssimazione essendo un primo abbozzo (infatti i riferimenti alle pagine del capitale servono per una redazione definitiva anziché per il pubblico); il Riassunto resta una lettura propedeutica nonché più sintetica del discorso definitivo che sarebbe stato più dettagliato e impegnativo. Certo il lettore ideale è più di un lettore medio; ma lo scritto non tradisce lo scopo di stimolar l'approfondimento del punto più eversivo delle teorie di Marx: la transitorietà del capitalismo.
Tradotto indirettamente dalla versione in inglese presente sul MIA e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, agosto 2018
La ricchezza delle società in cui predomina la produzione capitalistica consiste in merci. La merce è qualcosa che ha valore d'uso: esso esiste in ogni tipo di società, ma nella società capitalistica è pure il depositario materiale del valore di scambio.
Il valore di scambio presuppone un tertium comparationis2 al quale venir commisurato: il lavoro (la comune sostanza sociale dei valori di scambio, cioè il tempo di lavoro socialmente necessario in esso oggettivato).
La merce ha duplice natura (valore d'uso e valore di scambio) e pur il lavoro in essa contenuto è doppiamente determinato: da un lato come lavoro utile: attività produttiva determinata (lavoro da tessitore, da sarto etc.); dall'altro come lavoro astratto: mero dispendio di forza-lavoro umana. Il primo produce valore d'uso; il secondo valore di scambio, il solo comparabile quantitativamente (lo provano le differenze fra lavoro qualificato e non qualificato, composto e semplice).
Così sostanza del valore di scambio è il lavoro astratto; la grandezza del valore di scambio è la misura del tempo del lavoro astratto. Resta ancora da scoprir la forma del valore di scambio.
1) «x merce A = y merce B» il valore d'una merce espresso nel valore d'uso d'un'altra è il suo valore relativo. L'espressione dell'equivalenza di due merci è la forma semplice del valore relativo. Nell'equazione precedente “y merce B” è l'equivalente. In esso “x merce A” riceve la propria forma di valore contrapposta alla sua forma naturale; invece “y merce B” riceve la proprietà di immediata scambiabilità proprio nella sua forma naturale. Alla merce il valore di scambio è impresso sul suo valore d'uso da determinate condizioni storiche. Indi la merce non può esprimere il suo valore di scambio nel suo valore d'uso, ma solo nel valore d'uso di un'altra merce. Solo nel confronto di due concreti prodotti di lavoro la proprietà del lavoro concreto contenuto in ambi appare come lavoro umano astratto: cioè una merce può riferirsi al lavoro concreto contenuto in un altro tipo di merce (non al lavoro contenuto in sé stessa), come a semplice forma di realizzazione di lavoro astratto.
L'equazione «x merce A = y merce B» implica sempre che “x merce A” sia esprimibile in altre merci, quindi:
2) «x merce A = y merce B = z merce C = v merce D = u merce E...». Tale è la forma relativa di valore dispiegata. Anziché ad una, “x merce A” si riferisce a tutte le merci in quanto semplici forme fenomeniche del lavoro in essa stessa incorporato. Ma con una mera inversione si ha:
3) la seconda forma inversa del valore relativo:
«y merce B = x merce A»
«v merce C = x merce A»
«u merce D = x merce A»
«t merce E = x merce A...».
Ivi le merci ricevono la forma relativa generale di valore in cui tutte astraggono dal loro valore d'uso e si equiparano come materializzazione del lavoro astratto, in “x merce A”. “x merce A” è la forma generica dell'equivalente per tutte le altre merci, è il loro equivalente generale, il lavoro in essa materializzato vale certamente come la realizzazione del lavoro astratto, come lavoro generale. Però ora:
4) ogni merce della serie può fungere da equivalente generale, ma al contempo solo una di esse può assumere tale funzione, poiché se tutte le merci fossero equivalenti generali, ognuna ne escluderebbe nuovamente le altre. La forma ‛3’ non viene prodotta da “x merce A” bensì dalle altre merci obiettivamente. Insomma una determinata merce deve assumer tale funzione (saltuariamente poiché sostituibile) e solo così la merce diviene merce affatto. Questa merce particolare (alla cui forma naturale si lega strettamente la forma generale di equivalente) è il denaro.
Il problema è capire che la merce (come tutte le categorie del modo di produzione capitalistico) indica un rapporto fra persone sotto l'apparenza di un rapporto fra cose. I produttori mettono in relazione fra loro i loro diversi lavori come lavoro umano generale, mettendo i loro prodotti in relazione come merci: senza tale mediazione della cosa loro non porrebbero la relazione. Il rapporto fra persone appare così come un rapporto fra cose.
Per una società in cui predomina la produzione di merci, il cristianesimo (specie il protestantesimo) è la religione adatta.
Nello scambio la merce prova d'esser merce. I possessori di due merci devono volere scambiar le rispettive merci e così riconoscersi reciprocamente come proprietari privati. Tale rapporto giuridico, la cui forma è il contratto, è solo il rapporto di volontà in cui è riflesso il rapporto economico. Il suo contenuto è dato dal rapporto economico stesso (p. 122).
La merce è valore d'uso per il suo non-possessore ma non è valore d'uso pel suo possessore. Donde il bisogno di scambio: ogni possessore di merce vuole acquistare specifici valori d'uso a lui necessari. Fin qui lo scambio è un processo individuale. D'altra parte vuole realizzare la sua merce come valore, ossia in una merce altra, a prescindere che la sua merce sia per il possessore dell'altra merce valore d'uso. Fin qui lo scambio è per lui un processo generalmente sociale. Ma lo stesso processo non può esser al contempo e per tutti i possessori di merce individuale e generalmente sociale. Ogni proprietario di merce pone la sua merce come un equivalente generale di ogni altra merce e tutte le altre merci come equivalenti particolari di essa. Dato che tutti i possessori di merce fanno la stessa cosa, allora nima merce è un equivalente generale, cioè nima merce ha una forma relativa generale di valore, in cui si equiparino come valore e si rapportino come grandezze di valore. Così le merci non si raffrontano fra di loro come merci, bensì solo come prodotti (p. 123).
Le merci possono riferirsi l'una all'altra come valori (cioè come merci) solo riferendole per opposizione a qualsiasi altra merce presa da equivalente generale. Ma solo l'azione sociale può fare di una determinata merce un equivalente generale: il denaro.
La contraddizione interna alla merce (unità immediata di valore d'uso e valore di scambio; prodotto di lavoro privato utile e immediata materializzazione sociale di lavoro umano astratto) non si ovvia finché essa non si configuri nello sdoppiamento della merce in merce e denaro (p. 123).
Se tutte le altre merci sono solo equivalenti particolari del denaro e il denaro il loro equivalente generale, allora le merci stanno al denaro come merci particolari stanno a una merce universale. Il processo di scambio dà alla merce che esso trasforma in denaro la sua forma di valore, non il suo valore (p. 126). Feticismo: che una merce diventi denaro solo perché in essa tutte le altre merci indicano i loro valori non sembra; anzi: sembra che le altre merci indichino in lei i propri valori in quanto essa è denaro (pp. 126-127).
1. Misura dei valori (oro = denaro supposto) [Cfr. Capitale I, 3, 1] Come misura di valore il denaro è la forma fenomenica necessaria della misura immanente di valore delle merci, del tempo di lavoro. La semplice espressione relativa di valore delle merci in denaro «x merce A = y denaro» è il loro prezzo (p. 131).
Il prezzo (cioè la forma di denaro delle merci) è espresso in denaro immaginato: indi il denaro è misura del valore solo in quanto denaro ideale (p. 131).
Trasformato il valore in prezzo, tecnicamente diviene uopo sviluppar ancora la misura dei valori nella scala dei prezzi, cioè si fissa una quantità di oro, in base a cui misurare diverse quantità di oro. Ciò è affatto diverso dalla misura dei valori, che dipende essa stessa dal valore dell'oro, ma ciò è indifferente per la scala dei prezzi (pp. 132-133).
Rappresentati i prezzi in nomi di conto dell'oro il denaro serve come moneta di conto.
Se il prezzo, in quanto esponente della grandezza di valore della merce, è esponente del suo rapporto di scambio con il denaro, non ne consegue l'inverso (che l'esponente del suo rapporto di scambio con il denaro sia d'uopo l'esponente della sua grandezza di valore). Posto che delle circostanze lascino o costringano a vendere una merce al di sopra o al di sotto del suo valore, questi prezzi di vendita non corrispondono al suo valore, poiché sono prezzi della merce, poiché sono: 1. la sua forma di valore, denaro, e 2. esponenti del suo rapporto di scambio con il denaro.
La possibilità di un'incongruenza quantitativa fra prezzo e grandezza di valore sta quindi nella forma stessa di prezzo. Questo non è un difetto di tale forma, anzi ne fa la forma adeguata d'un modo di produzione in cui la regola può imporsi solo come legge media della sregolatezza che agisce ciecamente. Ma la forma di prezzo può contener una contraddizione pure qualitativa per cui in genere il prezzo non sia più espressione del valore. Coscienza, onore etc. possono ricevere la forma di merce grazie al loro prezzo (pp. 135-136).
La misurazione dei valori in denaro, la forma di prezzo, implica la necessità dell'alienazione; la determinazione ideale del prezzo comporta la determinazione reale. Ne consegue la circolazione.
La forma semplice è M-D-M3, il cui contenuto materiale è M-M4. Si cede valore di scambio e ci si appropria di valore d'uso.
α. Prima fase: M-D = vendita. Serve esser in due indi, se muta il valore sociale della merce, è possibile una vendita al di sotto del valore o al di sotto dei costi di produzione. «La divisione del lavoro trasforma il prodotto del lavoro in merce e così rende necessaria trasformazione di esso in denaro. Al contempo rende casuale la riuscita o meno di questa transustanziazione» (p. 138). Per considerar il fenomeno allo stato puro, M-D presuppone che il possessore di D (nel caso in cui non sia produttore di oro) abbia prima avuto il suo D in cambio di altre M; e che per l'acquirente non ci sia solo la fase inversa = D-M; cioè presuppone per tale acquirente una vendita precedente etc., per non affrontar una serie infinita di acquisti e di vendite.
β. La stessa cosa capita nella seconda fase, D-M: acquisto che è al contempo vendita per l'altro partecipante.
γ. Il processo complessivo è dunque un ciclo di compravendite. La circolazione delle merci è affatto diversa dallo scambio diretto dei prodotti: anzitutto si superano i limiti individuali e locali dello scambio diretto di prodotti e si sviluppa il ricambio organico del lavoro umano; poscia si mostra già qui che l'intero processo è condizionato da nessi sociali spontanei, indipendenti da chi compie l'operazione (p. 143). Il semplice scambio si è spento nell'unico atto di scambio tale che ognuno scambia il non valore d'uso contro il valore d'uso; così la circolazione procede all'infinito.
Donde il falso dogma economico che la circolazione delle merci implichi d'uopo un equilibrio degli acquisti e delle vendite, poiché ogni compera è anche vendita e viceversa: che ogni venditore attiri al mercato pure il suo compratore. 1. Compera e vendita sono da un lato un identico atto (compravendita) di due persone polarmente opposte, dall'altro due atti polarmente opposti di un'unica persona. Quindi l'identità di acquisto e vendita implica che la merce sia inutile se non è venduta e che ciò sia possibile. 2. M-D come processo parziale è al contempo un processo autonomo e implica che l'acquirente di D possa scegliere quando ritrasformare tale D in M. Può aspettare. L'unità interna dei processi indipendenti M-D e D-M si muove proprio a causa dell'indipendenza di tali processi in opposizioni esterne; e quando a un certo limite tali processi dipendenti si rendono indipendenti, l'unità si appalesa con una crisi, la cui possibilità è già apposta qui.
Il denaro, in quanto mediatore della circolazione delle merci, è mezzo di circolazione.
Il denaro media l'entrata nella circolazione e l'uscita dalla circolazione di ogni singola merce; invece il denaro resta sempre al suo interno. Così (benché il denaro sia semplice espressione della circolazione delle merci) la circolazione delle merci sembra risultato della circolazione del denaro. Il denaro resta sempre nella sfera della circolazione: c'è da chiedersi quanto denaro sia presente in essa.
La massa del denaro circolante è data dalla somma dei prezzi delle merci (con un valore costante del denaro) e tale somma è data dalla massa di merci che si trova in circolazione. Posta nota tale massa di merci, la massa di denaro circolante fluttua con le oscillazioni di prezzo delle merci. Se ora in un dato tempo una sola moneta media un certo numero d'affari allora per un periodo di tempo dato si ha: (Somma delle merci)/(Numero dei giri di monete di ugual nome) = massa del denaro che funge da mezzo di circolazione (p.149).
Perciò la cartamoneta può sostituir la moneta aurea se gettata in una circolazione saturata.
Come nel corso del denaro appare solo il processo di circolazione delle merci, così nella velocità di circolazione del denaro appare la velocità delle trasformazioni delle merci; viceversa nel ristagno del corso del denaro appare la separazione della compera dalla vendita, il ristagno del ricambio sociale. L'origine di tale ristagno non si nota certo dalla circolazione che ne espone solo il fenomeno. Il filisteo se lo spiega come quantità insufficiente dei mezzi di circolazione (p.150).
Ergo: 1. Con stabilità dei prezzi delle merci, la massa di denaro circolante sale se cresce la massa di merci circolanti o se rallenta la circolazione del denaro; e in caso contrario la massa di denaro circolante cala.
2. Con un aumento generale dei prezzi delle merci, la massa di denaro circolante resta uguale se la massa delle merci circolanti cala o la velocità di circolazione del denaro sale nelle stesse proporzioni.
3. Con un calo generale dei prezzi delle merci, capita l'inverso di 2.
Ne risulta in complesso una media abbastanza costante che subisce irregolarità notevoli solo attraverso le crisi.
Lo Stato definisce la scala dei prezzi e la designazione del nome da darsi al pezzo d'oro e la moneta e la sua fabbricazione. Sul mercato mondiale la rispettiva divisa nazionale è deposta (ivi non cale il sopravvalore di coniatura, signoraggio) dimodoché moneta e lingotti si distinguono solo per la forma. Ma nella circolazione la moneta si consuma, l'oro come mezzo di circolazione differisce dall'oro come unità di misura dei prezzi, sempre più la moneta diviene il simbolo del suo contenuto ufficiale.
Ciò rende potenzialmente possibile sostituir il denaro metallico con marche o simboli. Onde 1. Moneta divisionale di marche di rame o d'argento, il cui stabilirsi nei confronti della moneta aurea reale è impedito limitando le quantità in cui esse sono legal tender5. Il loro contenuto metallico è stabilito affatto arbitrariamente dalla legge indi la loro funzione di moneta diviene indipendente dal loro valore. Così è possibile avviarsi verso segni affatto senza valore. 2. Cartamoneta, cioè cartamoneta statale a corso forzoso (ancora non è moneta di credito). Finché tale cartamoneta circola realmente al posto della moneta aurea, è soggetta alle leggi della circolazione del denaro. Solo il rapporto in cui la carta sostituisce l'oro può esser oggetto d'una legge particolare, la quale limiti l'emissione di cartamoneta alla quantità in cui l'oro ch'essa rappresenta dovrebbe realmente circolare. Il grado di saturazione della circolazione può sì oscillare, ma ovunque non cala sotto un minimo stabilito dall'esperienza. Tale minimo può esser emesso. Dopo, se il grado di saturazione cala al minimo, una parte della quantità di cartamoneta diviene tosto superflua. Al che la quantità complessiva di carta appo il mondo delle merci rappresenta però solo la quantità d'oro determinata dalle leggi di tale mondo, cioè l'unica rappresentabile. Così se la massa di carta è il doppio della massa d'oro assorbita allora ogni pezzo di carta si deprezza alla metà del suo valore nominale. Proprio come se si fosse alterato l'oro nella sua funzione di misura dei prezzi, nel suo valore (pp. 151-154).
Al primo svilupparsi della circolazione delle merci si sviluppa la necessità e l'impulso di fissare il prodotto di M-D, cioè D. Il mutamento di forma passa da semplice mediatore del ricambio a un fine in sé. Il denaro si pietrifica in tesoro, il venditore di merci diviene tesaurizzatore (p. 154).
Tale forma predomina l'inizio della circolazione delle merci. Asia. Con l'ulteriore sviluppo della circolazione delle merci niun produttore di merci può evitar d'assicurarsi il nervus rerum6, il pegno sociale, cioè D. Così sorgono ovunque hoards7. Estendendosi la circolazione delle merci aumenta il potere del denaro, la forma della ricchezza sempre pronta e sociale (p. 155). La tendenza alla tesaurizzazione è illimitata per natura. Qualitativamente (cioè secondo la sua forma) il denaro non ha limiti; cioè è il rappresentante generale della ricchezza materiale essendo tosto convertibile in ogni merce. Quantitativamente però ogni somma concreta di denaro è limitata, cioè è un mezzo di acquisto di efficacia limitata. Questa contraddizione riporta continuamente il tesaurizzatore al lavoro di Sisifo dell'accumulazione.
Oltre a ciò, l'accumulazione di oro e argento sotto forma di plate8 è al contempo un nuovo mercato per tali metalli e una fonte latente di denaro.
Nelle costanti oscillazioni del grado di saturazione della circolazione, la tesaurizzazione serve come canale di deflusso e di afflusso del denaro circolante (p. 157).
Al perfezionarsi della circolazione delle merci subentrano nuovi rapporti: la cessione della merce può essere separata nel tempo dalla realizzazione del suo prezzo. Le merci esigono tempi diversi di produzione, sono prodotte in stagioni dell'anno diverse, alcune vanno spedite in mercati lontani etc. Così A può essere venditore prima che B, il compratore, possa pagare. La prassi regola le condizioni di pagamento nel seguente modo. A diviene creditore, B debitore e il denaro diviene mezzo di pagamento. Il nesso fra creditore e debitore si fa già più antagonistico. (Può occorrere pure indipendentemente dalla circolazione delle merci, come nell'antichità o nel Medioevo) (p. 158).
In tale rapporto il denaro funge: 1) come misura di valore nella determinazione del prezzo della merce venduta; 2) come mezzo ideale di compera. Come tesoro D era stato tolto dalla circolazione; come mezzo di pagamento D entra nella circolazione, ma solo dopo che ne è uscita M. Il compratore debitore vende per poter pagare o subisce vendite forzate. Così D diviene fine a sé stesso della vendita, per una necessità sociale che deriva dai rapporti del processo di circolazione (p. 158-159).
La diacronia degli acquisti e delle vendite, per cui il denaro funge da mezzo di pagamento, porta al contempo a un'economia dei mezzi di circolazione, alla concentrazione dei pagamenti in un luogo determinato.
I virements9 nella Lione medievale erano una specie di clearing house10 in cui veniva saldato il bilancio di dare e avere (p. 159).
Finché i pagamenti si bilanciano il denaro funge solo idealmente da moneta di conto (cioè misura dei valori). Ma all'effettuar pagamenti reali il denaro non appare come mezzo di circolazione (cioè forma del ricambio organico che funge solo da mediatrice e sparisce) bensì come incarnazione individuale del lavoro sociale, come esistenza autonoma del valore di scambio, come merce assoluta. Questa contraddizione immediata scoppia in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali denominato crisi monetaria. Essa capita laddove siano affatto sviluppati il processo a catena dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Se capitano turbamenti generali di tale meccanismo (checché sia la causa), il denaro passa subito da figura solo ideale della moneta di conto a denaro contante, non più sostituibile con merci profane (p. 160).
La moneta di credito proviene dalla funzione del denaro come mezzo di pagamento; pure i certificati di debito riiniziano a circolar pel trasferimento dei crediti. Il credito estende la funzione del denaro come mezzo di pagamento; in quanto tale il denaro riceve forme proprie di esistenza, con cui abita nella sfera delle grandi transazioni commerciali; mentre la moneta è respinta perlopiù nella sfera del piccolo commercio (p. 160-161).
A una certa intensità ed estensione della produzione delle merci la funzione del denaro come mezzo di pagamento va oltre la sfera della circolazione delle merci, diviene merce generale dei contratti. Rendite, imposte etc. da versamenti in natura mutano in pagamenti in denaro. Cfr. la Francia sotto Luigi XIV (Boisguillebert e Vauban), al contrario di Asia, Turchia, Giappone etc. (p. 161).
Lo sviluppo di denaro come mezzo di pagamento esige accumulazione di denaro per i giorni di scadenza; la tesaurizzazione che col progresso sociale scompare come forma autonoma di arricchimento, riappare nella forma di fondi di riserva dei mezzi di pagamento (p. 162).
Nel commercio mondiale sono eliminati le forme locali di moneta, moneta divisionale e segno di valore. Solo la forma di lingotto vale come denaro universale. Solo sul mercato mondiale il denaro funge affatto come quella merce la cui forma naturale è al tempo stesso diretta forma sociale di materializzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistere si adegua al suo concetto (p. 162).
La circolazione delle merci è l'inizio del capitale. La produzione delle merci, la circolazione delle merci e il suo sviluppo (cioè il commercio) sono ovunque le premesse storiche della nascita del capitale. Nel ‛500 inizia la moderna storia della vita del capitale con la creazione del moderno commercio mondiale e del mercato mondiale (p. 181).
Si badi solo alle forme economiche derivate dalla circolazione delle merci: il loro prodotto ultimo è il denaro; il denaro è la prima forma fenomenica del capitale. Storicamente il capitale si contrappone sempre alla proprietà terriera come proprietà di denaro (capitale commerciale o capitale usuraio) e ancora ora ogni nuovo capitale compare sul mercato sotto forma di denaro che si dovrà mutar in capitale attraverso certi processi.
Denaro come denaro e denaro come capitale all'inizio divergono nelle loro forme di circolazione. Accanto a M-D-M (vendere per comprare) compare pure la forma D-M-D (comprare per vendere). Il denaro che nel suo moto percorre quest'ultimo ciclo muta in capitale, è già capitale in sé (per la sua destinazione).
Il risultato di D-M-D è D-D, scambio indiretto di denaro con denaro. Compro cotone a 100£ e lo rivendo a 110; alla fine ho scambiato 100£ con 110£, denaro con denaro.
Sarebbe assurdo se l'esito di tale processo fosse un valore in denaro uguale a quello immesso all'inizio (100£ da 100£). Ma che il commerciante dalle sue 100£ realizzi 100£ o solo 50£, il suo denaro ha comunque fatto un movimento affatto diverso da quello della circolazione delle merci M-D-M. Capendo le distinzioni di forma di questo movimento, risulterà diverso da M-D-M pure nel contenuto.
Ambe le fasi del processo stanno in M-D-M. Ma nella circolazione complessiva c'è una gran differenza. In M-D-M il denaro fa da mediatore, la merce da punto di partenza e d'arrivo; invece qui M è la mediatrice e D è punto di partenza e d'arrivo. In M-D-M il denaro è speso definitivamente; invece in D-M-D il denaro è solo anticipato e va recuperato. Ritorna al suo punto di partenza: così c'è qui un'evidente diversità fra la circolazione di denaro come denaro e la circolazione di denaro come capitale.
In M-D-M il denaro può tornar al suo punto di partenza solo tramite la ripetizione dell'intero processo: tramite la vendita di merci fresche; il ritorno è così indipendente dal processo stesso. Invece in D-M-D il ritorno del denaro deriva fin dall'inizio dalla struttura del processo, che senza il ritorno è incompleto (pp. 182-183).
M-D-M ha come fine ultimo il valore d'uso, D-M-D il valore di scambio.
In M-D-M i due estremi hanno la stessa determinatezza di forma economica. Ambi sono merci della stessa grandezza di valore. Ma al contempo sono valori d'uso qualitativamente diversi e il processo ha per suo contenuto lo scambio sociale. In D-M-D l'operazione pare a prima vista tautologica, senza contenuto. Scambiare 100£ con 100£, e per di più mediatamente, pare assurdo. Una somma di denaro può distinguersi da un'altra solo per la sua grandezza; perciò D-M-D ha le sue premesse solo nella diversità quantitativa degli estremi. Viene sottratto alla circolazione più denaro di quanto ve ne sia stato immesso. Il cotone comprato a 100£ è venduto, p. es., a 100+10£; allora il processo assume la formula D-M-D', dove D'= D + ΔD. Questo ΔD, questo incremento è plusvalore. Nella circolazione il valore originariamente anticipato (nonché conservarsi) aggiunge un plusvalore, cioè si valorizza: tale movimento muta il denaro in capitale.
Pure in M-D-M ammette diversità di valore agli estremi, ma è un puro accidente in tale forma di circolazione, e M-D-M non risulta assurdo se gli estremi sono di pari valore bensì è la condizione del normale processo.
La ripetizione di M-D-M ha misura e limite in un fine ultimo al di fuori di essa, cioè il consumo, l'appagamento di specifici bisogni. Invece in D-M-D inizio e fine sono lo stesso denaro indi il movimento è senza fine. Certo D+ΔD è una quantità diversa da D ma resta una somma di valore limitata; se fosse spesa allora cesserebbe di essere capitale; se fosse sottratta alla circolazione allora resterebbe stazionaria come tesoro. Tostoché data, la necessità di valorizzazione del valore vale tanto per D'quanto per D, e il movimento del capitale non ha limiti, poiché alla fine del processo lo scopo non è raggiunto più di quanto lo fosse all'inizio (p. 185). Come veicolo di tale processo, il possessore del denaro diviene capitalista.
Nella circolazione delle merci il valore di scambio si eleva a forma autonoma rispetto al valore d'uso della merce, mentre ora il valore di scambio si presenta d'improvviso come una sostanza capace d'un proprio processo, capace di muoversi da sola: per essa merce e denaro sono mere forme. Di più: in quanto valore originario è diverso da sé stesso in quanto plusvalore. Diviene denaro in processo e come tale capitale (p. 186).
D-M-D' pare forma propria solo del capitale commerciale. Ma pure il capitale industriale è denaro che si trasforma in merce e, tramite la vendita, si ritrasforma in più denaro. Es. Gli atti compiuti fra compera e vendita al di fuori della sfera di circolazione non modificano alcunché. Infine nel capitale che frutta interesse il ciclo appare subito D-D', valore che è per così dir più grande di sé stesso (p. 187).
La forma di circolazione con cui il denaro diviene capitale contraddice tutte le leggi finora esposte sulla natura della merce, del valore, del denaro e della stessa circolazione. Come può ciò la differenza formale dell'ordine di successione inverso?
Inoltre tale inversione esiste solo per una delle tre persone contraenti. Io-capitalista compro merce da A e la rivendo a B: A e B sono solo acquirenti o venditori di merci. In ambi i casi sono per loro solo possessore di denaro o solo possessore di merce (all'uno come compratore o denaro; all'altro come venditore o merce) ma mai capitalista, cioè rappresentante di qualcosa che sia più denaro o più merce. Per A l'affare inizia con una vendita, per B finisce con un acquisto, cioè proprio come nella circolazione delle merci. Se basassi il plusvalore sulla singola successione, allora A potrebbe vendere direttamente a B e la possibilità di plusvalore cadrebbe.
Poniamo che A e B comprino direttamente merci uno dall'altro. Circa il valore d'uso, ambi possono guadagnare: anzi A può produrre più merce di quanta B ne produrrebbe in pari tempo e viceversa, e così ambi guadagnano. Ma le cose sono diverse circa il valore di scambio. Qui sono scambiate l'una contro l'altra uguali grandezze di valore, benché intervenga il denaro come mezzo di circolazione (pp. 187-188).
Da un punto di vista astratto, nella circolazione semplice delle merci, oltre la sostituzione d'un valore d'uso con un altro, c'è solo un cambio di forma della merce. Finché essa implica solo un cambio di forma del suo valore di scambio allora determina uno scambio d'equivalenti (purché il fenomeno capiti allo stato puro). Le merci possono essere vendute a prezzi lontani dai loro valori, ma solo se si infrange la legge dello scambio di merci. Nella sua forma pura, lo scambio è uno scambio d'equivalenti, indi non è un mezzo per arricchirsi (pp. 188-189).
Di qui l'errore di tutti i tentativi di far derivar il plusvalore dalla circolazione della merce. Cfr. Condillac e Newman (pp. 189-190).
Ma ammettiamo che lo scambio capiti in modo non puro: scambiando dei non-equivalenti. Poniamo che ogni venditore venda le sue merci a un 10% al di sopra del loro valore. Resta tutto uguale: quanto uno guadagna come venditore, lo perde come compratore. Proprio come se il valore del denaro fosse mutato del 10%. Sarebbe lo stesso se i compratori acquistassero tutto a un 10% al di sotto del valore (Torrens) (pp. 190-191).
L'ipotesi che il plusvalore nasca da un aumento dei prezzi presuppone che esista una classe che acquisti solo senza vendere, cioè che consumi senza produrre, alla quale affluisca continuamente il denaro gratuitamente. Vender le merci al di sopra del valore a tale classe significa riprendersi solo in parte, con inganno, il denaro dato via gratuitamente (Asia Minore e Roma). Con ciò il venditore resta sempre truffato senza arricchirsi o formar plusvalore.
Poniamo il caso della truffa. A vende a B vino per un valore di 40£ in cambio di grano per il valore di 50. A ha guadagnate 10. Ma complessivamente A + B hanno solo 90, e A ha 50 e B solo 40. Il valore è stato trasmesso ma non creato. L'insieme della classe dei capitalisti di un Paese non può sfruttare sé stessa (pp. 191-192).
Così non si crea plusvalore né se si scambiano equivalenti né non-equivalenti. La circolazione delle merci non crea alcun nuovo valore.
Perciò non badiamo alle forme più antiche e note del capitale (capitale commerciale e capitale usurario). Se la truffa non spiega valorizzazione del capitale commerciale allora servono molti termini intermedi qui non appalesatesi. Ciò vale di più pel capitale usurario e il capitale che frutta interesse. Il prosieguo spiegherà come ambi sono forme derivate del capitale moderno e perché sono apparse storicamente prima.
Così il plusvalore non può derivare dalla circolazione. E fuori di essa?
Fuori dalla circolazione, il possessore di merci è semplice produttore della sua merce, il cui valore dipende dalla quantità del suo lavoro ivi contenuto, misurata secondo certe leggi sociali. Tale valore è espresso in moneta di conto, p. es. in un prezzo di 10£. Ma tale valore non è al contempo un valore di 11£; il suo lavoro crea valori, ma non valori che si valorizzano. Può aggiunger più valore al valore attuale solo con l'aggiunta di più lavoro. Così, fuori dalla sfera della circolazione, il produttore di merci non può produrre alcun plusvalore senza venir a contatto con altri possessori di merci. Perciò il capitale deve sorgere al contempo nella circolazione delle merci e fuori di essa (pp. 193-194).
Così: la trasformazione del denaro in capitale va spiegata secondo leggi intrinseche allo scambio di merci tali che il punto di partenza sia lo scambio di equivalenti. Il nostro possessore di denaro, al momento solo bruco di capitalista, deve comprare le merci al loro valore, venderle al loro valore, eppure alla fine del processo ricavarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Il suo evolversi in farfalla deve verificarsi entro la sfera della circolazione eppure fuori di essa. Queste sono le condizioni del problema. «Hic Rhodus, hic salta11» (p. 194).
Il cambio di valore del denaro che deve mutarsi in capitale non può avvenire nel denaro stesso, poiché quale mezzo di acquisto il denaro realizza solo il prezzo della merce, mentre (finché resta denaro) non muta la sua grandezza di valore; e pure la rivendita fa solo tornare la merce dalla sua forma naturale alla forma di denaro. Il cambio deve allora avvenire nella merce in D-M-D! Ma non nel valore di scambio di essa, poiché sono scambiati equivalenti; il cambio può provenire solo dal valore d'uso della merce in quanto tale, cioè dal suo consumo. Per questo ci vuole una merce il cui stesso valore d'uso abbia la proprietà di essere fonte di valore di scambio.
Questa è la forza-lavoro (p. 194).
Ma affinché il possessore di denaro trovi sul mercato la forza-lavoro come merce, tale forza-lavoro va venduta dal suo possessore quale libero proprietario della forza-lavoro. Poiché ambi, acquirente e venditore, sono persone uguali giuridicamente allora la forza-lavoro deve essere venduta solo temporaneamente, poiché il venditore non sarebbe più venditore se la vendesse en bloc12, bensì diverrebbe lui stesso merce. Allora è necessario che il possessore non possa vendere merci nelle quali sia oggettivato il suo lavoro, ma sia in situazione di dover vender la sua stessa forza-lavoro come merce (p. 195).
Indi per mutar il denaro in capitale il possessore di denaro deve trovar sul mercato il lavoratore libero quale merce, libero in duplice senso: che disponga della propria forza-lavoro come propria merce e che non abbia da vendere altre merci; è privo e spoglio, privo di tutte le cose che occorrono per realizzare la sua forza-lavoro (p. 195).
Il rapporto fra possessori di denaro e possessori di forza-lavoro non è un rapporto naturale o sociale comune a tutte le epoche, ma è un rapporto storico: il prodotto di molte rivoluzioni economiche. Pure le categorie economiche finora esaminate recano le tracce della loro storia. Per divenir merce il prodotto non deve più essere prodotto come diretto mezzo di sussistenza. La massa dei prodotti può assumere la forma di merce solo all'interno di uno specifico modo di produzione, quello capitalistico, benché la produzione e la circolazione delle merci possano già capitar dove mai la massa dei prodotti diviene in merce. Il denaro, come sopra, può esister in tutti i periodi aventi raggiunto un certo livello dello scambio di merci; le forme particolari di denaro, dal semplice equivalente fino alla moneta universale, presuppongono diversi stadi di sviluppo, benché per produrle tutte basti una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata. Viceversa il capitale nasce solo dalla condizione suddetta, e questa sola condizione racchiude tutta una storia universale (p. 196).
La forza-lavoro ha un valore di scambio che viene determinato come quello di tutte le altre merci: dal tempo di lavoro necessario per produrla e anche per riprodurla. Il valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza necessari per conservar il suo possessore atto a lavorare normalmente. Tali mezzi di sussistenza si regolano secondo il clima, secondo le condizioni naturali etc. nonché secondo lo standard of life13 storicamente dato per ogni Paese. Tali aspetti possono variar, ma per un dato Paese e per un dato periodo sono fissi. Inoltre includono i mezzi di sussistenza delle forze di ricambio, cioè i figli dei lavoratori, onde si perpetui la genia di questi particolari possessori di merce. Inoltre includono le spese d'istruzione pel lavoro qualificato (p. 197).
Il limite minimo del valore della forza-lavoro è il valore dei mezzi di sussistenza fisiologicamente indispensabili. Se il prezzo della forza-lavoro scende a tal minimo allora scende al di sotto del suo valore, poiché questo presuppone una qualità normale della forza-lavoro e non ristretta e ridotta (p. 199).
La natura del lavoro implica che la forza-lavoro sia consumata solo dopo la conclusione del contratto e, poiché per siffatte merci il mezzo di pagamento è perlopiù il denaro, in tutti i Paesi dove prevale il modo di produzione capitalistico la forza-lavoro è pagata solo dopo che è stata fornita. Indi il lavoratore fa ovunque credito al capitalista (p. 199).
Il processo di consumo della forza-lavoro è al contempo processo di produzione di merce e di plusvalore, e tale consumo avviene fuori dalla sfera della circolazione (p. 200).
L'acquirente della forza-lavoro la consuma facendo lavorare il suo venditore. Tale lavoro, per rappresentar una merce, rappresenta anzitutto valori d'uso, e in tale sua peculiarità è indipendente dal rapporto specifico fra capitalista e lavoratore...
Descrizione del processo lavorativo in quanto tale (pp. 211-216).
Il processo lavorativo su base capitalistica ha due peculiarità: 1) l'operaio lavora sotto il controllo del capitalista; 2) il prodotto è proprietà del capitalista, poiché il processo lavorativo è ora solo un processo di due cose comprate dal capitalista: la forza-lavoro e i mezzi di produzione (p. 217).
Ma il capitalista non pretende il valore d'uso in quanto prodotto per sé, bensì in quanto depositario del valore di scambio e specialmente del plusvalore.
Come la merce è unità di valore d'uso e valore di scambio, così il lavoro diviene unità di processo di produzione e processo di formazione di valore (p. 218).
Ora c'è da ricercare la quantità di lavoro oggettivata nel prodotto. Es. Filati. Per la loro preparazione siano necessari 10 libbre di cotone, diciamo 10 scellini; per i mezzi di lavoro (la massa di fusi che si usurano nella filatura, che ivi stanno per tutti gli altri mezzi di lavoro) siano da contar 2 scellini. Così nel prodotto sono entrati 12 scellini per i mezzi di produzione, cioè tostoché [1] il prodotto è divenuto un vero valore d'uso (in questo caso filati) e tostoché [2] in tali mezzi di lavoro è stato rappresentato solo il tempo di lavoro socialmente necessario.
Quanto serve aggiunger per il lavoro del filatore?14
Qui serve considerar il processo lavorativo da un diverso punto di vista. I lavori legati alla coltivazione del cotone, alla fabbricazione dei fusi, alla filatura etc. sono come parti commensurabili (posti qualitativamente uguali a lavoro generalmente umano, necessario, creatore di valore) perciò nel valore del prodotto tali lavori si differenziano solo sul piano quantitativo e quantitativamente sono concepibili per la durata di tempo. Beninteso: solo un tempo lavorativo socialmente necessario, quel solo che sia creatore di valori.
Poniamo: che il valore giornaliero della forza-lavoro sia 3 scellini; che questo rappresenti 6 ore di lavoro; che in 1 ora si fabbrichi 1 ⅔ libbra di filato. Allora in 6 ore avremo 10 libbre di filato da 10 libbre di cotone (come sopra), così in 6 ore viene aggiunto un valore di 3 scellini e il prodotto avrà un valore di 15 scellini (= 10 + 2 + 3), cioè 1 scellino e 6 pence per libbra di filato.
Ma ivi non c'è plusvalore.
Ciò non può servir ai capitalisti (frottole dell'economia volgare, pp. 221-222).
Si è supposto che il valore giornaliero della forza-lavoro fosse di 3 scellini, perché vi è oggettivata mezza giornata di lavoro cioè 6 ore. Ma il fatto che sia uopo mezza giornata lavorativa per mantener l'operaio per 24 ore non gli impedisce affatto di lavorare per una giornata intera. Il valore della forza-lavoro è diverso dalla valorizzazione della forza-lavoro. La sua qualità utile era solo una conditio sine qua non; invece era decisivo il valore d'uso specifico della forza-lavoro, fonte di più valore di scambio di quanto ne abbia essa stessa (pp. 156-157).
Ebbene l'operaio lavora 12 ore, fila 20 libbre di cotone, pari a 20 scellini, e 4 scellini di fusi, e il suo lavoro costa 3 scellini = 27 scellini. Ma nel prodotto sono oggettivate 4 giornate lavorative in fusi e cotone, e 1 giornata lavorativa del filatore = 5 giorni a 6 scellini = 30 scellini di valore del prodotto. Ecco qui il plusvalore di 3 scellini: il denaro è trasformato in capitale (p. 223-224). Tutti i termini del problema sono soddisfatti (particolari, p. 224).
Il processo di valorizzazione è il processo lavorativo come processo di creazione di valore allorché prolungato oltre il punto in cui esso fornisce un semplice equivalente per il valore pagato della forza-lavoro.
Il processo di creazione di valore è diverso dal semplice processo lavorativo poiché il processo lavorativo è considerato qualitativamente e il processo di creazione di valore è considerato quantitativamente cioè solo in quanto contiene tempo di lavoro socialmente necessario (p. 224). Particolari (p. 225). Il processo di produzione (qual unità di processo lavorativo e processo di creazione di valore) è produzione di merci; e qual unità di processo lavorativo e processo di valorizzazione è processo di produzione capitalistico di merci (p. 225). Riduzione dal lavoro complesso al semplice (pp. 225-226).
Il processo lavorativo aggiunge nuovo valore all'oggetto del lavoro, però trasferisce al contempo il valore dell'oggetto del lavoro nel prodotto, cioè lo conserva con semplice aggiunta di nuovo valore. Tale doppio risultato è raggiunto così: lo specifico carattere utile e qualitativo del lavoro muta un valore d'uso in un altro valore d'uso, e con ciò conserva il valore; ma il carattere creatore di valore, astrattamente generale e quantitativo del lavoro aggiunge valore (p. 232). Es. Si sestuplichi la produttività del lavoro di filatura. Come lavoro utile (qualitativo) conserva nello stesso tempo i mezzi di lavoro sestuplicati. Ma aggiunge solo lo stesso valore nuovo di prima, cioè in ogni libbra di filato c'è solo ⅙ del nuovo valore aggiunto precedentemente. Pure come lavoro creatore di valore non rende più di prima (p. 233). Il contrario capita se la produttività del lavoro di filatura resta uguale mentre sale il valore del mezzo di lavoro (p. 234). Il mezzo di lavoro dà al prodotto solo il valore che esso stesso perde (p. 235). E ciò avviene in grado differente. Carbone, lubricants15 etc. sono consumati affatto. Le materie prime assumono forme nuove. Strumenti, macchine etc. cedono valore solo in modo lento e parziale e l'usura si calcola in base all'esperienza (p. 235). L'attrezzo resta sempre intero nel processo lavorativo indi esso conta interamente nel processo lavorativo e parzialmente nel processo di valorizzazione; indi la diversità fra i due processi ivi si riflette sui loro fattori oggettivi (p. 236).
Viceversa, la materia prima che dà scarto entra per intero nel processo di valorizzazione e in parte nel processo lavorativo, poiché appare nel prodotto con in meno lo scarto (p. 236).
Ma in nessun caso il mezzo di lavoro può cedere più valore di scambio di quello che esso stesso aveva: nel processo lavorativo serve solo come valore d'uso cioè può cedere solo il valore di scambio che possedeva già prima (pp. 236-237).
Tale conservazione del valore rende molto al capitalista e non gli costa nulla (p. 237). Ma è solo riapparizione del valore conservato già presente prima; solo il processo lavorativo aggiunge nuovo valore. E nella produzione capitalistica c'è plusvalore: eccedenza del valore del prodotto sul valore dei suoi fattori che si sono consumati (mezzi di produzione e forza-lavoro, pp. p. 237).
Con ciò sono descritte le forme di esistenza assunte dal valore iniziale del capitale allorché svestito della sua forma di denaro e trasformato nei fattori del processo lavorativo: 1) nell'acquisto di mezzi di lavoro e, 2) nell'acquisto di forza-lavoro.
Dunque, il capitale investito in mezzi di lavoro non altera la propria grandezza di valore nel processo di produzione; lo definiamo capitale costante.
La parte investita nella forza-lavoro altera il proprio valore e riproduce: 1) il proprio valore e, 2) il plusvalore; lo definiamo capitale variabile (p. 238).
Il capitale è costante solo in relazione al singolo processo di produzione nel quale esso non si altera: può consistere ora in più ora in meno mezzi di lavoro e i mezzi di lavoro acquistati possono salire o calare di valore, ma ciò non tocca il loro rapporto con il processo di produzione (p. 239). Ugualmente può mutare la percentuale in cui un dato capitale si divide in costante e variabile, ma in ogni caso dato ‛c’ rimane costante e ‛v’ variabile (pp. 239-240).
[Poniamo] C = 500 £ = 410 c + 90 v. Alla fine del processo lavorativo, in cui v è trasformato una volta in forza-lavoro, si ha 410 c + 90 v + 90 p = 590. Poniamo che 410 c consti di: 312 di materie prime; 44 di materie ausiliarie e 54 di logoramento delle macchine. Ma il valore di tutto il macchinario sia di 1054. Se questo fosse calcolato interamente allora si avrebbe per c 1410 da tutte e due le parti, il plusvalore sarebbe sempre 90 come prima (p. 243).
Poiché il valore di c nel prodotto è solo riapparizione, il valore del prodotto conservato differisce dal prodotto in valore generato nel processo. Cioè il valore generato non è c + v + p bensì v + p. Cioè per il processo di valorizzazione è indifferente la grandezza di c. Ciò vale pure nella pratica del calcolo commerciale, p.es. nel calcolo del guadagno d'un Paese industriale nel quale è tolto il prezzo delle materie prime importate (p. 245). Il rapporto fra plusvalore e capitale totale è trattato nel Libro III.16
Così: il saggio del plusvalore è p/v. Nel caso precedente è 90/90= 100%.
Il tempo di lavoro in cui l'operaio riproduce il valore della sua forza-lavoro (in situazioni capitalistiche o in altre) è lavoro necessario. Il tempo di lavoro in sovrappiù che crea plusvalore per il capitalista è pluslavoro (p. 246). Il plusvalore è pluslavoro coagulato e solo la forma in cui viene estorto [poiché è sempre stato estorto] distingue i diversi tipi di società. Esempio dell'errore di includere nel calcolo c (pp. 251-254. Senior). La somma del lavoro necessario & del pluslavoro è la giornata lavorativa.
Il tempo di lavoro necessario è fisso. Il pluslavoro è variabile, ma entro certi limiti. Né può essere zero (o non sarebbe produzione capitalistica); né ventiquattro ore al giorno (per ragioni fisiche); e il limite massimo è sempre condizionato da ragioni morali. Ma tali limiti variano sempre. L'esigenza economica è che la giornata lavorativa non duri tanto da logorare l'operaio più del normale. Ma cosa è normale? C'è un'antinomia e solo la forza può decidere. Donde la lotta fra classe operaia e classe capitalistica sulla giornata lavorativa normale (pp. 260-263).
Pluslavoro nelle epoche sociali precedenti. Finché il valore di scambio non cale più del valore d'uso, il pluslavoro è più modesto, p. es. appo gli antichi il pluslavoro fu eccessivo solo ove fosse prodotto direttamente valore di scambio: oro e argento (p. 263). Lo stesso valse negli Stati schiavisti d'America finché non si produsse cotone per l'esportazione. Lo stesso valse per le corvé, p. es. in Romania.
Il lavoro di corvé è il miglior termine di paragone con lo sfruttamento capitalistico poiché appalesa il pluslavoro come tempo lavorativo da fornire a parte. Règlement organique della Valacchia (pp. 265-265).
Come il Règlement è un'espressione positiva dell'avidità di pluslavoro, così i Factory Acts ne sono espressioni negative.
I Factory Acts. Quello del 1850 (p. 266). 10 ½ ore e 7 ½ il sabato (60 ore settimanali). Profitto dei fabbricanti inosservanti (pp. 266-267).
Sfruttamento in settori non limitati o limitati solo in seguito: manifatture di merletto (p. 268), ceramica (p. 269), fiammiferi (p. 270), tappeti (p. 271), panificazione (pp. 272-274), ferrovieri (p. 275), cucitrici (p. 275), fabbri (p. 275), lavoratori diurni e notturni in shifts17, industrie siderurgiche e metallurgiche (pp. 278-281).
Questi fatti provano per il capitale l'operaio è solo forza-lavoro e tutto il suo tempo è tempo di lavoro, benché ciò sia possibile solo in certi momenti e condizioni: al capitale non cale quanto duri la vita della forza-lavoro (p. 282). Ma ciò non è contro l'interesse del capitalista? Come sostituire chi è tosto logorato? Come il commercio schiavistico interno statunitense ha elevato a principio economico il tosto logoramento degli schiavi, così in Europa il trasferimento di operai dai distretti rurali etc. (p. 283).
Poorhouse supply18 (p. 284).
Il capitalista vede solo la sovrappopolazione sempre disponibile e la logora. Che la razza vada in malora: «après moi le déluge19». Al capitale non cale la salute e la durata della vita dell'operaio, salvo esservi obbligato dalla società; e la libera concorrenza impone le leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive esterne nei confronti del singolo capitalista (p. 285).
La fissazione di una giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta plurisecolare fra capitalista e operaio.
Inizialmente ci furono leggi per aumentare il tempo lavorativo, ora per diminuirlo (p. 285). Il primo Statuto dei lavoratori fu emanato nel 23° anno del regno di Edoardo III (1349) col pretesto che la peste avesse decimato la popolazione tanto che ognuno avrebbe dovuto lavorare di più. Così furono stabiliti per legge i massimi dei salari e i limiti della giornata lavorativa. Nel 1496, sotto Enrico VII, la giornata lavorativa estiva (da marzo fino a settembre) per tutti i lavoratori agricoli e gli artigiani (artificers) andava dalle 5 fino alle 19 e le 20 con intervalli di 1 ora, 1 ½ ora e ½ ora (pari a 3 ore). In inverno dalle 5 fino al buio. Tale Statuto non fu applicato con rigore. Ancora nel ‛700 secolo l'intero lavoro settimanale non era a disposizione del capitale (salvo i lavoratori agricoli). Vedi polemica coeva (pp. 287-288). Solo con la grande industria si riuscì ad attuarlo e anche di più: essa abolì ogni limite e sfruttò l'operaio nel modo più infame. Il proletariato reagì allorché iniziò a riaversi. I cinque Atti del 1802-1833 sono nominali poiché senza ispettori. Solo l'Atto del 1833 creò per le quattro industrie tessili una giornata lavorativa normale: dalle 5,30 fino alle 20,30, tempo durante cui gli adolescenti (young persons: dai 13 ai 18 anni) potevano venire occupati solo 12 ore e con un intervallo di 1 ½ ora. I bambini dai 9 ai 13 anni solo 8 ore, e il lavoro notturno dei bambini e degli adolescenti fu proibito (p. 290).
Sistema a relais20, e suoi abusi per eluderlo (p. 291). Infine l'Atto del 1844, che eguaglia le donne di ogni età agli adolescenti, fissa il lavoro dei bambini in 6 ½ ore, mettendo così un freno agli abusi del sistema a relais. Ma sono ammessi bambini di 8 anni. Nel 1847, infine, fu emanato il Bill delle 10 ore per le donne e per gli adolescenti (p. 294). Tentativi dei capitalisti contro di esso (p. 295). Un flaw21 nell'atto del 1847 permise poi l'Atto di compromesso del 1850 (p. 300) che fissò la giornata di lavoro degli adolescenti e delle donne: 5 giorni a 10 ½ ore e 1 giorno a 7 ½ ore (60 ore settimanali), di preciso fra le 6 e le 18. Così l'Atto del 1844 in vigore per i bambini. L'eccezione per i fabbricanti di seta (p. 301). Nel 1853 pure il tempo lavorativo dei bambini fu limitato fra le 6 e le 18 (p 302).
Il Printworks Act22 del 1845 non limita quasi nulla: bambini e donne possono lavorare 16 ore!
L'Atto sulle fabbriche colpisce officine di candeggio e tintorie nel 1860, manifatture di merletti nel 1861, manifatture di ceramiche e tanti altri rami nel 1863; per gli stabilimenti di candeggio all'aria aperta e per i forni furono emanate leggi speciali nello stesso anno (p 302).
Così è dalla grande industria che nasce il bisogno di limitare il tempo lavorativo, ma poi si trova che lo stesso superlavoro si è esteso a poco a poco pure a tutti gli altri rami (p. 303).
Inoltre la storia espone che, specie con l'introduzione del lavoro muliebre e infantile, il singolo lavoratore “libero” è indifeso contro il capitalista, ed è da ciò si sviluppa la lotta di classe fra operai e capitalisti (p. 304).
In Francia si arriva alla legge delle 12 ore per tutte le età e tutti i settori lavorativi solo nel 1848 (salvo la legge francese del 1841 sul lavoro infantile, cfr. nota a p. 213, che fu applicata in pratica solo nel 1853, e comunque unicamente nel Département du Nord). In Belgio completa “libertà del lavoro”! In America il movimento per le 8 ore (p. 304).
Così dal processo di produzione l'operaio esce affatto diverso da come vi era entrato. Il contratto di lavoro non è stato l'atto di un libero agente; il tempo per cui può vendere liberamente la sua forza-lavoro è il tempo per il quale egli è costretto a venderla, e solo l'opposizione di massa degli operai conquista per loro una legge dello Stato che impedisca loro di vendere alla morte e alla schiavitù sé stessi e la propria stirpe con un contratto volontario con il capitale. Al pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell'uomo subentra la modesta Magna Charta della legge sulle fabbriche (p. 305).
Insieme al saggio è determinata pure la massa del plusvalore. Se il valore giornaliero di una forza-lavoro è di 3 scellini e il saggio del plusvalore è del 100%, allora la sua massa giornaliera è di 3 scellini per un operaio.
1. Se il capitale variabile è l'espressione in denaro del valore di tutte le forze-lavoro occupate al contempo da un capitalista, allora la massa del plusvalore prodotta da esse è uguale al capitale variabile moltiplicato per il saggio del plusvalore. Ambi i fattori possono mutare, derivando varie combinazioni. La massa del plusvalore può crescere pure con un capitale variabile in diminuzione se il saggio cresce: cioè prolungando la giornata lavorativa (p. 333).
2. Tale aumento del saggio del plusvalore ha dei limiti assoluti poiché la giornata lavorativa non è prolungabile fino a 24 ore piene; indi il valore della produzione giornaliera di un operaio è sempre meno del valore di 24 ore di lavoro. Solo entro tali limiti si può sostituir il capitale variabile con un accresciuto sfruttamento del lavoro per ottener un'uguale massa di plusvalore. Ciò serve a spiegar vari fenomeni derivanti dalla tendenza contraddittoria del capitale: a) ridurre il capitale variabile e il numero di operai occupati; b) produrre comunque la maggior massa possibile di plusvalore (p. 334).
3. Le masse di valore e plusvalore prodotte da capitali diversi, con un valore noto e con un uguale grado di sfruttamento della forza-lavoro, variano in modo direttamente proporzionale al variare delle grandezze delle parti variabili di tali capitali (p. 335). Ciò appare contrario a ogni evidenza.
Date una società e una giornata lavorativa, il plusvalore può aumentare solo aumentando il numero degli operai, cioè la popolazione operaia. Dato un numero di operai, il plusvalore può aumentare solo prolungando la giornata lavorativa. Ma bada: ciò vale solo per il plusvalore assoluto.
Ora si capisce che non ogni somma di denaro può trasformarsi in capitale perché esiste un minimo: il prezzo di costo di una singola forza-lavoro e dei mezzi di lavoro necessari. Per poter vivere egli stesso come operaio, con un saggio di plusvalore al 100% dovrebbe avere già 2 operai e ancora non risparmierebbe nulla. Pure con 8 resta sempre un piccolo padrone. Per tali ragioni nel Medioevo s'impediva con la forza al maestro artigiano di divenir capitalista, limitando il numero dei suoi apprendisti. La ricchezza minima esatta per formar un autentico capitalista varia secondo i diversi periodi e i diversi rami di produzione (pp. 336-337).
Il capitale si è mutato in comando sul lavoro e vigila che si lavori in modo regolare e intensivo. Inoltre obbliga gli operai a svolger più lavoro di quello d'uopo per la loro sussistenza e, nel pompare plusvalore, supera tutti i passati sistemi di produzione fondati sul lavoro forzato diretto (p. 337).
Il capitale s'è impadronito del lavoro sotto condizioni tecniche date, le quali all'inizio non muta. Così studiando il processo di produzione dal punto di vista del processo lavorativo, l'operaio non adopera i mezzi di produzione come capitale, bensì come mezzo della propria attività produttiva conforme allo scopo. Ma studiando il processo di produzione dal punto di vista del processo di valorizzazione, le cose stanno diversamente. I mezzi di produzione si trasformano immediatamente in mezzi... di assorbimento di lavoro altrui. Non è più l'operaio che adopera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che adoperano l'operaio (p. 338). Anziché essere consumati da lui, essi lo consumano come fermento del loro processo vitale, e il processo vitale del capitale consiste nel suo movimento di valore che valorizza sé stesso. La pura trasformazione del denaro in mezzi di produzione muta tali mezzi in titolo giuridico e diritto di comando sul lavoro e sul pluslavoro altrui.
Data una giornata lavorativa, il pluslavoro si può aumentar solo riducendo il tempo di lavoro necessario, ma (escludendo la riduzione del salario al di sotto del suo valore) ciò sarebbe ottenibile solo riducendo il valore del lavoro, cioè riducendo il prezzo dei mezzi di sussistenza necessari (p. 342). Ciò a sua volta si ottiene solo aumentando la forza produttiva del lavoro, rivoluzionando lo stesso modo di produzione.
Il plusvalore prodotto prolungando la giornata lavorativa è plusvalore assoluto. Il plusvalore prodotto accorciando il tempo di lavoro è plusvalore relativo (p. 344).
Per ridurre il valore della forza-lavoro, l'aumento della forza produttiva deve impadronirsi di quei rami dell'industria i cui prodotti determinano il valore della forza-lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza abituali, di loro possibili surrogati e delle loro materie prime etc. Ciò prova come la concorrenza appalesi l'aumentata forza produttiva nel prezzo più basso delle merci (pp. 344-347).
Il valore delle merci è in rapporto inverso alla forza produttiva del lavoro, e così pure è il valore della forza-lavoro in quanto determinato dai valori delle merci. Invece il plusvalore relativo è in rapporto diretto alla forza produttiva del lavoro (p. 347).
Al capitalista non cale il valore assoluto della merce, ma solo il plusvalore in essa. La realizzazione di plusvalore implica di per sé il recupero del valore anticipato. Che (p. 348) lo stesso processo di sviluppo della forza produttiva riduca in rapporto inverso il valore delle merci e aumenti il plusvalore in essa contenuto in rapporto diretto spiega perché il capitalista (cui cale solo la produzione di valori di scambio) cerchi sempre di far scendere il valore di scambio delle merci. Cfr. Quesnay (p. 348).
Nella produzione capitalistica l'economia di lavoro tramite lo sviluppo della forza produttiva non mira affatto ad accorciare la giornata lavorativa; la quale può anzi essere prolungata. Così si può leggere in qualche pagina di economisti del calibro di un McCulloch, di un Ure, di un Senior e tutti quanti, che l'operaio deve ringraziare il capitalista per lo sviluppo delle forze produttive e (girata pagina) che deve esibire tale gratitudine lavorando in futuro 15 ore anziché 10. Invero tale sviluppo delle forze produttive ha lo scopo di accorciare il lavoro necessario e prolungare il pluslavoro (non pagato) per i capitalisti (p. 348).
Pella produzione capitalistica serve un capitale individuale grande da impiegar al contempo un numero assai alto di operai (p. 351). Il datore di lavoro diviene un completo capitalista solo allorché è affatto esente dal lavoro. L'operare di un numero alto di operai al contempo, nello stesso campo di lavoro, per produrre uno stesso tipo di merce sotto il comando dello stesso capitalista è il punto di partenza storico e logico della produzione capitalistica (p. 351).
Così all'inizio la differenza è solo quantitativa rispetto a prima (quando un datore di lavoro occupava meno operai). Ma tosto qualcosa muta. Già la copiosità degli operai garantisce che il datore riceva effettivamente lavoro medio; cosa che non avviene col piccolo padrone che però deve comunque pagare il valore medio del lavoro: le disuguaglianze si compensano a livello sociale, non a livello del singolo mastro artigiano. Pel singolo produttore la legge della valorizzazione si attua appieno solo se ei produca come capitalista, cioè se impieghi al contempo molti operai onde metta in moto fin dal principio il lavoro sociale medio (pp. 351-352).
Inoltre: economia nell'uso dei mezzi di produzione solo con la grande impresa, minore cessione di valore di parti di capitale costante al prodotto, che deriva solo dal loro consumo comune nel processo lavorativo di più persone. Così i mezzi di lavoro acquistano un carattere sociale prima che lo acquisti lo stesso processo lavorativo (finora mera successione di processi dello stesso tipo, p. 353).
Qui l'economia dei mezzi di produzione va stimata solo in quanto fa ribassare il prezzo delle merci e con ciò abbassa il valore del[la forza-]lavoro. Solo il Libro III tratterà come [tale economia] alteri il rapporto fra il plusvalore e il capitale complessivo anticipato (c + v). Tale scomposizione è propria dello spirito della produzione capitalistica: facendo sì che le condizioni di lavoro si contrappongano da sole all'operaio, pure la loro economia pare come un'operazione particolare che non lo caglia e perciò è distinta dai metodi per accrescer la produttività della forza-lavoro consumata dal capitale.
La forma del lavoro di molte persone, che lavorano l'una accanto all'altra o l'una con l'altra nello stesso processo produttivo o in processi produttivi connessi, si chiama cooperazione (p. 354). (Concours de forces, Destutt de Tracy).
La somma meccanica delle forze dei singoli operai è sostanzialmente diversa dal potenziale meccanico di forza che si sviluppa allorché molte braccia cooperino al contempo a una singola operazione (es. sollevar un peso). La cooperazione crea fin dall'inizio una forza produttiva, che è in sé e per sé forza di massa.
Inoltre il semplice contatto sociale genera, nella maggior parte dei lavori produttivi, un'emulazione che accresce il rendimento dei singoli. Cioè: 12 operai forniscono in una giornata lavorativa comune (144 ore) un prodotto maggiore di quello di 12 operai in 12 ore distinte o di un operaio che lavori 12 giorni di fila (p. 354).
Benché molte persone facciano la stessa operazione (o operazioni dello stesso tipo), il lavoro individuale d'ognuno può costituir fasi diverse del processo lavorativo (catena di persone che si passano qualcosa), fasi in cui di nuovo la cooperazione risparmia lavoro.
Lo stesso vale allorché si inizia una costruzione al contempo da parti diverse. L'operaio combinato (o operaio complessivo) ha mani e occhi davanti e dietro; possiede in certa misura il dono dell'ubiquità (pp. 354-355).
Nei processi di lavoro complessi, la cooperazione permette di ripartire i processi semplici, effettuandoli al contempo accorciando così il tempo di lavoro che serve per fabbricare il prodotto complessivo (p. 355).
Molti rami della produzione hanno momenti critici che necessitano di tanti operai (es. i raccolti, la pesca delle aringhe etc.). Solo la cooperazione può risolver tali momenti (p. 355).
Da un lato la cooperazione amplia il campo della produzione (indi diviene uopo per lavori ove c'è una vasta continuità spaziale del campo di lavoro: prosciugamenti dei terreni; costruzione di strade, di argini...); dall'altro lo contrae concentrando gli operai in un locale, il che risparmia le spese (p. 355).
In tutte queste forme la cooperazione è la forza produttiva specifica della giornata lavorativa combinata, la forza produttiva sociale del lavoro. Quest'ultima proviene dalla cooperazione stessa. Nella cooperazione pianificata con altri l'operaio si libera dei suoi limiti individuali e sviluppa le qualità della sua specie.
Non può esserci cooperazione fra salariati senza che il capitalista stesso al contempo li impieghi, li paghi e li provveda di mezzi di lavoro. Onde il grado di cooperazione dipende da quanto capitale abbia un capitalista. La condizione per far del proprietario un capitalista (che esista una certa grandezza minima del capitale individuale) diviene ora condizione materiale per trasformar molti lavori individuali, indipendenti e dispersi, in un processo lavorativo sociale combinato.
Parimenti pure il comando del capitale sul lavoro (che finora appariva solo come conseguenza formale del rapporto fra capitalista e operaio) diviene ora condizione necessaria per il processo lavorativo stesso; il capitalista rappresenta appunto la combinazione del processo lavorativo. Nella cooperazione la direzione del processo lavorativo diviene funzione del capitale e come tale riceve caratteri particolari (p. 357). Tale direzione (conforme allo scopo della produzione capitalistica: massima autovalorizzazione del capitale) è al contempo funzione del maggiore sfruttamento possibile di un processo lavorativo sociale e perciò una conseguenza dell'inevitabile antagonismo fra sfruttatore e sfruttato. Inoltre cresce la necessità di vigilare che i mezzi di produzione siano adoperati nel modo giusto. Infine la connessione delle funzioni dei singoli operai sta al di fuori di loro, nel capitale, onde l'unità dei loro lavori si presenta loro come autorità del capitalista, come volontà estranea. Così, la direzione capitalistica è dalla natura duplice (1: processo lavorativo sociale volto alla fabbricazione di un prodotto; 2: processo di valorizzazione del capitale) e dalla forma dispotica. Tale dispotismo sviluppa poi le sue forme peculiari: tostoché esentato dal lavoro manuale, il capitalista cede la vigilanza a una banda di ufficiali e sottufficiali che sono pure essi salariati del capitale. Nelle società schiavili tali spese di sorveglianza sono messe fra i faux frais23 dagli economisti; invece nel modo di produzione capitalistico gli economisti identificano la direzione (poiché conseguenza dello sfruttamento) con la stessa funzione (poiché proprio connaturata al processo lavorativo sociale) (p. 358).
Nell'industria il comando supremo diventa attributo del capitale come nell'età feudale il comando supremo in guerra e in tribunale era attributo della proprietà fondiaria (p. 358).
Il capitalista paga 100 forze-lavoro singole e riceve in cambio una forza-lavoro combinata di 100 operai; senza pagar la forza lavoro combinata dei 100 operai. Entrando nel processo lavorativo combinato, gli operai cessano di appartenere a sé stessi. Si incorporano nel capitale. Così la forza produttiva sociale del lavoro appare come forza produttiva immanente del capitale (pp. 358-359).
Esempi di cooperazione appo gli antichi egizi etc. (p. 359).
Agli inizi della civiltà (appo i popoli cacciatori, nomadi o fra le comunità indiane) la cooperazione naturale poggia: 1) sulla proprietà comune delle condizioni di produzione; 2) sul naturale attaccamento dei singoli alla tribù e alla comunità primitiva. L'uso sporadico della cooperazione nel mondo antico, nel Medioevo e nelle moderne colonie, poggia su rapporti immediati di signoria e servitù, e perlopiù sulla schiavitù. Invece la cooperazione capitalistica esige il libero operaio salariato. Storicamente la cooperazione appare in diretto contrasto con l'economia contadina e l'attività artigiana indipendente (corporativa o no); cioè appare specifica forma storica del processo di produzione capitalistico, distinguendolo peculiarmente. Essa è il primo mutamento cui va incontro il processo lavorativo in seguito alla sua subordinazione al capitale. Così: 1) il modo di produzione capitalistico si presenta come una necessità storica per mutar il processo lavorativo in un processo sociale, ma 2) tale forma sociale del processo lavorativo appare pure come un metodo usato dal capitale per sfruttare con maggior profitto quello stesso processo tramite l'aumento delle sue forze produttive (p. 360).
Nella sua forma semplice finora esaminata, la cooperazione coincide con la produzione su grande scala, ma non costituisce una forma fissa, caratteristica di una particolare produzione capitalistica, e ancor oggi sussiste in quei rami di produzione in cui il capitale opera su larga scala, senza che la divisione del lavoro o le macchine vi abbiano una parte importante. Così la cooperazione resta la forma tipica dell'intera produzione capitalistica, benché la sua stessa forma semplice appaia quale forma particolare accanto alle sue altre forme più evolute (p. 360).
Forma classica della cooperazione basata sulla divisione del lavoro è la manifattura che predomina all'incirca dal 1550 al 1770.
Essa nasce: 1) o riunendo operai di mestieri diversi, ognuno dei quali compie un'operazione parziale (es. manifattura delle carrozze), dove il relativo singolo artigiano diviene tosto incapace d'esercitar tutto il suo antico mestiere, divenendo in cambio più veloce nel suo mestiere parziale; perciò il processo diviene divisione dell'operazione complessiva nelle sue singole parti (p. 365);
2) o riunendo nella stessa fabbrica molti artigiani che fanno gli stessi oggetti o oggetti simili. Le diverse operazioni, anziché svolte in successione da un solo operaio, sono isolate e svolte tutte al contempo da diversi operai (aghi etc.). Da opera individuale di un artigiano, il prodotto diviene ora prodotto sociale di artigiani associati, ognuno dei quali esegue solo un'operazione parziale (p. 366).
In ambi i casi il risultato è identico: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini. L'esecuzione resta artigianale: ogni processo parziale di cui passa il prodotto va svolto col lavoro manuale; cioè è esclusa ogni analisi veramente scientifica del processo produttivo. Proprio a causa della natura artigianale ogni singolo operaio viene fissato esclusivamente a una funzione parziale (pp. 366-367).
Così si risparmia lavoro rispetto al mestiere artigianale autonomo; il che è destinato a crescere ancor più col trascorrere delle generazioni. Così poi la divisione manifatturiera del lavoro risponde all'istinto tipico delle società più antiche di render ereditari i mestieri: caste, corporazioni (p. 367).
Differenziazione degli strumenti attraverso l'adattamento ai diversi lavori parziali: 500 varietà di martelli a Birmingham (pp. 368-369).
Dal punto di vista del suo meccanismo generale la manifattura ha due forme: o semplice montaggio meccanico di prodotti parziali indipendenti (orologio), o serie di processi legati in un'officina (ago). Nella manifattura ogni gruppo di operai fornisce all'altro gruppo la sua materia prima. Indi è condizione fondamentale che ogni gruppo produca in un dato tempo di lavoro una quantità esatta; cioè che si crei una continuità, una regolarità, un'uniformità e un'intensità di lavoro assai diverse da quelle della cooperazione. Qui si giunge così alla legge tecnica del processo di produzione: il lavoro è lavoro socialmente necessario (p. 371).
I tempi disuguali esatti per le singole operazioni fanno sì che i diversi gruppi di operai siano di differente forza e numero (nella fusione dei caratteri di stampa: 4 fonditori e 2 staccatori contro 1 brunitore). Onde la manifattura crea una proporzione matematica fissa per l'estensione quantitativa dei singoli organi dell'operazione complessiva, e la produzione è allargabile solo impiegando un multiplo del gruppo complessivo. Poi si aggiunga che rendere indipendenti certe funzioni (sorveglianza, trasporti dei prodotti da un locale all'altro etc.) diviene remunerativo solo allorché si raggiunga un certo livello della produzione (p. 372).
Può anche capitare la combinazione di diverse manifatture in una manifattura complessiva, ma manca ancora una effettiva unità tecnologica, attuata solo con le macchine (p. 373). Le macchine appaiono presto nella manifattura (sporadicamente come il mulino per il grano, i frantoi etc.) ma solo con accessori secondari. Il macchinario sortale della manifattura è l'operaio complessivo combinato la cui perfezione supera quella dell'antico artigiano. I difetti necessari dell'operaio parziale appaiono perfezioni (p. 374). La manifattura sviluppa differenze fra tali operai parziali (qualificati e non qualificati), o addirittura una gerarchia completa degli operai (p. 375).
La divisione del lavoro è: 1. generale (in agricoltura, industria, navigazione etc.); 2. particolare (in specie e sottospecie); 3. singola (negli opifici). La divisione sociale del lavoro si sviluppa anche partendo da punti diversi: 1) appo una famiglia e una tribù la divisione spontanea del lavoro proviene da differenze di sesso e di età, al che si aggiunga la schiavitù per mezzo della violenza sui vicini, che la amplia (p. 375); 2) comunità diverse producono prodotti diversi a seconda della posizione, del clima e del livello culturale, e tali prodotti sono scambiati tostoché tali comunità entrino in contatto (p. 376). Lo scambio di merci con comunità estranee è quindi uno dei mezzi principali per rompere il vincolo naturale della propria comunità con l'estendere la divisione naturale del lavoro (p. 376).
La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone da una parte un certo grado di sviluppo della divisione sociale del lavoro, dall'altra la sviluppa ulteriormente: questa è la divisione territoriale del lavoro (p. 377).
Tuttavia fra la divisione sociale del lavoro e la divisione del lavoro di tipo manifatturiero c'è sempre la differenza per cui: la prima produce d'uopo merci e nella seconda l'operaio parziale non produce alcuna merce. Perciò nella manifattura c'è un'organizzazione concentrata, nell'altra la dispersione e il disordine della concorrenza (p. 378).
Sull'organizzazione delle antichissime comunità indiane (pp. 379-380). Le corporazioni (p. 380). Mentre la divisione sociale del lavoro c'è in tutte le formazioni economiche, la divisione manifatturiera del lavoro è una creazione sortale del modo di produzione capitalistico.
Come nella cooperazione semplice, pure nella manifattura il corpo lavorativo funzionante è una forma di esistenza del capitale. La forza produttiva che deriva dalla combinazione dei lavori appare come forza produttiva del capitale. Ma mentre la cooperazione semplice non muta generalmente il modo di lavorare del singolo, la manifattura lo rivoluziona e mortifica l'operaio: incapace di alcuna produzione indipendente, egli è ormai solo un accessorio dell'officina del capitalista. Le potenze intellettuali della produzione spariscono presso di tanti per allargar la loro scala presso di uno! Tale contrapposizione agli operai delle potenze intellettuali del processo di produzione materiale (come proprietà di altri e come potere che li domina) è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manifatturiero. Tale processo di scissione inizia dalla cooperazione semplice, si sviluppa nella manifattura, si completa nella grande industria, che fa della scienza una potenza produttiva indipendente separata dal lavoro e costretta a servire il capitale (p. 382).
Citazioni (pp. 382-383).
La divisione manifatturiera del lavoro da un lato genera una determinata organizzazione sociale del lavoro, dall'altro è solo un particolare metodo per generare plusvalore relativo (p. 384).
Ostacoli allo sviluppo della manifattura nel suo periodo classico: limitato numero di operai non abili per via del predominio degli abili; resistenza degli operai adulti al lavoro di donne e bambini; difesa fino all'ultimo delle leggi sull'apprendistato pure ove sono superflue; continua insubordinazione degli operai, perché l'operaio complessivo non ha ancora un'ossatura indipendente dagli operai. Emigrazione degli operai (pp. 385-386).
Inoltre la manifattura non poteva sovvertire né dominare l'intera produzione sociale. La sua ristretta base tecnica entrò in contraddizione con i bisogni di produzione da essa creati. Diventa necessaria la macchina e la manifattura aveva già anche imparato a fabbricarla. (p. 386).
La rivoluzione del modo di produzione assume nella manifattura come punto di partenza la forza-lavoro, invece nella grande industria assume come punto di partenza il mezzo di lavoro.
Ogni macchinario consta di tre parti: 1. la macchina motrice; 2. il meccanismo di trasmissione; 3. la macchina utensile (p. 399).
La rivoluzione industriale del ‛700 parte dalla macchina utensile: un meccanismo che, ricevuto l'opportuno movimento, esegue coi suoi strumenti le stesse operazioni prima eseguite dall'operaio con strumenti più o meno uguali.
Che la forza motrice sia umana o naturale è per ora indifferente. La differenza specifica è che l'uomo può usare solo i propri organi; invece alla macchina sono collegabili, entro certi limiti, quanti strumenti si vogliono (filatoio 1, Jenny 24 12-18 fusi).
Poiché col filatoio non si conquista il pedale (cioè la forza) bensì il fuso, all'inizio ovunque l'uomo è ancora al contempo forza motrice e sorvegliante. La rivoluzione delle macchine utensili, al contrario, rese uopo il perfezionamento delle macchine a vapore e lo realizzò (p. 401, inoltre pp. 401-402).
Ci sono due tipi di macchinari nella grande industria: 1) cooperazione di varie macchine omogenee (powerloom25; envelope machine26) che combinando diversi utensili compie il lavoro di un'intera serie di operai parziali (qui c'è un'unità tecnica tramite il meccanismo di trasmissione e la forza motrice); oppure: 2) sistema di macchine, combinazione di differenti macchine operatrici parziali (filatura). Tale combinazione trova il suo fondamento naturale nella divisione manifatturiera del lavoro. Ma c'è una differenza essenziale. Nella manifattura ogni specifico processo parziale doveva essere adattato all'operaio; qui non è più necessario. Il processo di lavoro può esser oggettivamente scomposto nelle sue fasi costitutive che tocca alla scienza e all'esperienza su cui si basa ricomporre con le macchine. Nel sistema organico delle macchine, il rapporto quantitativo dei singoli gruppi operai viene ripetuto in quanto rapporto dei singoli gruppi di macchine (pp. 403-404).
In ambi i casi (macchine operatrici omogenee o eterogenea) una fabbrica è un unico grande automa (che del resto solo di recente si è perfezionato a tal punto) e questa è la sua forma adeguata (p. 404). La sua forma completa è l'automa costruttore di macchine, che abolì la base artigianale e manifatturiera della grande industria e con ciò fornì la forma compiuta del macchinario (pp. 404-406).
Connessione fra la rivoluzione industriale nel modo di produzione e rivoluzione nei mezzi di comunicazione (p. 407).
Nella manifattura la combinazione di operai è soggettiva; nell'industria l'organismo meccanico di produzione è oggettivo; l'operaio lo trova già pronto e funzionante solo grazie a un lavoro comune; il carattere cooperativo del processo di lavoro diviene ora una necessità tecnica (p. 408-409).
Le forze produttive derivanti dalla cooperazione e dalla divisione del lavoro nulla costano al capitale, così come le forze naturali (vapore; acqua). Manco le forze scoperte dalla scienza costano, ma queste possono essere sfruttate solo per mezzo di uno strumento adatto, costruibile solo a costi alti; pure le macchine utensili costano molto più dei vecchi strumenti. Ma tali macchine hanno una durata e un ambito di produzione maggiori di quelle dello strumento perciò cedono al prodotto una parte del proprio valore molto minore di quella di un attrezzo utensile. Così il servizio gratuito fornito dalla macchina (e che non riappare nel valore del prodotto) è maggiore di quello fornito dall'attrezzo (p. 409).
La diminuzione dei prezzi per mezzo della concentrazione della produzione nella grande industria è di gran lunga maggiore che nella manifattura (p. 409).
I prezzi delle merci finite provano quanto la macchina abbia calato i costi di produzione e che la parte del valore dovuta al mezzo di lavoro aumenta relativamente, ma diminuisce in assoluto. La produttività di una macchina si misura col grado in cui la macchina sostituisce la forza-lavoro umana. Esempio (pp. 411-412).
Posto che un aratro a vapore sostituisca 150 operai il cui salario annuo sia 3000£, tale salario non rappresenta tutto il lavoro fornito da loro, bensì solo il lavoro necessario; ma oltre a ciò gli operai forniscono il plusvalore. Se invece l'aratro a vapore costa 3000£, allora questo è il valore in denaro di tutto il lavoro in esso contenuto. Insomma: se la macchina costa quanto la forza-lavoro da essa sostituita, il lavoro umano in essa oggettivato è sempre minore del vivo lavoro da essa sostituito (p. 412-413).
Come mezzo per diminuire i costi di produzione, la macchina deve costare meno lavoro della forza-lavoro che sostituisce. Ma per il capitale il suo valore deve essere minore di quello della forza-lavoro da essa sostituita. Perciò in America sono redditizie macchine che non lo sono in Inghilterra (es. macchine spaccapietre). Perciò, a seguito di certe restrizioni giuridiche (divieto del lavoro muliebre e infantile), possono comparire d'improvviso macchine che prima non avevano alcun valore per il capitale (p. 413-414).
Che le macchine abbiano già in sé la forza motrice svaluta la forza muscolare. Nel senso che il valore della forza-lavoro dell'uomo è diviso fra la forza-lavoro dell'intera famiglia col lavoro muliebre e infantile, col tosto aumento del numero dei salariati arruolando tutti i membri della famiglia (prima non salariati). Ora per mantener una sola famiglia 4 persone (anziché 1 come prima) devono fornir al capitale lavoro nonché pluslavoro. Così le macchine accrescono il grado dello sfruttamento oltre al materiale umano sfruttabile (pp. 414-415).
Prima la compravendita di forza-lavoro era un rapporto fra persone libere, ora si acquistano minorenni o semimaggiorenni; cioè l'operaio vende moglie e figli [sotto la sua potestà], diviene mercante di schiavi. (Esempi pp. 415-416).
Deterioramento fisico, mortalità fra i figli di operai (p. 416) pure con la conduzione industriale dell'agricoltura (sistema delle bande, p. 417).
Deterioramento morale (pp. 417-418). Clausole sull'istruzione e opposizione dei fabbricanti contro di esse (pp. 418-419).
Il lavoro muliebre e infantile rompe infine la resistenza dell'operaio maschile adulto al dispotismo del capitale (pp. 420).
Se le macchine accorciano il tempo di lavoro necessario per produrre una merce, allora esse diventano il mezzo più potente nelle mani del capitale per prolungare la giornata lavorativa oltre i suoi normali limiti. Da un lato creano nuove condizioni, che permettono al capitale di far ciò, dall'altro forniscono motivi nuovi per farlo.
La macchina è capace di un movimento perpetuo: è limitata solo dalla debolezza e dalla limitatezza della forza-lavoro umana che l'assiste. La macchina che con 20 ore di lavoro al giorno si logori in 7 ½ anni ingoia per il capitalista la stessa quantità di pluslavoro (ma in metà tempo) della macchina che con 10 ore di lavoro al giorno si logori in 15 anni (p. 421).
Logorio morale della macchina: by superseding27, si rischia ancora meno (p. 421).
Inoltre si assorbe una maggior quantità di lavoro senza aumento di capitale investito in impianti, edifici e macchine; così prolungare la giornata lavorativa, oltre a far aumentar il plusvalore, fa calare relativamente le spese necessarie a ottenerlo. Ciò cale di più ove la parte fissa del capitale sia prevalente: è il caso della grande industria (pp. 421-422). Nel primo periodo della macchina (in cui è un'esclusiva) i profitti sono enormi, donde il desiderio di prolungar all'estremo la giornata lavorativa. Poi, adottate universalmente le macchine, tale guadagno monopolistico sparisce e si fa valere la legge per cui il plusvalore non deriva dalla forza-lavoro sostituita con le macchine dal capitale bensì dalla forza-lavoro occupata per tenerle in funzione; ossia dalla parte variabile del capitale. Ma nell'industria meccanica il capitale variabile è d'uopo limitato dalle grandi spese.
C'è una contraddizione intrinseca nell'uso capitalistico del macchinario: per una data grandezza di capitale, la macchina accresce uno dei due fattori del plusvalore prodotto (il saggio del plusvalore) mentre riduce l'altro fattore (il numero di operai). Allorché il valore della merce prodotta dalle macchine diviene il valore sociale normativo di tale merce, allora tale contraddizione si appalesa e incita altrettanto a prolungar la giornata lavorativa (pp. 422-423).
Al contempo (col disimpegno degli operai sostituiti dalla macchina e con l'arruolamento di donne e bambini) la macchina produce una popolazione operaia eccedente, costretta a farsi dominar dal capitale. Così la macchina abolisce ogni limite morale e naturale della giornata lavorativa. Onde il paradosso che il più potente strumento per ridurre il tempo di lavoro diviene il mezzo più sicuro per mutar tutto il tempo di vita dell'operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro messo a disposizione per la valorizzazione del capitale (p. 423).
Già si è visto come poi intervenga una reazione della società per una legge fissante la giornata lavorativa, la quale ora incita l'intensificazione del lavoro (p. 424).
All'inizio col progresso delle macchine aumentò al contempo l'intensità del lavoro e il tempo di lavoro. Ma tosto fu raggiunto il punto critico in cui le due cose si escludevano a vicenda. Ma le cose stanno diversamente per l'accorciamento della giornata lavorativa. Ora l'intensità può crescere (fornir in 10 ore più lavoro che in 12 ore o più) indi la giornata lavorativa risulta potenziata e il lavoro si misura secondo la sua intensità anziché secondo la lunghezza del tempo (p. 425).
Così in 5 ore di lavoro necessario e in 5 ore di pluslavoro si può ottener lo stesso plusvalore ottenuto prima con un'intensità inferiore con 6 ore di lavoro necessario e 6 ore di pluslavoro (p. 425).
Come si intensifica il lavoro? È provato che nella manifattura (p. 425, nota 157), p.es. nella ceramica etc., il semplice accorciamento della giornata lavorativa basta per accrescere molto la produttività. Nel lavoro meccanico tale effetto era dubbio. Ma lo provò R. Gardner (p. 426).
Allorché la giornata lavorativa è accorciata per legge, la macchina diviene il mezzo per spremere un lavoro più intenso dall'operaio: aumentando o la velocità delle macchine o il volume di macchinario che uno stesso operaio deve sorvegliare (esempi alle pp. 426-430). Ciò aumenta al contempo sia l'arricchimento sia l'espansione delle fabbriche (fornite le prove a p. 430).
In fabbrica la macchina provvede ad un uso opportuno dello strumento: elide le diversità qualitative del lavoro sviluppatesi nella manifattura: gli operai sono sempre più livellati, differenziati al massimo da età e sesso.
La divisione del lavoro è qui distribuzione degli operai fra le macchine specifiche. L'unica divisione è fra capi operai che lavorano davvero alle macchine utensili e feeders28 (ciò vale per il selfactor29, in parte per il throstle30 e ancora meno per il powerloom corrected31); inoltre sorveglianti, engineers, stokers, mechanichs, joiners32 etc.; una classe esterna che è solo aggregata alla fabbrica (p. 432).
La necessità di addestrare un operaio ad abituarsi al movimento continuo di un meccanismo automatico esige un apprendistato fin dalla giovinezza, ma non più come nella manifattura (dove uno stesso operaio veniva incatenato per tutta la vita alla stessa operazione parziale). Possono mutar le persone alla stessa macchina (relay system) e con apprendimento di poca fatica si possono spostar gli operai da un tipo di macchina a un altro. Il lavoro da manovale o è molto semplice o è affidato sempre più alla macchina.
Ma all'inizio la divisione manifatturiera del lavoro perdura per tradizione e diviene essa stessa un mezzo di maggiore sfruttamento del capitale. L'operaio diviene per tutta la vita parte di una macchina parziale (p. 432).
È comune a tutta la produzione capitalistica (in quanto processo di valorizzazione del capitale oltre a processo lavorativo) che non è l'operaio ad adoprar la condizione del lavoro, bensì è la condizione del lavoro ad adoprar l'operaio. Ma tal discrimine si appalesa solo con le macchine in una realtà tecnologica avanzata. Mutandosi in un automa (macchina automatica) il mezzo di lavoro si contrappone quale capitale all'operaio durante lo stesso processo lavorativo, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro viva. Come si è detto testé, così il potere intellettuale del processo di produzione muta in dominio del capitale sul lavoro!
L'abilità parziale del singolo operaio meccanico svuotato sparisce come infimo aspetto secondario ante la scienza, le enormi forze naturali e il lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine (p. 434). Disciplina da caserma in fabbrica, codice della fabbrica (p. 434). Condizioni materiali nella fabbrica (p. 435).
Questa lotta che inizia con il rapporto capitalistico si rivolta la prima volta contro la macchina in quanto base materiale del modo di produzione capitalistico. Bandmühle33 (p. 435). Movimento dei Ludditi (p. 436).
Solo dopo gli operai distinguono fra il mezzo di produzione materiale e la sua forma sociale di sfruttamento.
Durante la manifattura la migliore divisione del lavoro è più un mezzo virtuale per sostituir gli operai (p. 436).
Excursus sull'agricoltura, espropriazione (p. 436).
Invece con la macchina l'operaio è effettivamente allontanato, la macchina compete direttamente con lui. Handloom weavers34 (p. 437). Lo stesso vale per l'India (p. 437). Tal effetto è permanente poiché in tutti i campi di produzione si escogitano sempre più macchine. Il carattere di indipendenza e isolamento che il modo di produzione capitalistico dà al mezzo di lavoro rispetto all'operaio si sviluppa con la macchina fino ad un assoluto antagonismo. Perciò la prima rivolta operaia capita contro il mezzo di lavoro (p. 437).
Particolari sulla sostituzione degli operai con la macchina (pp. 438-439). La macchina è il mezzo migliore per vincere la resistenza degli operai contro il capitale sostituendoli (p. 440).
Per l'economia liberale la macchina che sostituisce gli operai al contempo libera un capitale destinato all'impiego di tali operai. Al contrario: ogni introduzione di macchine vincola il capitale, riduce la sua parte variabile e accresce quella costante, cioè può solo limitar la capacità del capitale d'occupare. In effetti (ciò lo dicono pure gli apologeti) così non si libera capitale, bensì si liberano i mezzi di sussistenza degli operai licenziati, si libera l'operaio dai mezzi della sua sussistenza, cosa che l'apologeta esprime dicendo che la macchina libera mezzi di sussistenza per l'operaio (pp. 441-442).
Il passo è ben sviluppato (da citar su «The Fortnightly Review35») (p. 444): gli antagonismi inseparabili dall'uso capitalistico delle macchine non esistono per l'apologeta, perché non derivano dalle macchine in sé, ma dal loro uso capitalistico (p. 444).
Estensione della produzione con le macchine in modo diretto o indiretto, indi possibile aumento del numero di operai precedente: minatori, schiavi nei Cotton States36 etc. Invece coi lanifici: sostituzione degli scozzesi e degli irlandesi per mutar il suolo coltivabile in pascolo ovini (pp. 445-446).
L'industria meccanizzata aumenta la divisione sociale del lavoro più dell'industria manifatturiera (p. 447).
Il primo risultato della macchina è l'aumento del plusvalore nonché della massa di prodotti in cui esso si incarna e di cui si nutrono la classe capitalista e le sue appendici. Cioè aumentano i capitalisti con nuovi bisogni di lusso nonché di mezzi per soddisfarli. Cresce la produzione di lusso così come i mezzi di trasporto (che però nei Paesi sviluppati assorbono poca forza-lavoro) (esempio pp. 447-448); infine cresce la classe dei servitori, i moderni schiavi domestici, il cui materiale è fornito dal licenziamento (p. 448).
Statistica.
Contraddizioni economiche (p. 449).
Possibilità dell'aumento assoluto del lavoro in un ramo di attività in conseguenza della macchina e modalità di tal processo (pp. 449-450).
Enorme elasticità, capacità di un'espansione sùbita della grande industria a grandi balzi verso un alto grado di sviluppo (p. 451).
Ripercussione sui Paesi produttori di materie prime. Emigrazione a seguito del licenziamento degli operai. Divisione internazionale del lavoro di Paesi industriali e Paesi agricoli, ciclicità di crisi e prosperità (p. 451). Operai sballottati da una parte all'altra in tal processo di espansione (p. 452).
Cenni storici in proposito (pp. 452-456).
Cooperazione e manifattura sostituite con la macchina (e i gradi intermedi, pp. 456-457). Sostituzione pure nei settori non industriali, gestiti nello spirito della grande industria; lavoro a domicilio come reparto esterno della fabbrica (p. 458). Nel lavoro a domicilio e nella manifattura moderna lo sfruttamento è peggiore che nella fabbrica (p. 458). Esempi: tipografie londinesi (p. 459); legatorie, cernite di stracci (p. 459); fornaci per mattoni e tegole (p. 459); manifattura moderna in generale (p. 460); lavoro a domicilio: merletti al tombolo (pp. 461-464); intrecciatura della paglia (p. 463). Passaggio al sistema-fabbrica allorché sia raggiungibile il limite estremo dello sfruttamento: produzione di wearing apparel37 con la macchina da cucire (pp. 465-467). Accelerazione di tale passaggio con l'estensione delle leggi obbligatorie sulle fabbriche che tolgono l'andazzo precedente basato su uno sfruttamento illimitato (p. 468). Esempi: ceramica (p. 469); fiammiferi (p. 469). Inoltre effetto delle leggi sulle fabbriche sul lavoro irregolare dovuto alla sregolatezza degli operai, come alle stagioni e alle mode (pp. 470-472). Superlavoro accanto ad inattività per via delle stagioni nel lavoro a domicilio e nella manifattura (p. 471).
Clausole sanitarie delle leggi sulle fabbriche (p. 472). Clausole sull'istruzione (pp. 473-474).
Licenziamento degli operai semplicemente a causa dell'età, perché cresciuti e non più adatti per il lavoro e non più capaci di vivere col salario da bambini e al contempo senza aver imparato alcun altro lavoro (p. 475).
Dissoluzione dei mysteries38 e della configurazione fossile della manifattura e dell'impresa artigianale ad opera della grande industria, che muta il processo produttivo in un uso consapevole delle forze naturali. La base tecnica dell'industria è perciò rivoluzionaria rispetto alle forme precedenti (p. 476) perché non considera definitiva la forma esistente di un processo di produzione.
Ma in quanto forma capitalistica lascia sussistere per l'operaio la divisione fossilizzata del lavoro mentre di frequente ne rivoluziona la base, indi l'operaio va in rovina. D'altra parte proprio qui, in tale variazione necessaria delle attività dello stesso operaio, c'è l'esigenza della sua massima versatilità e le possibilità di una rivoluzione sociale (p. 476).
È uopo estender le leggi sulle fabbriche pure ai settori di attività non industrializzati (p. 477-sgg.). Act del 1867 (pp. 480-481). Miniere (p. 481-sgg.).
Effetto concentrante delle leggi sulle fabbriche, generalizzazione del regime industriale indi della forma classica della produzione capitalistica, acutizzazione delle sue contraddizioni inerenti, maturazione degli elementi distruttivi della vecchia società e degli elementi creativi di quella nuova (p. 488).
Agricoltura. Qui «l'eccedenza» di operai dovuta alle macchine è ancora più acuta. Sostituzione del contadino con l'operaio salariato. Annientamento della manifattura domestica rurale. Acutizzazione dei contrasti fra città e campagna. Dispersione e indebolimento degli operai rurali, mentre gli operai urbani sono concentrati, quindi salario degli operai agricoli ridotto al minimo. Al contempo spoliazione della terra: coronamento del modo di produzione capitalistico e seppellimento della fonte di ogni ricchezza: la terra e l'operaio (pp. 488-489).
1. Engels divide il testo nelle stesse prime quattro sezioni del Libro I del Capitale e scrive i numeri delle pagine della prima edizione tedesca che intendeva citare; ivi convertiti in quelli della prima edizione elettronica Newton Compton de Il capitale (Roma, giugno 2013) laddove sia disponibile nel formato PDF (2081 pagine).↩
2. Tertium comparationis: un terzo elemento del confronto.↩
3. M-D-M: merce-denaro-merce.↩
4. M-M: scambio con merce.↩
5. Legal tender: mezzo di pagamento legale.↩
6. Nervus rerum: il legame fra le cose.↩
7. Hoards: tesori.↩
8. Plate: oggetti preziosi.↩
9. Virements: termine usato nel linguaggio bancario per indicare il trasferimento di una somma denaro fra due conti (di diversi o dello stesso cliente) senza movimento del denaro.↩
10. Clearing house: stanza di compensazione.↩
11. Hic Rhodus, hic salta [Qui siamo a Rodi e qui salta]: traduzione latina di una favola di Esopo. È una frase generalmente usata per prendersi gioco degli spacconi e per metterli alla prova.↩
12. En bloc: in blocco.↩
13. Standard of life: tenore di vita.↩
14. Engels distingue il costo delle materie prime (10 scellini) e quello dell'ammortizzamento dei macchinari, «la massa dei fusi che si consumano» (2 scellini). Si chiede giustamente, e poi cercherà di spiegarlo, quanto incida il costo della forza lavoro.↩
15. Lubricants: lubrificanti.↩
16. Engels cita il Libro III del Capitale nella convinzione tradita che il futuro lettore del Riassunto lo avrebbe avuto a disposizione poco dopo l'uscita del Libro I.↩
17. Shift: turno di lavoro.↩
18. Poorhouse supply: rifornimento (di forza-lavoro) dalle case dei poveri.↩
19. Après moi le déluge [dopo di me il diluvio]: frase variegatamente attribuita a Luigi XV o a madame Pompadour, probabilmente inventata in epoca successiva.↩
20. Sistema a relais: sistema dei turni di lavoro.↩
21. Flaw: punto debole, vulnus.↩
22. Printworks Act: legge sulle stamperie di cotone.↩
23. Faux frais: spese a fondo perduto.↩
24. Jenny: filatoio meccanico, così chiamato da engine (motore).↩
25. Powerloom: telaio a vapore.↩
26. Envelope machine: macchina per la fabbricazione di buste da lettera.↩
27. by superseding: con la sostituzione.↩
28. Feeders: manovali.↩
29. Selfactor: filatoio automatico.↩
30. Throstle: filatoio meccanico a vapore, chiamato tordo per la rumorosità.↩
31. Powerloom corrected: telaio a vapore perfezionato.↩
32. Engineers: tecnici. Stokers: fuochisti. Mechanichs: meccanici. Joiners: falegnami.↩
33. Bandmühle: macchina per tessere nastri e passamanerie.↩
34. Hand loom weavers: tessitori a mano.↩
35. The Fortnightly Review: la rivista inglese a cui era destinato questo Riassunto del «Capitale».↩
36. Cotton States: Stati produttori di cotone.↩
37. Wearing apparel: articoli di vestiario.↩
38. Mysteries: particolari corporazioni con segreti professionali.↩
39. Qui il manoscritto di Engels si interrompe.↩
Ultima modifica 2018.09.06