[ Indice della Miseria della Filosofia ]
La presente opera fu scritta nell'inverno del 1846-47 quando Marx era giunto ad enucleare i princìpi della sua nuova concezione della storia e dell'economia. Il "Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère" di Proudhon, pubblicato da poco, gli fornì l'occasione di sviluppare questi princìpi contrapponendoli alle idee dell'uomo che, da allora in poi, doveva assumere il posto più eminente fra i socialisti francesi viventi. Da quando l'uno e l'altro avevano discusso assieme a Parigi di questioni economiche, spesso per notti intere, i loro punti di vista erano andati sempre più divergendo; lo scritto di Proudhon dimostrava che fra i due già allora si era aperto un abisso incolmabile. Tacere non era più possibile: Marx in questa sua risposta constatò la rottura irreparabile.
Il giudizio complessivo di Marx su Proudhon si trova espresso nell'articolo che segue questa prefazione, apparso per la prima volta nei numeri 16, 17 e 18 del "Social-Demokrat" di Berlino del 1865 [2]. Fu questo l'unico articolo che Marx scrisse su tale giornale; subito dopo, essendo manifesti i tentativi del signor von Schweitzer di trascinare il "Social-Demokrat" sulla scia feudale e governativa, in capo a poche settimane fummo costretti a ritirare pubblicamente la nostra collaborazione.
Per la Germania, proprio nel momento attuale, il presente scritto ha un'importanza che lo stesso Marx non ha mai previsto. Come poteva sapere che, attaccando Proudhon, colpiva l'idolo dei carrieristi di oggi, Rodbertus, che egli allora non conosceva neppure di nome?
Non è qui il luogo di soffermarsi sul rapporto fra Marx e Rodbertus: avrò probabilmente presto occasione di farlo. Basti dire ora che quando Rodbertus accusa Marx di averlo "saccheggiato" e di "aver attinto, nel suo "Capitale" piuttosto abbondantemente, senza citarlo", alla sua opera "Zur Erkenntnis ecc.", egli si lascia andare a una calunnia che non si spiega se non con il malumore naturale in un genio incompreso e con la sua singolare ignoranza dei fatti che avvengono fuori della Prussia, e in particolare della letteratura socialista ed economica. Queste accuse, come pure l'opera citata di Rodbertus, non sono mai giunte a conoscenza di Marx; di Rodbertus gli erano noti solo i tre "Soziale Briefe", e anche questi certo non prima del 1858 o 1859.
Con più fondamento Rodbertus afferma in queste lettere di aver scoperto il "valore costituito di Proudhon" già prima di Proudhon, pur lusingandosi, a torto, di averlo scoperto per primo. In ogni caso l'opera presente critica lui e Proudhon assieme, e questo mi costringe a soffermarmi un poco sulla sua "fondamentale" operetta "Zur Erkenntnis unserer staatswirthschaftlichen Zustände", 1842, per quel tanto che questa - oltre a contenere (a sua volta inconsciamente) il comunismo alla Weitling - precorre Proudhon.
Il socialismo moderno, di qualsiasi tendenza esso sia, in quanto procede dall'economia politica borghese, si richiama quasi esclusivamente alla teoria del valore di Ricardo. Le due proposizioni che Ricardo enuncia nel 1817 proprio all'inizio dei suoi "Principles": 1) che il valore di ogni merce è solamente ed unicamente determinato dalla quantità di lavoro richiesta dalla sua produzione; 2) che il prodotto della totalità del lavoro sociale è ripartito fra le tre classi dei proprietari fondiari (rendita), dei capitalisti (profitto) e dei lavoratori (salario), avevano già fornito fin dal 1821, in Inghilterra, materia a conclusioni socialiste; le quali, in parte, erano state tratte con tale profondità e decisione che tutta questa letteratura - oggi quasi scomparsa e riscoperta in gran parte solo da Marx - è rimasta insuperata fino all'apparizione del "Capitale". Ne riparleremo in altro luogo. Quando Rodbertus, da parte sua, nel 1842 traeva conclusioni socialiste dalle proposizioni sopra citate, realizzava senza dubbio, per un tedesco, un passo in avanti molto importante, ma esso poteva avere il valore di una scoperta, al massimo, per la sola Germania. Polemizzando contro Proudhon, il quale era vittima di un simile abbaglio, Marx mostra quanto poco nuova fosse una simile applicazione della teoria di Ricardo.
"Chiunque abbia un minimo di familiarità con lo sviluppo dell'economia politica in Inghilterra, non può non sapere che quasi tutti i socialisti di questo paese hanno proposto in epoche diverse l'applicazione egualitaria" (cioè socialista) "della teoria ricardiana. Potremmo citare a Proudhon l'Economia politica" di Hopkins, 1822; William Thompson, "An Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, most conductive to Human Happiness", 1824; T.R. Edmonds, "Practical Moral and Political Economy", 1828, ecc. ecc., e altre quattro pagine di ecc. Ci contenteremo di lasciar parlare un comunista inglese, Bray, nella sua notevole opera "Labour's Wrongs and Labour's Remedy", Leeds 1839."
Le sole citazioni di Bray qui riportate annullano in buona parte la priorità rivendicata da Rodbertus.
A quel tempo Marx non aveva ancora messo piede nella sala di lettura del British Museum. Se si eccettuano biblioteche di Parigi e di Bruxelles, i miei libri e i miei estratti, durante un viaggio di sei settimane compiuto da noi due assieme in Inghilterra, nell'estate 1845, Marx aveva solo compulsato quei libri che era possibile procurarsi a Manchester. Negli anni quaranta dunque la letteratura di cui parliamo non era affatto ancora inaccessibile, quanto oggi. Se, nonostante questo, essa è rimasta sempre ignota a Rodbertus, ciò si deve esclusivamente alla sua limitatezza locale di prussiano. Egli è il vero fondatore del socialismo specificamente prussiano e come tale, del resto, è oggi finalmente riconosciuto.
Tuttavia neppure nella sua ben amata Prussia Rodbertus doveva restare indisturbato. Nel 1859 apparve a Berlino il primo fascicolo di "Per la critica dell'economia politica", di Marx. A pagina 40, fra le obiezioni elevate dagli economisti contro Ricardo, viene messa in evidenza la seconda:
"Se il valore di scambio di un prodotto è uguale al tempo di lavoro in questo contenuto, il valore di scambio di una giornata lavorativa sarà uguale al prodotto di essa. Oppure, il salario del lavoro dovrà essere uguale al prodotto del lavoro. Ma si verifica proprio l'opposto".
E in proposito la nota seguente:
"Questa obiezione a Ricardo, fatta da parte di economisti borghesi, fu ripresa in seguito da parte socialista. Presupposta la esattezza teorica della formula, si accusò la prassi di contraddire la teoria e si intimò alla società borghese di trarre in pratica la presunta conseguenza del suo principio teorico. In questo modo per lo meno taluni socialisti inglesi si valsero della formula ricardiana del valore di scambio contro l'economia politica" [3]
In questa nota si rinvia il lettore alla "Misère de la Philosophie" di Marx che a quel tempo si trovava ancora dappertutto nelle librerie.
Era dunque abbastanza facile per Rodbertus convincersi di quale fosse in realtà la novità delle scoperte da lui fatte nel 1842. Invece egli continua a proclamarle e le ritiene talmente incomparabili che non gli passa neppure per la mente il pensiero che Marx abbia potuto trarre da solo le sue conclusioni da Ricardo, proprio come aveva fatto Rodbertus stesso. Semplicemente impossibile! Marx lo ha "saccheggiato": quello stesso Marx che pure gli offriva ogni possibilità per accertarsi che, assai prima di loro due, le stesse conclusioni erano già state enunciate in Inghilterra, per lo meno in quella forma grossolana che conservano ancora in Rodbertus.
La più semplice applicazione socialista della teoria di Ricardo è quella indicata sopra. In molti casi essa ha condotta a intuizioni, sull'origine e la natura del plusvalore, che sorpassano di molto Ricardo. Così, tra gli altri, in Rodbertus. Ma, a parte il fatto che, a questo riguardo, egli non espone mai qualcosa che non sia stata già detta per lo meno altrettanto bene prima di lui, la sua esposizione presenta ancora il difetto di quelle dei suoi predecessori: egli accetta senz'altro le categorie economiche di lavoro, capitale, valore, ecc., nella forma ancora rudimentale che gli è stata trasmessa dagli economisti, in quella forma cioè che si attiene alla loro apparenza, senza indagarne il contenuto. In tal modo non solo egli si preclude ogni possibilità di sviluppo ulteriore - al contrario di Marx, che, per la prima volta, ha elaborato quelle proposizioni spesso ripetute da 64 anni a questa parte - ma prende la strada diretta che conduce all'utopia, come si vedrà.
La citata applicazione della teoria di Ricardo, secondo la quale, essendo i lavoratori i soli produttori reali, l'intera produzione sociale, cioè il loro prodotto, appartiene a loro, conduce direttamente al comunismo. Ma essa è - come Marx accenna nel passo sopracitato - formalmente falsa dal punto di vista economico, poiché è una semplice applicazione della morale all'economia. Secondo le leggi dell'economia borghese, la maggior parte del prodotto non appartiene ai lavoratori che lo hanno creato. Se ora diciamo: è ingiusto, ciò non deve essere, questo non ha nulla a che vedere, in via immediata, con l'economia. Noi ci limitiamo ad affermare che quel fatto economico contraddice il nostro senso morale. Per questo Marx non ha mai fondato su questa base le sue rivendicazioni comuniste, bensì sul necessario crollo, che si verifica ogni giorno di più sotto i nostri occhi, del modo di produzione capitalistico. Egli dice soltanto che il plusvalore consta di lavoro non pagato; il che è un fatto puro e semplice. Ma una cosa che è formalmente falsa per l'economia, può tuttavia essere esatta per la storia universale. Se la coscienza morale della massa considera ingiusto un fatto economico, come in altri tempi la schiavitù o il servaggio, questo dimostra che tale fatto economico è sopravvissuto a se stesso, che sono intervenuti altri fatti economici, per i quali il primo è divenuto intollerabile, insostenibile. Sotto l'inesattezza economica formale può dunque nascondersi un contenuto economico quanto mai vero. Sarebbe qui fuori luogo dilungarci sull'importanza e la storia della teoria del plusvalore.
Ma dalla teoria del valore di Ricardo possono ancora trarsi altre conseguenze, e lo si è fatto. Il valore delle merci è determinato dal lavoro necessario per la loro produzione. Ora, accade in questo brutto mondo che le merci siano vendute a un prezzo talvolta superiore talvolta inferiore al loro valore, e non solo a causa di oscillazioni della concorrenza. Il saggio del profitto tende a perequarsi a un medesimo livello per tutti i capitalisti, casi come i prezzi delle merci tendono a ridursi al valore del lavoro per il tramite della domanda e dell'offerta. Ma il saggio del profitto si calcola in base al capitale totale impiegato in un'impresa industriale; ora, poiché in due differenti rami industriali la produzione annuale può incorporare masse di lavoro eguali, cioè rappresentare valori eguali, e anche il salario può essere eguale in entrambi, ma i capitali anticipati possono essere - e sono spesso - doppi o tripli nell'uno o nell'altro ramo, la legge di Ricardo sul valore, come già scoprì egli stesso, entra in contraddizione con la legge di eguaglianza del saggio del profitto. Se i prodotti dei due rami industriali in questione sono venduti al loro valore, i saggi del profitto non possono essere eguali; ma se i saggi del profitto sono eguali, i prodotti dei due rami industriali non possono essere venduti ovunque e sempre al loro valore. Abbiamo qui dunque una contraddizione, un'antinomia fra due leggi economiche. La soluzione pratica si attua di regola secondo Ricardo (cap. I, sez. 4 e 5) in favore del saggio del profitto, a scapito del valore.
Ma la determinazione del valore, quale è stabilita da Ricardo, ad onta delle sue qualità nefaste, ha un lato che la rende cara al bravo borghese. Essa fa appello con forza irresistibile al suo senso di giustizia. Giustizia ed eguaglianza dei diritti: ecco i pilastri sui quali il borghese del XVIII e del XIX secolo vorrebbe elevare il suo edificio sociale sopra le rovine delle ingiustizie, delle sperequazioni e dei privilegi feudali. La determinazione del valore delle merci in base al lavoro e il libero scambio che si opera secondo questa misura di valore fra possessori di merci aventi gli stessi diritti: ecco, come Marx ha già dimostrato, i veri fondamenti sui quali è stata edificata tutta la ideologia politica, giuridica e filosofica della moderna borghesia. Quando si è appreso che il lavoro è la misura del valore delle merci, i pii sentimenti del bravo borghese debbono sentirsi profondamente feriti dalla malvagità di un mondo che riconosce, sì, nominalmente, questa legge fondamentale della giustizia, ma che, in pratica, ad ogni istante, sembra volerla mettere da parte, senza alcuna cerimonia. E soprattutto il piccolo borghese, il cui onesto lavoro - anche quando tale lavoro è soltanto quello dei suoi garzoni e dei suoi apprendisti - perde ogni giorno di più il suo valore, per effetto della concorrenza della grande produzione e delle macchine, soprattutto il piccolo produttore deve desiderare ardentemente una società in cui lo scambio dei prodotti secondo il loro valore di lavoro diventi una verità piena e senza eccezione; in altri termini, egli deve desiderare ardentemente una società in cui regni esclusivamente e senza restrizioni una legge unica della produzione delle merci, ma dove siano soppresse le condizioni in cui questa legge può valere, ossia le altre leggi della produzione delle merci e, meglio ancora, della produzione capitalistica.
Questa utopia è profondamente radicata nella mentalità del piccolo borghese moderno, reale o ideale; lo dimostra il fatto che già nel 1831 essa è stata sviluppata sistematicamente da John Gray, negli anni trenta è stata sperimentata praticamente e diffusa teoricamente in Inghilterra, è stata proclamata come la verità più recente da Rodbertus in Germania nel 1842, e da Proudhon in Francia nel 1846, enunciata ancora da Rodbertus nel 1871 come soluzione della questione sociale e come suo, per così dire, testamento sociale; e nel 1884 essa trova ancora seguito in quella schiera di carrieristi che si accinge, sotto il nome di Rodbertus, a sfruttare il socialismo di Stato prussiano.
La critica di tale utopia è stata condotta da Marx in modo talmente esauriente, sia contro Proudhon che contro Gray (cfr. l'appendice di quest'opera [4], che qui posso limitarmi ad alcune osservazioni sulla forma speciale adottata da Rodbertus per motivarla ed illustrarla.
Come abbiamo detto, Rodbertus riprende i concetti economici tradizionali esattamente nella forma in cui gli sono stati tramandati dagli economisti. Egli non tenta affatto di analizzarli. Il valore è per lui "la valutazione quantitativa di una cosa rispetto alle altre, prendendo per misura tale valutazione". Questa definizione, per lo meno poco rigorosa, ci dà tutt'al più un'idea dell'aspetto approssimativo del valore, ma non ci dice nulla di ciò che il valore è. Ma poiché questo è tutto ciò che Rodbertus sa dirci del valore, è comprensibile che egli vada a cercare una misura del valore fuori di esso. Dopo aver parlato alla rinfusa del valore d'uso e del valore di scambio per trenta pagine, con quella potenza d'astrazione che è oggetto d'infinita ammirazione da parte del signor Adolf Wagner, egli giunge al risultato che non esiste una misura reale del valore e che è necessario accontentarsi di un surrogato di misura. Questo potrebbe essere il lavoro, ma solo nel caso dello scambio fra prodotti di eguali quantità di lavoro: e ciò indipendentemente dal fatto che "le cose stiano già così o che si prendano disposizioni" per arrivarci. Valore e lavoro rimangono in tal modo privi del minimo rapporto reale, sebbene tutto il primo capitolo sia inteso a spiegarci come e perché le merci "costino lavoro" e null'altro che lavoro.
Il lavoro viene considerato ancora una volta nella forma in cui lo si trova presso gli economisti. E neppure questo, poiché, sebbene si accenni in due parole alle differenze di intensità del lavoro, il lavoro è rappresentato genericamente come qualcosa che "costa", ossia che è misura di valore, sia esso speso o no nella media delle condizioni normali della società. Che i produttori impieghino dieci giorni per la fabbricazione di prodotti i quali potrebbero essere fabbricati in un giorno, o che impieghino un giorno solo; che usino gli utensili migliori o quelli peggiori; che applichino il loro tempo di lavoro alla fabbricazione di articoli socialmente necessari e nella quantità socialmente richiesta o che producano articoli che non sono affatto richiesti o producano in misura superiore o inferiore al bisogno articoli richiesti, di tutto ciò non si fa questione: il lavoro è il lavoro, il prodotto di eguale lavoro deve essere scambiato con un prodotto di eguale lavoro. Rodbertus che in ogni altro caso è sempre pronto, a proposito o a sproposito, a porsi dal punto di vista nazionale e a considerare i rapporti dei produttori isolati dall'alto dell'osservatorio generale della società, qui evita con scrupolo di farlo. Semplicemente perché fin dal primo rigo del suo libro egli va diritto all'utopia del denaro-lavoro e perché qualsiasi analisi del lavoro visto come produttore di valore avrebbe cosparso il suo cammino di ostacoli insormontabili. Qui il suo istinto era notevolmente più forte della sua potenza d'astrazione, la quale - sia detto di passaggio - non può scoprirsi in Rodbertus se non a prezzo della più concreta mancanza di idee.
Il passaggio all'utopia avviene ora in un batter d'occhio. Le "disposizioni" che assicurano lo scambio delle merci secondo il valore del lavoro quasi seguendo una regola assoluta, non creano difficoltà. Gli altri utopisti di questa tendenza, da Gray a Proudhon, si tormentano per escogitare misure sociali che debbono realizzare tale scopo. Essi per lo meno si sforzano di risolvere la questione economica per vie economiche, attraverso l'azione dei possessori di merci i quali le scambiano. Per Rodbertus la cosa è assai più semplice. Da buon prussiano egli fa appello allo Stato. La riforma viene ordinata da un decreto del potere statale.
Il valore è dunque in tal modo felicemente "costituito"; non così però la priorità di questa costituzione, rivendicata da Rodbertus. Al contrario, Gray e Bray - oltre a molti altri - hanno ripetuto quest'idea fino alla sazietà, spesso e molto tempo prima di Rodbertus: il pio desiderio di misure grazie alle quali i prodotti si scambierebbero in ogni circostanza, sempre e solo in base al loro valore di lavoro.
Dopo che lo Stato ha così costituito il valore - per lo meno di una parte dei prodotti, poiché Rodbertus è anche modesto - emette la carta-moneta-lavoro e ne fa degli anticipi ai capitalisti industriali i quali con essi pagano gli operai; gli operai acquistano allora i prodotti con i buoni ricevuti permettendo il ritorno della carta-moneta al suo punto di partenza. Ma bisogna ascoltare da Rodbertus stesso come questo processo si svolge in modo mirabile:
"Per quanto riguarda la seconda condizione, si prenderà la disposizione necessaria affinché il valore segnato sul buono sia effettivamente in circolazione; il buono, cioè, verrà dato solo a chi consegnerà un prodotto e su di esso sarà segnata l'esatta quantità di lavoro che la produzione ha richiesto. Chi consegna un prodotto di due giornate lavorative riceve un buono sul quale è segnato "2 giornate". Con l'osservanza esatta di questo sistema di emissione, verrà adempiuta necessariamente anche questa seconda condizione. Poiché secondo il nostro presupposto il valore effettivo dei beni coincide sempre con la quantità di lavoro che la loro produzione è costata, e la quantità di lavoro ha per misura la consueta suddivisione del tempo, colui il quale consegna un prodotto per il quale siano state impiegate due giornate lavorative, se riceve un attestato di due giornate di lavoro, ha dunque ottenuto che gli sia riconosciuto né più né meno del valore in effetto consegnato; inoltre, poiché ottiene un simile attestato solo chi ha messo realmente in circolazione un prodotto, è altrettanto certo che il valore scritto sul buono esiste per soddisfare la società. Si estenda quanto si vuole la sfera della divisione del lavoro, se la regola verrà esattamente seguita, la somma di valore disponibile deve esattamente eguagliare la somma di valore attestata; e poiché la somma di valore attestata è precisamente la somma di valore assegnata, questa deve necessariamente combaciare col valore disponibile, tutte le esigenze sono soddisfatte e la liquidazione è esatta" (pp. 166, 167).
Se Rodbertus ha avuto finora sempre la disgrazia di giungere troppo tardi con le sue scoperte, questa volta ha almeno il merito di una sorta di originalità; nessuno dei suoi concorrenti aveva osato dare all'utopia insensata del denaro-lavoro questa forma puerilmente ingenua, direi addirittura schiettamente pomerana. Dato che per ogni buono viene fornito un oggetto di valore corrispondente, e che ogni oggetto di un determinato valore viene consegnato solo contro un buono corrispondente, necessariamente la somma dei buoni deve essere sempre coperta dalla somma degli oggetti di valore. Il conto torna esattamente fino al minuto secondo di lavoro: nessun contabile del Debito Pubblico [5], per quanto abbia fatto i capelli bianchi sul lavoro, saprebbe rilevarvi il minimo errore. Che desiderare di più?
Nella società capitalistica attuale, ogni capitalista industriale produce a suo arbitrio ciò che vuole come vuole e quanto vuole. Il fabbisogno sociale resta per lui un'incognita, per quanto concerne sia la qualità, la specie degli oggetti richiesti, sia la loro quantità. Ciò che oggi non può essere fornito con sufficiente rapidità, può esser offerto domani ben oltre la domanda. Ciò malgrado il bisogno finisce per essere soddisfatto alla meglio, bene o male, e nel complesso la produzione si regola in definitiva in base alle merci richieste. Come si concilia questa contraddizione? Per mezzo della concorrenza. E come giunge essa a questa soluzione? Semplicemente deprezzando al di sotto del loro valore di lavoro le merci che per qualità o quantità risultano inutilizzabili per il fabbisogno sociale del momento; e facendo intendere ai produttori, in tale maniera indiretta, che hanno fabbricato articoli assolutamente inutilizzabili o articoli utili in quantità inutilizzabile, superflua. Due cose ne derivano.
Primo, che le continue deviazioni dei prezzi delle merci dai valori delle merci sono la condizione necessaria nella quale, e solo mediante la quale, può nascere il valore delle merci. Poiché solo attraverso le oscillazioni della concorrenza e, conseguentemente, dei prezzi delle merci, si afferma la legge del valore della produzione delle merci, e la determinazione del valore in base al tempo di lavoro socialmente necessario diviene una realtà. Che il prezzo - forma di apparenza del valore - abbia di regola un aspetto un po' diverso dal valore che fa apparire, questo è un destino che esso condivide con la maggior parte dei rapporti sociali. Generalmente anche il re ha un aspetto affatto diverso dalla monarchia che rappresenta. In una società di produttori che scambiano le loro merci, voler determinare il valore in base al tempo di lavoro, vietando alla concorrenza di stabilire tale determinazione del valore nella sola forma possibile, ossia agendo sui prezzi, significa dunque solo dimostrare che, almeno su questo terreno, ci si è permesso come al solito di ignorare utopisticamente le leggi economiche.
In secondo luogo, la concorrenza, realizzando la legge del valore della produzione delle merci in una società di produttori scambisti, impone con ciò stesso il solo ordine e la sola organizzazione della produzione sociale possibili nelle date circostanze. Unicamente attraverso la svalutazione o sopravvalutazione dei prodotti, i singoli produttori di merci imparano per esperienza diretta quali e quante merci la società richiede o non richiede. Ma è appunto questo unico strumento regolatore che l'utopia condivisa da Rodbertus vuole sopprimere. E se poi chiediamo quale garanzia vi sia che di ogni articolo venga prodotta la quantità necessaria e non di più, che non si venga a mancare né di grano né di carne, mentre magari si è schiacciati dallo zucchero di barbabietola e si nuota nell'acquavite di patate, che non ci manchino le mutande per coprire le nostre nudità mentre magari i bottoni per le mutande pullulano a milioni, Rodbertus ci mostra allora trionfalmente il suo famoso conto in base al quale è stato rilasciato un esatto certificato per ogni libbra superflua di zucchero, per ogni botte di acquavite invenduta, per ogni bottone da mutande inutilizzabile, conto che "combacia", che "soddisfa tutte le esigenze e dove la liquidazione è esatta". E chi non lo crede non ha che da rivolgersi al contabile X del Debito Pubblico di Pomerania, il quale ha esaminato il conto e lo ha trovato giusto: lui che nessuno ha mai potuto cogliere in fallo nei suoi conti di cassa ed è perciò degno di fede.
Ed ora vediamo un poco l'ingenuità con cui Rodbertus, mediante la sua utopia, vuole sopprimere le crisi industriali e commerciali. Non appena la produzione delle merci ha assunto le proporzioni del mercato mondiale, l'equilibrio fra i produttori singoli che producono in base a un calcolo privato e il mercato per il quale essi producono (e di cui ignorano più o meno il fabbisogno sia in quantità che in qualità) si stabilisce attraverso un cataclisma del mercato mondiale, una crisi commerciale [*1]. Se si vieta alla concorrenza di far conoscere ai produttori singoli le condizioni del mercato mondiale attraverso il rialzo o la diminuzione dei prezzi, si bendano loro completamente gli occhi. Organizzare la produzione delle merci in modo tale che i produttori non possano sapere più nulla delle condizioni del mercato per il quale producono, significa, certo, curare la malattia della crisi in una maniera che il dottor Eisenbart potrebbe invidiare a Rodbertus.
Si comprende ora perché Rodbertus determini il valore delle merci semplicemente in base al "lavoro", e tutt'al più ammetta gradi diversi di intensità del lavoro. Se avesse indagato con che mezzo e come il lavoro crei il valore e di conseguenza lo determini, lo misuri, sarebbe giunto al lavoro socialmente necessario, necessario per il prodotto singolo di fronte ad altri prodotti della stessa specie, come pure al fabbisogno sociale complessivo. Egli si sarebbe imbattuto nel quesito: come la produzione dei produttori singoli si adegui al fabbisogno sociale complessivo. E con ciò tutta la sua utopia sarebbe divenuta impossibile. Questa volta, in realtà, Rodbertus ha preferito "astrarre"; ha fatto astrazione proprio dal problema che doveva risolvere.
Veniamo infine al punto in cui Rodbertus ci offre davvero qualcosa di nuovo: punto che lo distingue da tutti coloro - e non sono pochi - che con lui condividono l'idea dell'organizzazione dello scambio per mezzo del denaro-lavoro. Questi reclamano tutti un tal sistema di scambio, allo scopo di eliminare lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. Ogni produttore deve ottenere il valore di lavoro totale del suo prodotto. Su questo punto sono tutti unanimi, da Gray fino a Proudhon. Niente affatto, dice invece Rodbertus. Il lavoro salariato ed il suo sfruttamento sussistono.
Innanzitutto, non vi è stato sociale possibile in cui il lavoratore possa ricevere per il proprio consumo il valore totale del proprio prodotto. Il fondo prodotto deve sovvenire a una quantità di funzioni economicamente improduttive, ma necessarie, e quindi anche mantenere le persone addette a tali funzioni. Ma questo è vero finché vigerà l'attuale divisione del lavoro. In una società in cui il lavoro produttivo generale sia obbligatorio, società che pure è "pensabile", ciò non è più vero. Ma resterebbe la necessità di un fondo sociale di riserva e di accumulazione, e anche allora i lavoratori, cioè a dire tutti, possederebbero e godrebbero bensì il prodotto totale, ma ogni lavoratore singolo non beneficerebbe del suo "prodotto integrale del lavoro". Il mantenimento di funzioni economicamente improduttive per mezzo del prodotto del lavoro non è stato trascurato dagli altri utopisti del denaro-lavoro. Ma essi lasciano che gli operai stessi si tassino a quello scopo, seguendo l'usuale costume democratico; mentre Rodbertus, la cui riforma sociale del 1842 è completamente costruita sulla misura dello Stato prussiano di allora, rimette tutto al giudizio della burocrazia che determina con volontà sovrana la parte che spetta all'operaio sul prodotto del suo lavoro e gliela concede graziosamente.
Ma, in secondo luogo, anche la rendita fondiaria e il profitto debbono continuare a sussistere senza decurtazioni. Infatti anche i proprietari fondiari ed i capitalisti industriali adempiono certe funzioni, socialmente utili o persino necessarie, se pure economicamente improduttive, e ricevono in certo qual modo uno stipendio sotto forma di rendita fondiaria e di profitto; concezione che non era affatto nuova, com'è noto, neppure nel 1842. A dire il vero, ora essi ricevono di gran lunga troppo per il poco che fanno, e che fanno abbastanza male; ma Rodbertus ha bisogno di una classe privilegiata, almeno per i prossimi cinquecento anni; e così l'attuale saggio del plusvalore, per esprimermi correttamente, deve sussistere, ma senza poter essere aumentato. Rodbertus pone come saggio attuale del plusvalore il 200%, il che significa che per un lavoro giornaliero di 12 ore l'operaio non otterrà un buono di 12 ore ma di 4 ore soltanto, e il valore prodotto nelle restanti 8 ore dovrà essere diviso tra il proprietario fondiario e il capitalista. I buoni di lavoro di Rodbertus mentono dunque nel modo più assoluto: ma bisogna appunto essere un Junker della Pomerania per immaginare che possa esistere una classe operaia la quale trovi conveniente lavorare 12 ore per avere un buono di lavoro di 4 ore. Se si traducono i giuochi di prestigio della produzione capitalistica in questo linguaggio semplice, nel quale essi si manifestano apertamente come furto, si rendono impossibili. Ogni buono dato al lavoratore sarebbe un invito diretto alla ribellione e cadrebbe sotto il paragrafo 110 del codice penale dell'impero tedesco. Bisogna proprio non aver mai visto altro proletariato che quello di un possedimento feudale della Pomerania, proletariato di giornalieri, in condizioni quasi di servitù della gleba, ove regnano il bastone e la frusta e ove tutte le donne avvenenti del villaggio appartengono all'harem del loro grazioso signore, per immaginare di poter presentare simili impudenze agli operai. Ma i nostri conservatori sono per l'appunto i nostri più grandi rivoluzionari.
Però, se i nostri operai sono tanto mansueti da lasciarsi dar ad intendere che dopo aver lavorato duro per 12 ore filate essi non hanno in realtà lavorato che 4 ore, verrà loro garantito, come ricompensa, che per tutta l'eternità la parte loro spettante sul proprio prodotto non cadrà al disotto di un terzo. In realtà, questo è suonare la musica dell'avvenire con una trombetta da ragazzi. E non val la pena di perderci una parola di più. Di conseguenza tutto quel che di nuovo Rodbertus ci offre nella sua utopia dello scambio in base al denaro-lavoro, è semplicemente puerile e assai inferiore a quanto hanno fatto i suoi numerosi colleghi prima e dopo di lui.
Per l'epoca in cui apparve, "Zur Erkenntnis ecc." di Rodbertus era senza dubbio un libro importante: far avanzare la teoria del valore di Ricardo nella prima direzione era un inizio molto promettente. Anche se si trattava di una novità soltanto per lui e per la Germania, il suo lavoro, tutto sommato, può essere posto sullo stesso livello di quelli dei migliori fra i suoi precursori inglesi. Ma non era appunto che un inizio, da cui solo un ulteriore lavoro critico condotto sino in fondo poteva ricavare una reale utilità per la teoria. Questo sviluppo Rodbertus se lo precluse invece da sé, poiché fin dall'inizio sviluppò il pensiero di Ricardo nell'altra direzione, quella dell'utopia. Con questo perse la condizione fondamentale di ogni critica: l'obiettività. Rodbertus lavorò con una meta preconcetta dinanzi agli occhi, divenne un economista di tendenza. Una volta prigioniero della sua utopia, egli si precluse ogni possibilità di progresso scientifico. Dal 1842 fino alla sua morte, si aggira nel medesimo circolo, ripete le stesse idee già espresse o accennate nella sua prima opera, si sente misconosciuto, si vede saccheggiato, dove non c'era nulla da saccheggiare, e rifiuta infine, anche intenzionalmente, di riconoscere che in fondo egli aveva riscoperto solo quello che era già stato scoperto da gran tempo.
In alcuni passi la traduzione si discosta dall'originale francese stampato. Ciò deriva da modifiche manoscritte di Marx che troveranno posto anche nella nuova edizione francese che si prepara.
È appena necessario far osservare che il linguaggio usato nella presente opera non coincide sempre con quello del "Capitale". Vi si parla ancora del lavoro come di una merce, di acquisto e di vendita del lavoro anziché di forza-lavoro.
Come complemento, sono stati aggiunti in questa edizione: 1) un passo dell'opera di Marx: "Per la critica dell'economia politica", Berlino, 1859, a proposito della prima utopia sullo scambio del denaro-lavoro di John Gray; 2) il discorso di Marx sul libero scambio, pronunciato in francese a Bruxelles (1847) e che, nello sviluppo del pensiero dell'autore, appartiene allo stesso periodo della "Misère" [6].
Londra, 23 ottobre 1884
Alla seconda edizione
Devo osservare soltanto che il nome scritto erroneamente Hopkins nel testo francese (pag. 45) è stato sostituito col nome corretto di Hodgskin e che la data dell'opera di William Thompson (stessa pagina) è stata cambiata in 1824. È da sperare che ciò varrà a placare la coscienza bibliografica del prof. Anton Menger.
Londra, 29 marzo 1892
Friedrich Engels
Note
1. Si tratta della prefazione di Engels alla prima edizione tedesca di Miseria della filosolia (Karl Marx, Das Elend der Philosophie. Antwort auf Proudhon's "Philosophie des Elends", trad. tedesca di E. Bernstein e K. Kautsky, introduzione e note di Friedrich Engels, Stuttgart, 1885) e della nota preliminare, sempre di Engels, aggiunta alla seconda edizione (ivi, 1892).
2. Cfr. sopra, lettera a Schweitzer.
3. Karl Marx, Per la critica dell'economia politica.
4. Si tratta delle pagine di Per la critica dell'economia politica cui Marx stesso accenna in Su P.-J. Proudhon. Lettera a J,B. von Schweitzer. In quest'edizione gli estratti di Per la critica dell'economia politica sono stati omessi.
5. Engels usa ironicamente il complicato sostantivo composto "Regierungs - Hauptkassen - Rentamtskalkulator".
*1. Per lo meno fino a poco tempo fa avveniva così. Da quando il monopolio inglese del mercato mondiale viene spezzato sempre più dalla partecipazione al commercio mondiale della Francia, della Germania e, soprattutto, dell'America, sembra affermarsi una nuova forma di equilibrio. Il periodo di generale prosperità che precede la crisi, ancora non si fa vedere. Se non venisse affatto, la situazione normale dell'industria moderna dovrebbe essere una stagnazione cronica con lievi oscillazioni soltanto.
6. Sul passo di Per la critica, vedi nota 4. Nell'appendice a questa edizione è stato omesso anche il Discours sur la question du libre échange, pronunciato all'Association démocratique di Bruxelles nella seduta pubblica del 9 gennaio 1848 e successivamente pubblicato a cura della stessa associazione (Bruxelles, 1848;. trad. it., Discorso sulla questione del libero scambio, in Marx-Engels, Opere, v. VI, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 469-482.
Capitolo primo: Una scoperta scientifica
Indice della Miseria della Filosofia
Ultima modifica 24.12.2003