[ Indice di Riforma sociale o Rivoluzione ]
1. Lo sviluppo economico ed il socialismo
2. Sindacati cooperative e democrazia politica
3. La conquista del potere politico
5. L'opportunismo in teoria e in pratica
La maggiore acquisizione della lotta di classe proletaria nel corso del suo sviluppo fu la scoperta che il punto di partenza per la realizzazione del socialismo è da ricercarsi nei rapporti economici della società capitalistica. Con ciò il socialismo, che era stato vagheggiato per millenni dall'umanità come un "ideale" è diventato una necessità storica.
Bernstein contesta l'esistenza di queste premesse economiche del socialismo nella società attuale. Su questo argomento egli stesso, nel corso della sua dimostrazione, compie un'interessante evoluzione. All'inizio, nella Neue Zeit egli contestò solamente la rapidità della concentrazione nell'industria, basando le sue argomentazioni su un confronto tra i dati delle statistiche professionali in Germania del 1895 e del 1882. A questo scopo, per utilizzare tali dati per i suoi fini, dovette ricorrere a procedimenti del tutto sommari e meccanici. Ma anche nel caso più favorevole, Bernstein non avrebbe potuto intaccare minimamente, col suo accenno alla persistenza delle medie aziende, l'analisi di Marx. Perché questa non presuppone un determinato ritmo della concentrazione dell'industria, cioè un determinato termine fissato per la realizzazione dello scopo finale socialistico, e neppure, come abbiamo dimostrato, una scomparsa assoluta dei piccoli capitali, vale a dire la scomparsa della piccola borghesia, come condizione della realizzabilità del socialismo.
Ora nell'ulteriore sviluppo delle sue vedute Bernstein dà nel suo libro nuovo materiale dimostrativo e precisamente la statistica delle società per azioni, la quale dovrebbe dimostrare che il numero degli azionisti aumenta sempre, e quindi la classe dei capitalisti non si restringe, ma al contrario diventa sempre maggiore. E' sorprendente quanto poco Bernstein conosca il materiale che tratta e quanto poco sappia adoperarlo in suo favore!
Se per mezzo delle società per azioni voleva dimostrare qualche cosa contro la legge marxista dello sviluppo industriale, avrebbe dovuto portare tutt'altre cifre. Infatti chiunque conosca la storia delle società per azioni in Germania, sa che il loro capitale medio di fondazione per singola impresa è in fase di diminuzione quasi regolare. Così prima del 1871 questo capitale ammontava a circa 10,8 milioni di marchi, nel 1871 soltanto a 4,01 milioni di marchi, nel 1873 a 3,8 milioni di marchi, dal 1883 al 1887 a meno di un milione di marchi, nel 1891 a solo 0,56 milioni di marchi, nel 1892 a 0,62 milioni di marchi. Da allora gli importi oscillano intorno a un milione di marchi o addirittura da 1,78 milioni di marchi raggiunti nell'anno 1895, caddero di nuovo a 1,19 milioni di marchi nel primo semestre del 1897 [*1].
Cifre sorprendenti! Probabilmente Bernstein costruirebbe, con ciò tutta una tendenza antimarxista del regresso dalle grandi alle piccole aziende. Ma in questo caso ognuno potrebbe ribattergli: se volete dimostrare qualche cosa con questa statistica, dovete anzitutto dimostrare che essa riguarda le stesse branche dell'industria, che le aziende minori sorgono ora al posto delle antiche grandi aziende e non là dove finora esisteva il capitale individuale o l'artigianato o un'azienda minima. Ma voi non riuscirete a dare questa dimostrazione perché il passaggio dalla fondazione di società per azioni gigantesche alle medie e piccole è spiegabile proprio soltanto col fatto che l'azionariato penetra sempre in nuove branche e se da principio valeva soltanto per poche imprese colossali, si è adattato ora sempre di più alle medie imprese e qua e là anche alle piccole. (Saltano fuori persino società per azioni con un capitale di 1000 marchi!)
Ma che cosa significa dal punto di vista dell'economia la sempre maggiore estensione dell'azionariato? Significa la progressiva socializzazione della produzione in forma capitalistica, la socializzazione non soltanto della grande, ma anche della media e persino della piccola produzione, qualche cosa, quindi, che non contraddice la teoria marxista, ma la conferma nel modo più brillante che si possa immaginare.
Infatti! In che cosa consiste il fenomeno economico della fondazione di società per azioni? Da un lato nella riunione di molte piccole disponibilità di denaro in un capitale produttivo, dall'altro nella separazione della produzione dalla proprietà del capitale, dunque, in un duplice superamento del modo di produzione capitalistico - sempre su base capitalistica. Che cosa significa in rapporto a questo la statistica addotta da Bernstein del grande numero degli azionisti che prendono parte a un'impresa? Appunto nient'altro, se non che ora una impresa capitalistica non corrisponde a un capitalista come prima, ma a tutto un complesso, a un numero sempre crescente di proprietari di capitale, che cioè il concetto economico del "capitalista" non coincide più con quello di un singolo individuo, che l'odierno capitalista industriale è una persona collettiva, composta da centinaia, e magari da migliaia di persone, che la stessa categoria dei "capitalisti" nella cornice della economia capitalistica è diventata una categoria sociale, si è socializzata.
Ma come si spiega, a questo riguardo, che Bernstein consideri il fenomeno delle società per azioni proprio al contrario come un frazionamento e non come una concentrazione del capitale, che egli veda una diffusione della proprietà capitalistica là dove Marx vede un "superamento della proprietà capitalistica"? Per uno strafalcione molto semplice dell'economia volgare: perché Bernstein intende per capitalista non una categoria della produzione, ma del diritto di proprietà, non un'unità economica ma politico-fiscale, e per capitale non un complesso produttivo ma semplicemente una disponibilità di denaro. Perciò nel suo trust dei filati cucirini inglesi non vede la fusione di 12.300 persone in un capitalista, ma 12.300 capitalisti completi perciò per lui anche l'ingegnere Schulze, che ricevette dal redditiero Müller come dote per sua moglie "un notevole numero di azioni" (p. 54) è un capitalista, perciò per lui tutto il mondo formicola di capitalisti [*2].
Ma qui come altrove lo strafalcione dell'economia volgare in Bernstein non è che il terreno teorico per una volgarizzazione del socialismo. Mentre Bernstein trasferisce il concetto del capitalista dai rapporti di produzione ai rapporti di proprietà, e "parla di uomini anziché di imprenditori" (p. 53), trasferisce anche la questione del socialismo dal campo dei rapporti di produzione al campo dei rapporti di ricchezza, del rapporto tra capitale e lavoro al rapporto tra ricco e povero.
Così da Marx ed Engels, siamo riportati indietro all'autore del Vangelo del povero peccatore [1], con la sola differenza che Weitling con giusto istinto proletario riconobbe proprio in questo antagonismo tra povero e ricco l'antagonismo di classe in forma primitiva e volle farne la molla propulsiva del movimento socialista, mentre Bernstein al contrario vede nel cambiamento del povero in ricco, cioè nell'affievolimento dell'antagonismo delle classi, quindi nel processo piccolo-borghese, le speranze del socialismo.
Naturalmente Bernstein non si limita alla statistica del reddito. Ci dà anche una statistica delle aziende desunta da diversi paesi: dalla Germania e dalla Francia, dall'Inghilterra e dalla Svizzera, dall'Austria e dagli Stati Uniti. Ma che razza di statistiche sono queste? Non sono dati paragonabili di diversi momenti in ciascun paese, ma di un momento in diversi paesi. Egli paragona quindi - esclusa la Germania, per la quale ripete il suo vecchio paragone del 1895 e del 1882 - non la quantità di aziende di un paese in diversi periodi, ma soltanto le cifre assolute di diversi paesi (per l'Inghilterra dell'anno 1891, per la Francia del 1894, per gli Stati Uniti del 1890 e così via). La conclusione cui arriva è "che se le grandi aziende hanno realmente già oggi il sopravvento nell'industria, esse, comprese le aziende che ne dipendono, persino in un paese così progredito come la Prussia, rappresentano al massimo la metà della popolazione attiva nella produzione", e lo stesso in tutta la Germania, l'Inghilterra, il Belgio e così via (p. 84).
Ciò che egli dimostra in questa maniera evidentemente non è questa o quella tendenza dello sviluppo economico, ma semplicemente il rapporto assoluto di forze delle diverse forme aziendali e rispettivamente delle diverse classi professionali. Se si deve dimostrare con ciò l'irrealizzabilità dei socialismo, questa dimostrazione si basa su una teoria, secondo la quale la riuscita di aspirazioni sociali è determinata dal rapporto di forze numerico, fisico , dei contendenti, cioè dal solo momento della forza bruta. E qui Bernstein, che fiuta dappertutto blanquismo, ricade per distrazione proprio nel più grossolano malinteso blanquista. Con la differenza tuttavia che i blanquisti, come tendenza socialista e rivoluzionaria, presupponevano come evidente la realizzabilità economica del socialismo e su di essa basavano le speranze della rivoluzione violenta di una minoranza anche piccola, mentre Bernstein al contrario dalla mancanza della maggioranza numerica della popolazione deduce l'irrealizzabilità economica del socialismo. La socialdemocrazia non deriva il suo scopo finale né dalla forza vittoriosa della minoranza, né dal sopravvento numerico della maggioranza, ma dalla necessità economica (e dalla consapevolezza di questa necessità), la quale conduce all'eliminazione del capitalismo per opera della massa popolare e che si manifesta anzitutto nell'anarchia capitalistica.
Per ciò che riguarda quest'ultima questione decisiva, dell'anarchia nell'economia capitalistica, Bernstein stesso rifiuta soltanto le grandi crisi generali, ma non crisi parziali e nazionali. Con ciò esclude soltanto molta anarchia e contemporaneamente ammette l'esistenza di un po' di anarchia. Succede all'economia capitalistica secondo Bernstein - per parlare una volta ancora con Marx - come a quella ragazza folle che aveva un bambino, ma "era piccolissimo". Lo spiacevole in questa faccenda è infatti che in cose come l'anarchia poco e molto sono ugualmente cattivi. Se Bernstein ammette un po' di anarchia, il meccanismo stesso dell'economia mercantile si incarica di far aumentare enormemente questa anarchia - fino al crollo. Ma se Bernstein spera - mantenendo contemporaneamente la produzione delle merci - di dissolvere progressivamente quel pochino di anarchia nell'ordine e nell'armonia, cade nuovamente in uno degli errori più fondamentali dell'economia volgare borghese, considerando il modo di scambio come indipendente dal modo di produzione.
Non è qui il caso di mostrare nel suo complesso la straordinaria confusione sui princìpi più elementari dell'economia politica, che Bernstein ha manifestato nel suo libro. Ma un punto almeno dev'essere lumeggiato, al quale ci conduce la questione fondamentale dell'anarchia capitalistica.
Bernstein dichiara che la legge del valore-lavoro di Marx è una pura astrazione, ciò che secondo lui nell'economia politica è evidentemente un'ingiuria. Ma se il valore-lavoro è puramente un'astrazione "una creazione della fantasia" (p. 44), ogni onesto borghese, che abbia fatto il servizio militare e pagato le sue tasse, ha lo stesso diritto di Karl Marx di fare di qualunque assurdità una simile "creazione della fantasia", cioè la legge del valore."Tanto è permesso a Marx di prescindere a tal punto dalle proprietà delle merci, che alla fine esse rimangono soltanto come incarnazione di quantità di semplice lavoro umano, quanto è permesso alla scuola di Böhm-Jevons astrarre da tutte le proprietà delle merci, all'infuori della loro utilità" (p. 42).
Dunque il lavoro sociale di Marx e l'utilità astratta di Menger per lui sono zuppa e pan bagnato: tutto mera astrazione. Bernstein con ciò ha completamente dimenticato che l'astrazione marxista non è un'invenzione ma una scoperta, che essa esiste non nel cervello di Marx, ma nell'economia mercantile e porta in sé una non immaginaria ma reale esistenza sociale, così reale che può essere tagliata e martellata, pesata e coniata. Il lavoro umano astratto scoperto da Marx infatti nella sua forma spiegata non è altro che il denaro. E questa è veramente una delle più geniali scoperte economiche di Marx, mentre per tutta l'economia borghese, dal primo mercantilista fino all'ultimo classico, l'essenza mistica del denaro è rimasta un libro con sette sigilli.
L'utilità astratta di Böhm-Jevons è invece realmente una pura creazione della fantasia o meglio un prodotto del vuoto mentale, una assurdità individuale, della quale non può esser responsabile né la società capitalistica né un'altra società umana, ma puramente e semplicemente l'economia volgare borghese. Con questa "creazione della fantasia" in capo, Bernstein e Böhm-Jevons con tutta la loro confraternita soggettiva possono starsene fermi vent'anni davanti al mistero del denaro, senza arrivare ad altra soluzione se non a quella che sapeva senza di loro ogni calzolaio: che il denaro è anche una cosa "utile".
Con ciò Bernstein ha perduto completamente la comprensione della legge del valore di Marx. Ma per chi ha una qualche confidenza con il sistema economico marxista sarà chiaro senz'altro che senza la legge del valore l'intiero sistema rimane del tutto incomprensibile oppure, per parlare più concretamente, se non si comprende l'essenza della merce e del suo scambio, tutta l'economia capitalistica con le sue concatenazioni deve rimanere un mistero.
Ma che cos'è la chiave magica di Marx, che gli ha permesso di aprire proprio i più intimi segreti di tutti i fenomeni capitalistici, che gli ha permesso di sciogliere con la facilità di un gioco problemi dei quali i maggiori spiriti dell'economia borghese classica, come Smith e Ricardo, non avevano nemmeno sospettato l'esistenza?
Nient'altro che la concezione di tutta l'economia capitalistica come di un fenomeno storico, e non soltanto dietro di sé, come li comprendeva, nel migliore dei casi, l'economia classica, ma anche davanti a sé, non soltanto con uno sguardo retrospettivo al passato economico feudale, ma particolarmente con uno sguardo nel futuro socialista. Il segreto della dottrina marxista del valore, della sua analisi del denaro, della sua teoria del capitale, della sua dottrina del saggio di profitto e con ciò di tutto il sistema economico, è la transitorietà dell'economia capitalistica, il suo crollo, e quindi - questo è solo l'altra faccia - lo scopo finale del socialismo. Proprio e soltanto perché Marx considerava anzitutto da socialista, cioè sotto il punto di vista storico, l'economia capitalistica, poté decifrare i suoi geroglifici; perché egli faceva del punto di vista socialista il punto di partenza dell'analisi scientifica della società borghese, poté viceversa dare così solide basi teoriche al socialismo.
Con tutto questo bisogna confrontare le osservazioni di Bernstein nella conclusione dei suo libro, dov'egli deplora il "dualismo" "esistente in tutta la monumentale opera di Marx", "consistente nel fatto che tale opera vuol essere una ricerca scientifica e contemporaneamente vuol dimostrare una tesi già pronta fin da prima del suo concepimento, che essa si basa su uno schema nel quale il risultato, cui dovrebbe condurre lo sviluppo del lavoro, era già fissato a priori. Il ritorno al Manifesto comunista [cioè allo scopo finale socialista!] dimostra qui un residuo effettivo di utopismo nel sistema marxista" (p. 177).
Ma il "dualismo" di Marx altro non è che il dualismo dell'avvenire socialistico e del presente capitalistico, del capitale e del lavoro, della borghesia e del proletariato, è il riflesso scientifico monumentale del dualismo esistente nella società borghese, degli antagonismi borghesi di classe.
E quando Bernstein vede in questo dualismo teorico di Marx "un residuo di utopismo" non fa che riconoscere ingenuamente di aver rinnegato il dualismo storico della società borghese e gli antagonismi capitalistici di classe, e che ormai il socialismo stesso è divenuto per lui un "residuo di utopismo". Il "monismo", cioè la coerenza di Bernstein è la coerenza dell'ordine borghese eternato, la coerenza del socialista che ha lasciato cadere il suo scopo finale per vedere nella società borghese una ed immutabile il termine finale dell'evoluzione umana.
Ma se Bernstein nella struttura economica del capitalismo stesso non vede il dualismo e l'evoluzione verso il socialismo, deve ricorrere, per salvare almeno nella forma il programma socialista, a una costruzione idealistica che stia al di fuori dell'evoluzione economica e trasformare il socialismo stesso da una determinata fase storica dell'evoluzione sociale in un "principio" astratto.
Il "principio del cooperativismo" di Bernstein, del quale dovrebbe adornarsi l'economia capitalistica, questa "decantazione" estremamente rarefatta dello scopo finale socialista, appare come nient'altro che una concessione fatta dalla sua teoria borghese, non al futuro socialista della società, ma al passato socialista di Bernstein.
Abbiamo visto che il socialismo di Bernstein sbocca nel progetto di far partecipare gli operai alla ricchezza sociale, di tramutare i poveri in ricchi. Come dovrebbe realizzarsi tutto ciò? Nei suoi articoli Problemi del socialismo pubblicati sulla Neue Zeit, Bernstein lascia intravvedere soltanto alcune direttive appena comprensibili, ma nel suo libro dà ampi schiarimenti a tale questione: il suo socialismo dovrebbe essere realizzato per due vie: per mezzo dei sindacati, ovvero, come Bernstein dice, della democrazia economica, e per mezzo di cooperative. Coi primi egli vuole afferrare per il collo il profitto industriale e con le ultime il profitto commerciale.
Per ciò riguarda le cooperative, e soprattutto le cooperative di produzione, esse rappresentano per la loro stessa natura qualche cosa di ibrido in mezzo all'economia capitalistica: una produzione socializzata in piccolo in un contesto capitalistico di scambio. Ma nell'economia capitalistica lo scambio domina sulla produzione e, tenuto conto della concorrenza fa sì che uno sfruttamento spietato, cioè i predominio assoluto degli interessi del capitale sul processo produttivo, sia condizione di vita dell'impresa.
Praticamente questo si manifesta nella necessità di render il lavoro il più possibile intensivo, abbreviarlo od allungarlo a seconda della condizione del mercato, assumere forza di lavoro oppure licenziarla e metterla sul lastrico, a seconda delle richieste del mercato di smercio, in una parola applicare tutti i ben noti metodi che mettono un'impresa capitalistica in grado di sostenere la concorrenza. Ne deriva nella cooperativa di produzione la necessità contraddittoria per i lavoratori di reggere se stessi con tutto l'assolutismo richiesto, e di rappresentare verso se stessi la funzione dell'imprenditore capitalistico. Per questa contraddizione la cooperativa di produzione va in rovina, trasformandosi in impresa capitalistica, o, se gli interessi dei lavoratori sono predominanti, sciogliendosi. Questi sono i dati di fatto che Bernstein stesso constata, ma interpreta male, quando vede con la signora Potter-Webb nella mancanza di "disciplina"la causa della rovina delle cooperative di produzione in Inghilterra. Ciò che qui viene superficialmente e vagamente chiamata disciplina, non è altro che il naturale regime assoluto del capitale che i lavoratori però non possono in alcun modo esercitare verso se stessi [*3].
Ne consegue che la cooperativa di produzione può assicurare la propria esistenza entro l'economia capitalistica soltanto quando elimina con una via traversa la contraddizione che le è inerente tra modo di produzione e modo di scambio, sottraendosi artificialmente alle leggi della libera concorrenza. E lo può fare soltanto assicurandosi a priori un mercato di smercio, una cerchia fissa di consumatori. Come tale mezzo d'aiuto la serve appunto la cooperativa di consumo. E da capo in questo fatto, e non nella distinzione tra cooperative di acquisto e di vendita o comunque suoni la trovata di Oppenheim, si deve cercare il segreto discusso da Bernstein, perché le cooperative di produzione autonome vanno in rovina, e solo la cooperativa di consumo è in grado di assicurare loro esistenza.
Ma se quindi le condizioni di esistenza delle cooperative di produzione nell'odierna società sono legate alle condizioni di esistenza delle cooperative di consumo, ne deriva come ulteriore conseguenza che nel caso più favorevole le cooperative di produzione sono destinate al piccolo smercio locale ed a pochi prodotti di necessità immediata, preferibilmente generi alimentari. Tutti i rami più importanti della produzione capitalistica: l'industria tessile, carbonifera, metallurgica, petrolifera, come pure la fabbricazione di macchine, locomotive, navi, sono escluse a priori dalla cooperativa di consumo e quindi anche da quella di produzione. A prescindere, dunque, dal loro carattere ibrido, le cooperative di produzione non possono essere considerate come una riforma sociale generale. Già per il fatto che la loro attuazione generale presuppone anzitutto la soppressione del mercato mondiale e la dissoluzione dell'economia mondiale in piccoli gruppi locali di produzione e di scambio, quindi essenzialmente un ritorno dall'economia mercantile del capitalismo sviluppato a quella medievale.
Ma anche nei limiti della loro possibile realizzazione, sul terreno della società attuale, le cooperative di produzione si riducono necessariamente a semplici appendici delle cooperative di consumo, le quali si presentano così in primo piano come i principali portatori della ideata riforma socialista. Così, però, tutta la riforma socialista attuata mediante le cooperative si riduce, da lotta contro il capitale produttivo, cioè contro il tronco principale dell'economia capitalistica, a lotta contro il capitale commerciale, e precisamente contro quello del commercio al minuto e intermediario, cioè solo contro rami secondari del tronco capitalistico.
Quanto ai sindacati, che devono costituire secondo Bernstein, uno strumento contro lo sfruttamento operato dal capitale produttivo, abbiamo già mostrato che essi non sono in condizione di assicurare agli operai un'influenza sul processo produttivo, né in rapporto all'ampiezza della produzione, né in rapporto al suo procedimento tecnico.
Ma, quanto all'aspetto puramente economico della questione, cioè a quella che Bernstein chiama "lotta della quota di salario contro la quota di profitto" - essa, come abbiamo pure già dimostrato, non viene combattuta nel libero cielo azzurro, bensì entro i confini segnati dalla legge dei salari, che essa non può infrangere ma soltanto applicare. Questo appare evidente a chi consideri la questione sotto un altro punto di vista, cioè in rapporto alle funzioni proprie dei sindacati.
I sindacati, a cui Bernstein attribuisce la funzione, nella lotta di emancipazione della classe operaia, di condurre il vero e proprio attacco contro la quota di profitto industriale, in modo da dissolverla gradatamente in quota di salario, non sono in pratica in condizione di condurre una politica economica di attacco al profitto, giacché essi non sono altro che la difensiva organizzata dalla forza lavoro contro gli attacchi del profitto, la difesa della classe operaia contro la tendenza oppressiva dell'economia capitalistica. E questo per due motivi.
Innanzi tutto i sindacati hanno per compito di influenzare. con la loro organizzazione, il mercato della merce forza-lavoro; ma quest'organizzazione viene continuamente forzata dal processo di proletarizzazione dei medi ceti, che continua a portare nuova merce sul mercato del lavoro. In secondo luogo, i sindacati mirano a migliorare il tenore di vita, ad accrescere la partecipazione della classe operaia alla ricchezza sociale; sennonché questa partecipazione viene ostacolata di continuo, con la fatalità di un processo naturale, dal crescere della produttività del lavoro. Per condividere questa opinione, non occorre davvero essere marxisti: basta aver avuto una volta in mano il libro di Rodbertus intitolato Zur Beleuchtung der sozialen Frage.
Nelle sue due principali funzioni economiche, la lotta sindacale si trasforma dunque, in conseguenza di processi obiettivi nella società capitalistica, in una specie di lavoro di Sisifo. Del resto questo lavoro di Sisifo è inevitabile se si vuole che l'operaio ottenga la quota di salario che gli spetta sulla base della situazione corrente del mercato, che sia rispettata la legge capitalistica del salario e che la tendenza dello sviluppo economico a provocare un ribasso venga paralizzata, o, più precisamente, indebolita nel suo effetto. Ché, se invece si pensa a trasformare i sindacati in uno strumento di graduale diminuzione del profitto a vantaggio del salario, questo presuppone, innanzi tutto, come condizione sociale, un arresto nella proletarizzazione dei ceti medi e nell'accrescimento della classe operaia, in secondo luogo un arresto nell'aumento della produttività del lavoro, cioè, nell'uno come nell'altro caso, proprio come la realizzazione dell'economia delle cooperative di consumo, un regresso alle condizioni precedenti il capitalismo sviluppato.
I due strumenti bernsteiniani della riforma socialista - cooperative e sindacati - si rivelano dunque del tutto inadatti a trasformare il modo di produzione capitalistico. In fondo Bernstein ne è oscuramente cosciente e li considera solo come mezzi per ridurre il profitto capitalistico e arricchire in tal modo gli operai. Ma egli così rinuncia proprio alla lotta contro il modo di produzione capitalistico e indirizza il movimento socialdemocratico verso la lotta contro la ripartizione capitalistica. Bernstein definisce in più passi il suo socialismo come lo sforzo verso una "giusta" "più giusta" (p. 51 del suo libro) addirittura "ancor più giusta" ripartizione (Vorwärtsdel 26 marzo 1899).
Certo, la prima spinta verso il movimento socialdemocratico, almeno nelle masse popolari, viene anche dalla "ingiusta" ripartizione dell'ordinamento capitalistico. E lottando per la socializzazione dell'economia nel suo complesso, la socialdemocrazia tende naturalmente anche a una "giusta" ripartizione della ricchezza sociale. Soltanto - grazie alla conoscenza raggiunta da Marx che in ogni momento la ripartizione è solo la conseguenza naturale della forma di produzione di quel momento - essa non indirizza la sua lotta verso la ripartizione nel quadro della produzione capitalistica, bensì verso la soppressione della stessa produzione mercantile. La socialdemocrazia vuole insomma introdurre la ripartizione socialistica mediante l'abolizione del modo di produzione capitalistico; il procedimento bernsteiniano invece è esattamente l'opposto: esso vuole combattere la ripartizione capitalistica e spera in questo modo di introdurre gradatamente un modo di produzione socialistico.
Ma come può attuarsi in questo caso la riforma socialista di Bernstein? Attraverso date tendenze della produzione capitalistica? Questo no certo, in primo luogo perché egli nega queste tendenze, in secondo luogo perché, secondo quanto è già stato detto, la trasformazione auspicata della produzione è per lui effetto e non causa della ripartizione. Perciò il suo socialismo non può avere una base economica. Dopo che egli ha capovolto scopo e mezzi del socialismo, e con essi i rapporti economici, egli non può dare al suo programma una base materialistica, e perciò è costretto a prenderne una idealistica.
"Perché far derivare il socialismo da una necessità economica?" lo sentiamo dire. "Perché degradare l'intelligenza, la coscienza del diritto, la volontà dell'uomo?" (Vorwärtsdel 26 marzo 1899). La ripartizione più giusta di Bernstein deve quindi attuarsi grazie a una libera volontà dell'uomo, che non sarà asservita a una necessità economica; o più precisamente, dal momento che la volontà non è altro che uno strumento, grazie alla comprensione della giustizia, in breve grazie all'idea di giustizia.
Ed eccoci felicemente arrivati al principio della giustizia, a questo vecchio cavallo da corsa cavalcato da millenni da tutti i riformatori del mondo che si sono trovati sprovvisti di più sicuri veicoli storici, al malfermo Ronzinante sul quale hanno cavalcato tutti i Don Chisciotte della storia alla volta della riforma del mondo, per riportare in definitiva a casa nient'altro che un occhio pesto.
Il rapporto di povero a ricco come base sociale del socialismo, il "principio" cooperativistico, come suo contenuto, la "ripartizione più giusta" come suo scopo, e l'idea di giustizia come sua unica legittimazione storica - con quanta più forza, intelligenza e brio, Weitling rappresentava questa sorta di socialismo più di 50 anni fa! Bisogna però tener conto del fatto che il geniale sarto non conosceva ancora il socialismo scientifico. E se oggi dopo mezzo secolo, la sua concezione, fatta a brandelli da Marx e da Engels, può di nuovo essere felicemente rappezzata ed essere offerta al proletariato tedesco, come la ultima parola della scienza, occorre, anche per questo lavoro, un sarto... ma non un sarto geniale.
Come i sindacati e le cooperative sono le basi economiche, così il presupposto politico più importante della teoria revisionistica è uno sviluppo continuo e progressivo della democrazia. Per il revisionismo, gli attuali scoppi di reazione non sono altro che "sussulti", che il revisionismo ritiene accidentali e temporanei, e con i quali non ci sarebbero da fare i conti agli effetti della determinazione della linea generale per la lotta della classe operaia.
Per Bernstein per esempio la democrazia è un gradino inevitabile nello sviluppo della società moderna, anzi, per lui come per il teorico borghese del liberalismo, la democrazia è la legge fondamentale dello sviluppo storico in generale, alla cui attuazione devono servire tutte le forze attive della vita politica. Ma questa teoria espressa in termini così assoluti è fondamentalmente falsa: essa è soltanto un modo piccolo-borghese e del tutto superficiale di erigere a modello i risultati di una piccola punta estrema dell'evoluzione borghese all'incirca degli ultimi 25 o 30 anni. Ché se invece si considera più da vicino lo svolgersi della democrazia nella storia e insieme la storia politica del capitalismo, si giunge a un risultato sostanzialmente diverso.
Per ciò che concerne il primo aspetto, noi troviamo la democrazia nelle formazioni sociali più diverse: nelle società comuniste originarie, negli antichi Stati schiavisti, nei Comuni cittadini medievali. Del pari incontriamo l'assolutismo e la monarchia costituzionale, che pure si trovano nelle più diverse organizzazioni economiche. D'altra parte il capitalismo ai suoi inizi, in quanto produzione di merci, dà vita nei Comuni cittadini a una costituzione democratica; più tardi, nella sua forma più evoluta, di manifattura, trova nella monarchia assoluta la forma politica corrispondente. Finalmente, nella sua fase di economia industriale sviluppata, il capitalismo produce in Francia volta a volta la repubblica democratica (1793), la monarchia assoluta di Napoleone I, la monarchia aristocratica della Restaurazione (1815-1830), la monarchia costituzionale borghese di Luigi Filippo, di nuovo la repubblica democratica, la monarchia di Napoleone III, e finalmente, e per la terza volta, la repubblica. In Germania l'unica istituzione veramente democratica, il suffragio universale, non è una conquista del liberalismo borghese quanto uno strumento della saldatura politica dei vari piccoli Stati, e solo così ha un suo significato nello sviluppo della borghesia tedesca, la quale peraltro si dichiarava soddisfatta anche della monarchia costituzionale semifeudale. In Russia, il capitalismo prosperò a lungo, sotto l'autocrazia orientale, senza che per questo la borghesia mostrasse di aspirare alla democrazia. In Austria, il suffragio universale apparve più che altro una cintura di salvataggio della monarchia in disgregazione. In Belgio, infine, la conquista democratica del movimento operaio - il suffragio universale - è indubbiamente legata alla debolezza del militarismo, cioè alla particolare situazione geografico-politica del Belgio; è, innanzi tutto, un "pezzo di democrazia" conquistato a prezzo di lotte non dalla borghesia quanto contro la borghesia.
Il progresso costante della democrazia che al nostro revisionismo come pure al liberalismo borghese, appare la legge fondamentale della storia umana, o almeno della storia moderna, visto più da vicino risulta essere una chimera. Fra sviluppo capitalistico e democrazia non può essere stabilito alcun rapporto generale assoluto. La forma politica è di volta in volta la risultante della somma complessiva di fattori politici interni ed esterni, ed accoglie entro i propri confini tutta la scala che conduce dalla monarchia assoluta alla repubblica democratica.
Se noi prescindiamo così da una legge storica generale dello sviluppo della democrazia, anche nel quadro della società moderna, e guardiamo soltanto alla fase attuale della storia borghese, vediamo anche qui, nella situazione politica, dei fattori che, anziché condurre alla realizzazione dello schema bernsteiniano, conducono piuttosto in senso contrario, all'abbandono da parte della società borghese delle precedenti conquiste.
Da un lato - e questo è importantissimo - le istituzioni democratiche hanno esaurito in gran parte la loro funzione per lo sviluppo della borghesia. Esse furono indispensabili in quanto necessarie a saldare tra loro i piccoli Stati e a costruire i grandi Stati moderni (Germania, Italia): ma frattanto lo sviluppo economico ha creato una organica coesione interna.
Lo stesso si dica della trasformazione interna di tutta la macchina politico-amministrativa dello Stato da semifeudale, se non feudale addirittura, a meccanismo capitalistico. Questa trasformazione, che da un punto di vista storico era inseparabile dalla democrazia, è stata realizzata oggi e in così grande misura che gli ingredienti puramente democratici che costituivano lo Stato - il suffragio universale, la costituzione repubblicana dello Stato - potrebbero essere eliminati senza che amministrazione, finanze, esercito ecc., dovessero ritornare alle forme precedenti la rivoluzione di marzo.
Se in questo modo il liberalismo è diventato nella sua essenza superfluo per la società borghese in quanto tale, esso è invece diventato, sotto altri aspetti importanti, addirittura un impedimento. E qui entrano in campo due fattori i quali dominano tutta la vita politica degli odierni Stati: la politica mondiale [2] e il movimento operaio; entrambi non sono che due diversi aspetti della fase attuale dello sviluppo capitalistico.
Lo sviluppo dell'economia mondiale e insieme l'acutizzazione e la generalizzazione della lotta per la concorrenza sul mercato mondiale hanno fatto del militarismo e del "marinismo" in quanto strumenti della politica mondiale, il fulcro della vita interna ed esterna dei grandi Stati. Ma se politica mondiale e militarismo sono una tendenza in espansione nella fase attuale, la democrazia borghese deve di conseguenza muoversi lungo una linea discendente. In Germania, l'era dei grandi armamenti che data, dal 1893, e la politica mondiale inaugurata con Chiaochou [3], furono subito pagati dalla democrazia borghese con due sacrifici: rovina del liberalismo e degradazione del Centro da partito di opposizione a partito di governo. Le più recenti elezioni del Reichstag, del 1907, che si svolsero nel segno della politica coloniale, sono state anche la sepoltura storica del liberalismo tedesco.
E se la politica estera getta così la borghesia in braccio alla reazione, la politica interna, con le rivendicazioni 'della classe operaia, non è da meno. Lo stesso Bernstein deve ammetterlo, quando dichiara responsabile della diserzione della borghesia liberale la leggenda della "voracità"socialdemocratica, cioè le aspirazioni socialistiche della classe operaia. In relazione a ciò consiglia il proletariato, per far uscire dalla tana della reazione il liberalismo spaventato a morte, di abbandonare le proprie aspirazioni socialistiche. In questo modo, facendo oggi dell'eliminazione del movimento socialista operaio una condizione vitale e un presupposto sociale della democrazia borghese, prova nel modo più evidente che una simile democrazia contraddice all'intima tendenza di sviluppo della società attuale, nella stessa misura in cui, di questa tendenza, il movimento operaio socialista è un prodotto diretto.
Ma prova anche qualcosa di più. Col fare della rinuncia allo scopo finale socialista da parte della classe operaia, il presupposto e la condizione della ripresa di vita della democrazia borghese, lo stesso Bernstein dimostra quanto poco, viceversa, la democrazia borghese possa essere presupposto necessario e condizione del movimento socialista e della vittoria socialista. E qui il ragionamento di Bernstein finisce in un circolo vizioso, l'ultima conclusione del quale "mangia" il suo primo presupposto.
Ma è facilissimo trovare una via d'uscita da questo circolo vizioso; dal fatto che il liberalismo borghese, impaurito dal nascente movimento operaio e dai suoi scopi finali, ha esalato la sua anima, deriva questa sola conseguenza: che oggi il movimento operaio socialista è e può essere l'unico punto d'appoggio della democrazia, e che non i destini del movimento socialista sono legati alla democrazia borghese, ma piuttosto i destini dello sviluppo democratico sono legati al movimento socialista. La democrazia non diventa più vitale nella misura in cui la classe operaia rinuncia alla lotta per la sua emancipazione, ma al contrario nella misura in cui il movimento socialista diventa abbastanza forte per contrastare le conseguenze reazionarie della politica mondiale e della diserzione borghese. Perciò chi desideri il rafforzamento della democrazia deve desiderare anche il rafforzamento non l'indebolimento del movimento socialista, perché con la cessazione degli sforzi socialisti anche il movimento operaio e la democrazia vengono a cessare.
Abbiamo visto come il destino della democrazia sia legato ai quello del movimento operaio. Forse che lo sviluppo della democrazia anche nel migliore dei casi rende superflua o impossibile una rivoluzione proletaria, intesa nel senso della conquista del potere statale, dei potere politico?
Bernstein risolve la questione soppesando minuziosamente il pro e il contro della riforma legislativa e della rivoluzione, con la stessa tranquillità con cui si peserebbe cannella e pepe in una cooperativa di consumo. Nel corso legale dello sviluppo egli vede l'azione dell'intelletto, nel corso rivoluzionario quella del sentimento, nel lavoro di riforma un metodo lento, in quello rivoluzionario uno rapido, del progresso storico, nell'opera legislativa una forza metodica, nell'assalto violento una elementare (p. 183).
E' una storia vecchia, che il riformatore piccolo-borghese, vede in tutte le cose del mondo, un lato "buono" e uno "cattivo", e coglie fiori in tutte le aiuole. E' una storia altrettanto vecchia che il corso reale delle cose si cura molto poco di tali combinazioni piccolo-borghesi, e che il mucchietto di lati "buoni" di tutte le cose possibili del mondo, per quanto preparato con cura, salta in aria per un semplice buffetto. In pratica, nel mondo, noi vediamo agire riforma legislativa e rivoluzione per motivi ben più profondi che non siano i vantaggi o gli svantaggi di questo o quel metodo.
Nella storia della società borghese, la riforma legislativa ha servito al progressivo rafforzamento della classe ascendente, fintantoché essa si è sentita matura per conquistare il potere politico e rovesciare tutto il sistema giuridico costituito, per costruirne uno nuovo. Bernstein, che si scaglia contro la conquista del potere politico in quanto teoria blanquista della violenza, ha la disgrazia di considerare errore blanquista di calcolo proprio quello che è da secoli il perno e la forza propulsiva della storia umana. Dacché esistono società classiste, e la lotta delle classi costituisce il contenuto essenziale della loro storia, la conquista del potere politico è sempre stata tanto la meta di tutte le classi ascendenti, quanto il punto iniziale e terminale di ogni periodo storico. Questo noi vediamo nelle lunghe lotte dei contadini con i capitalisti del denaro e con i nobili nell'antica Roma, nelle lotte del patriziato con i vescovi e degli artigiani con i patrizi nelle città medievali, nelle lotte della borghesia contro il feudalesimo nell'era moderna.
Riforma legislativa e rivoluzione non sono dunque metodi diversi del progresso storico, che si possono scegliere al buffet della storia, come salsicce calde o fredde, ma sono momenti diversi nello sviluppo della società classista, che si condizionano e completano a vicenda ma nel medesimo tempo si escludono a vicenda, come il polo nord e il polo sud, la borghesia e il proletariato.
E in verità in ogni tempo la costituzione giuridica è semplicemente un prodotto della rivoluzione. Mentre la rivoluzione è l'atto politico creativo della storia delle classi la legislazione rappresenta la continuità della vegetazione politica della società. Giacché il lavoro di riforma sociale non ha in sé una propria forza di propulsione, indipendente dalla rivoluzione, bensì, in ogni periodo della storia, si muove solo nella direzione e per il tempo corrispondente alla spinta che gli è stata impressa dall'ultima rivoluzione, o, per parlare concretamente, solo nel quadro di quell'assetto della società che è stato posto in essere dalla più recente rivoluzione. Proprio questo è il nocciolo della questione.
E' fondamentalmente falso e del tutto antistorico vedere nel lavoro di riforma legislativa solo una rivoluzione tirata per il lungo e nella rivoluzione una riforma condensata. Una rivoluzione sociale e una riforma legislativa sono momenti diversi, non per la loro durata ma per la loro natura.
Tutto il segreto dei rivolgimenti storici ottenuti con l'uso del potere politico consiste proprio nella trasformazione di pure mutazioni quantitative in qualche cosa di qualitativamente nuovo; per parlare concretamente, nel passaggio da un periodo storico, da un ordinamento sociale, ad un altro.
Perciò, chi si pronuncia favorevole alla via della riforma legislativa invece e in contrapposto alla conquista del potere politico e alla rivoluzione sociale, sceglie in pratica non una via più tranquilla, più sicura, più lenta, verso la stessa meta, quanto piuttosto un'altra meta, cioè, in luogo dell'instaurazione di un nuovo ordinamento sociale, soltanto dei mutamenti, e non sostanziali, dell'antico. Così, partendo dalle opinioni politiche del revisionismo, si arriva alla stessa conclusione che partendo dalle sue teorie economiche: che esse, in fondo, non portano alla realizzazione dell'ordinamento socialistico, bensì soltanto a una riforma dell'ordinamento capitalistico, non all'abolizione del sistema salariale, bensì a un minore o maggiore sfruttamento, in una parola alla eliminazione degli abusi del capitalismo e non del capitalismo stesso.
O forse queste affermazioni sulla funzione della riforma legislativa e sulla rivoluzione valgono solo nei confronti della lotta tra le classi combattuta nel passato? Forse che, a partire da questo momento, grazie allo sviluppo del sistema giuridico borghese, spetterà alla riforma legislativa anche il passaggio della società da una ad un'altra fase storica, e la conquista del potere statale da parte del proletariato sarà "divenuta una frase priva di senso" come dice Bernstein a p. 183 della sua opera?
E' vero precisamente il contrario. Che cosa distingue la società borghese dalle precedenti società classiste, antiche e medievali? Proprio la circostanza che il predominio di una classe poggia non su "diritti legittimamente acquisiti" ma su effettivi rapporti economici, che il salariato non è un rapporto giuridico ma un rapporto puramente economico. Non potrà trovarsi in tutto il nostro sistema giuridico una formula di legge che definisca l'attuale predominio di classe. Se si trovano tracce di una tale formula, esse sono semplicemente residui del regime feudale, come il regolamento della servitù.
E allora, come abolire la schiavitù del salario "per via legale", gradatamente, quando si è visto che di essa le leggi non fanno cenno? Bernstein, che si vuole accingere alla riforma legislativa, per preparare, su questa strada, la fine del capitalismo, assomiglia a quel poliziotto russo, che, in Uspenskij, racconta la sua avventura: "E allora ho subito afferrato il tipo per il colletto e che cosa è saltato fuori? Che quel dannato tipo non aveva colletto". Qui sta il punto.
"Ogni società finora esistita ha poggiato come abbiamo già visto, sul contrasto tra le classi degli oppressori e le classi degli oppressi" (Manifesto comunista, p. 17). Ma nelle fasi precedenti della società moderna questo antagonismo era espresso in dati rapporti giuridici e poteva garantire fino a un certo punto che i rapporti futuri si sarebbero mantenuti entro gli antichi confini. "Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser tale, elevarsi a membro del Comune" (ivi). E in qual modo? Con l'abolizione graduale nel territorio distrettuale della città, di tutti quei diritti particolari, l'insieme dei quali costituiva la servitù della gleba: le corvées, il prelievo mortuario del vestiario e del miglior capo di bestiame, la capitazione, i diritti sul matrimonio, il diritto alla ripartizione ereditaria, ecc.
Allo stesso modo, "il borghigiano pur sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese"(ivi) [4]. Per quale via? Attraverso una parziale abolizione formale e, un allentamento effettivo dei legami corporativi, attraverso una graduale trasformazione dell'amministrazione delle finanze e dell'esercito nella misura indispensabile.
Se perciò si vuole considerare la questione da un punto di vista astratto anziché storico, si può per lo meno immaginare che vi sia stato, almeno nello stadio precedente, un passaggio della società da feudale a borghese, con metodi legislativo-riformistici. Ma che cosa vediamo in realtà? Che anche qui le riforme legislative anziché rendere superflua la conquista da parte della borghesia del potere politico, servivano a prepararla e a realizzarla. Una formale trasformazione politico-sociale era indispensabile tanto per l'abolizione della servitù della gleba, quanto per la soppressione del feudalesimo.
Ma la situazione è ora affatto diversa. Nessuna legge obbliga il proletariato a soggiacere al giogo del capitale, bensì ve lo obbliga il bisogno, la mancanza di mezzi di produzione. Ma nessuna legge al mondo può decretargli questi mezzi nel quadro della società borghese, poiché egli non ne è stato privato da una legge, ma dello sviluppo economico.
Inoltre lo sfruttamento all'interno del sistema salariale non si basa su legge alcuna, giacché il livello dei salari non viene determinato per via legale ma attraverso fattori economici. E il fatto stesso dello sfruttamento non si basa su una disposizione di legge ma su un fatto puramente economico, per il quale la forza di lavoro risulta essere una merce, che ha, fra l'altro, questa pregevole caratteristica di produrre valore, e precisamente valore in misura maggiore di quanto essa stessa consumi nei mezzi di sussistenza dell'operaio. In una parola, tutte le condizioni fondamentali del dominio di classe capitalistico non si lasciano trasformare da riforme legislative su basi borghesi, giacché esse né sono state introdotte da leggi borghesi, né da simili leggi hanno ricevuto la loro forma. Bernstein non lo sa, quando fa il progetto della sua "riforma" socialista, ma quello che non sa egli dice a p. 10 del suo libro, quando scrive che "il movente economico oggi affiora liberamente, mentre un tempo doveva travestirsi sotto le spoglie di rapporti di dominio e di ideologie".
Ma non basta. Un'altra caratteristica del regime capitalistico è che nel suo seno tutti gli elementi della società futura nel loro sviluppo prendono dapprima una forma nella quale, anziché avvicinarsi al socialismo, se ne allontanano. Nella produzione si manifesta sempre di più il carattere sociale. Ma in che forma? Di grande impresa, di società per azioni, di cartelli, istituti nei quali le contraddizioni capitalistiche - sfruttamento, oppressione della forza di lavoro - si accrescono enormemente.
Nell'esercito, quest'evoluzione porta l'estensione del servizio militare obbligatorio, la riduzione della ferma, cioè, materialmente, un avvicinamento all'esercito di popolo. Ma tutto questo avviene nelle forme del militarismo moderno, nel quale il dominio sul popolo da parte dello Stato militarista, e il carattere classista dello Stato, trovano la loro massima espressione.
Nei rapporti politici, lo sviluppo della democrazia, in quanto trova terreno favorevole, conduce alla partecipazione di tutti gli strati popolari alla vita politica, cioè in una certa misura, allo "Stato popolare". Ma questo nella forma del parlamentarismo borghese, in cui gli antagonismi di classe, e il predominio di una classe, non sono aboliti, ma piuttosto dispiegati e messi a nudo. Giacché tutta l'evoluzione capitalistica si svolge in tal guisa per contraddizioni, bisogna, per estrarre il nocciolo della società socialista dall'involucro capitalistico che gli si oppone, avere anche per questo motivo ricorso alla conquista del potere politico da parte del proletariato e alla soppressione totale del regime capitalistico.
Certo, Bernstein, dagli stessi dati di fatto trae conseguenze diverse: se lo sviluppo della democrazia porta ad inasprire anziché ad attutire le contraddizioni capitalistiche, "la socialdemocrazia", ci risponde, "se non vuole rendersi da se stessa più grave il lavoro, dovrebbe sforzarsi di impedire nella misura del possibile le riforme sociali e le istituzioni democratiche" (p. 71). Questo certamente se la socialdemocrazia, secondo il metodo piccolo-borghese, trovasse gusto a questa occupazione da sfaccendati che consiste nello scegliere tutti i lati buoni della storia e nel gettar via i cattivi. Solo in tal caso essa dovrebbe conseguentemente "sforzarsi di impedire" anche tutto il capitalismo, poiché esso è incontestabilmente il ribaldo numero uno, che le oppone tutti gli ostacoli sulla via del socialismo. In pratica, il capitalismo, insieme agli ostacoli, offre anche la sola possibilità di mettere in atto il programma socialista. E questo vale pienamente, anche nei confronti della democrazia.
Se per la borghesia la democrazia è diventata un elemento in parte superfluo, in parte di ostacolo, essa per la classe operaia, invece, è diventata necessaria e indispensabile. Necessaria, prima di tutto in quanto offre le forme politiche (autogoverno, diritto elettorale) che serviranno al proletariato da appigli e punti di appoggio nella sua opera di trasformazione della società borghese. Ma anche indispensabile, perché solo in essa, nella lotta combattuta per la democrazia, nell'esercizio dei diritti democratici, il proletariato diviene cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici.
La democrazia insomma è indispensabile, non in quanto rende superflua la conquista del potere politico da parte del proletariato, ma al contrario perché fa di questa conquista una necessità e al tempo stesso l'unica possibilità. Quando Engels, nella sua prefazione alle Lotte delle classi in Francia rivedeva la tattica dell'attuale movimento operaio, e contrapponeva alle barricate la lotta legale, egli non trattava - e questo appare evidente da ogni riga della sua prefazione - la questione della conquista definitiva del potere politico, ma quella della lotta quotidiana attuale, non l'atteggiamento del proletariato di fronte allo Stato capitalistico al momento della conquista del potere statale, ma il suo atteggiamento all'interno dello Stato capitalistico. Engels, in una parola, ha dato le direttive al proletariato dominato, non al proletariato vincitore.
Viceversa la ben nota frase di Marx sulla questione delle terre in Inghilterra, alla quale pure si richiama Bernstein "probabilmente se ne verrebbe a capo al miglior mercato comperando in blocco i landlords", non si riferisce all'atteggiamento del proletariato prima della vittoria, bensì dopo di essa. Giacché di "acquisto in blocco" della classe dominante, si può parlare apertamente soltanto se la classe operaia è al governo. Quel che Marx qui prendeva in considerazione è l'esercizio pacifico della dittatura proletaria, e non la sostituzione della dittatura mediante la riforma sociale capitalistica.
Questa stessa necessità della conquista del potere politico da parte del proletariato fu in ogni tempo fuori discussione tanto per Marx quanto per Engels. Ed era riservato a Bernstein di scambiare il pollaio del parlamentarismo borghese con l'organo competente a realizzare la trasformazione più formidabile della storia mondiale, cioè il passaggio della società dalle forme capitalistiche a quelle socialistiche.
Ma Bernstein ha iniziato la sua teoria manifestando paura e ammonendo di fronte al pericolo che il proletariato giunga troppo presto al governo! In questo caso, secondo Bernstein, il proletariato dovrebbe lasciare immutate le condizioni della società borghese, e subire esso stesso una tremenda disfatta. Ciò che traspare innanzitutto da questa paura è che la teoria di Bernstein fa una sola raccomandazione "pratica" al proletariato, nel caso le circostanze lo facessero giungere al governo: di mettersi a dormire. Ma con ciò essa si giudica senz'altro da sé come una concezione che condanna il proletariato, nei momenti più importanti della lotta, all'inerzia e al tradimento passivo della propria causa.
In realtà tutto il nostro programma si ridurrebbe a un miserabile foglio di carta straccia, se non fosse in condizione di servirci per ogni eventualità e in ogni momento della lotta, e servirci grazie alla sua applicazione non alla sua non applicazione. Se il nostro programma contiene la formulazione dello sviluppo storico della società dal capitalismo al socialismo è naturale che esso debba contenere nelle sue grandi linee la formulazione di tutte le fasi intermedie di questo sviluppo, e debba perciò indicare al proletariato, in ogni momento, la condotta più adatta, nel senso di un avvicinamento al socialismo. Ne consegue che in generale non può esservi per il proletariato nessun momento in cui esso sarebbe costretto a piantare in asso il suo programma, o in cui potrebbe a sua volta essere piantato in asso dal programma.
In pratica questo si manifesta nel fatto che non può esistere alcun momento in cui il proletariato, portato dal corso delle cose al governo, non sia in condizioni e anzi non sia obbligato a prendere certe misure per l'attuazione del suo programma, e certe misure transitorie nel senso del socialismo. Dietro l'affermazione che il programma socialista potrebbe completamente fallire in qualsiasi momento del potere politico del proletariato e non dare indicazione alcuna per la sua attuazione, si nasconde inconsciamente l'altra affermazione: il programma socialista sarebbe sempre e assolutamente irrealizzabile.
E se le misure transitorie sono premature? Questa domanda racchiude tutto un groviglio di malintesi circa il corso reale dei rivolgimenti sociali.
La conquista del potere politico da parte del proletariato, cioè da parte di una grande classe popolare, non è, innanzi tutto, un fatto provocato artificialmente. Se si eccettuano casi, come la Comune di Parigi, nei quali il potere, anziché risultato di una lotta cosciente dei suoi scopi, è caduto eccezionalmente in grembo al proletariato come un bene di nessuno, da tutti abbandonato, questa conquista presuppone un certo grado di maturazione delle condizioni economico-politiche. Qui sta la differenza fondamentale, fra i colpi di stato blanquisti, di una "minoranza decisa" che scoppiano ad ogni momento come colpi di pistola e appunto perciò sempre fuori del tempo, e la conquista del potere statale da parte della grande massa popolare dotata di coscienza di classe, la quale altro non può essere che il prodotto iniziale del crollo della società borghese, e che porta perciò in se stessa la legittimazione economico-politica della tempestività.
E se la conquista del potere politico da parte del proletariato non può quindi, dal punto di vista dei presupposti sociali, avvenire "troppo presto", dal punto di vista delle sue conseguenze politiche, cioè del mantenimento del potere, essa deve invece avvenire "troppo presto". La rivoluzione prematura che turba i sonni di Bernstein, ci minaccia come una spada di Damocle, e nulla vale a difenderci da essa, né preghiere, né suppliche, né ansie, né paure. E questo per due ragioni semplicissime.
Innanzitutto è assolutamente impensabile che un rivolgimento così formidabile come il passaggio della società dal regime capitalistico al regime socialistico avvenga d'un colpo solo, per un solo attacco vittorioso del proletariato. Supporre questo evento come possibile, sarebbe di nuovo ragionare blanquisticamente. La rivoluzione socialista presuppone una lunga ed accanita battaglia, nel corso della quale molto probabilmente il proletariato verrà ricacciato indietro più d'una volta, cosicché, la prima volta, dal punto di vista del risultato finale della lotta, esso sarà necessariamente giunto al potere "troppo presto".
In secondo luogo, questa "prematura" conquista del potere statale è inevitabile anche perché questi "prematuri"attacchi del proletariato sono per se stessi un fattore assai importante, che crea le condizioni politiche della vittoria finale, giacché il proletariato, solo nel corso di quella crisi politica che accompagnerà la sua conquista del potere, solo nel fuoco di lunghe e dure battaglie, potrà raggiungere il grado necessario di maturità politica, che lo renderà capace di provocare il grande e definitivo rivolgimento. Così questi attacchi prematuri che il proletariato sferra alla conquista del potere politico statale si rivelano momenti storici importanti che contribuiscono a provocare e determinare il momento della vittoria definitiva. Da questo punto di vista, considerare come "prematura" questa conquista del potere pubblico da parte del popolo lavoratore, appare un'assurdità politica, che nasce da una concezione meccanica dello sviluppo della società e suppone per la vittoria della lotta di classe un momento determinato all'infuori e indipendente dalla lotta stessa delle classi.
Ma dal momento che il proletariato non è in condizione di conquistare il potere pubblico se non "troppo presto", e, in altre parole, dato che deve assolutamente conquistarlo, una sola volta o più volte, "troppo presto" e, insomma, deve conquistarlo continuamente, l'opposizione contro la conquista "prematura" del potere non è altro che opposizione contro lo sforzo in generale che fa il proletariato per impadronirsi del potere pubblico.
Anche su questa strada - tutte le strade conducono a Roma - arriviamo, naturalmente, a concludere che la raccomandazione fatta dai revisionisti di abbandonare lo scopo socialista, sbocca in quest'altra, di abbandonare tutto il movimento socialista.
Bernstein ha iniziato la sua revisione del programma socialdemocratico con l'abbandono della teoria del crollo del capitalismo. Ma dato che il crollo della società borghese è una pietra angolare dei socialismo scientifico, Bernstein, per essersi allontanato da questo pilastro, doveva logicamente arrivare a far crollare tutta la concezione socialistica. Nel corso del dibattito egli, per mantenere ferma la prima affermazione, abbandona, una dopo l'altra, tutte le varie posizioni del socialismo.
Senza crollo del capitalismo l'espropriazione della classe capitalistica è impossibile. Bernstein rinuncia all'espropriazione ed eleva a scopo del movimento operaio l'attuazione progressiva del "principio cooperativistico".
Ma in seno alla produzione capitalistica non è possibile attuare un regime cooperativistico - Bernstein rinuncia alla socializzazione della produzione e arriva alla riforma commerciale, alla cooperativa di consumo.
Ma una trasformazione della società, attuata mediante cooperative di consumo, seppure insieme con i sindacati, non è compatibile con l'effettivo sviluppo materiale della società capitalistica - Bernstein lascia cadere la concezione materialistica della storia.
Ma la sua concezione del corso dello sviluppo economico non è compatibile con la legge marxista dei plusvalore. Bernstein abbandona la teoria dei plusvalore e la legge del valore e quindi tutta la teoria economica di Karl Marx.
Ma nella società attuale non è possibile condurre senza fine predeterminato e senza base economica la lotta di classe del proletariato - perciò Bernstein abbandona la lotta delle classi e dà l'annuncio della avvenuta riconciliazione col liberalismo borghese.
Ma in una società classista la lotta delle classi è fenomeno perfettamente naturale, inevitabile - Bernstein arriva all'ulteriore conseguenza di contestare perfino l'esistenza delle classi nella nostra società; per lui la classe operaia è soltanto un cumulo di individui non solo politicamente e spiritualmente ma anche economicamente dispersi. E secondo lui anche la borghesia non è tenuta politicamente assieme da interessi economici interni, ma solo da una pressione esterna, dall'alto o dal basso.
Ma se non esiste il terreno economico per la lotta delle classi, e se in fin dei conti non esistono nemmeno classi, non solo la lotta futura del proletariato risulta impossibile, bensì anche la lotta combattuta nel passato, e perfino la socialdemocrazia con le sue conquiste appare inconcepibile. A meno che non diventi concepibile proprio solo come risultato dell'oppressione esercitata dal potere politico, non in quanto conseguenza legittima dello sviluppo storico, ma in quanto prodotto fortuito del corso politico degli Hohenzollern, non in quanto figlio legittimo della società capitalistica, bensì in quanto bastardo della reazione. Così, con logica stringente, Bernstein passa, dal materialismo storico, alla Frankfurter e alla Vossische Zeitung.
E ora, dopo aver rinnegato tutta la critica socialista della società capitalistica, non gli rimane che trovare di suo gusto, almeno nell'insieme, lo stato attuale delle cose. E neppure di fronte a questo Bernstein si scoraggia; egli trova adesso che in Germania la reazione non è poi tanto forte, "in fatto di reazione politica, negli Stati dell'Europa occidentale c'è ben poco da osservare"; in quasi tutti i paesi occidentali "l'atteggiamento delle classi borghesi di fronte al movimento socialista è al massimo difensivo, non certo oppressivo" (Vorwärts del 26 marzo 1899). Gli operai non sono impoveriti, al contrario, stanno sempre meglio; la borghesia è politicamente progressista e perfino moralmente sana; di reazione e di oppressione non ci sono tracce - e tutto va per il meglio in questo migliore dei mondi...
Bernstein procede così con logica e coerenza dall'A alla Z. Aveva cominciato col lasciar cadere lo scopo finale per il movimento. Ma dal momento che non vi può essere movimento socialdemocratico senza scopo socialista, egli finisce necessariamente con il lasciar cadere anche il movimento.
Così tutta la concezione socialista di Bernstein è crollata. 11 fiero simmetrico, mirabile edificio del sistema marxista è diventato ormai per lui un grosso cumulo di macerie, nel quale frantumi di ogni sistema, frammenti di pensiero di tutte le menti grandi e piccole, hanno trovato una sepoltura comune. Marx e Proudhon, Leo von Buch e Franz Oppenheim, Friedrich Albert Lange e Kant, il sig. Prokopovic e il dottor Ritter von Neupauer, Herkner e Schulze-Gävernitz, Lassalle e il prof. Julius Wolf tutti hanno recato il loro obolo al sistema bernsteiniano, da tutti egli ha imparato qualcosa. E non c'è di che meravigliarsi! Con l'abbandono del punto di vista classista egli ha perso la bussola politica, con l'abbandono del socialismo scientifico ha perso l'asse di cristallizzazione intellettuale attorno a cui raggruppare i singoli fatti nell'insieme organico della visione generale del mondo.
Questa teoria risultante dall'accozzaglia fortuita di tutti i possibili frammenti di sistemi, sembra a prima vista assolutamente libera da pregiudizi. Bernstein non vuol sentir parlare di una "scienza di partito" o più esattamente di una scienza di classe e nemmeno di un liberalismo di classe, di una morale di classe. Egli s'immagina di rappresentare una scienza astratta, universalmente umana, un liberalismo astratto, una morale astratta. Ma dal momento che la società reale è costituita di classi, che hanno interessi, aspirazioni e idee, diametralmente opposte tra loro, una scienza genericamente umana nei problemi sociali, un liberalismo astratto, una morale astratta, sono per il momento una fantasia, un'illusione. Quella che per Bernstein è la sua scienza, la sua democrazia e la sua morale, genericamente umane, non sono altro che scienza, democrazia, morale dominanti, cioè borghesi.
Infatti! Quando rinnega il sistema economico marxista per giurare sulle dottrine di Brentano, Böhm-Jevons, Say, Julius Wolf, che altro fa se non scambiare il fondamento scientifico dell'emancipazione della classe operaia con l'apologetica della borghesia? Quando parla di carattere universalmente umano del liberalismo e trasforma il socialismo in una sottospecie, che altro fa se non togliere al socialismo il carattere classista, cioè il contenuto storico, quindi in generale ogni contenuto, e viceversa elevare a rappresentante degli interessi genericamente umani la portatrice storica dei liberalismo, cioè la borghesia?
E quando scende in campo contro "la elevazione dei fattori materiali a forze onnipossenti dell'evoluzione" contro "il dispregio dell'ideale" nella socialdemocrazia, quando si batte per l'idealismo e la morale, ma si scaglia nello stesso tempo contro l'unica fonte di rinascita morale del proletariato, contro la lotta rivoluzionaria di classe, che altro fa in fin dei conti se non predicare alla classe operaia la quintessenza della morale borghese: la riconciliazione con l'ordinamento costituito, e il rinvio di ogni speranza nell'aldilà del mondo delle idee morali?
E, infine, quando scaglia le sue frecce più acuminate contro la dialettica, che altro fa se non combattere contro il modo specifico di pensare del proletariato cosciente, che lotta per le sue rivendicazioni? Contro la spada che ha aiutato il proletariato a aprirsi un varco nell'oscurità del suo avvenire storico, contro quell'arma intellettuale con la quale il proletariato, materialmente ancora soggiogato, vince la borghesia, dandole la dimostrazione della sua transitorietà storica, mostrando l'inevitabilità della propria vittoria, attuando fin d'ora la rivoluzione nel regno dello spirito! Dando l'addio alla dialettica e abbandonandosi all'altalena dei pensieri - da una parte dall'altra parte, si ma, benché - eppure, più meno cade per forza il modo di pensare storicamente condizionato della borghesia al tramonto, un modo di pensare che è il fedele ritratto spirituale della sua esistenza sociale e del suo agire politico. Gli atteggiamenti politici del tipo "da una parte-d'altra parte, se e ma" della borghesia di oggi, sono identici al modo di pensare di Bernstein, e il modo di pensare di Bernstein è il sintomo più sottile e più sicuro della sua concezione borghese del mondo [5].
Ma ormai per Bernstein neppure più la parola "borghese" è una espressione classista, ma un concetto sociologico. Questo significa soltanto che egli - coerente sino al punto sugli "i" - ha scambiato oltre alla scienza, alla politica, alla morale, al modo di pensare, anche il linguaggio storico del proletariato con quello della borghesia. Intendendo indifferentemente per "cittadino" il borghese come il proletario, cioè l'uomo in generale, egli identifica in realtà l'uomo in generale col borghese, la società umana con la società borghese.
Il libro di Bernstein ha avuto per il movimento operaio tedesco e internazionale una grande importanza storica: è stato il primo tentativo di dare alle correnti opportunistiche in seno alla socialdemocrazia una base teorica.
Le correnti opportunistiche nel nostro movimento datano già da lungo tempo se se ne prendono in considerazione le manifestazioni sporadiche, come nella famosa questione delle sovvenzioni alle compagnie di navigazione a vapore [6]. Ma un'esplicita corrente unitaria in questo senso data solo dall'inizio dell'ultimo decennio del secolo, dalla caduta della legge antisocialista e dalla riconquista del terreno legale. Il socialismo di Stato di Vollmar, il voto del bilancio in Baviera, il socialismo agrario della Germania meridionale, le proposte di Heine di una politica di compensi reciproci, il punto di vista. di Schippel in materia di dogana e di milizia, ecco le pietre miliari nello sviluppo della prassi opportunistica.
Quale ne era la principale caratteristica? L'avversione contro la "teoria". E questo è del tutto naturale, giacché la nostra "teoria", cioè i princìpi del socialismo scientifico, pongono dei limiti molto fermi all'azione pratica, in rapporto tanto agli obiettivi da perseguire quanto ai mezzi di lotta da impiegare, quanto infine al modo stesso della lotta. Ne consegue pertanto, presso coloro che vanno a caccia solo di successi pratici, il naturale desiderio di aver le mani libere, cioè di separare la nostra pratica dalla "teoria" e di renderla indipendente da questa.
Ma questa medesima teoria ad ogni tentativo pratico gli ripiomba sulla testa; il socialismo di Stato, il socialismo agrario, la politica dei compensi reciproci, la questione della milizia sono altrettante disfatte per l'opportunismo. E' chiaro che questa corrente, volendo affermarsi contro i nostri princìpi, doveva logicamente arrivare a misurarsi con la teoria stessa, con i princìpi, cercare di scuoterli anziché ignorarli e mettere a punto una teoria sua propria. La teoria bernsteiniana fu precisamente un tentativo in questa direzione e perciò noi vedemmo al congresso di Stoccarda tutti gli elementi opportunisti raggrupparsi subito attorno alla bandiera di Bernstein. Se da un lato le correnti opportunistiche sono in pratica un fenomeno assolutamente naturale che si spiega con le condizioni della nostra lotta e del suo sviluppo, d'altro lato la teoria bernsteiniana è un tentativo non meno naturale di abbracciare queste correnti in un'espressione teorica generale, di scoprirne la premesse teoriche specifiche e di regolare i conti con il socialismo scientifico. La teoria di Bernstein era così fin dal principio la prova del fuoco teorica per l'opportunismo, la sua prima legittimazione scientifica.
Com'è andata a finire questa prova? L'abbiamo visto. L'opportunismo non è in grado di costruire una teoria positiva capace di sostenere in qualche misura la critica. Tutto ciò che esso può fare è dapprima di attaccare la dottrina marxista in alcuni singoli princìpi, e da ultimo, poiché questa dottrina rappresenta un edificio in cui tutto è solidamente connesso, distruggere l'intiero sistema dal piano più alto fino alle fondamenta. Con ciò è dimostrato che la prassi opportunistica è, nella sua essenza e nelle sue basi, incompatibile con il sistema marxista.
Ma con ciò è dimostrato altresì che l'opportunismo è incompatibile anche con il socialismo in generale, che la sua tendenza intima è diretta a sospingere il movimento operaio sulla strada borghese, cioè a paralizzare completamente la lotta di classe proletaria. Certo, dal punto di vista storico, lotta di classe proletaria e sistema marxista ,non sono cosa identica. Anche prima di Marx, e indipendentemente da lui, c'è stato un movimento operaio e si sono avuti diversi sistemi socialisti, ciascuno dei quali era a modo suo un'espressione teorica dell'aspirazione della classe operaia all'emancipazione, corrispondente alle condizioni del tempo. La motivazione del socialismo sulla base di idee morali di giustizia, la lotta contro il modo di ripartizione anziché contro il modo di produzione, la concezione dei contrasti di classe come contrasti fra ricco e povero, lo sforzo di innestare la "cooperazione"sull'economia capitalistica, tutto quello che noi troviamo nel sistema bernsteiniano, si è già visto in passato. E queste teorie erano al tempo loro, con tutta la loro insufficienza, vere teorie della lotta di classe proletaria, erano delle gigantesche scarpe infantili nelle quali il proletariato imparava a camminare sulla scena della storia.
Ma una volta che lo sviluppo stesso della lotta di classe e delle sue condizioni sociali ha portato all'abbandono di queste teorie e alla formulazione dei princìpi del socialismo scientifico, nessun socialismo, almeno in Germania, può più esistere al di fuori di quello marxista, nessuna lotta di classe socialista sta al di fuori della socialdemocrazia. Ormai socialismo e marxismo, lotta di emancipazione proletaria e socialdemocrazia sono un'identica cosa. Retrocedere a teorie premarxiste del socialismo non significa quindi neppure una ricaduta nelle gigantesche scarpe infantili del proletariato, ma una ricaduta nelle pantofole nane e logore della borghesia.
La teoria bernsteiniana è stato il primo, ma insieme anche l'ultimo tentativo di dare una base teorica all'opportunismo. Diciamo: l'ultimo, perché nel sistema bernsteiniano si è andati così lontani sia negativamente nel ripudio del socialismo scientifico, sia positivamente nel rimescolamento di tutta la confusione teorica disponibile, che non rimane più niente da fare. Col libro di Bernstein, l'opportunismo ha compiuto la sua evoluzione a teoria e ha tratto le sue ultime conseguenze.
E la dottrina marxista è non soltanto in grado di confutarlo teoricamente, ma è anche la sola capace di spiegare l'opportunismo come fenomeno storico nel divenire del partito. Lo sviluppo storico dei proletariato sino alla sua vittoria finale non è effettivamente "una cosa così semplice". Tutta l'originalità di questo movimento consiste nel fatto che per la prima volta nella storia le masse popolari devono realizzare la loro volontà da se stesse e contro tutte le classi dominanti, ma devono situare questa volontà nell'al di là rispetto all'attuale società, cioè oltre di essa. Ma questa volontà le masse non possono formarsela che nella lotta continua contro l'ordinamento esistente e solo nella cornice di esso. L'unione della grande massa popolare con uno scopo che va al di là di tutto l'attuale ordinamento. della lotta quotidiana con la grande riforma del mondo, questo è il grande problema del movimento socialdemocratico, il quale quindi deve operare procedendo per tutto il corso del suo sviluppo fra due scogli: fra l'abbandono del carattere di massa e l'abbandono dello scopo finale, fra ricadere nella setta e precipitare nel movimento riformista borghese, fra anarchismo e opportunismo.
La dottrina marxista ha certo provveduto già da mezzo secolo il suo arsenale teorico di armi annientatrici tanto contro l'uno quanto contro l'altro estremo. Ma proprio perché il nostro movimento è un movimento di masse e i pericoli che lo minacciano scaturiscono non dal cervello degli uomini ma dalle condizioni sociali, le deviazioni anarchiche e opportunistiche non potevano essere eliminate una volta per tutte e a priori dalla teoria marxista, ma devono essere superate dal movimento stesso dopo che si sono incarnate nell'azione pratica, beninteso soltanto con l'aiuto delle armi fornite da Marx. Il pericolo minore, il morbillo anarchico, la socialdemocrazia l'ha già superato con il "movimento degli indipendenti" [7]. Quello maggiore, l'idropisia opportunistica, lo sta superando attualmente.
A cagione dell'enorme estensione del movimento e della complessità delle condizioni e degli obiettivi della lotta, doveva venire il momento in cui sarebbero emersi dello scetticismo in relazione al raggiungimento dei grandi scopi finali e dell'incertezza in relazione all'elemento ideale del movimento. Così e non altrimenti può e deve procedere il grande movimento proletario e i momenti di esitazione e di scoraggiamento, ben lungi dall'essere una sorpresa per la dottrina marxista, sono al contrario previsti e predetti da gran tempo da Marx. "Le rivoluzioni borghesi - scriveva Marx mezzo secolo fa nel suo Diciotto brumaio - passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro; gli uomini e le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l'estasi è lo stato d'animo d'ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati dei suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie, invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rbodus, hic salta! Qui è la rosa, qui devi ballare" . Questo è rimasto vero anche dopo che è stata elaborata la dottrina del socialismo scientifico. Il movimento proletario non è diventato tutto in una volta socialdemocratico, neppure in Germania, ma lo diventa ogni giorno e anche grazie al continuo superamento delle deviazioni estreme dell'anarchismo e dell'opportunismo, entrambi soltanto momenti del movimento della socialdemocrazia, considerata come un processo.
Così stando le cose, quel che è sorprendente non è il sorgere della corrente opportunistica, ma piuttosto la sua debolezza. Finché essa era affiorata soltanto in singoli casi dell'attività pratica del partito, si poteva ritenere che dietro di essa vi fosse un qualche serio fondamento teorico. Ma ora che si è espressa nel libro di Bernstein ognuno deve esclamare meravigliato: come, questo è tutto quel che aveva da dire? Neppure un solo frammento di un pensiero nuovo! Neppure un solo pensiero che non sia stato già da decenni schiacciato, calpestato, schernito dal marxismo!
E' bastato che l'opportunismo parlasse per mostrare che non aveva niente da dire. E in ciò sta la particolare importanza del libro di Bernstein nella storia del partito.
E così Bernstein, nel prender congedo dal modo di pensare del proletariato rivoluzionario, dalla dialettica e dalla concezione materialistica della storia, può ringraziarli per le circostanze attenuanti che accordano alla sua conversione. Perché esse soltanto, la dialettica e la concezione materialistica della storia, potevano nella loro magnanimità farlo apparire come uno strumento predestinato ma incosciente, per mezzo del quale il proletariato che marcia all'assalto ha espresso la sua momentanea défaillance per poi, subito dopo averlo visto da vicino, rigettarlo lungi da sé, crollando il capo con un ghigno sprezzante.
*. Recensione del libro di Eduard Bernstein, Die Voraussetzungen des Socialismus und die Aufgaben der Sozialdemocratie, Stuttgart, 1899, Verlag von J. H. W. Dietz Nachf, G.m.b.H. Estratto della Leipzieger Volkszeitung, 1898. Titolo italiano: I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia Editore Laterza 1974. Traduzione di Enzo Grillo.
*1. VAN DER BORGHT, Handwörterbuck der Staatswissenschaften, 1 (n.d.a.).
*2. Nota bene! Bernstein vede evidentemente nella grande diffusione dì piccole azioni una prova che la ricchezza sociale comincia a distribuire la sua benedizione azionaria alla piccola gente. Infatti, chi se non piccoli borghesi o addirittura operai potrebbe comprare p. es. azioni per la bagatella di 1 sterlina o 20 marchi! Purtroppo quest'idea si basa su un elementare errore di calcolo; si opera col valore nominale delle azioni, anziché col loro valore di mercato, che è ben diverso. Ecco un esempio: sul mercato minerario fra l'altro si commerciano le Randmines sudafricane; le azioni, come la maggior parte delle azioni minerarie sono di 1 sterlina = 20 marchi di carta. Ma il loro prezzo era già nei 1899 di 43 sterline (vedi il listino dei corsi di fine marzo), cioè non 20 ma 860 marchi! E lo stesso è in media dappertutto. Le "piccole" azioni dunque, nonostante la loro denominazione così democratica, sono "assegni sulla ricchezza sociale" destinati per lo più all'alta borghesia e niente affatto alla piccola borghesia e tanto meno al proletariato, perché vengono acquistate al valore nominale soltanto da una minima parte degli azionisti (n. d. a.).
1. Rosa Luxemburg cita in questo modo lo scritto dei Weitling, il cui titolo esatto è invece Das Evangelium eines armen Sünders (Il vangelo di un povero peccatore).
*3. "Le fabbriche cooperative degli stessi operai sono, entro la vecchia forma, il primo segno di rottura della vecchia forma, sebbene dappertutto riflettano e debbano riflettere. nella loro organizzazione effettiva, tutti i difetti del sistema vigente" K. MARX, Das Kapital, III, 1, p. 427 [trad. it. III, p. 522] (n.d.a.).
2. "Politica mondiale" (Weltpolitik) corrisponde press'a poco a imperialismo.
3. Porto sul Mar giallo "preso in affitto" dalla Germania nel 1898.
4. Cfr. MARX-ENGELS, Opere scelte, Roma, 1966, p. 303.
5. L'avversione di Rosa Luxemburg per queste formule vaghe, approssimative, incerte fu costante. Si veda la lettera del 26 maggio 1905 a Leo Jogiches: "Risparmiami queste espressioni pusillanimi "se e ma " - " Più o e o meno. O si definisce chiaramente, fortemente l'essenza di "tali modi", oppure si tace" (cfr, il carteggio in Z pola walki, 19 3 1, nn. 9-10, pp. 108-162).
6. Rosa Luxemburg si riferisce qui all'atteggiamento del gruppo socialdemocratico al Reichstag quando venne in discussione la proposta di Bismarck di votare un sussidio di 4 milioni di marchi alle compagnie di navigazione nel quadro della nuova politica imperialistica. contro il parere di una minoranza formata da Bebel, Liebknecht e Vollmar, la maggioranza del gruppo (Auer, Dietz, Frohme, Grillenberger) non ebbe alcuna obiezione di principio e si mostrò favorevole, suscitando ondate di proteste nel partito. Cfr. F. MEHRING, Storia della socialdemocrazia tedesca, II, pp. 619 sgg., e R. Rothe, Zum Streit um die Dampfersubventionen in Archiv für Sozialgeschichte, 1, Hannover, 1961, pp. 109-118.
7. Il movimento degli indipendenti fu un tentativo abortito di alcuni elementi radicali di sinistra, espulsi o usciti al congresso di Erfurt del 1891, di dar vita a un altro partito. (Cfr. F. MEHRING, Storia della socialdemocrazia tedesca, 11, pp. 681-683).
8. Cfr. K. MARX, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in MARX-ENGELS, Opere scelte, pp. 491-492.
Indice di Riforma Sociale o Rivoluzione?
Ultima modifica 13.10.2000
1. Lo sviluppo economico ed il socialismo
2. Sindacati, cooperative e democrazia politica
3. La conquista del potere politico
4. Il crollo
5. L'opportunismo in teoria e in pratica
Note