Lamentazioni di Job Rothschild, il capitalista

Paul Lafargue (1886)


Fonte: Paul Lafargue, Il diritto all’ozio. La religione del Capitale, a cura di Lanfranco Binni, Firenze, Il Ponte Editore, 2015.

Trascritto da Leonardo Maria Battisti su licenza concessa dal Fondo Walter Binni, febbraio 2019.


Capitale, mio Dio e padrone, perché mi hai abbandonato? Quale colpa ho commesso perché tu mi precipiti dalle vette della prosperità e mi schiacci sotto il peso della dura povertà?

Non ho forse vissuto secondo la tua legge? Le mie azioni non sono state corrette e legali?

Ho forse da rimproverarmi di aver lavorato? Non mi sono forse concesso tutti i godimenti che mi permettevano i miei milioni e i miei sensi? Non ho tenuto al lavoro giorno e notte uomini, donne e bambini fino al limite delle loro forze? Non ho forse dato loro niente di piú che un salario da fame? Mi sono forse lasciato impietosire dalla miseria e dalla disperazione dei miei operai?

Capitale, mio Dio, ho adulterato le merci che vendevo senza preoccuparmi di sapere se avvelenavo i consumatori; ho spogliato dei loro capitali i gonzi che si sono fatti imbrogliare dalle mie pubblicità.

Ho vissuto solo per godere e per lasciarmi arricchire, e tu hai benedetto la mia condotta irreprensibile e la mia vita esemplare concedendomi donne, bambini, cavalli e servi, i piaceri del corpo e i godimenti della vanità.

Ed ecco che ho perduto tutto, tutto, e sono diventato un appestato!

I miei concorrenti godono della mia rovina e gli amici si allontanano da me, mi negano perfino dei consigli inutili, dei rimproveri: mi ignorano. Le mie amanti mi inzaccherano di fango con le carrozze comprate con il mio denaro.

La miseria si abbatte su di me e, come i muri di una prigione, mi separa dal resto degli uomini. Sono solo e tutto è nero in me, fuori di me.

Mia moglie, che non ha più denaro per truccarsi e mascherare il volto, mi appare in tutta la sua bruttezza.

Mio figlio, educato a non fare nulla, non capisce neppure la gravità della mia sventura – l’idiota! – e dagli occhi di mia figlia sgorgano due fontane al ricordo delle nozze mancate.

Ma cosa sono mai le disgrazie dei miei in confronto alla mia sciagura? Là dove ho comandato da padrone, mi cacciano via quando vado a offrirmi come impiegato!

Nel mio tugurio tutto è cattivo odore e sporcizia; il mio corpo dolorante per la durezza del letto, morso da pulci e da insetti immondi, non trova più riposo; il mio spirito non gusta più il sonno che porta l’oblio.

Oh! Beati i miserabili che non hanno conosciuto altro che la povertà e la sporcizia. Ignorano ciò che è delicato, ciò che è buono; la loro epidermide indurita e i loro sensi intorpiditi non provano alcun disgusto.

Perché avermi fatto assaporare la felicità per non lasciarmene che il ricordo, più doloroso di un debito di gioco?

Meglio sarebbe stato, o Signore, farmi nascere nella miseria che condannarmi a imputridirvi dopo avermi elevato nella ricchezza.

Che posso fare per guadagnarmi il mio miserabile pane?

Le mie mani, che non hanno portato altro che anelli e maneggiato solo banconote, non possono tenere un attrezzo. Il mio cervello, che si è occupato soltanto di evitare il lavoro, di riposarsi dalle fatiche della ricchezza, di sfuggire le noie dell’ozio e vincere la nausea della sazietà, non può avere la concentrazione necessaria per copiare lettere e sommare numeri.

Ma, Signore, è mai possibile che tu colpisca con tanta spietatezza un uomo che non ha mai disobbedito a uno solo dei tuoi comandamenti?

È male, è ingiusto, è immorale che io perda i beni che il lavoro altrui aveva accumulato per me con tanta fatica.

I capitalisti, miei simili, assistendo alla mia sciagura sapranno che la tua grazia è capricciosa, che tu la concedi senza ragione e la ritiri senza motivo.

Chi vorrà piú credere in te?

Quale capitalista sarà cosí temerario, cosí insensato, da accettare la tua legge per rammollirsi nell’inattività, nei piaceri e nell’inutilità, se l’avvenire è talmente incerto, se il piú piccolo alito di vento in Borsa rovescia le fortune piú solide, se niente è stabile, se il ricco di oggi andrà in rovina domani?

Gli uomini ti malediranno, Dio Capitale, osservando la mia rovina; negheranno la tua potenza calcolando l’altezza della mia caduta, e respingeranno i tuoi favori.

Per la tua gloria, rimettimi nella mia posizione perduta, risollevami dalla mia abiezione, perché il mio cuore è gonfio di fiele e sulle labbra premono parole di odio e imprecazioni.

Dio feroce, Dio cieco, Dio stupido, stai attento che i ricchi non aprano finalmente gli occhi e non si accorgano di marciare incuranti e incoscienti sul bordo di un precipizio; trema che ti ci scaraventino per colmarlo, che si uniscano ai comunisti per sopprimerti!

Ma quale bestemmia ho proferito! Dio potente, perdonami queste parole imprudenti ed empie.

Tu sei il padrone, che distribuisce i beni a chi non li ha meritati e li riprende senza averli demeritati, tu agisci a tuo piacimento, e sai quello che fai.

Mi distruggi per il mio bene, mi metti alla prova nel mio interesse.

Dio dolce e amabile, restituiscimi i tuoi favori: tu sei la giustizia e, se mi colpisci, ho sicuramente commesso qualche colpa che ignoro.

Signore, se mi ridarai la ricchezza, faccio il voto di seguire con maggior rigore la tua legge. Sfrutterò meglio e di piú i salariati; ingannerò con maggiore astuzia i consumatori, deruberò i gonzi con maggiore determinazione.

Ti sono sottomesso come il cane al padrone che lo percuote, sono cosa tua, sia fatta la tua volontà.

Per copia conforme
Paul Lafargue



Ultima modifica 2019.02.15