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Pubblicato in: Carlo Marx, Il Capitale, Estratti di Paolo Lafargue, con Introduzione critica di Vilfredo Pareto e replica di Paolo Lafargue, Remo Sandron, 1894, pp. IX-LXXXV.
Trascritto da: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020
La critica del libro di Carlo Marx non ha più bisogno di esser fatta. Essa esiste, non solo nelle monografie speciali che si sono pubblicate su questo argomento, ma ancora, e soprattutto, nei perfezionamenti portati nell’economia politica alla teoria del valore.
Le poche pagine, delle quali noi possiamo disporre, non ci permetteranno di sviluppare tutte le osservazioni alle quali ha dato luogo la teoria di Carlo Marx; ci dovremo quindi accontentare di un riassunto molto succinto, come, del resto, lo sono, per riguardo al grosso volume dell’autore nostro, gli estratti che hanno potuto trovar posto in questo piccolo volume.
L’esame di un’opera può farsi seguendo due metodi. Il primo, che è specialmente polemico, non si preoccupa punto di separare la verità dall’errore. Esso condanna in blocco una teoria applicandosi soprattutto a metterne in rilievo i difetti, che esso stesso esagera, e curando di farsene un’arma di combattimento. Seguendo questo metodo, più una affermazione sarà evidentemente erronea e più vi si fermerà e vi si insisterà per farne conoscere l’errore, nel mentre che si sorvolerà rapidamente su tutto ciò che contiene una parte di verità.
Il secondo metodo, che solo merita il nome di scientifico, non ha al contrario altro scopo che quello di sceverare la verità dall’errore. Se si scopre qualche errore nella teoria studiata, non perciò solo la si respinge; ma si esamina se, scartando o rettificando gli errori, non si trovi nelle rimanenti parti qualche verità degna d’attenzione.
È quasi inutile dire che noi ci sforzeremo di seguire questo secondo metodo. Carlo Marx, per verità, ha spesso adoperato il primo metodo parlando delle dottrine dell’economia politica liberale, ma ebbe torto, e dobbiamo ben guardarci dall’imitarlo.
Noi ci sforzeremo ancora di seguire il più possibile la terminologia di Carlo Marx. Avremo solamente da cercare a quali cose reali rispondano i termini da lui adoperati.
Noi riputiamo, per nostro conto, assolutamente oziosa, nello stato attuale della scienza ogni discussione che non abbia altro scopo che di sapere che cosa si deve intendere per valore, capitale, o altre simili espressioni.
È questa una questione che appartiene alla filologia, non già alla scienza economica1.
Le scienze positive stabiliscono dei rapporti fra le cose e non fra le parole. Ogni autore ha quindi il diritto di designare queste cose come egli crede. Ciò nondimeno non vogliamo dire che sia conveniente di usare di questo diritto in modo arbitrario, perché una buona terminologia può molto giovare ai progressi della scienza.
Quando questa comincia a formarsi, può essere utile impiegare le parole del linguaggio comune, cercando solo di precisarne meglio il senso.
Sì trae così partito d’una proprietà essenziale del linguaggio, che è «quella d’essere il conservatore dell’esperienza acquisita»2. Disgraziatamente il linguaggio non conserva solo l’esperienza acquisita, esso conserva anche pregiudizi e sofismi, e soprattutto dà a molte parole dei significati emozionali atti a farci deviare nei ragionamenti. Infine è quasi impossibile di sbarazzare intieramente una parola del linguaggio ordinario da una serie di significati corrispondenti, che sono la causa di numerosi sofismi per confusione.
Arriva dunque, nella evoluzione di una scienza, un momento nel quale v’è più da perdere che da guadagnare nell’impiegare le parole del linguaggio comune. Questo momento, a nostro avviso, è da lungo tempo raggiunto dalla scienza economica; ed essa troverà un grande vantaggio a non adoperare se non termini tecnici ben definiti che le sieno propri.
Ma poiché ciò non si fa ancora, dobbiamo rassegnarci ad adoperare i termini attualmente in uso, cercando solo di ben definirli, per evitare qualunque confusione nel ragionamento.
Il libro di Carlo Marx dovrebbe intitolarsi il capitalista piuttosto che il capitale, almeno se si vuol intendere questa ultima parola nel senso, abbastanza generalmente ammesso, di «beni economici» destinati a facilitare la produzione d’altri beni3.
È questo pure il senso che Carlo Marx dà qualche volta, ma non sempre, alla parola capitale4.
Così quando egli dice: (269)
«I capitali numerosi impiegati in un medesimo ramo di produzione e funzionanti nelle mani di una moltitudine di capitalisti, indipendenti gli uni dagli altri, differiscono più o meno di composizione, ma la media della loro composizione particolare costituisce la composizione media del capitale totale consacrato a siffatto ramo di produzione»;
è evidente che l’autore distingue il capitale, considerato come semplice bene economico, dal capitale funzionale nelle mani di un capitalista. Ma quando il Marx dice (61) (V.86) che
«la circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale»
e sviluppa questa proposizione, ognuno vede che egli vuol parlare del capitale che si è appropriato un capitalista, perché il capitale semplice esiste certamente senza alcuna circolazione di merci. Robinson nella sua isola aveva beni economici che egli impiegava nella produzione di altri beni, cioè aveva dei capitali, ma non aveva alcuna circolazione né di merci, né di denaro.
Per non fare quindi confusioni, pur conservando il più che è possibile la terminologia di Carlo Marx, noi chiameremo capitale semplice i beni economici destinati alla produzione di altri beni, e capitale appropriato il capitale che «funziona delle mani dei capitalisti».
Il libro di Carlo Marx è evidentemente diretto contro questa categoria di capitali, o in altri termini, contro i capitalisti. In quanto al capitale semplice, Carlo Marx non ne disconosce per nulla l’importanza. Egli ammette che esso deve non solo riprodursi, ma ancora aumentarsi per potere sviluppare
«le forze produttive e le condizioni materiali che sole possono formare la base ad una società nuova e superiore» (259).
È il capitalista il nemico.
«Poiché il lavoro passato degli operai A, B, C, ecc., figura nel sistema capitalistico come l’attivo del non-lavoratore X, ecc., borghesi ed economisti non si stancano di versare a questo proposito dei torrenti di lacrime e di elogi sui miracoli di questo lavoro defunto — al quale Mac Culloch, il genio scozzese, decreta il diritto ad un salario a parte, volgarmente detto, profitto, interesse, ecc. Così il concorso sempre più forte, che sotto forma di strumento di lavoro, il lavoro passato porta al lavoro vivente, è attribuito da questi sapienti non all’operaio che ha fatto il lavoro, bensì al capitalista che se l’è appropriato5. Secondo il loro punto di vista l’istrumento di lavoro e il suo carattere di capitale (appropriato) — che gli è stato inspirato dall’ambiente sociale attuale — non possono più separarsi, nel modo che, nel pensiero del piantatore della Georgia, il lavoratore spesso non poteva separarsi dal suo carattere di schiavo.» (266).
Il capitalista è inutile. Il capitale può riprodursi ed accrescersi senza di lui.
«A misura che si produce e si consuma di più si è forzati a convertire il più dei prodotti in nuovi mezzi di produzione6. Ma questo processo non si presenta né come accumulazione del capitale (appropriato), né come funzione del capitalista, fin tanto che i mezzi di produzione del lavoratore e, per conseguenza, i suoi prodotti e le sue sussistenze non portano ancora l’impronta sociale che li trasforma in capitale (appropriato). È ciò che Richard Jones, sul successore di Malthus alla cattedra di economia politica dell’East Indian collegio di Hailebury, ha fatto rilevare coll’esempio delle Indie Orientali…. Nei territori dove la dominazione inglese ha meno alterato l’antico sistema, i grandi ricevono, a titolo di tributo o di rendita fondiaria un’aliquota del prodotto netto dell’agricoltura, che essi dividono in tre parti. La prima è consumata da essi in natura, la seconda viene trasformata a loro proprio uso in articoli di lusso ed utilità da lavoratori non agricoli, che essi rimunerano colla terza parte. Questi lavoratori sono degli artigiani possessori dei loro strumenti di lavoro. La produzione e la riproduzione semplice e progressiva fanno così il loro cammino senza intervento alcuno da parte di quel cavaliere dalla trista figura, che è il capitalista praticante l’opera buona dell’astinenza». (262)
Questo esempio non è molto probativo7, perché non si può dire che la produzione e la riproduzione semplice e progressiva siano rapide ugualmente presso gli Indiani che in Inghilterra dove vige il sistema capitalistico. Può essere che questo sistema non abbia alcuna influenza sulla produzione e la riproduzione in Inghilterra, ma fino a tanto che non lo si avrà dimostrato, l’esempio dell’India sarà piuttosto contrario che favorevole alla tesi che nega ogni influenza favorevole al sistema capitalistico.
Secondo Carlo Marx, questo sistema non è solamente inutile, ma anche dannoso all’accumulazione del capitale (semplice).
«I capitalisti, i loro comproprietarii, i loro uomini-ligi ed i loro governi8 sciupano ogni anno una parte considerevole del prodotto netto annuale. La porzione della ricchezza che si capitalizza non è dunque mai così larga quanto essa potrebbe essere» (267).
È certo che se si potessero conservare i servigi che rende il capitalista, e sopprimere lo stesso capitalista; godere dell’opera e sopprimere colui che la fa — sarebbe un grande vantaggio per la società. Ma è ciò possibile?
Carlo Marx ha un bel mettere in ridicolo l’astinenza, ma è intanto certo che essa ha ancora una parte, che non è trascurabile, nella formazione dei nuovi capitali. Lasciamo da parte l’astinenza del capitalista: è chiaro che se il capitale non gli appartiene, l’interesse che egli ne trae non gli appartiene neppure. Basta pensare al denaro che s’accumula nelle casse di risparmio per rendersi conto che l’astinenza del lavoratore dà un prodotto considerevole9. I libretti della cuoca, del portiere, del giardiniere, dell’operaio, rappresentano delle somme, che sono realmente il prodotto dell’astinenza di questi lavoratori. Tutta questa gente risparmierebbe altrettanto, più o meno, quando non esistesse più la proprietà del capitale, e tutto il capitale fosse collettivo? — È una questione da discutere, e non è niente affatto evidente che questo risparmio debba divenire più considerevole.
Ma far nascere il capitale non è tutto; bisogna ancora impiegarlo. Si sistemi pure la società come si voglia, sarà però sempre necessario che qualche essere umano abbia a decidere a quale scopo, a preferenza d’altri, dovrà essere impiegato il capitale esistente. Gl’impiegati del governo decideranno più saggiamente dei capitalisti? In generale si osserva che gli uomini curano meglio i loro interessi, che non quelli degli altri.
Vi è forse, per conoscere se il capitale debba essere impiegato in una maniera più proficua alla società nell’industria A, o nell’industria B, un mezzo più efficace di quello di mettere all’asta impiego di questo capitale, e di aggiudicarlo alla industria che potrà pagare l’interesse più elevato?10
Il capitale può perire; facilmente si può dilapidare. È utile al bene della società, a quello della specie umana, che la minoranza sopporti la sua parte di perdite causate dall’imprudenza o dalle passioni della maggioranza; o non è meglio che ciascuno non sopporti che le conseguenze delle proprie azioni?
I capitalisti nella nostra società hanno una forte tendenza a farsi garantire dallo Stato un interesse superiore a quello che essi otterrebbero in un libero mercato.
Fra questo socialismo borghese e quello popolare, una transazione ed un accordo compientisi sotto gli auspici dei politicanti, è lungi dall’essere impossibile. È anzi sulla via di compiersi; e non può essere lontano il giorno, in cui noi assisteremo all’enorme distruzione delle ricchezze, che ne sarà la conseguenza. La colpa non sarà però del sistema capitalistico, bensì dell’intervento dello Stato, modificante arbitrariamente la distribuzione delle ricchezze.
In tutti i tempi è stata dibattuta fra la scuola liberale e la socialista, questa questione di sapere se il capitale sia utile o dannoso. Quello che è proprio di Carlo Marx è la soluzione ch’egli ne dà, e che riposa intieramente sulla sua famosa teoria del plus-valore.
C. Marx prende a imprestito dall’«economia politica borghese» i termini di valore d’uso e di valore di scambio. Questo imprestito non è dei più felici, perché l’uso di questi due termini, la significazione dei quali spesso non è stata bene precisata, ha dato luogo ad un infinito numero di sofismi.
Il valore d’uso parrebbe essere per Carlo Marx, come per gli economisti «la proprietà di soddisfare un desiderio o di raggiungere uno scopo»11; questo sarebbe dunque in fondo l’utilità12 delle nuove dottrine economiche.
Carlo Marx, cade nell’errore, che è stato, è che è, quello di molti economisti, di non fare abbastanza attenzione a ciò che il valore d’uso non è una proprietà inerente a ciascuna merce, come sarebbero la composta composizione chimica, il peso specifico, ecc.; ma è, al contrario, un semplice rapporto di convenienza tra una merce ed uno o più uomini.
Questo errore è ancora più manifesto per il valore di scambio, ed è una delle cause principali del sofisma che, a nostro avviso, si trova nella teoria del plus-valore.
Cairnes ha definito il valore di scambio
«il rapporto nel quale i beni economici sono scambiati gli uni contro gli altri in un mercato aperto»13.
Questa definizione è più precisa di quelle che ebbero corso prima, per esempio di quella del Mill, ma tuttavia essa ha ancora una certa indeterminatezza che è necessario eliminare.
In realtà non esiste un unico rapporto secondo il quale si scambiano sopra un mercato i beni economici; spesso ve ne sono tanti quanti furono gli scambi realmente effettuati. Questi scambi, o, se si vuole, queste compere e queste vendite, sono gli unici fatti che noi conosciamo e che soli possono dare una base solida al nostro ragionamento. Noi siamo liberi di combinarli in quel modo che ci piace per cavarne delle medie, o qualunque altra astrazione, ma, se vogliamo ragionare con precisione, è necessario indicare chiaramente come noi formiamo queste entità astratte con quei fatti reali, che noi abbiamo a nostra disposizione.
Per evitare ogni confusione con i termini che impiega Carlo Marx, noi prenderemo da Jevons il termine ragione di scambio per indicare il rapporto col quale si sono effettivamente scambiate due merci in uno scambio reale.
Una teoria completa del valore dovrebbe permetterci di spiegare tutte queste differenti ragioni di scambio. È d’uopo aggiungere che una tale teoria è impossibile nello stato attuale della scienza e che lo sarà per sempre? Dobbiamo quindi accontentarci, come del resto in tutte le scienze naturali, di studiare prima la parte principale del fenomeno, ed in seguito, a misura che la scienza si perfeziona, le altri parti sempre meno importanti14.
Le persone estranee alle scienze matematiche, e disgraziatamente qualche volta anche coloro che le conoscono, sono propense, per ricavare la parte principale di un fenomeno, a prenderne una media.
Anzi esse dicono spesso: la media, non sapendo, oppure dimenticando, che vi ha una infinità di medie; per esempio, l’aritmetica, la geometrica, l’armonica, ecc.
Questo procedimento è molto sospetto; e tutte queste medie non rappresentano il fenomeno che si cerca di chiarire, meglio che non lo farebbe un numero scelto a caso entro i limiti estremi dei numeri che si considerano.
Il termine valore di scambio che adopera Carlo Marx rappresenta una entità della quale la sola lettura del libro: Il Capitale non ci fa molto bene intendere il rapporto preciso coi tassi di scambio, che sono i soli fatti reali che noi conosciamo in questa materia. Parrebbe quindi che Carlo Marx per valore di scambio intenda una certa ragione di scambio intorno a cui devono gravitare i tassi reali che si osservano sul mercato15. E per definire questo valore di scambio egli aveva forse nella mente qualche concetto analogo a quello che esprime Stuart Mill il quale scrive:
«Quando l’offerta e la domanda regolano così le oscillazioni del valore, obbediscono esse stesse ad una forza superiore, che fa gravitare il valore intorno al costo di produzione, e che lo fisserebbe a questo punto, se nuove e continue cause di perturbazione non lo facessero deviare incessantemente»16.
All’epoca, in cui Carlo Marx cominciava i suoi studi sul capitale «l’Economia politica borghese» ammetteva generalmente che era il costo di produzione quello che determinava il valore di scambio. Carlo Marx adotta implicitamente questa proposizione alla quale egli ne aggiunge un’altra, cioè, che questo costo di produzione è misurato dal lavoro «semplice» impiegato per ottenere la merce prodotta.
L’Economia politica moderna separa nettamente le funzioni di capitalista da quelle di imprenditore. Carlo Marx, il più spesso, non le distingue.
Ma non si potrebbe trovare in ciò un argomento contro la sua teoria; perché, a rigore, il lavoro dell’imprenditore può contare nel valore del prodotto, come quello d’ogni altro cooperatore della produzione.
Nel far dipendere il costo di produzione unicamente dal lavoro, Carlo Marx non fa che seguire la teoria del Ricardo, ma confrontando questi due autori si vede subito che Ricardo col vocabolo lavoro indica tanto il «lavoro» presente quanto quello passato che presta il suo concorso alla produzione, sotto la forma di capitale, mentre Carlo Marx non ha in vista che il lavoro presente, e si sbarazza del lavoro passato conglobandolo nelle condizioni normali della produzione.
Le nuove dottrine economiche stabiliscono che è, al contrario, il valore di scambio quello da cui dipende il costo di produzione, cioè la fatica cui si sottomette per procurarsi le merci17.
Siccome desideriamo eliminare il più che è possibile ogni argomento che non sia essenziale nell’esame che noi facciamo, così lasceremo da parte ogni discussione su questo punto della teoria economica. E possiamo tanto più facilmente seguire questa via, perché in fondo le due teorie s’accordano alla fine per riconoscere l’eguaglianza del valore di scambio e del costo di produzione, ciò che è la sola cosa che importa per poter passare alla discussione della proposizione di Marx, secondo la quale il valore di scambio non dipende che dal lavoro «semplice» incorporato in una merce, ed è misurato precisamente da questa quantità di lavoro «semplice».
Carlo Marx osserva che una merce si può scambiare con altre nelle proporzioni più diverse.
«Ciononostante il suo valore di scambio resta immutabile in qualunque modo lo si esprima, X cera, Y seta, Z oro e così di seguito. Esso deve dunque avere un contenuto distinto da queste espressioni diverse» (14).
Questo contenuto, secondo Marx, sarà la quantità di lavoro semplice necessario per produrre la merce.
Senza dubbio v’ha qualche cosa di distinto dalle differenti espressioni citate da Max, ma ciò non è «un contenuto della merce»; è, quando si tratta della ragione di scambio, l’apprezzamento che fanno i permutanti dei valori d’uso delle merci scambiate18.
Carlo Marx nega questo, perché, secondo lui,
«è evidente che si fa astrazione del valore d’uso delle merci quando si scambiano» (14).
Quando si tratta della ragione di scambio è il contrario che è evidente. Se voi avete dell’acqua quanto vi basti per i bisogni vostri più urgenti, e vi si offre un barile d’acqua in più cambio del vostro orologio, voi rifiutate questa proposizione ridicola. Perché? Perché nelle circostanze nelle quali vi trovate il valore d’uso d’un barile di acqua, aggiunto alla quantità che voi avete di già, è molto minore per voi del valore d’uso dell’orologio. Ma se siete morente di sete, voi accetterete con riconoscenza una simile proposta, perché allora il valore d’uso della quantità d’acqua che vi si offre è molto più grande del valore d’uso dell’orologio.
Si vede quindi che quando si tratta solamente delle ragioni di scambio la considerazione del lavoro incorporato nella merce non interviene per determinarli, ed è impossibile di mettere questi fatti in armonia con la proposizione che noi esaminiamo. Ma nello stabilirla Carlo Marx doveva avere in vista, come noi l’abbiamo già osservato, altra cosa che la ragione di scambio.
Ecco ciò che si potrebbe dire. È vero che un individuo che manca d’acqua darà una forte somma per averla, ma ciò servirà pure di adescamento per attirare un gran numero di portatori d’acqua; e la loro concorrenza farà sì che il valore di scambio dell’acqua s’abbasserà e finirà per oscillare intorno ad un certo valore normale. È questo valore che noi consideriamo.
Come si stabilirà questo tasso di scambio «normale»? Se noi supponiamo che il consumatore d’acqua ne abbia bisogno giornalmente d’un barile, né più né meno, i portatori d’acqua continueranno la loro concorrenza fino al punto in cui la fatica che loro cagiona il trasporto dell’acqua sarà precisamente uguale alla fatica che loro cagionerebbe la privazione della merce che essi ricevono in cambio di questo trasporto.
In realtà il fenomeno non è così semplice, perché a misura che il valore dell’acqua diminuisce, il suo consumo aumenta. Ma in tutti i casi il punto d’equilibrio sarà caratterizzato dal fatto che da una parte il consumatore, per un nuovo litro di acqua aggiunto al suo consumo giornaliero avrebbe un piacere uguale a quello che caverebbe dal consumo della merce che dovrebbe essere data in cambio di questo litro d’acqua; e che, dall’altra parte, i portatori d’acqua per il trasporto di questo nuovo litro, dovrebbero sostenere una fatica uguale a quella che loro cagionerebbe la privazione della merce che essi riceverebbero in cambio19.
È essenziale l’osservare che non è su una media che si regolano gli scambisti, bensì sull’apprezzamento che si fanno del valore d’uso dell’ultima particella della merce scambiata. È da questo fatto che nasce tutta una classe di fenomeni molto importanti, di cui la rendita del Ricardo è un caso particolare.
Altri di essi sono stati studiati dagli economisti moderni, che hanno spesso sostituiti i termini di plus-valore e di meno-valore a quello di rendita20.
In un certo senso, è dunque vero, che il valore di scambio di una merce non risulta dal suo valore d’uso. Esso non risulta direttamente. Esso è la conseguenza del rapporto che stabilisce ciascun contraente tra il valore d’uso di ciò che riceve ed il valore d’uso di ciò che cede.
In realtà non si comprano delle merci, bensì si comprano dei valori d’uso. Un uomo che compera del caffè, non si cura affatto che quel caffè sia un certo seme d’una composizione chimica determinata; ciò che compera è il piacere che avrà nel bere la sua tazza di caffè. E questo piacere confronta con quello di cui gli sarà necessario privarsi, per dare in cambio del caffè qualche bene economico di cui potrebbe fruire.
Per seguire il nostro autore noi abbiamo eliminate le variazioni accidentali delle ragioni di scambio, in seguito noi abbiamo scartata la considerazione dei fenomeni importantissimi della rendita21, ma ciò non basta ancora per stabilire la massima che il valore di scambio è misurato dal lavoro.
Supponiamo infatti che il nostro consumatore d’acqua sia un calzolaio che paga in calzature i portatori d’acqua. Tutto ciò che ci rivela il fatto dello scambio è l’apprezzamento d’eguaglianza che fa il calzolaio tra la fatica che sosterrebbe nel fare un nuovo paio di calzature e la felicità che egli prova a star senza l’acqua che egli avrebbe in cambio: e un altro simile apprezzamento d’eguaglianza che fanno i portatori di acqua, tra la fatica che loro procurerebbe il trasporto di una nuova quantità d’acqua e la fatica che essi sosterrebbero nel star senza di quelle calzature che il trasporto di questa quantità d’acqua loro procurerà.
Ma queste due eguaglianze separate non stabiliscono punto una terza eguaglianza tra la fatica che causa al calzolaio la fabbricazione d’un paio di calzature e la fatica che causa ai portatori di acqua il trasporto della quantità d’acqua da darsi in cambio delle calzature. L’una e l’altra di queste fatiche sono delle entità subbiettive che non si possono in alcun modo comparare fra di loro quando sono in individui differenti.
Per avvicinarci alla teoria di Carlo Marx, ammettiamo che queste fatiche siano proporzionali al lavoro semplice necessario per fare delle calzature ed a quello necessario per portare l’acqua. Ma ciò non basta ancora. Noi dobbiamo supporre ancora che nessuna circostanza, né intrinseca né estrinseca, impedisca al calzolaio ed al portatore d’acqua di cambiare mestiere, in modo che loro sia indifferente di procurarsi la merce direttamente o per scambio.
In questo caso, infatti, la fatica che cagiona al calzolaio la fabbricazione di un paio di calzature è uguale a quella che sosterrebbe nel portare egli l’acqua che riceverebbe in cambio. E parimenti per il portatore d’acqua tanto è la fatica di portare l’acqua che egli dà in cambio d’un paio di calzature, quanto quella di fare da sé questo paio di calzature.
Siccome l’una e l’altra di queste fatiche sono misurate dal lavoro semplice che vi si riferisce, ne conseguita che le quantità di lavoro semplice contenute nelle calzature e nell’acqua sono uguali: e appunto questo è il teorema di Carlo Marx22.
Disgraziatamente le ipotesi che siamo stati obbligati di fare per stabilire questa massima, le tolgono ogni valore, se vogliamo servircene per dimostrare che solo il lavoro, ad esclusione del capitale, determina e misura il valore di scambio. Infatti fra le circostanze estrinseche che impediscono al portatore d’acqua di divenire calzolaio, e viceversa, figura precisamente la quantità differente di capitale (semplice) necessario a queste industrie.
L’esame della massima che serve di base a tutta la teoria di Carlo Marx ci fa navigare dunque tra due scogli. O noi non possiamo mettere questa proposizione d’accordo con i fatti reali, oppure siamo obbligati a ricorrere a delle ipotesi tali che non si fa che ripeterle quando si enuncia la massima.
È chiaro infatti, che se noi definiamo il costo di produzione — uguale al valore di scambio — in modo da eliminare la considerazione del rapporto col capitale (semplice) non troveremo in seguito nessuna difficoltà a provare che questo costo di produzione ed il suo eguale, il valore di scambio, non dipendono dall’uso del capitale.
Carlo Marx non può essere accusato d’aver fatto questo circolo vizioso, ma non l’ha evitato solo perché si è dispensato nello stesso tempo di definire esattamente il valore di scambio, o perché ha adoperato delle espressioni vaghe come quelle «delle condizioni normali della produzione» ed altre simili.
È utile che noi esaminiamo più davvicino come s’è formato il sofisma che ha indotto in errore Carlo Marx.
Sofismi simili si trovano sotto forme poco differenti, in fondo a molte discussioni intorno a questioni di economia politica. Per mettere a nudo l’errore, il metodo più sicuro è quello di sostituire alle parole l’indicazione delle cose che spesso si presuppongono rappresentare, perché il più delle volte accade, grazie all’ambiguità delle definizioni, che la petitio principii si insinui surrettiziamente nel ragionamento.
Carlo Marx vuol provare che la parte del valore di scambio che riceve il capitalista è presa sul lavoro. Se il valore di scambio del prodotto fosse più grande della somma di lavoro, valutato in una unità convenuta, che è incorporata in una merce, si potrebbe dire che è questo sovrappiù che riceve il capitalista; ma se il valore di scambio del prodotto è precisamente uguale alla somma del lavoro incorporato nella merce, ben certo che il capitalista non può avere altro, se non una parte di questo lavoro.
Nel lavoro incorporato nella merce è del resto compreso il lavoro necessario per riparare i fabbricati, le macchine, ecc., e, in generale, per conservare il capitale. Ed è solamente l’uso di questo capitale, indipendentemente dal suo logorìo che Carlo Marx nega poter produrre alcun valore di scambio.
Il problema da risolvere è dunque questo. Può il capitale (semplice) indipendentemente dal suo logorìo produrre sì o no del valore di scambio? Ovvero in altri termini: l’uso di questo capitale fa sì o no parte del costo di produzione?
Ogni problema economico dipende da un problema psicologico, perché si tratta in fondo di scoprire le regole secondo le quali agiscono gli uomini. Ora, i motivi delle azioni umane sono, in generale, molto numerosi, e perciò stesso ogni teoria che non ne ammetta che uno ad esclusione di tutti gli altri, è incompleta, per una classe determinata d’azioni. Ed è perciò sempre necessario assicurarsi se le cause, che si sono trascurate, non abbiano una influenza considerevole sui fenomeni che si studiano. Ed ecco come si scivola spesso nell’errore.
Se A, B, C,… sono delle cause che producono un fenomeno, non è difficile trovare dei casi in cui A rimanendo costante, il fenomeno varia, ciò che esclude che A sia la sola causa. Ma a questo si risponde, o mettendo le cause B, C,… fra quelle che si chiamano le condizioni «normali» dei fenomeni, ovvero ammettendo queste cause solo come circostanze qualificative di A. In seguito avendo così escluso a priori B, C… non si ha difficoltà a far vedere che A è la sola causa del fenomeno.
Non è solamente l’uso del capitale semplice che è in rapporto col valore, ma sono tutte le circostanze nelle quali esso si produce. Carlo Marx lo riconosce, ma si sbarazza di questa difficoltà conglobando tutte queste circostanze nelle condizioni «normali» della produzione.
«Il tempo socialmente necessario alla produzione delle merci è quello che esige ogni lavoro eseguito col grado medio d’abilità e d’intensità e in condizioni che, in rapporto all’ambiente sociale, sono normali» (15) (V.5).
Ora queste condizioni normali dipendono dalla quantità di capitale che possiede il paese, e dalla distribuzione d’una medesima quantità di capitale fra le diverse industrie.
«Se nell’ambiente sociale dato la macchina da filare, è l’istrumento normale della filatura, non bisogna mettere un aspo nelle mani del filatore» (83).
È facile dirlo, ma per impiegare una macchina da filare, bisogna averla.
La macchina da cucire è probabilmente nella nostra società l’istrumento «normale» per cucire; ma quante massaie sono costrette a farne senza!
Qual’è il numero normale di macchine da cucire che deve esistere nella nostra società? È impossibile rispondere a questa domanda senza far intervenire in un modo più o meno indiretto la nozione del capitale (semplice).
Se la spiegazione che abbiamo data del sofisma è vera, si deve potere, servendosi dei medesimi termini, far passare a piacimento una qualunque delle cause B, C,… al rango della principale, rigettando le altre, colla causa A, fra le condizioni normali del fenomeno.
È ciò che noi verificheremo sull’esempio della teoria di Carlo Marx. È facile vedere che si potrebbe, cambiando qualche parola in questa teoria, dimostrare che il valore di scambio23 dipende unicamente dal capitale (semplice).
Perciò noi prima osserviamo che le merci hanno bisogno per la loro produzione di quantità diverse di capitale, che s’impiega durante tempi diversi. Per bere dell’acqua basta arrivare ad attingerla alla fonte, ma per bere del vino bisogna dissodare il terreno, piantare la vigna, avere un torchio, delle botti, una cantina, ecc. Le prugne selvatiche non costano che il disturbo di coglierne, ma per avere delle reines-Claude bisogna procurarsene degli innesti.
«Una volta messo da parte il valore d’uso delle merci non resta loro più che una qualità, quella d’essere dei prodotti del CAPITALE24» (14).
«La quantità di valore di una merce resterebbe evidentemente costante se il tempo necessario alla sua produzione restasse pure costante. Ma quest’ultimo varia con ogni modificazione della forza produttiva del CAPITALE, che, dal canto suo, dipende dalle circostanze diverse, fra le altre dall’abilità media dei lavoratori… dalle combinazioni sociali della produzione, ecc.» (15) (V.6).
Una volta su questa via possiamo continuare, e mostrare che il lavoro usurpa una parte del plus-valore creato dal capitale.
Una cucitrice prende a nolo una macchina da cucire per 30 centesimi al giorno. Il lavoro di tre ore di questa macchina produce: 1. i 30 centesimi di nolo della macchina; 2. la somma di 70 centesimi che è strettamente necessaria all’operaia per vivere.
Ma
«l’OPERAIA ha pagato il valore giornaliero della forza DELLA MACCHINA; il suo uso durante il giorno, il lavoro d’una giornata intiera le appartiene dunque. Che il mantenimento di questa MACCHINA non costi che TRE ORE DI LAVORO DELLA MACCHINA benché la macchina possa lavorare la intera giornata… è questo un evento particolarmente fortunato per l’OPERAIA. Essa ha preveduto il caso ed è ciò che la fa ridere» (83) (V.138).
Ella fa lavorare la macchina per sei ore invece di tre ed ella s’appropria il plus-valore creato dalla macchina durante queste tre ore di plus-lavoro.
Possiamo dunque concludere che la dimostrazione fatta da Carlo Marx della proposizione che il valore di scambio è misurato esattamente dalla somma di lavoro incorporato nel prodotto, contiene, almeno implicitamente, una petizione di principi.
In realtà la produzione economica trasforma certi beni in altri, che devono avere un valore d’uso (un’utilità) più grande di quella dei beni economici da cui provengono, altrimenti nessuno alla lunga vorrebbe continuare questa trasformazione. È questo aumento di valore d’uso così prodotto che si dividono i differenti fattori della produzione, vale a dire i lavoratori e i proprietari dei beni economici che cooperano alla produzione. Lo stesso lavoro è un bene economico come tutti gli altri.
Il prodotto nasce economicamente dalla combinazione del lavoro passato (capitale semplice) e d’altri beni economici col lavoro presente, come l’acqua nasce dalla combinazione chimica dell’ossigeno e dell’idrogeno.
Non si potrebbe attribuire il prodotto economico al lavoro presente, con esclusione del lavoro passato, o viceversa, come non si potrebbe attribuire la produzione dell’acqua all’ossigeno, escludendone l’idrogeno, o viceversa.
Ora è certo che se lo Stato si appropria tutti i capitali, egli potrà cederne l’uso gratuitamente, salvo le spese di mantenimento, ai lavoratori.
Parimente, se lo Stato riduce in schiavitù tutti i lavoratori potrà cedere l’uso del loro lavoro gratuitamente, salvo le spese di mantenimento, ai capitalisti. Ma queste non sono le questioni delle quali abbiamo ad occuparci in questo momento; perché Carlo Marx nello stabilire le sue proposizioni sul valore di scambio e sul plus-valore, ha evidentemente in vista ciò che esiste ora, e non ciò che potrebbe avvenire sotto condizioni diverse di organizzazione economica della società.
La difficoltà che prova non solamente Carlo Marx, ma molti altri ancora, di rendersi conto esatto del posto del capitale nella produzione, è veramente rimarchevole. Vi è certamente una parte che appartiene all’emozione in questa difficoltà, ma la parte principale trae la sua origine dal difetto di rigore dei principi che si impiegano.
Ciò che ha aumentato ancora la confusione è il fatto che alcuni autori si sono assunti il compito di provare che il capitalista aveva diritto — o non aveva diritto ad una rimunerazione.
L’Economia Politica non ha niente a vedere in ciò. Essa studia solo le condizioni nelle quali si produce e si distribuisce la ricchezza, e si propone di determinare come si può ottenere un massimo edonistico per l’individuo, ed un massimo edonistico per la specie25.
Il ragionamento che oppongono molti alle teorie di Carlo Marx dicendo:
«il proprietario di una casa potrebbe non ammettervi nessuno, egli ha dunque il diritto, se accetta un locatario, di fargli pagare un affitto,»
contiene una petizione di principi, perché è precisamente il diritto del proprietario di disporre della casa sua che è contestato. La vera quistione da risolvere è solamente se, per spingere la gente a costruire delle case, l’adescamento della pigione che essi riceveranno è, o no, il mezzo che produce il massimo di benessere della società.
Altri autori, nel parlare del valore di scambio parrebbero ammettere, almeno implicitamente, che ciò sia una somma d’energia, come è la forza viva in meccanica, una quantità di calore, d’elettricità, ecc., le quali possono bensì trasformarsi, ma non essere creati o distrutti. Sembra a loro che nel fatto che l’uso del capitale può aumentare il valore, vi ha come una specie di creazione, di produzione de nihilo26, che non si può ammettere. Ma il valore non è che un rapporto, né vi è alcun mistero in ciò che l’uso del capitale, e di qualsiasi altro processo di produzione delle merci, possa alterare questo rapporto.
Tra i principali caratteri del capitale sonvi quindi questi: che egli ha la proprietà d’aumentare la produttività del lavoro (G. B. Say), che esso è il più spesso il frutto dell’astinenza (Senior), che la sua azione si sviluppa del tempo (Böhm-Bawerk). Ciascuno di questi caratteri è stato successivamente scelto come la causa esclusiva A, che fa del capitale uno dei fattori della produzione, sbarazzandosi degli altri caratteri B, C…, dei quali non si poteva negare l’influenza, sia assorbendoli nelle pretese condizioni normali, sia adoperandoli come dei semplici qualificativi del carattere scelto.
In realtà il capitale è un bene economico, come tutti gli altri. È certo che evita col suo impiego una pena all’uomo, od in altri termini, esso soddisfa un bisogno umano. Inoltre esso esiste in quantità limitata, almeno nelle nostre società; possiede dunque le qualità che ci son servite a definire i beni economici, e noi dobbiamo riconoscerlo per uno di questi.
Una stessa materia può rivestire differenti caratteri economici secondo gli usi ai quali la si impiega. Per esempio, il riso può essere mangiato direttamente dal suo possessore — questi può adoperarlo per nutrire i polli che egli mangerà poi — può nutrirne i braccianti che coltivano la risaia, può nutrirne degli operai che faranno un carro per trasportare il riso della futura raccolta, ecc.
La scienza economica deve differenziare tutti questi fatti. I nomi importano poco. Si può dire che, nel primo caso, il riso è un bene economico di primo ordine, e che, negli altri, è un bene economico di secondo, di terzo ordine, ecc. Si può ancora dire che il riso che serve a nutrire i coltivatori della risaia e quello che serve a nutrire i fabbricanti del carro, è capitale, oppure si può riservare questa parola solo per l’ultimo impiego.
Dei fatti analoghi ai precedenti sarebbero questi: se il riso è stato subito cambiato con della moneta, il possessore di questa moneta se ne servirà più tardi, o per acquistare i suoi alimenti, o per pagare il nutrimento dei suoi polli, o quello degli operai della risaia, o quello dei fabbricanti del suo carro.
In generale quando uno stesso bene economico, — o una stessa somma di denaro — s’impiega in due maniere che non sono identiche, ciascuno di questi due usi rappresenta una entità economica diversa. E ciascuna di queste entità ha il suo proprio valore d’uso, per il quale si offrono sul mercato dei prezzi distinti, fino a che estendendosi l’uno degli usi, l’altro restringendosi, si arriva, col giuoco della domanda e dell’offerta, all’equilibrio dei prezzi.
Carlo Marx stesso ci fornisce un esempio di beni economici in apparenza eguali ma che in realtà differiscono profondamente, quando osserva che il lavoro collettivo di un certo numero di operai è molto più produttivo che il lavoro di questi medesimi operai isolati.
Fra le circostanze che differenziano l’uso dei beni economici, ve ne è una di grandissima importanza; quella del tempo in cui si può fruire sia direttamente del bene economico considerato, sia del suo prodotto. Il Böhm-Bawerk ha magistralmente sviluppate tutte le conseguenze che si possono trarre da questa differenziazione per mezzo del tempo dell’uso dei beni economici.
Carlo Marx chiama plus-valore l’interesse che riceve il capitalista per l’affitto del suo capitale.
«Dividendo il capitale anticipato per il plus-valore annualmente consumato, si ottiene il numero d’anni o di periodi di produzione, dopo i quali il capitale primitivo è stato consumato dal capitalista, ed è per conseguenza scomparso».
«Il capitalista s’immagina senza dubbio che egli ha consumato il plusvalore e conservato il valore capitale, ma il suo modo di vedere non cangia nulla al fatto che dopo un certo periodo il valore del capitale che gli apparteneva, eguaglia la somma del plus-valore che egli ha acquistato gratuitamente27 durante lo stesso periodo, e che la somma del valore che egli ha consumato eguaglia quella che egli ha anticipata28. Dell’antico capitale che egli ha anticipato del suo proprio fondo, non esiste dunque più un atomo solo di valore» (249).
Questo ragionamento di Carlo Marx suppone, ciò che è precisamente in questione, che una somma di 100.000 lire, per esempio, pagata oggi, sia identica a dieci somme di 10.000 lire pagate, la prima alla fine d’un anno, la seconda di due anni, ecc.
Ora, questi due usi d’uno stesso bene economico non sono identici, e non lo sarebbero neppure in una società in cui il capitale fosse collettivo, eccetto se questo capitale esistesse in quantità infinita29. Ma in questo caso non si pagherebbe niente di più per l’uso del capitale in una società capitalista.
Chiamiamo A l’uso di un bene economico disponibile oggi, e B l’uso di questo stesso bene disponibile alla fine d’un certo tempo.
Se il valore d’uso di A fosse per tutto il mondo precisamente uguale a quello di B, mai si verificherebbe lo scambio di A con B.
Perché questo stesso scambio abbia luogo è necessario che per l’imprenditore il valore d’uso di A sia più grande che quello di B, ed è la differenza di questi due valori che egli compra pagando l’interesse.
Questo contratto non differisce in niente da quello che potrebbe fare un produttore di frumento con un produttore di vino. Il primo darà: 1° un peso di frumento uguale al peso del vino che egli riceve; 2° un saldo in danaro.
Una somma di danaro disponibile oggi differisce tanto da una medesima somma di danaro disponibile di qui a qualche anno, quanto il vino differisce dal frumento. Nel primo caso è il tempo30 che differenzia i due beni economici, nel secondo è un insieme di proprietà fisiche e chimiche.
Come abbiamo già ricordato, qui esaminiamo solamente i fatti tali e quali accadono realmente, e non quali potrebbero essere sotto un’organizzazione sociale differente.
Si capisce perfettamente che un governo possa obbligare il possessore del bene economico A a cambiarlo con B, senza percepire nessun interesse, come potrebbe obbligare il produttore del vino a cambiarlo a peso uguale con del frumento senza ricevere alcun supplemento.
Si obietta che se il capitale non riceve alcun interesse, nessuno vorrà darsi il disturbo di produrre e di conservare questo capitale. Così nessuno coltiverà più la vigna se dovrà cambiarne il prodotto a peso uguale con una merce di prezzo inferiore. Ma Carlo Marx risponde che lo Stato può prelevare sul prodotto del lavoro dei cittadini ciò che è necessario per assicurare
«la riproduzione semplice e progressiva del capitale senza intervento alcuno del «cavaliere dalla trista figura» chiamato capitalista».
E noi possiamo anche dire che lo Stato preleverà sul lavoro dei cittadini di che coltivare la vigna, la di cui riproduzione semplice e progressiva sarebbe così assicurata senza l’intervento di questo cavaliere dalla triste figura che si chiama vignaiuolo.
È ora più utile al benessere della società che la riproduzione del capitale — o la coltura della vigna — si faccia a mezzo di corvées imposte ai cittadini piuttosto che sotto il regime della libera concorrenza? È una questione da dibattere, ma che è intieramente distinta da quella del sapere se il valore delle merci non dipenda che dal lavoro «semplice» impiegato per produrle.
Ma qual è questo lavoro «semplice» che misura il valore di scambio (o il costo di produzione)?
«Il lavoro, la durata del quale misura il valore» secondo Marx «è una spesa di forza semplice che ogni uomo ordinario, senza sviluppo speciale, possiede nell’organismo del suo corpo. Il semplice lavoro medio cangia, è vero, di carattere nei differenti paesi e secondo le epoche, ma esso è sempre determinato in una data società».
– Bisognerebbe aggiungere: con un capitale dato. —
«Il lavoro complesso (skilled labour, lavoro qualificato) non è se non una potenza del lavoro semplice, o piuttosto non è se non il lavoro semplice moltiplicato, di maniera che una quantità data di lavoro complesso corrisponde ad una quantità più grande di lavoro semplice» (17) (V.11).
È questo uno dei punti sui quali la dottrina di Carlo Marx è stata più attaccata. Si è domandato come potevansi stabilire questi rapporti tra il lavoro semplice ed il lavoro complesso. È chiaro che bisognerebbe poterli trovare indipendentemente dal valore dei prodotti del lavoro, perché altrimenti se noi misuriamo il lavoro col valore, non potremo in seguito misurare il valore col lavoro.
Devesi nonpertanto temere che il nostro autore si sia lasciato trascinare da questo sofisma, poiché egli dice:
«Dappertutto i valori delle merci le più diverse sono indistintamente espressi in moneta, cioè in una certa massa d’oro e d’argento. Con ciò stesso, i diversi generi di lavoro, rappresentati da questi valori, sono stati ridotti, in proporzioni diverse, a somme determinate d’una sola e medesima specie di lavoro ordinario, il lavoro che produce l’oro o l’argento» (84)31. (V.143)
Ora se si ammette che i diversi generi di lavoro contenuto nelle differenti merci si riducono al lavoro «semplice» proporzionalmente al valore di quelle stesse merci, non vi è più in seguito alcuna difficoltà a concludere che questi valori sono proporzionali al lavoro «semplice» contenuto nelle merci. Ma noi non facciamo così che ripetere la proposizione che è servita di base al nostro ragionamento.
Senza più insistere su quella proposizione, supponiamo che la riduzione delle diverse specie di lavoro a del lavoro semplice, possa farsi indipendentemente dal valore, supponiamo ancora che esiste una società senza capitale appropriato, nella quale la circolazione; denaro-merce-denaro sia assolutamente proibita, e che le condizioni iniziali di questa società sieno tali che le merci si scambino in proporzioni rigorosamente uguali a quelle delle diverse specie di lavoro impiegate per produrle. Vediamo le conseguenze che si possono dedurre da questa ipotesi, seguendo i principii di Carlo Marx.
Per questo noi dobbiamo prima prendere in considerazione un’altra proposizione molto importante di Carlo Marx. Egli riconosce che
«ad una massa crescente della ricchezza materiale può corrispondere un decrescimento simultaneo del suo valore…. Quali siano le variazioni della sua forza produttiva, il medesimo lavoro, che funziona durante lo stesso tempo, si fissa sempre nel medesimo valore. Ma esso fornisce in un tempo determinato più valori d’uso, se la sua forza produttiva aumenta; meno, se diminuisce» (18) (V. 13 e 14).
Si ricava da ciò che nella società, che noi consideriamo, nessun produttore avrà interesse ad aumentare «la forza produttiva del suo lavoro» quantunque abbia al contrario, un grande interesse a ciò che la forza produttiva del lavoro degli altri produttori sia aumentata. In fatti, il sarto, per esempio, non ha nessun interesse a scoprire qualche nuovo mezzo che gli permetta di ridurre d’una metà il tempo necessario alla confezione di un abito. Con questo metodo
«due abiti non hanno più valore, di quanto ne aveva precedentemente uno solo» (V.13).
In cambio dei suoi due abiti il sarto non riceverà dunque più merce che non ne ricevesse precedentemente per uno: allora che interesse può egli avere ad un aumento dell’efficacia «del lavoro socialmente necessario» per la confezione degli abiti? È il compratore che dovrà averne cura; imperocché questa efficacia aumentando, egli avrà due abiti invece di uno in cambio della medesima somma dei suoi prodotti.
Perché un fabbricante impiegherebbe egli una macchina che non fa ancora parte «delle condizioni sociali della produzione» se questa macchina
«non trasferisce mai più valore di quanto il suo logorìo gliene fa perdere in media» (168) (V.153)?
I consumatori sarebbero i soli interessati perché macchine sempre più perfette facessero parte «delle condizioni sociali» della produzione del fabbricante.
Per evitare questa difficoltà si potrebbe forse sopprimere la parola mai nella proposizione di Carlo Max che noi abbiamo citato, e intendere questa proposizione nel senso, che non è se non quando i prezzi hanno raggiunto un livello stabile d’equilibrio che la macchina non trasferisce più valore di quanto gliene fa perdere in media il suo logorìo. Ma i prezzi non raggiungendo questo livello stabile immediatamente dopo l’introduzione d’una nuova macchina, vi sarebbe un certo lasso di tempo durante il quale il valore trasferito sarebbe più grande del logorìo della macchina, vale a dire, durante il quale il capitale semplice che essa rappresenta produrrebbe un certo valore, ed è questo plus-valore che servirebbe di premio al fabbricante per spingerlo a impiegare la macchina.
Disgraziatamente così non facciamo che uscire d’una difficoltà per cadere in un’altra: perché apriamo così la porta alle considerazioni del plus-valore che noi avevamo scartate per poter accettare la dottrina di Marx. Se il capitale può produrre del valore di scambio mentre i prezzi non hanno raggiunto il loro punto di equilibrio stabile, ne può produrre sempre, perché questo equilibrio stabile dei prezzi è una pura astrazione, che non esiste nella natura32.
«Questi prezzi come li esprime epigrammaticamente Coleridge, vanno perpetuamente in cerca dei loro livelli, ciò che assomiglia abbastanza ad una definizione ironica di una tempesta»33.
Noi dobbiamo dunque supporre che questi fenomeni del plus-valore o non esistono o non hanno che una importanza trascurabile, se vogliamo ragionare supponendo verificata l’ipotesi che il valore di scambio di una merce è proporzionale alla quantità di lavoro socialmente necessario per la produzione di questa merce; e ritorniamo a dover ammettere che il fabbricante (non capitalista) non avrà alcun interesse affinché si introduca nella sua industria un procedimento che permetta di ridurre questo tempo necessario per la fabbricazione.
Saranno i consumatori che si rivolgeranno alle assemblee legislative per avere ragione dei vecchi usi dei fabbricanti e per ottenere il capitale (semplice) necessario alle nuove industrie.
Si deve supporre — senza poter spiegare come questo meraviglioso fenomeno si produrrà — che le maggioranze di queste assemblee saranno più sagge, più illuminate, più competenti e soprattutto più disinteressate di quelle che noi conosciamo.
Queste assemblee legislative della nuova società dovranno decidere, per esempio, in che giorno preciso il processo attuale della concia delle pelli non dovrà più far parte delle «condizioni normali della produzione» e il nuovo processo della concia coll’elettricità dovrà essergli sostituito.
Esse dovranno anche, perché questa decisione non rimanga allo stato di semplice affermazione teorica, trovare il capitale (semplice) che è necessario nel nuovo processo di concia.
Argomenti di molto minore importanza occuperebbero, se non le assemblee legislative, per lo meno i loro agenti. Per esempio, sotto certe latitudini le pesche coltivate a spalliera sono migliori di quelle coltivate in piena terra. Ma se il muro contro il quale si stabilisce la spalliera non deve
«trasferire alle pesche più valore di quanto gliene fa perdere in media il suo logorìo»
che interesse può avere il giardiniere a costruirlo? Quel muro sarà soltanto utile alle persone che mangeranno le pesche.
Sarà veramente uno strano stato sociale quello in cui ciascuno invece di sorvegliare il proprio lavoro, sorveglierà quello del vicino!
Tutto quello che noi conosciamo della natura umana fa prevedere che questo stato non sarà molto favorevole ai progressi dell’industria. E si riconoscerà ben presto la necessità di fare una legge per stimolare l’attività dei produttori. In virtù di questa legge, se, per esempio, l’onesta corporazione dei sarti scopre e applica un processo per ridurre «il tempo socialmente necessario» alla confezione d’un abito, essa riceverà un premio dal governo. Ma allora il valore di scambio dei prodotti non sarà più esattamente proporzionale alla quantità di lavoro che contengono, imperocché il compratore dovrà in più della quantità di lavoro contenuto nell’abito, pagare, come contribuente, la sua quota parte del premio che ricevono i sarti.
Perché ciò non succeda, bisognerebbe che ciascun produttore scoprisse e applicasse nel medesimo tempo un nuovo processo per aumentare in certe proporzioni determinate l’efficacia del suo lavoro. Allora i premi che dovrebbe pagare come contribuente potrebbero essere compensati da quelli che riceverebbe come produttore.
Ciò non è tutto. Vi è a temere che il capitale (appropriato) non giunga, travestendosi, a infettare questa società.
Supponiamola in Australia. Essa si compone di un agricoltore, d’un tessitore e d’un cercatore d’oro. Vi è inoltre un governo che è lungi dallo starsene in disparte. Questo governo dovrà fissare la quota parte che bisogna prelevare sul prodotto del lavoro dei cittadini per mantenere e aumentare il capitale (semplice) della comunità, e si occuperà in seguito a distribuire questo capitale fra i diversi usi che se ne può fare.
Noi non esamineremo se potrà effettuare questa distribuzione meglio dei capitalisti, tenuti desti dalla speranza di arricchirsi — e dalla paura di perdere i loro capitali. Vi potrebbero essere delusioni, se la buona distribuzione operata dal governo trascinasse una grande diminuzione di produzione. La più piccola parte di 100 franchi male distribuiti può essere ancora più grande di quella di 10 franchi bene distribuiti.
Lasciamo tutto ciò. Ma, almeno, noi dobbiamo tener conto che il capitale (semplice) che esiste nella comunità, non è in quantità infinita. — Se lo fosse, poco importerebbe che fosse o no appropriato, perché anche in una società capitalistica non si pagherebbe niente di più per il nolo — ogni cittadino non potrà dunque ottenere dal governo tanto di capitale quanto ne può desiderare per la sua industria.
D’altro canto il governo non vorrà impedire ai cittadini di risparmiare qualche cosa sui prodotti che potrebbero consumare. Supponiamo che il tessitore abbia fatto un tale risparmio. Ha osservato che i conigli divorano il raccolto dell’agricoltore. È questa una circostanza che, come la raccolta sfavorevole di cui parla Marx (15) fa sì che
«la stessa quantità di lavoro dell’agricoltore è rappresentata da quattro staia (di frumento) invece di esserlo da 8 staia».
Le devastazioni dei conigli potrebbero essere evitate circondando il campo d’un muro, che il tessitore è disposto a costruire co’ suoi risparmi.
Il tessitore si guarderà bene di rivolgersi all’agricoltore. Costui non ha nulla a guadagnare, a produrre per lo scambio otto staia, che avrebbero precisamente il medesimo valore delle quattro staia che produceva prima. Il tessitore andrà a trovare il cercatore d’oro, ed ecco il dialogo che potrà esserci fra loro:
TESSITORE.– Non voglio più fare il tessitore. Me ne vado col mio fucile sulla spalla a passeggiare giorno e notte in giro al campo dell’agricoltore e distruggerò tutti i conigli che divorano il frumento.
Oggi voi cambiate 10 grammi d’oro contro 100 kg di frumento. La quantità del vostro lavoro che è «cristallizzato» in quei 10 grammi d’oro è precisamente uguale, tenendo conto della qualità, alla quantità di lavoro dell’agricoltore contenuta nei 100 chilogrammi di frumento.
Quando avrò ucciso i conigli non vi sarà più nei 100 chilogrammi di grano, che la metà della quantità che vi è ora del lavoro dell’agricoltore, ma vi sarà in più il mio lavoro. La sua quantità, a vero dire, sarà più grande della metà che mancherà del lavoro dell’agricoltore, ma voglio fare buona misura, e suppongo che vi sia una compensazione esatta. Voi riceverete dunque per i vostri 10 grammi d’oro la stessa quantità di grano, ed esso conterrà la stessa quantità di lavoro cristallizzato. Noi ci divideremo i vostri 10 grammi d’oro fra l’agricoltore e me, ciascuno ne avrà 5. Avrete voi in ciò qualche difficoltà?
CERCATORE D'ORO.– Non me ne importa niente del modo con cui si divide l’oro che io dò in cambio del frumento.
TESSITORE.– Ebbene! Io vi confesserò che non penso in nessun modo a far la guardia in giro al campo dell’agricoltore, ho un segreto per distruggere i conigli, e vi farò profittare del vantaggio che procura. Per i vostri 10 grammi d’oro voi avrete non 100 chilogrammi di grano, ma bensì 150 chilogrammi. Solamente bisognerà ripartire così i vostri 10 grammi d’oro.
Voi ne darete grammi 7½ all’agricoltore perché in questi 150 chilogrammi vi sarà una somma del suo lavoro «cristallizzato» precisamente uguale a quella del vostro lavoro che si trova in 7 grammi e mezzo d’oro. Gli altri grammi 2½ d’oro voi me li darete.
CERCATORE D'ORO.– Ciò mi piace molto e vi prego adoperare al più presto il vostro segreto.
TESSITORE.– Un momento. Io non voglio ingannarvi. Sappiate che per i grammi 2½ d’oro che voi mi darete, voi non avrete in cambio, che una piccolissima quantità di lavoro cristallizzato, press’a poco nulla. Così per i vostri 10 grammi d’oro, voi avrete 150 chilogrammi di grano, ma, solamente per grammi 7½ di lavoro cristallizzato.
CERCATORE D'ORO.– E a me che importa! mangio io forse del lavoro cristallizzato? Conosco molto bene il sapore del pane, ma quanto a quello del lavoro cristallizzato, non ne ho nessuna idea e non me ne curo di più di quello che un pesce si curi di una mela.
TESSITORE.– Non vi ho ancora detto tutto. Non saprei nascondervi più lungamente che non ho nessun segreto. Conto semplicemente fare un muro in giro al campo dell’agricoltore. Se volete, potete farlo voi stesso.
CERCATORE D'ORO.– Ah, sì? E quando potrò trovare il tempo? Voi sapete bene che io devo già lavorare 11 ore al giorno, per procurarmi il sostentamento; come potrei aggiungere a queste lunghe giornate di lavoro il numero di ore che è necessario per costruire il muro? Non è niente affatto vero che il lavoro si misura dalla sua durata. Un’ora di lavoro aggiunta ad una giornata di lavoro di tre ore non è menomamente tanto faticosa quanto la stessa ora aggiunta ad una giornata di 11 ore34 269. Così teniamoci alla vostra prima proposizione, se vi garba.
Ecco dunque il nostro tessitore diventato capitalista senza sembrarlo. È vero che non impiega la circolazione argento-merce-argento.
È vero che non s’appropria un plus-valore prodotto da un sopra-lavoro dell’agricoltore, ma nondimeno egli ha venduto l’impiego del suo capitale per una rendita annuale.
Sono questi dei casi immaginari, si obietterà, delle Robinsonnades come le chiama Carlo Marx. Lo credete? Eh via! al contrario, sono fatti reali che si osservano già ora e che diverranno sempre più importanti a misura che la nostra società diventerà sempre più socialistica.
Che fanno ora i signori politicanti quando vogliono abbandonarsi a qualche esperimento socialistico od altro? Fanno fare prestiti dal governo. Col mezzo delle Casse di risparmio raccolgono i soldi dell’operaio, colle emissioni della rendita, o dei titoli garantiti dallo Stato attirano i grandi capitali. In verità essi distruggono, in gran parte, la ricchezza così accumulata, ma ammettiamo che la impieghino saviamente; la rendita annuale che paga in questo caso lo Stato, non è essa della stessa natura di quella che il tessitore avrebbe ricevuto dal cercatore d’oro?
Lo Stato socialista-popolare avrebbe bisogno di farsi imprestare altrettanto, e più, che lo Stato socialista-borghese, che noi abbiamo la fortuna di possedere attualmente. Se non vuole pagare niente per l’uso dei beni economici che domanda, i suoi sudditi non si affretteranno molto a fornirglieli. Se paga qualche cosa, il capitalista rinasce e prende piede nella nuova società. Si troverà anche molto meglio che non in una società dove soltanto la libera concorrenza determina la distribuzione della ricchezza35, imperciocché intendendosi coi signori politicanti — gente la di cui virtù non è generalmente molto rigida — potrà con una domanda artificiale di capitali far alzare il tasso dell’interesse; e d’un’altra parte non correrà nessuno dei rischi del capitalista che è obbligato di arrischiare i suoi capitali in imprese più o meno avventurose ove si può perdere interesse e sorte36.
È ben difficile di abolire la proprietà dei beni economici, che si chiamano capitali, se non si abolisce nello stesso tempo la proprietà degli altri beni economici. È ciò che del resto hanno molto bene compreso certe sêtte socialiste.
Pietro Krapotkine ha ragione di dire che
«vi sono nelle nostre società dei rapporti stabiliti che è materialmente impossibile di modificare se vi si tocca solamente in parte» (La conquista del pane, pag. 57);
ed è logico nel rifiutarsi di ammettere la distinzione stabilita dai socialisti che dicono: «Noi vogliamo l’espropriazione del suolo, del sottosuolo, dell’officina, della manifattura. Sono degli strumenti di produzione e sarebbe giusto di vederci una proprietà pubblica. Ma vi sono, oltre a ciò, gli oggetti di consumazione: il nutrimento, il vestiario, l’abitazione, che devono restare proprietà privata» (luogo cit., pag. 61).
Vi è logicamente una differenza fondamentale fra le teorie che vogliono abolire solamente una certa proprietà — quella del capitale — e le teorie che vogliono abolire ogni sorta di proprietà, anche quella del boccone di pane che si risparmia.
Le prime urtano contro difficoltà innumerevoli, che nascono dalla distinzione arbitraria che esse vogliono stabilire fra le proprietà che vogliono abolire e quelle che vogliono conservare. Le seconde evitano queste difficoltà, ma solamente a prezzo di difficoltà ancora più grandi, che sono la conseguenza dell’ipotesi che si possa trascurare il sentimento oltremodo potente che spinge l’uomo, e anche l’animale, ad appropriarsi gli oggetti che gli sono utili.
Qualche sêtta socialista allontana ancora il punto di partenza delle difficoltà ch’esse possono incontrare, ammettendo che la natura umana può diventare affatto diversa da quella che noi conosciamo37. Se si ammette questa ipotesi la fantasia può dare libero il corso per metter fuori quel tal sistema sociale che le piacerà. Non si potrà obiettare nulla perché sarà sempre possibile d’immaginare una specie di natura umana tale, che renda possibile sistema proposto. L’economia politica studia le azioni dell’uomo qual è e non quale può piacerci di immaginarcelo.
Si può osservare che il ragionamento che abbiamo fatto riguardo alla produzione del capitale fa vedere chiaramente che il valore d’uso aumenta, ma non spiega l’aumento, che tuttavia si osserva nelle nostre società, della somma dei valori di scambio.
È perché noi abbiamo accettato un’ipotesi di Carlo Marx, la quale non è in armonia coi fatti. Tutte le volte che con un mezzo che non è alla portata di tutti, sia esso un secreto professionale, una scoperta, o l’impiego di una nuova quantità di capitale, si riduce della metà il tempo necessario per produrre una certa quantità di merce, non è vero che il valore di scambio, (il prezzo) di questa merce si riduca pure della metà; questo nuovo valore sarà più grande che la metà del valore primitivo e così il valore di scambio del totale della produzione della merce che si considera, sarà più grande di quello che non lo fosse prima.
Bisogna ancora osservare che quand’anche noi riescissimo a provare che la parte del valore di scambio che riceve il capitalista è presa sul lavoro, noi non avremmo con ciò dimostrato che l’intervento del capitalista cagioni un pregiudizio agli operai.
Carlo Marx crede ciò. Ma ciò che fa illusione nel suo ragionamento, come anche molti altri, e notevolmente in quelli dei protezionisti di buona fede, — ammettendo che ve ne siano ancora fra la gente che non hanno per iscusa la loro ignoranza delle leggi economiche — è che la parola valore ha genericamente il significato di ricchezza. Dire che si può togliere a qualcuno una parte dei valori di scambio che egli possiede, aumentando nello stesso tempo il suo benessere sembrerebbe una proposizione contraddittoria: e tuttavia la cosa è possibilissima, perché il nostro benessere dipende solamente dai valori d’uso (utilità economiche) dei beni di cui noi ci serviamo, e non già dei loro valori di scambio.
Così, quand’anche noi ammettessimo con Carlo Marx che il capitalista si approprii una parte del valore di scambio che crea l’operaio, noi non avremmo ancora dimostrato che il capitalista è dannoso, perché potrebbe darsi che l’operaio avesse ancora a sua disposizione un valore d’uso più considerevole che in un altro sistema d’organizzazione sociale.
Bisognerebbe completare la teoria di Carlo Marx colla legge di bronzo di Lassalle (V.177) perché la dimostrazione fosse completa. Se infatti il sistema capitalista riducesse l’operaio a non avere che il minimum di benessere che gli è indispensabile per vivere e per riprodursi, è chiaro che, in tutti i casi, non avrebbe nulla da perdere e tutto da guadagnare in un tentativo per cambiare di sistema.
Ma questa teoria di Lassalle è ogni giorno smentita dai fatti38, e non si potrebbe prendere per base d’un ragionamento scientifico.
La critica che noi abbiamo fatto dell’opera di C. Marx è puramente negativa.
Noi abbiamo visto che non si poteva logicamente accettare la dimostrazione della proposizione che il valore di scambio delle merci sia misurato dalla somma di lavoro semplice che vi è incorporato. E noi abbiamo esaminato come nascesse il sofisma che rendeva erroneo questo ragionamento.
Carlo Marx misconosce il carattere, che possiede il capitale, di essere un bene economico, come tanti altri, e uno dei numerosi fatti della produzione che consiste semplicemente nelle trasformazioni del lavoro, dei servizi e dei capitali, e di altri beni economici, in certi beni che si chiamano prodotti.
Una conseguenza dell’attribuzione della qualità di bene economico al capitale è che vi sono le medesime ragioni per ammettere o per negare, che sia utile alla società che l’uso del capitale sia rimunerato al pari di qualsiasi altro bene economico che coopera alla produzione.
Noi abbiamo esaminato a questo scopo le difficoltà che s’incontrano volendo abolire la proprietà del capitale; mentre si conserva la proprietà degli altri beni economici.
Infine, abbiamo visto che anche accettando la proposizione fondamentale di Carlo Marx, non si poteva concludere che l’esistenza del capitalista fosse dannosa alla società.
Ma tutto ciò non ci dice nulla sulle proposizioni che si devono sostituire a quelle di Carlo Marx né sui mezzi d’ottenere il massimo di benessere per la società.
È nei trattati di Economia Politica che bisogna cercare la risposta a queste questioni, la di cui soluzione non può essere se non la conseguenza di una teoria completa dello scambio e della produzione.
Già da lungo tempo l’Economia Politica aveva fatto vedere che la libera concorrenza è la condizione necessaria per ottenere il massimo del benessere per l’individuo e per la specie, e gli ultimi lavori della scienza hanno dato un tal rigore e una tale precisione alla dimostrazione di questo teorema, che si può oramai considerarlo a giusto titolo come uno dei meglio stabiliti della scienza sociale.
Il libro di Carlo Marx contiene pure una parte descrittiva e storica molto importante, soprattutto in ciò che concerne l’industria inglese.
La logica di questa parte pare abbastanza debole. Vi si vede assai di rado qualche tentativo di ragionamento serrato e rigoroso per collegare i fatti alle conseguenze che Marx vuole cavarne, e egli sembra rimettere questa cura ad una semplice associazione di idee, il più delle volte appartenente all’emozione.
È del resto un procedimento frequentemente impiegato dalle scuole socialiste. Si tratta di provare che alcuni fatti biasimevoli sono la conseguenza del sistema capitalistico, ebbene si dimostra, ciò che non è precisamente la stessa cosa, che questi fatti coesistono in una società con il sistema capitalistico39. Questo ragionamento si potrebbe solamente opporre alle persone che pretendono che tutto sia per il meglio nel migliore dei mondi possibili e che il sistema capitalistico ha la virtù miracolosa di far regnare la giustizia e l’onestà sulla terra.
Certamente vi sono stati in tutti i tempi untuosi personaggi sempre pronti ad ammirare l’ordine di cose esistente, a celebrarne le virtù ed a scrivere con Virgilio40:
Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Jam redit et Virgo: redeunt Saturnia regna;
Jam nova progenies coelo demittitur alto.
Essi andavano predicando ai poveri l’umiltà, la sottomissione, il rispetto ai grandi della terra, e sono arrivati sino a commuoversi sulla felicità dei negri faticanti sotto la sferza dei piantatori della Virginia. Ora essi incensano i politicanti ed hanno pronti i sofismi per giustificare lo sperpero del pubblico denaro.
«Non è stato ancora inventato, dice P. Luigi Courier, un servizio così vile, un’azione così turpe per la quale l’uomo di corte, non dico che vi si rifiuti, cosa inaudita, impossibile, ma non se ne faccia gloria e prova di devozione».
Non sono solamente i re che hanno dei cortigiani, il buon Demos ne aveva già ai tempi di Aristofane, e non ne mancano ai nostri giorni. Ma i cortigiani ed i complici dei politicanti si chiamano legione, e tutti insieme divorano una buona parte della ricchezza che produce il lavoro unito al capitale.
W.G. Summer ha fatto vedere molto bene41 come è in grazia di questa distruzione di ricchezza che può avvenire che i ricchi diventino più ricchi ed i poveri più poveri. Osservate negli Stati-Uniti d’America le grandi fortune che si sono formate in grazia della protezione o di qualche altra specie di furti compiuti coll’aiuto del governo42, ma notate bene che se alcuni capitalisti sono potuti arricchire collo spogliare altri capitalisti, nessuna somma di nuovi capitali (appropriati) si è così formata: al contrario questa alterazione della distribuzione naturale delle ricchezze è stata causa d’una enorme distruzione dei capitali che si formavano, ed ha impedito che l’accrescimento dei capitali del paese fosse così considerevole come lo sarebbe stato con la libertà economica.
È così che il ladro di strada maestra cagiona alla società un danno che non è misurato solamente dalla somma della ricchezza rubata: il più grande male essendo l’insicurezza che impedisce la produzione d’una quantità considerevole di ricchezza.
Per un simile motivo i comuni del medio evo trovarono il loro vantaggio nel pagare forti somme per affrancarsi dalle esazioni dei loro signori. E se, per sbarazzarsi di quelle dei politicanti, si potesse seguire la stessa via, tutto il mondo si troverebbe meglio.
Molte persone abusano delle dottrine dell’Economia Politica, e prostituiscono la scienza per scusare e anche giustificare i misfatti dei politicanti. Esse ricordano coi loro sofismi, i casisti che Pascal ha messo alla gogna nelle sue Provinciales. Sono gli stessi procedimenti, gli stessi ragionamenti, la stessa assenza di senso morale. Si riconoscono i principî della scienza, se ne proclama altamente la verità, ma con una serie di deduzioni altrettanto sottili quanto inaspettate, se ne tirano conseguenze che ripugnano in sommo grado al senso comune.
Quanta gente comincia col dichiararsi favorevole al libero scambio, e finisce coll’approvare delle misure del protezionismo più esagerato!
Quanti giuristi e sedicenti economisti dopo avere dottamente stabilito che lo Stato deve vegliare alla guardia della integrità della moneta, concludono, come con ragione li rimprovera Carlo Marx43, coll’approvare i governi che le falsificano (57).
Si sono veduti in Italia dei governi poco scrupolosi far fabbricare della carta moneta per distribuirla alle imprese che essi proteggevano. Si sono venduti ancora, invece di curare l’esecuzione della legge, spingere ed, anzi, obbligare le banche d’emissione a violarla. E sono arrivati fino al punto di chiudere compiacentemente gli occhi sulle malversazioni della Banca Romana, perché ne cavavano favori per i loro amici e danari per le elezioni.
E gente che la pretendono ad economisti, hanno cercato di giustificare queste colpevoli manovre allegando la direzione dell’intenzione che, secondo loro, era pura ed onesta.
L’Economia Politica non è responsabile di questi sofismi più che lo sia la morale di quelli dei casisti.
Ricordando la proposizione che la libera concorrenza produce un massimo di benessere per l’individuo e per la specie, noi non abbiamo per niente inteso — ci teniamo a dichiararlo nettamente — assolvere, e neanche scusare gli abusi che esistono nelle nostre società. Questi abusi, che gli economisti liberali hanno per altro sempre riprovati, noi li abbandoniamo completamente alla vendetta delle scuole socialiste. Esse osservino bene, però, come quasi tutti questi fatti biasimevoli e delittuosi non si sono potuti produrre che grazie all’intervento dello Stato. Non è dunque punto probabile che l’estensione delle attribuzioni dello Stato guarisca il male invece di peggiorarlo. Il socialismo borghese, che invade la nostra società, procede dai medesimi principi che il socialismo popolare che si vorrebbe sostituirgli, e gli abusi dell’uno fanno prevedere ed insegnano che cosa saranno gli abusi dell’altro.
È l’onore e la gloria dell’Economia Politica di avere in tutti i tempi, da Adamo Smith fino ai nostri giorni, mostrato al mondo i mali prodotti dall’intervento arbitrario dei governi distribuenti ai loro partigiani le ricchezze prodotte nel paese.
È invano che certe persone hanno cercato di abbassare il merito delle opere di Bastiat e di far rientrare nella scienza le considerazioni metafisiche che ne erano state giustamente bandite. Vi è più vera scienza nell’opuscolo di Bastiat sulla Fisiologia della spogliazione, che in molti dei grossi volumi dei socialisti della cattedra, e la forma spiritosa della Petizione dei mercanti di candele non impedisce affatto di contenere un argomento che gli economisti devono ripetere ancora ogni giorno per mostrare tutta l’assurdità della protezione.
Naturalmente Carlo Marx è lungi dal riconoscere il menomo merito alle dottrine della scienza economica. Egli lancia i suoi dardi più acuminati contro «l’economia politica borghese» e la rende responsabile di tutto quello che può passare per la testa a qualche scrittore «borghese» di scrivere. La colpa minore degli economisti è di essere dei «sicofanti» che fanno «delle teorie puerili». Del resto egli mette in disparte i fisiocrati ma riunisce insieme tutte le altre scuole economiche: ed il lettore non deve contare che sui suoi poprii lumi per poter separare i torti che egli rimprovera agli economisti liberali, da quelli che appartengono ad altri scrittori, come Thiers, i quali veramente non potrebbero essere contati fra i partigiani del motto «lasciate fare, lasciate passare».
Carlo Marx cita un certo Ed. Potter che nel 1863 voleva impedire l’emigrazione degli operai inglesi. Questo signore scriveva: (251)
«Incoraggiate o permettete l’emigrazione della forza di lavoro e dopo? chi diverrà il capitalista? (Encourage or allow the working power to emigrate, and what of the capitalist?)».
Carlo Marx biasima con ragione queste parole, ma perché non notare che questa volta almeno i sicofanti dell’economia politica liberale, gli «ideologi del capitale» (250) hanno la fortuna di trovarsi d’accordo con lui?
Tutte le misure tendenti ad impedire che l’operaio disponga liberamente del suo lavoro o della sua persona sono biasimevoli per la scuola del «lasciar fare». E ora G. de Molinari ha anche fortemente insistito sui progressi da realizzare nella nostra società perché l’operaio possa facilmente offrire il suo lavoro sul mercato ove questo lavoro è il più pagato44.
Non bisogna nemmeno dimenticare che le lamentele dei padroni che volevano impedire l’emigrazione degli operai non ottennero nessun appoggio dal governo inglese imbevuto dei principi liberali dei Cobden e dei John Bright: mentre recentemente in Italia, un governo protezionista, decretava, per compiacere ad alcuni proprietari fondiari, suoi amici, delle misure che sotto l’apparenza di regolare la emigrazione avevano per solo scopo vero di renderla più difficile.
Su molti altri punti ancora gli economisti liberali si trovano d’accordo con Carlo Marx. Per esempio nel biasimare lo sfruttamento del lavoro dei fanciulli e delle donne da parte degli individui che ne hanno la tutela45. L’accordo cessa quando si tratta di trovare la causa di questi fatti.
Per Carlo Marx essa sta unicamente nel sistema capitalistico; ma se ciò fosse vero, l’effetto non dovrebbe forse scomparire colla sua causa? Ora è tutto il contrario quello che noi osserviamo; e le donne ed i fanciulli sono ancora più maltrattati nelle società primitive, ove il sistema capitalista non esiste, o è allo stato rudimentale, che non nelle nostre società ove questo sistema ha ricevuto uno sviluppo dei più considerevoli46.
Certo, se non vi fossero manifatture, il padre non potrebbe mandarvi i propri figli. Ma non avrebbe egli alcun altro mezzo per trarne profitto?
La tratta delle bianche si fa ancora in Europa. Recentemente è stato arrestato a Trieste un individuo che partiva per le Indie con molte ragazze che dovevano essere consegnate a dei Radjah. Potrebbe darsi che fossero destinate a quei grandi di cui parla Carlo Marx e che fossero state pagate con una delle tre parti del prodotto destinato «alla riproduzione semplice e progressiva del capitale». Nel Napoletano alcuni padri vendono i loro figli per andare a suonare degli organetti nelle vie o per mendicare. La sorte di questi poveri piccoli miserabili non è affatto meno triste di quella che descrive Carlo Marx, dei fanciulli impiegati nelle manifatture inglesi.
Forse qualcuno dirà che è la miseria che riduce i padri a questo estremo. L’osservazione è vera, ma che concluderne? Questa miseria non è il frutto esclusivo del sistema capitalista, poiché esiste nella società dove questo sistema non esiste. In ogni caso è inutile fermarsi sugli effetti della miseria, perché se esiste un sistema per evitarla ogni uomo sensato e onesto vi sarà favorevole.
Si ritorna così al problema che noi abbiamo posto incominciando.
Come il massimo edonistico si può ottenere? Col gioco della libera concorrenza o incaricando degli impiegati governativi di distribuire la ricchezza fra i produttori?
Per risolvere un tale problema non basta rilevare semplicemente i mali che soffre la nostra società. Perché prima di tutto bisogna separare quelli che sono il prodotto del socialismo borghese, che grazie ai politicanti, invade sempre più il nostro organismo sociale47, da quelli che sono la conseguenza della libera concorrenza: e poi è necessario provare che un altro sistema ne avrebbe di minori; ciò che fino ad ora non è ancora stato fatto.
Il punto di vista nel quale si mette in questa questione l’Economia Politica liberale è stato mirabilmente espresso da G. de Molinari, e noi non sapremmo far di meglio che riportare le sue parole:
«La produzione si è accresciuta e la ricchezza si è moltiplicata, la solidarietà si è estesa e la guerra ha cessato d’essere necessaria per assicurare l’esistenza della civiltà, ma il governo collettivo ed individuale non si è ancora adattato alle nuove condizioni di esistenza che il progresso economico ha posto alle società ed agli individui. L’osservanza dei diritti e dei doveri collettivi ed individuali non ha realizzato alcun progresso stimabile48; si potrebbe sostenere anzi che se essa ha progredito in qualche punto, in materia di tolleranza per esempio, essa ha regredito in altri.
In luogo di adattare più esattamente le leggi positive ai diritti naturali degli individui, che fanno invece i governi? Essi estendono arbitrariamente ogni giorno, con delle leggi di monopolio o di protezione, la proprietà e la libertà degli uni alle spese di quella degli altri, essi proteggono i guadagni degli industriali e le rendite dei proprietari contro i salari degli operai; fin tanto che gli operai divenuti padroni della macchina legislativa proteggeranno i loro salari a spese dei guadagni degli industriali e delle rendite dei proprietari; essi espongono tutte le esistenze ad una instabilità permanente, ora elevando, ora abbassando gli ostacoli che essi hanno elevati contro la libertà del lavoro e dello scambio. Invece di accordarsi per assicurare la pace, come si potrebbe avere un minimo di spesa, essi aggravano continuamente il fardello della preparazione alla guerra, in attesa di scatenarla, distruggitrice e sanguinosa, più che mai sul mondo civile. Dappertutto le classi governanti hanno in vista unicamente i loro interessi attuali ed egoistici, e si servono del loro potere per soddisfarli, senza curarsi di sapere se essi sono o no conformi all’interesse generale e permanente della società».49
L’Economia politica fa vedere che questo interesse non può essere assicurato che dalla libera concorrenza, che ogni ostacolo messo ad essa è un male, che la protezione è sinonimo di distruzione di ricchezza, ed infine che la maggior parte dei mali che si osservano nella nostra società provengono, come dice il prof. Todde50 non da un eccesso di libertà, ma al contrario dalla mancanza di qualche libertà necessaria. Tutti i fatti che noi conosciamo conducono a questa conclusione, ogni nuovo fatto che si osserva la conferma.
Da qualunque parte venga oggi attentato alla libertà economica è un male. Che si violi questa libertà o in nome del socialismo borghese o in nome del socialismo popolare l’effetto è lo stesso; cioè una distruzione di ricchezza che alla fine ricade sulla parte più povera, e per conseguenza la più numerosa della popolazione e ne aggrava le sofferenze.
1. Vedere su questo argomento quello che dice a proposito del valore Maffeo Pantaleoni, Principii d’Economia pura. – Firenze, 89↩
2. J. Stuart Mill, Logique, trad. franc., Paris 89, T. II, p.229. Noi crediamo che questo autore esageri il vantaggio che vi è nell’adoperare delle parole che hanno già un vago significato nel linguaggio comune. L'esperienza dimostra che questo uso è stata la sorgente più abbondante di sofismi che hanno ritardato il progresso delle scienze naturali.↩
3. La definizione data dal Walras, Elements d’Economie politique pure, Losanna 1889, p. 197, ci sembra dal punto di vista della precisione la migliore. — Il capitale, definito dal Walras, corrisponderebbe molto bene al capitale costante di Marx.↩
4. Le cifre che sono scritte fra parentesi senz’altra indicazione indicano le pagine dell’opera: Le Capital di Carlo Marx, traduzione francese, Paris, Librairie du Progrès.
Le pagine del nostro volume saranno pure indicate da cifre tra parentesi ma precedute dalla lettera V.↩
5. Non basta che l’operaio “faccia il lavoro„ è necessario ancora: 1. che conservi il prodotto, invece di goderne immediatamente; 2. che impieghi questo prodotto con discernimento. Se egli lo darà al primo fabbricante che capita, questi potrà benissimo distruggerlo.
Il De Molinari, Notions fond. d’Economie polit. p. 183, scrive
“Il capitalista compie delle funzioni essenziali: la prima consiste nel formare il capitale, la seconda nel conservarlo„.
Da qui si vede che questo autore, come anche gli altri economisti, non fa la confusione che lamenta Carlo Marx
“tra lo strumento di lavoro ed il suo carattere di capitale (appropriato)„.
Si è pubblicata la statistica dei fallimenti che hanno avuto luogo nel 1890-91-92 agli Stati Uniti cercando di classificarli secondo le loro cause. Nel 92 si ebbero 10,270 fallimenti con 54,774,106 dollari di attivo e 108,595,248 dollari di passivo.
CAUSE |
NUMERO |
ATTIVO
|
PASSIVO
|
Incompetenza |
1.906 |
6.599.692 |
13.445.228 |
Inesperienza |
532 |
1.436.649 |
3.320.950 |
Capitale insufficiente |
3.343 |
15.209.975 |
23.576.617 |
Stravaganza |
148 |
819.942 |
1.707.050 |
Negligenza |
311 |
812.761 |
1.750.000 |
I fallimenti che ebbero queste cause rappresentano uno sperpero di capitale (semplice). Quando il capitale sarà collettivo lo sperpero sarà maggiore o minore? ↩
6. I fatti veramente parrebbero provare il contrario. Cioè che è necessario prima avere i mezzi di produzione per produrre e consumare maggiormente. È vero che tutto fa capo al consumatore, ma non è consumando, bensì astenendosi dal consumare, che si produce il capitale.↩
7. Victor Jacquemont, Lettres: “L’India è l’utopia dell’ordine sociale, ad uso della gente per bene; in Europa, i poveri portano i ricchi sulle spalle, ma è solo per metafora: là invece è senza traslato. Al posto dei lavoratori e dei mangiatori, o dei governati e dei governanti, distinzioni sottili dei politicanti europei, nell’India non vi sono che portati e portatori: è più chiaro.„
Un tale stato sociale merita forse di esserci dato a modello? Gli operai inglesi hanno qualche cosa da invidiare agli Indiani?↩
8. Quanto ai governi, Carlo Marx ha perfettamente ragione. La somma di ricchezza che essi distruggono, o che impediscono di formarsi, sorpassa ogni immaginazione. È anzi in questo fatto che noi troviamo la causa principale delle miserie che Carlo Marx ha descritto così bene, e che noi deploriamo non meno di lui.
Bisognerebbe ora provare che il governo di una società nella quale il capitale fosse collettivo, sarebbe meno costoso che non quello d’una società capitalista. Ciò è ben lungi dall’essere evidente a priori; è invece il contrario che sembra molto probabile.
È certo che se si distruggeranno i capitalisti, essi non potranno appropriarsi più niente. Morta la bestia, morto il veleno. Ma ogni abuso sarà reso impossibile? Non si potranno forse introdurre abusi anche in un sistema in cui la proprietà fosse abolita, e dove non si distribuissero che buoni di consumazione?
In questi giorni i giornali hanno pubblicato i particolari di certe agapi di consiglieri municipali di Parigi in giro negli ospizi degli alienati. Il prezzo per testa d’una colazione arriva 35 franchi. A che arriveremo noi quando tutte le industrie saranno a questo modo ispezionate? Spenderemo noi meno e con migliori risultati che non lasciando ai soli industriali la cura di sorvegliarle?↩
9. Cassa Nazionale di Risparmio di Francia.
Somme dovute ai depositanti al 31 dicembre (interessi compresi) |
Media del credito del conto di ciascun depositante. |
|
Anni |
fr. |
fr. |
1882 |
47.601.638 |
224.97 |
1885 |
154.155.572 |
222.59 |
1890 |
413.439.048 |
274.76 |
1891 |
506.379.931 |
292.05 |
Devonsi poi aggiungere i depositi nelle casse private di risparmio, le quali alla fine del 1891 avevano in deposito 3.052.760.224 franchi, ripartiti in 5.948.882 libretti. ↩
10. In realtà l’interesse nello stato di equilibrio diviene lo stesso per tutte le industrie (se si tien conto del premio per l’ammortizzamento, rischi, ecc.). Ed è la quantità impiegata in ciascuna industria che colle sue variazioni, mantiene l’equilibrio.↩
11. Stuart Mill. Princip. D’Econ. Polit. Trad. franc., Guillaumin, Paris, t. I, p. 503.↩
12.
«L’utilità è il termine astratto che designa l’effetto piacevole, ossia edonistico (dal greco, ἠδονή, piacere, voluttà) dovuto al complesso delle condizioni per le quali una cosa è un bene economico». Pantaleoni, loc. cit., pag. 87. Vedi Walras, Menger, Jevons, Marshall, Edgeworth ecc.
Questo vocabolo utilità è molto mal scelto, perché ha già nel linguaggio volgare un significato, che non è punto quello che gli si dà in economia politica.
Nel linguaggio volgare utile s’oppone a dannoso. Si dice, per esempio, che la morfina ben lungi dall’essere utile al morfinomane, gli è gravemente dannosa. Al contrario noi dobbiamo riconoscere nella morfina una utilità economica, per questo solo che soddisfa ad un desiderio umano. Come dice Stuart Mill (loc. cit., pag. 503):
«L’economia politica non ha niente a che vedere nella stima che può fare dei differenti usi un filosofo od un moralista».↩
13. Some leading principles: “The ratio in which commodities in open market are exchanged against each other„.↩
14. La mancanza di spazio non ci permette che di indicare qui molto sommariamente queste considerazioni. Le abbiamo già sviluppate nel Giornale degli Economisti, Roma, Maggio 1892, pag. 401 e seguenti. Notisi che di una parte del fenomeno puossi dare una teoria completa, che è cosa ben diversa dalla teoria di tutto il fenomeno completo.↩
15. C. Marx scrive (70)
«La formazione del capitale, deve essere possibile anche quando il prezzo delle merci è uguale al loro valore. Essa non può essere rappresentata da una differenza, da uno sbalzo tra questi valori e questo prezzo. Se questi qui differiscono da quelli là, è necessario riagguagliarli, cioè fare astrazione da questa incostanza come da qualche cosa di puramente accidentale; si sa, del resto, che questa riduzione non è un procedimento puramente scientifico. Le oscillazioni continue dei prezzi del mercato, il loro ribasso ed il loro rialzo si compensano e si annullano reciprocamente e si riducono da sé stessi al prezzo medio come alla loro intima regola». (Vedi la nostra nota alla pag. LIII che contraddice questa asserzione).
C. Marx continua:
«…Come può il capitale prodursi se i prezzi sono regolati dai prezzi medii; cioè, in ultima istanza, dal valore delle merci. Io dico in ultima istanza perché i prezzi medii non coincidono direttamente con i valori delle merci come credono A. Smith, Ricardo ed altri».
Perché mettere così degli enigmi e non definire subito ciò che è questo valore? Se ne parla in tutto il libro del capitale senza dire ciò che è esattamente.↩
16. Stuart Mill, loc. cit., t. I, p.527.↩
17. Per esprimersi con precisione è necessario dire che il valore di scambio, che dipende dal grado finale d’utilità, determina le quantità fabbricate.↩
18. Si suole dire che i valori d’uso non sono paragonabili. Ciò è vero solo quando il paragone voglia farsi tra due persone. Ma per una stessa persona tutti i valori d’uso sono invece paragonabili. Quando un uomo baratta una pera con un arancio paragona i due valori d’uso, per lui, e stima che il valore d’uso della pera è, sempre per lui, minore del valore d’uso dell’arancio.↩
19. Il lettore, che conosce le teorie dell’utilità economica, ha di già capito che noi non abbiamo fatto che applicarle a questo esempio. Noi abbiamo cercato invano un altro mezzo per chiarire completamente la materia che esaminiamo.↩
20. G. de Molinari. Notions fondamentales d’Économie politique, Paris 1891, p. 126 e segg.
I fenomeni del plus-valore sono in contraddizione con la teoria di Marx che determina il valore solamente dal lavoro. Ma d’altra parte vi è una appropriazione del genere di quella che condanna Marx. Non è affatto dimostrato che questa appropriazione sia utile per ottenere il maximum edonistico dell’individuo e della specie. Ma è un problema difficile il trovare il mezzo di evitare questa appropriazione. Vedi Herbert Spencer – Giustizia, cap. XI e appendice B.↩
21. Questi fenomeni comprendono quelli che nascono dal fatto che la fatica che causa la produzione di molte merci non è costante per ciascuna unità. Per certe merci, quando la quantità prodotta aumenta, questa fatica aumenta pure; per altre merci la fatica diminuisce.↩
22. Si può dimostrare più chiaramente impiegando segni algebrici.
Sia, quando lo scambio cessa ad aver luogo: Per il calzolaio: A, la fatica che gli cagionerebbe la confezione di un nuovo paio di calzature; B, la fatica che egli prova a privarsi dell’acqua che egli riceve in cambio. Per il portatore d’acqua: C, la fatica che egli proverebbe a portare questa quantità d’acqua; D, la fatica che gli prova a privarsi delle calzature che egli riceverebbe in cambio.
Il fatto che lo scambio si ferma precisamente al punto considerato, ci fa conoscere solamente le due equazioni:
A = B, C = D
e queste qui non condurrebbero menomamente all’uguaglianza di A e di C.
Ma se si suppone la fatica misurata dal lavoro semplice e che: L, sia il lavoro semplice per fare un paio di scarpe, e l quello per portare l’acqua che si scambia contro questo paio di scarpe; si avrà:
A = α L, C = β l
Inoltre se B1 è la fatica che sosterrebbe il calzolaio andando a cercarsi direttamente l’acqua, D1 quella dei portatori d’acqua a farsi un paio di calzature, si avrà ancora:
B1= α l, D1= β L
Ora il teorema di Marx vuole che
l=L
In questo caso ne viene in virtù delle equazioni precedenti che
B=B1 D=D1
ciò che corrisponde precisamente alle uguali condizioni enunciate nel testo.↩
23. Per mettersi dal punto di vista delle nuove teorie, bisognerebbe qui dire: il costo di produzione.
Ricordiamo ancora una volta che in fondo questo costo di produzione è uguale al valore di scambio.↩
24. Le parole in maiuscoletto sono quelle che cambiamo nel testo di Marx.↩
25. Carlo Marx ha ragione di vedere una contraddizione nel fatto di ricavare
“l’ideale di giustizia dai rapporti giuridici che hanno la loro origine nella società basata sulla produzione mercantile„
e di prendere poi questo ideale come punto d’appoggio
“per riformare questa società ed il suo diritto„. (34 nota).
Ma non segue egli stesso un po’ questa via quando ammette che è giusto che il prodotto integrale del lavoro appartenga all’operaio?↩
26. Carlo Marx scrive:
“È evidente, come dice Lucrezio; nil posse creari de nihilo, che nulla si può creare dal nulla. Creazione di valore è trasformazione di forza di lavoro in lavoro. Da una parte la forza di lavoro è specialmente un insieme di sostanze naturali trasformato in organismo umano„ (92).
Disgraziatamente è la dimostrazione che manca.↩
27. Questa parola suppone di già risolto il problema che Marx tratta. Perché gli economisti pretendono precisamente che non è gratuitamente che il plus-valore è stato acquisito.↩
28. Questa eguaglianza è contestata. Marx, che cita un esempio d’isomeria chimica (19), poteva prevedere l’obbiezione che due somme di denaro numericamente uguali possono essere economicamente differenti. Ciò che qui le fa differenti è il tempo.↩
29. O per meglio dire: se la quantità esistente fosse più grande, o eguale, a quella che si potrebbe desiderare.↩
30. E anche altre circostanze come la probabilità di godere d’un bene futuro, ecc., sulle quali è inutile arrestarsi ora.↩
31. Block deve avere intieramente trascurato di portare la sua attenzione su questo passo significativo, poiché scrive:
«La tariffa indica, per ciascuna professione, quante ore di un manuale vale un’ora del suo lavoro: per esempio l’ora del sarto due, l’ora del fabbro tre, ecc. Io sfido a stabilire una tariffa che accontenti una sola persona su 100. Ecco perché Carlo Marx si è astenuto». Les progrès de la science économique, I, pag. 507.
Questa critica è ingiusta. Carlo Marx non si è astenuto, poiché egli indica il modo col quale, secondo lui, si dovrebbero fissare queste tariffe.
È bene ancora osservare che le idee di Carlo Marx su questo argomento procedono direttamente da quelle sviluppate da Ricardo nei suoi Principii d’economia politica, cap.I.↩
32. Ecco per esempio i prezzi della fusione del ferro (warrants de fonte) di Glasgow, in scellini e denari per tonnellata:
ANNI |
1853 |
1854 |
1855 |
1856 |
1857 |
Prezzo più alto |
81/0 |
92/0 |
83/6 |
81/0 |
82/6 |
Prezzo più basso |
49/0 |
64/0 |
54/0 |
68/0 |
48/6 |
Prezzo medio |
61/6 |
79/9 |
70/9 |
72/6 |
69/2 |
ANNI |
1858 |
1859 |
1860 |
1861 |
1862 |
Prezzo più alto |
60/0 |
58/6 |
61/6 |
52/6 |
57/6 |
Prezzo più basso |
52/0 |
47/0 |
49/6 |
47/0 |
48/0 |
Prezzo medio |
54/5 |
51/11 |
53/8 |
49/3 |
53/0 |
ANNI |
1863 |
1864 |
1865 |
1866 |
1867 |
Prezzo più alto |
67/3 |
66/0 |
65/0 |
82/6 |
55/6 |
Prezzo più basso |
50/6 |
49/6 |
65/3 |
51/0 |
51/6 |
Prezzo medio |
55/9 |
57/4 |
49/6 |
60/6 |
53/6 |
ANNI |
1868 |
1869 |
1870 |
1871 |
1872 |
Prezzo più alto |
54/6 |
58/6 |
60/0 |
72/9 |
137/6 |
Prezzo più basso |
51/9 |
50/6 |
50/5 |
51/0 |
73/0 |
Prezzo medio |
52/9 |
53/3 |
54/4 |
58/11 |
102/0 |
ANNI |
1873 |
1874 |
1875 |
1876 |
1877 |
Prezzo più alto |
145/7 |
108/6 |
75/0 |
66/6 |
57/9 |
Prezzo più basso |
101/0 |
72/6 |
57/6 |
56/0 |
51/6 |
Prezzo medio |
117/3 |
87/6 |
65/9 |
58/6 |
54/4 |
ANNI |
1878 |
1879 |
1880 |
1881 |
1882 |
Prezzo più alto |
52/4 |
68/6 |
73/3 |
53/5 |
58/1 |
Prezzo più basso |
42/3 |
40/0 |
44/6 |
45/0 |
46/8 |
Prezzo medio |
48/5 |
47/0 |
54/6 |
49/1 |
49/4 |
Questi prezzi non hanno alcuna tendenza a fermarsi ad un livello costante. Essi variano costantemente. È sui fatti reali che noi dobbiamo ragionare, e non su fatti che non esistono che nella nostra immaginazione.↩
33. J. Stuart Mill, Logique, trad. franc., t. II, p. 385.↩
34. È il principio della decrescenza del grado finale d’utilità. Noi lo crediamo vero in generale, salvo qualche eccezione (Giornale degli Economisti, Roma, gennaio 1893). Vedi Edgeworth — Mathematical psychics, pag. 34-35.
Noi preghiamo il lettore di ricordarsi che in tutto questo ragionamento non si tratta che di merci riproducibili.↩
35. Come noi abbiamo già ripetuto altre volte, è ben inteso che noi non parliamo della rendita.
L’appropriazione della superficie del suolo è una questione che deve essere trattata a parte.
La rendita esiste in un grandissimo numero di fatti economici, ma ha un’influenza preponderante in quello della appropriazione del suolo.↩
36. È vero che a questa diminuzione di rischi corrisponde una diminuzione dell’interesse; lo Stato, facendosi prestare a un tasso minore, di quello che sia possibile ottenere nelle industrie o dove vi sono dei rischi da correre. Ma ciò non è che una diminuzione relativa d’un totale elevato artificialmente.
Supponiamo infatti che il libero commercio stabilisca ad un dato momento un tasso x per l’interesse, e che questo tasso corrisponda a quello del 5% pagato dallo Stato; la differenza essendo il premio da pagare per i rischi del capitale. Siano 10 milioni il capitale che si impiega a questo tasso x; noi possiamo ragionare come se s’impiegasse al tasso del 5% e senza rischi.
Le industrie del paese potrebbero impiegare ancora un milione, ma solo ad un tasso che corrisponde a quello del 4% delle rendite dello Stato, pel totale del capitale.
In queste circostanze, riducendo, con la deduzione del prezzo dei premi pagati per i rischi, tutti i tassi di interesse al tasso pagato dallo Stato, noi diremo che i capitalisti possono impiegare 10 milioni al 5%, oppure 11 milioni al 4%.
Ma lo Stato interviene quando il tasso è ancora al 5%. Egli domanda un milione di più al mercato, ciò che fa alzare il tasso dell’interesse, e lo porta, supponiamo al 5,1%. Questo milione è fornito alle industrie che non possono pagare che 4% e i contribuenti sono sopportano le differenze.
Di guisa che i capitalisti impiegano 11 milioni al 5,1%, in luogo del 4%.
Salvo le cifre, che si sono date solamente come esempio, questo caso ipotetico si è realizzato nei prestiti contratti dai governi per la costruzione delle ferrovie.
Per trattare a fondo questo argomento, senza lasciarsi trascinare a ragionamenti d’una lunghezza spaventosa, bisognerebbe poter impiegare le matematiche. ↩
37. È la risposta fatta ad alcune obbiezioni che noi avevamo presentate a proposito dell’azione futura dello Stato Socialista, da una rivista socialista importante: La Critica Sociale, di Milano.↩
38. Fra le più recenti pubblicazioni di fatti che sono contrarii a questa teoria, vedi J. Schoenhof. The Economy of High Wages, New-York 1892.
Ecco un piccolo prospetto che mostra, come dice lo Schoenhof, che il progresso del macchinario della produzione ha per effetto una riduzione del prezzo del carbone ed un aumento dei salarii:
|
1880 |
1890 |
1880 |
1890 |
1880 |
1890 |
|
dollari |
centesimi |
dollari |
|||
Tennessee |
332 |
392 |
68 |
82 |
1,27 |
1,21 |
Kentucky |
261 |
334 |
73 |
70 |
1,20 |
0,99 |
West-Virginia |
295 |
391 |
72 |
60 |
1,10 |
1,82 |
Ohio |
320 |
352 |
86 |
69 |
1,29 |
0,94 |
Illinois |
382 |
357 |
99 |
69 |
1,44 |
0,97 |
Altre notizie sull’argomento che ci occupa sarebbe il caso di leggerle nell’Essai sur la répartition des richesses di Paul Leroy-Beaulieu e nel Collectivisme del medesimo autore.↩
39. Carlo Marx si dilunga sulla falsificazione delle merci (107 e 108). Non è molto facile capire perché, senza capitale appropriato, questa falsificazione non debba aver più luogo. È perché lo Stato si occuperà direttamente della produzione delle merci? In Francia i fiammiferi della Regìa hanno una tendenza molto seccante a non voler prender fuoco e ciò non depone precisamente a favore delle industrie esercitate dallo Stato.
Carlo Marx sembra favorevole allo stabilimento di un “prezzo normale„ per il pane.
Vedasi su questi argomenti l’articolo di Leone Donnat, Nuovo Dizionario d’Economia politica, IV, Commerci alimentari. Questo bel lavoro esaurisce la questione. Vi si vede come col prezzo tassato l’operaio paga il pane più caro e questo pane è di qualità peggiore. Un risultato rimarchevolissimo è questo: La panetteria centrale dell’Assistenza pubblica fornisce 28 ospitali od ospizii. Se essa avesse lavorato nel 1886 nelle stesse condizioni dell’industria privata, vendendo al prezzo tassato, avrebbe perduto quasi 58,000 franchi!↩
40. I. Egl. IV, 5-7.↩
41. The popular Science Monthly, Gennaio 1887. Carlo Marx si è ingannato supponendo che il pauperismo dovesse aumentare in Inghilterra. Consultisi, fra gli altri, R. Giffen: Essay in finance, t. II. The progress of the working classes in the last half century. Further notes on the working classes.
Ecco qualche cifra:
Salari del lavoro semplice (unskilled labour) all’epoca in cui scriveva il Giffen (1886), e 50 anni prima (1836), p. 425.
1836 |
1886 |
|
s. d. |
s. d. |
|
Manovali Londra |
15 — |
25 — |
Manovali Bradford |
15 — |
21 09 |
Apprendisti muratori Manchester |
12 — |
22 — |
Sterratori Manchester (massimo) |
12 — |
22 — |
Apprendisti muratori Glasgow |
9 — |
18 — |
Manovali Londonderry |
8 — |
16 — |
Risultati dell’income taxe (tassa sulle entrate) pag. 398.
|
1843 |
1879-80 |
Rendite |
Numero di persone |
|
da 150 L. st. a. 200 |
39,366 |
130,101 |
da 200 L. st. a. 300 |
28,370 |
88,445 |
13,429 |
39,896 |
|
da 400 L. st. a. 500 |
6,681 |
16,501 |
da 500 L. st. a. 600 |
4,780 |
11,317 |
da 600 L. st. a. 700 |
2,672 |
6,894 |
da 700 L. st. a. 800 |
1,874 |
4,054 |
da 800 L. st. a. 900 |
1,442 |
3,595 |
da 900 L. st. a. 1000 |
894 |
1,396 |
da 1000 L. st. a. 2000 |
4,228 |
10,352 |
da 2000 L. st. a. 3000 |
1,235 |
3,131 |
da 3000 L. st. a. 4000 |
526 |
1,430 |
da 4000 L. st. a. 5000 |
339 |
758 |
da 5000 L. st. a. 10000 |
493 |
1,439 |
200 |
785 |
|
da 50,000 al di sopra... |
8 |
68 |
|
|
|
Totale |
106,637 |
320,162 |
Vedansi per l’Italia i bei lavori del Bodio, capo della statistica. Il miglioramento considerevole che si osserva nelle condizioni delle classi operaie si è arrestato nel 1887 a causa della protezione, delle folli spese per gli armamenti, della falsa moneta “legale„ emessa dalle Banche colla complicità del governo, ed in generale della distruzione compiuta dai politicanti di una parte importante della ricchezza del Paese.
Il sistema degli “economisti borghesi “Cobden, John Bright, ecc., ha tuttavia del buono, perché è seguendolo che l’Inghilterra ha saputo evitare questi mali. ↩
42. Noi abbiamo mostrato nel Journal des Economistes, Parigi, dicembre 1891, che la somma che devono pagare i cittadini grazie alla protezione dell’industria siderurgica in Italia è maggiore della somma dei salari pagati agli operai dell’industria protetta. Ecco un riassunto di queste cifre:
Anni |
1886 |
1890 |
Media dei diritti per 100 chilogrammi sui prodotti finiti |
4 L. 476 |
7 L. 443 |
Idem sulla fondita e le limature |
0 „ 000 |
1 „ 000 |
Totale dei diritti riscossi dalle dogane, migliaia di lire |
8 „ 748 |
8 „ 056 |
Quantità di acciaio e di ferro consumato in Italia, migliaia di tonnellate |
334 |
405 |
Nel 1890, il Paese ha pagato, grazie alla protezione, una somma che è almeno uguale a 30,156,000 lire. Deducendo da questa somma L. 8,056,000 riscosse dalle dogane, restano L. 22,100,000.
Secondo l’Annuario di statistica, il numero degli operai impiegati in questa industria è di 14,518. Se si ripartisse fra loro la somma di L. 30,156,000, ciascuno avrebbe annualmente L. 2,077 e se si ripartisse la somma di L. 22,100, 000, ciascun operaio avrebbe L. 1,522.
Ora, i dati dello stesso Annuario di statistica ci fanno conoscere che il salario medio annuale degli operai d’una fonderia dell’Alta Italia non è che di 915 lire.
L’industria siderurgica è d’altronde lungi dall’essere in condizione prospera. Se alle somme che essa guadagna con la protezione si aggiungessero quelle che hanno ricevuto i politicanti per accordare la protezione, non si otterrebbe forse il decimo della somma di ricchezza direttamente distrutta dalla protezione. Tale è il poco effetto utile di questo danno per coloro stessi che ne fruiscono. ↩
43. Carlo Marx dice che
“molto tempo prima degli economisti, i giuristi avevano messo in voga quest’idea che l’argomento non è che un semplice segno, e che i metalli preziosi non hanno che un valore immaginario„.
Ciò non è esatto, per quello che concerne l’economia politica liberale, che al contrario ha sempre insistito sul carattere di merce dell’oro e dell’argento.
Carlo Marx è avvezzo a questa specie di ragionamenti. Egli trova una teoria in un autore “borghese„ e senz’altro l’attribuisce “agli economisti„!
Sugli errori ai quali ha dato luogo la moneta, vedi: Martello, La Moneta, Firenze.↩
44.
“Aumentare la mobilizzazione del lavoro, questo è dunque il progresso che si tratta di compiere per risolvere la questione operaia. Questo progresso è subordinato a due condizioni: la prima è la moltiplicazione e l’abbassamento del prezzo dei mezzi di trasporto o di mobilizzazione del lavoro e l’appianamento degli ostacoli naturali ed artificiali che impacciano questa mobilizzazione; la seconda è lo sviluppo del meccanismo intermediario del commercio del lavoro, in modo eguale a quello del commercio dei capitali mobili e dei prodotti di tutti i generi„. Notions fond. D’Econ. Polit., pag. 406. Vedere altresì Les bourses du travail, del medesimo.↩
45. G. De Molinari, che si può considerare come il capo della scuola liberale nel continente europeo, scrive:
“Fra le applicazioni della tutela governativa le meglio giustificate sono quelle che concernono la tutela dei tutori. Lo spaventevole abuso che si è fatto del lavoro dei fanciulli dopo la scomparsa della tutela corporativa, abuso che sarà una delle onte del nostro secolo, esigeva un rimedio. Questo rimedio, quale l’hanno apportato le leggi sul lavoro dei fanciulli nelle manifatture è certamente insignificante. Meglio vale però intanto ricorrervi, per quanto imperfetto sia, piuttosto che abbandonare i fanciulli allo sfruttamento cupido e sfrenato dei loro naturali tutori.„ La morale economique, Paris 1888, pag. 138.
Vedasi ancora la discussione del medesimo autore con Fred. Passy al riguardo dell’istruzione obbligatoria. Vedasi ancora del medesimo autore Notions fond. d’Econ. polit., 1891, p. 98.
Il De Molinari ha ragione di dubitare dell’efficacia delle leggi per la protezione dei fanciulli. In Italia esse non servono che ai politicanti. Gli industriali amici del governo le violano impunemente. Esse non si applicano che agli industriali che si permettono di non votare in favore del candidato officiale.
Come lo Stato socialista potrà evitare questi abusi? Se si fosse sicuri che esso ci sbarazzasse dai politicanti, quanta gente gli diverrebbe favorevole!↩
46. I fatti sono bene conosciuti, e si possono leggere in tutti gli autori che descrivono i costumi dei selvaggi. Vedasi fra altro: Letourneau, La Sociologie, Paris 1880, pag. 133:
“Sturt racconta che un Australiano dell’interno utilizza il suo fanciullo malato schiacciandogli la testa contro una pietra e divorandolo dopo averlo arrostito… Presso certe tribù dell’Africa meridionale gli indigeni dispongono, per prendere i leoni che li inquietano, delle grandi trappole in pietra e li adescano coi loro stessi fanciulli„
pag. 160.
“In Australia, la donna è un animale domestico, servendo solo ai piaceri venerei, alla riproduzione ed in caso di carestia all’alimentazione„
pag. 163.
“Dappertutto in Africa l’uomo è cacciatore o guerriero. Nelle sue numerose ore di ozio se ne sta tranquillamente all’ombra fumando o ciarlando, mentre che la donna lavora la terra e si affatica nelle opere più pesanti.„↩
47. In un discorso importantissimo, pronunciato nell’occasione del cinquantenario della Società d’Economia Politica, Leone Say diceva:
“La libertà del lavoro è la pietra angolare della rivoluzione francese. Se viene distrutta, crolla tutto il movimento della rivoluzione. I principii del 1789 possono, non dimentichiamolo mai, perire nella lotta che si impegna con quelli che attaccano la libertà del lavoro, e un antico regime di nuovo genere, può sortire dalle lotte che noi avremo a sostenere.„↩
48. Confrontare: Bukle, Storia della civilizzazione in Inghilterra.↩
49. Precis d’Economie politique et de Morale, Paris 1893, pagine 253-54.↩
50. Note sull’Economia politica, Cagliari 1883, pag. 5.↩
Pubblicato in: Carlo Marx, Il Capitale, Estratti di Paolo Lafargue, con Introduzione critica di Vilfredo Pareto e replica di Paolo Lafargue, Remo Sandron, 1894, pp. 183-224.
Tradotto da L. F. Pallestrini e trascritto da: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020.
Quando apparve il Capitale l’Internazionale era appena sorta. Marx lasciava la sua operosa solitudine e riappariva sulla scena del mondo come teorico e come uomo d’azione. L’Internazionale doveva riunire ed indagare il movimento operaio che spontaneamente si produceva nei diversi paesi d’Europa e d’America e il «Capitale» doveva dare al movimento storico del Proletariato la coscienza scientifica. Ma prima che queste due opere potessero realizzarsi esse avevano subito una lunga gestazione nel poderoso cervello del pensatore comunista.
Marx, appena uscito dai banchi della scuola, ci si presenta sotto questo duplice aspetto di teorico e d’uomo d’azione – da una parte egli imprende una vigorosa campagna contro il governo prussiano che lo manda in esilio e dall’altra egli atterra la filosofia di Hegel. Per tutta la sua vita egli combatte questa duplice battaglia. Mentre concepisce la sua grande teoria storica, che rinnovellerà la storia e che permetterà di rimontare alle cause reali dei movimenti umani, che i Deisti riferiscono a Dio e la filosofia a concezioni idealistiche, mentre egli scrive la «Misère de la Philosophie», ove abbozza la teoria del valore e formola la teoria della Lotta di classe, egli prende posto nella schiera degli agitatori socialisti, è nominato presidente della Lega comunista e redige con Engels il Manifesto comunista che è sin oggi la più completa esposizione dello sviluppo della borghesia e della formazione del Proletariato.
La rivoluzione del 1848 lo riconduce in Germania e riprende la via dell’esilio quando essa è vinta. Si reca a Londra e dopo la sconfitta del movimento chartista al quale egli partecipa, si immerge di nuovo nei suoi studi teorici, dai quali tuttavia esce per lanciare dei pamphlets schiaccianti contro Napoleone III e il suo complice Palmerston. Ma allorché il Proletariato, rimessosi della disfatta europea, ricomincia ad agitarsi, egli si getta nuovamente nella lotta e diventa l’ispiratore e l’organizzatore dell’Internazionale: le Internazionali salutano l’apparizione del Capitale che nel Congresso di Basilea proclamano la «Bibbia della classe operaia».
Marx è il teorico riconosciuto, accettato, di questo movimento socialista che scuote le masse proletarie. Le teorie «sì sottili, sì aride e sì oscure» al dire dei belli spiriti della borghesia, per uno strano fenomeno sono comprese ed ammesse dagli operai. I socialisti dei due mondi attingono nella sua opera le loro idee positive e ne riproducono nei loro giornali delle parti intiere. Il Comitato d’uno sciopero generale di sarti di New-York stampa e distribuisce a migliaia di copie una pagina del Capitale. Il libro viene tradotto in russo, in francese51; Most prima e Kautsky poi lo riassumono in tedesco, Cafiero in italiano, Deville in francese ed il riassunto di Deville è tradotto in Spagna e in Italia. Il Capitale porta la fama di Marx in tutti i paesi, il suo nome vola sulle labbra degli operai ed il suo ritratto figura in tutti i luoghi di riunione, ove si riuniscono i militanti del Proletariato. I Fasci di Sicilia lo collocano fra Gesù, l’uomo-Dio internazionale, e Garibaldi, l’eroe internazionale: Marx è il pensatore internazionale.
L’importanza del Capitale è immensa, incalcolabile: come il Contratto sociale di Rousseau nel secolo passato, sarà il libro che in questo secolo eserciterà la più potente azione sul corso degli avvenimenti. Esso à chiusa l’èra delle utopie, esso à spazzato le teste proletarie degli errori accumulativi dagli scrittori e dai politicanti borghesi, da Proudhon, dall’anarchia, questa caricatura dell’individualismo degli economisti. Esso ha insegnato agli uomini d’azione a non cercare d’improvvisare la rivoluzione, ma a trarla dai fenomeni economici della società capitalistica, a non fare astrazione dall’ambiente, come i comunisti prima del ‘48, a non rinchiudersi in sette, né in società segrete, ma ad agire in piena luce, col concorso di tutti gli uomini che gli avvenimenti spingono all’azione, a non sognare delle società ideali ed a non esaurirsi in infruttuosi tentativi di realizzarli, ma a lanciarsi a corpo perduto nelle lotte quotidiane, a mischiarsi a tutte le agitazioni politiche ed economiche, a non immaginarsi che si possa entrare d’un colpo e per incanto nella terra promessa, ma a persuadersi che la sua conquista esige una lunga e incessante elaborazione, un’organizzazione del proletariato intellettuale e manuale in partito di classe, cosciente dei suoi interessi, della sua missione storica e della sua forza e combattente sotto il suo proprio vessillo, mandando i suoi rappresentanti nei corpi elettivi ad imparare il maneggio degli affari pubblici e a prepararsi ad assumere la responsabilità della direzione sociale.
La Borghesia fece un’accoglienza diversa al Capitale. Si tentò d’ignorare la sua pubblicazione, ma l’ora della cospirazione del silenzio era passata: il partito socialista che si costituiva in Germania sotto la direzione di Bebel e di Liebknecht lo impose alla pubblica attenzione. La borghesia stessa obbligò i suoi economisti, che guadagnavano ad ufo il loro danaro, a mettere a nuovo i loro argomenti ed i loro sofismi e ad attaccarsi al libro. Gli articoli di confutazione alle teorie di Marx riempirono la stampa borgese; appena apparsi erano confutati e messi in ridicolo dai socialisti. Gli economisti tedeschi dopo aver logorato i loro vecchi denti sul Capitale, come il serpente della favola sulla lima, rientrarono nei loro gabinetti, sconfitti e decisi a non più ricominciare la lotta.
La traduzione francese del Capitale apparve, a dispense, due anni dopo la caduta della Comune. Il governo pensò di interdirne la pubblicazione, ma dopo aver ben considerata la cosa lasciò tranquillo l’editore. Si diceva: è metafisica tedesca, i francesi non ne capiscono nulla, il libraio perderà il suo danaro. Il libro fece il suo cammino silenziosamente e si fu sorpresi un bel giorno di sentire il partito socialista francese giurare su Marx e chiamarsi Marxista e di vedere le sue teorie incomprensibili trascinare le masse operaie. Gli economisti dovettero lasciare i loro ozi. Paolo Leroy-Beaulieu, accademico e professore d’economia politica alla Sorbona di Parigi, scrisse nel 1884 un grosso volume, il Collettivismo, per schiacciare la teoria del capitale e con essa il socialismo. Ma gliene incolse. De Molinari, direttore del «Journal des Economistes», con una liberalità di spirito che l’onora, permise a Paolo Lafargue di portare il dibattito nel campo stesso degli economisti: il 5 settembre pubblicò una confutazione del «Collettivismo».
Leroy Beaulieu la giudicò sì concludente che non tentò di rispondervi, quantunque De Molinari gli avesse offerta la sua Rivista e che egli stesso pubblicasse tutte le settimane un giornale, «L’Economiste français»; egli passò la penna a Maurizio Block, il quale dopo uno scambio di critiche con Lafargue si ritirò sotto la tenda.
Questo assalto sfortunato contro le teorie marxiste calmò l’ardore degli economisti francesi e li fece diffidenti. Sicché quando la libreria Guillaumin di Parigi si decise a pubblicare nella sua Piccola Biblioteca Economica degli estratti del Capitale si cercò invano in Francia per due anni un economista che volesse ricominciare la polemica. Claudio Janet che aveva accettato l’incarico di confutare Marx, dopo aver valutate le sue forze, vi rinunciò; si decise d’indirizzarsi a economisti stranieri; i tedeschi che conoscevano il mostro, batterono in ritirata: infine si mise la mano su Vilfredo Pareto; egli coraggiosamente accettò di essere il campione dell’Economia politica borghese.
Onore all’audace paladino!
Il Pareto esordisce nella sua critica del Capitale, dichiarando che la critica di Marx non à più bisogno di essere fatta; «essa esiste non solo nelle monografie speciali», ma nei manuali dell’Economia politica perfezionata.
Esso si è quindi assunto un compito da scolaretto ed affine di dimostrare che egli è un buon scolaro, non si serve che di sotterfugi, confusioni, divagazioni e spostamenti di questione che corrono per i libri e gli articoli da giornale colla pretesa di combattere il socialismo; a questo titolo, ed a questo titolo solo la sua confutazione presenta un interesse; essa è un riassunto abbastanza completo dei poveri argomenti che l’Economia officiale oppone alle teorie dell’Economia scientifica.
Non avvi scolaro sì piccino che non aspiri a dire qualcosa del suo sacco: e quindi pure il Pareto si permette una scoperta. Paolo Leroy-Beaulieu nel grosso volume che consacra al Collettivismo, riconosce che
«Marx e Lassalle ànno armi potenti e sanno farne buon uso: sottigliezza d’argomenti, conoscenze storiche, erudizione in ciò che à attinenza alle condizioni dell’industria moderna; purezza ed eleganza di stile, ricchezza d’immagini, eloquenza, satira, violenza di linguaggio; dispongono di tutte queste risorse52».
Il celebre economista belga de Laveleye, dice per parte sua «Se si ammette che il lavoro è la misura del valore, Marx proverà con una logica inconfutabile (una logica d’acciaio, scrive egli altrove) che il capitale è il prodotto della spogliazione» che è del lavoro non pagato53.
Il Pareto scopre che Marx manca
«di rigore dei principi di cui si serve» (XLI)
e che la sua
«logica pare abbastanza fiacca. Vi si vede assai di rado qualche tentativo di ragionamento, serrato e rigoroso per connettere i fatti alle conseguenze che egli vuol trarne; e sembra che egli lasci questa cura ad una semplice associazione d’idee che appartiene il più delle volte all’emozione» (LXX).
Marx mancare di logica e sostituire l’emozione al ragionamento! Nonostante ciò tutti gli Economisti per nascondere la loro impotenza ad intaccare le teorie dello spietato analizzatore della produzione capitalistica, sono concordi nell’accusralo d’insensibilità; perché, come il chirurgo che fruga con umana impassibilità nella piaga donde cerca estrarre il corpo estraneo che la avvelena, Marx frena le sue emozioni e non si abbandona a sfoggio di sentimentalismi, che sono fuori posto in un libro scientifico, quando narra le incomparabili miserie dei creatori della ricchezza sociale, miserie che riempiono il suo cuore di pietà e di collera.
Questa notevole scoperta mette ad un tratto il nostro grande critico nel novero dei maestri di ciò che Marx chiamava l’Economia volgare.
Il valore è il nodo gordiano dell’Economia politica, dichiarava Ricardo: chi conosce l’elemento costitutivo del valore tiene in mano il filo d’Arianna che lo guiderà nel dedalo della produzione e dello scambio delle merci.
Marx che aveva di Ricardo la più alta opinione e che lo considerava come uno dei suoi precursori, esordisce collo studio del valore. Fatica gettata, grida il Pareto:
«Noi riputiamo per parte nostra, assolutamente oziosa, nello stato attuale della scienza, ogni discussione che non abbia altro scopo che di sapere ciò che deve intendersi colle parole valore, capitale od altre simili espressioni» (X).
Il che significa: non cerchiamo di intenderci sulle parole che noi usiamo, per meglio intenderci sui ragionamenti nei quali noi ce ne serviamo. Ciò non impedisce al Pareto di rimproverare al Marx
«di aver preso a prestito dall’economia politica borghese i termini di valore d’uso o di valore di scambio. Questo prestito non è dei più felici perché l’uso di questi due termini, la significazione dei quali spesso non è stata ben precisata, dà luogo ad infinito numero di sofismi» (XXI)
e d’assicurare che
«l’esperienza dimostra che l’uso di parole vaghe è stata la più abbondante sorgente de’ sofismi che ànno ritardato il progresso delle scienze naturali» (XI).
Senza dubbio dichiarando oziosa ogni discussione per sapere ciò che deve intendersi per valore, capitale ed altre espressioni simili il Pareto vuol far capire che egli non si cura di fare progredire la scienza economica, ma solo di difendere gl’interessi del capitalista.
Per ben indicare che egli non pensa che agli interessi e non «alla scienza che stabilisce dei rapporti fra le cose e non tra le parole» (XI) fa a Marx una questione sulle parole che esso impiega e gli rimprovera d’aver intitolata la sua opera Il Capitale invece di Il Capitalista (XII).
Marx contesta il valore del capitalista, il Dio del Pareto, senza cui nulla si produrrebbe nel mondo economico. Come si osa dire che il Capitalista è inutile, che senza di lui il capitale può riprodursi ed accrescersi? quale spaventevole eresia! grida il Pareto, segnandosi con un pezzo da cinque lire: ma è assurdo, è contro ogni verità, contro ogni realtà il pretendere che sia lavorando che si produce il capitale;
«è astenendosi dal consumare che si produce il capitale» (XVI).
Gl’increduli insultavano gli anacoreti quando dicevano che essi erano inutili, mentre erano S. Antonio ed i suoi compagni che, vivendo di privazioni e di tentazioni, producevano nelle loro celle le ricchezze del mondo.
«Ma non consiste tutto nel fare nascere il capitale; bisogna anche impiegarlo» (XII)
ed il buon capitalista che vive di privazioni come S. Antonio, si sacrifica ancora.
«Esso compie dunque due funzioni essenziali; dice il Pareto seguendo il suo maestro de Molinari, la prima consiste nel formare il capitale, la seconda nel conservarlo» (XIV).
L’adoratore del capitalista per dare un’alta idea della maniera con cui il suo Dio conserva ed impiega il capitale cita (pag. XV) la statistica dei fallimenti agli Stati Uniti nel 1892! essi si sono elevati alla cifra di 10.270 che rappresenta una perdita di 277 milioni di lire; ecco un bel salasso che i collettivisti durerebbero fatica a rimediare. – 2897 fallimenti sono attribuiti all’incompetenza, alla stravaganza ed alla negligenza dei falliti e rappresentano uno sperpero di più di 50 milioni di lire.
Il marchese Pareto non impara da questa statistica che sopra 10 capitalisti 3 almeno sono notoriamente incapaci e che la loro incapacità è stata causa di una perdita di più di 50 milioni in un anno ed in un sol paese.
Qual è dunque il meraviglioso segreto del capitalista per impiegare intelligentemente il capitale? – È l’interesse
«è mettere all’incanto l’impiego del capitale ed aggiudicarlo all’industria che potrà pagare l’interesse più elevato» (XX).
Sapere che il 6% è più che il 5%: ecco tutta la meravigliosa scienza del capitalista. Voi avete mille volte ragione, signor Pareto, il capitalista che compra delle azioni ed obbligazioni di miniere, di strade ferrate, di raffinerie o di officine metallurgiche non sa estrarre del carbone, condurre un treno, raffinare lo zucchero o fondere dei minerali; ma egli sa contare sulle dita 1, 2, 3, 4 sino a 10 ed alcune volte sino a 50 e 100.
Che scienza! Si capisce che la società ricompensi questo profondo sapiente prodigandogli tutte le sue ricchezze.
Il Pareto farebbe bene a diffidare del suo maestro de Molinari; che non à sempre un esagerato rispetto per il capitalista; egli spinge l’irriverenza sino a trattarlo, come Marx, da essere inutile ed anche nocivo; udite ciò ch’egli dice nel suo libro sull’Evoluzione economica pubblicato nel 1880.
«In un'impresa costituita sotto forma di società, il personale dirigente può non possedere che una minima frazione del capitale. A tutto rigore potrebbe non possederne affatto e contrariamente all’opinione ammessa in generale, quest’ultima situazione sarebbe la migliore dal punto di vista della buona gestione degli affari della società, un personale dirigente non azionista, che non abbia diritto di controllarsi da sé stesso. Basta che si possegga la capacità, le cognizioni e la moralità necessarie per queste funzioni, qualità tutte che si riscontrano più facilmente e con minor spesa, sul mercato, separate dal capitale, che a lui unite».
I finanzieri sono talmente penetrati di questa verità che essi non sono occupati che a disunire il capitalista dal suo capitale, che esso è incapace d’impiegare; e per arrivare a questo lodevole scopo lo prendono col mezzo dell’interesse; essi promettono dei 6-10% ai capitalisti che essi chiamano sdegnosamente gogos, cioè imbecilli, perché si separino dai loro capitali che essi truffano coi loro Panama e Panamini. La Finanza è il denaro degli altri, diceva il duca de Morny, che fu colui che, coi Pereire, i Mirès e i Fould, lanciò il Credito mobiliare ed altre istituzioni della filibusteria finanziaria moderna. Così dunque la famosa scienza del capitalista che vanta il Pareto e che si limita a sapere che 6% è più che 4% è precisamente ciò che fa perdere al capitalista il suo capitale.
Il Pareto che rifiuta di spiegare ciò che egli intenda per capitale lo sbattezza e lo sdoppia in capitale semplice o beni economici destinati alla produzione di altri beni ed in capitale appropriato che funziona nelle mani del capitalista (XIII). Questa estensione della parola capitale a tutti i beni economici gli permette di considerare la tavola di salvezza e l’istrumento di lavoro del Robinson, che sono beni economici, come capitale. La formica è dunque un capitalista, come Rothschild, perché essa ammassa delle provvigioni, che sono dei beni economici, quantunque essa ignori la circolazione delle merci che secondo Marx è il punto di partenza del Capitale. Si è alfine di permettersi questa estensione del senso della parola Capitale, che il Pareto non vuole definirlo ed estende così il significato della parola Capitale per arrivare, secondo gli economisti, a questa idea consolante per i capitalisti, che il capitale esiste dacché mondo è mondo, poiché gli invertebrati possiedono dei capitali sotto forma di provvigioni, e che esso continuerà ad esistere in secula seculorum. Il Capitale è eterno come Dio.
L’analisi che Marx fa della merce, della sua produzione e della sua circolazione, dissipa questa aggradevole confusione; essa determina il carattere del capitale, mostra la sua origine e fa intravedere la sua fine.
La tavola di salvezza e l’utensile di Robinson non sono del Capitale più di quanto non lo siano la pialla del falegname, il piccolo campo del contadino, i bisturi del chirurgo e la penna di cui si è servito Pareto per iscrivere la sua ammirevole confusione: ciononpertanto essi sono dei beni economici. Essi non sono del capitale perché essi sono utilizzati dai loro possessori. Un’officina, una fabbrica, una grande proprietà fondiaria sono Capitale perché esse non sono fatte valere dai loro proprietari, ma dai salariati, che sono obbligati di dividere il valore delle merci che esse producono col loro aiuto, con dei capitalisti che nulla hanno prodotto.
Dal momento che si delimita esattamente il senso della parola Capitale, si fa apparire il carattere assolutamente parassitario del capitalista e l’ufficio conservatore e creatore del lavoratore che nella merce che egli crea incorpora il suo lavoro vivo ed il lavoro morto contenuto nella materia prima che egli trasforma e nella macchina che egli adopera; combinando tale lavoro morto col suo lavoro vivo, gli dà una nuova vita, lo conserva in un nuovo prodotto. Le qualità che il Marchese Pareto e gli economisti accordano sì liberamente al capitalista, appartengono al lavoratore; non è il capitalista che conserva ed impiega il capitale; è il lavoratore che l’impiega servendosi delle macchine e che lo conserva trasformando le macchine e le materie prime in merci. La sola mansione del capitalista è quella di sperperare il capitale.
Ma per afferrare il momento in cui il lavoratore compie il suo doppio ufficio di conservatore e di creatore bisognerebbe discendere dalle oziose sfere nelle quali i capitalisti digeriscono e sonnecchiano e penetrare nella «città dolente» ove si arroventa e si martella il capitale ed ove i miserabili fabbricano la ricchezza sociale. Gli economisti gettano uno sguardo sdegnoso sull’inferno della produzione capitalistica: essi non si occupano degli operai che per trattarli da oziosi, da ubriachi e da imbecilli che si lasciano menare pel naso da mestatori, o per predicar loro la morale, per far loro apprezzare l’inestimabile utilità del parassita capitalista e per consigliar loro di risparmiare sopra i proprii bisogni, affinché i finanzieri trovino nelle loro tasche qualche lira da rubare. Il Pareto che si lamenta che la mancanza dello spazio lo obblighi ad abbreviare la sua confutazione trova ciononostante modo di parlare di un po’ di tutto: d’isomeria chimica, del principe Krapotkine e della sua anarchia che egli proclama la logica della logica, dello sperpero dei funzionari della società collettivista, di cui non si discorre nel libro di Marx, della mancanza di interesse a produrre, se il capitalista è soppresso, ecc, ecc. per fare delle supposizioni assurde54, dell’algebra bambinesca, delle conversazioni poco allegre fra un cercatore d’oro ed un tessitore australiano; ma non dice motto della giornata di lavoro e della produzione delle merci. Tutto ciò gli è indifferente quanto ai capitalisti, che non s’interessano alla fabbricazione delle merci, più di quello che se essa avvenisse nella luna; essi non hanno che un interesse al mondo, il tanto per cento. Il Pareto ha avuto l’ingenuità di dircelo, e per aumentare questo tanto per cento essi sperperano follemente il capitale già formato e sacrificano spietatamente la felicità, la salute e la vita dei fanciulli, delle donne, degli uomini del Proletariato.
Se il Pareto evita, come la peste, il mondo della produzione, egli si getta nel mondo dello scambio; egli non vi trova dei lavoratori pallidi e laceri, ma dei capitalisti ben vestiti, ben nutriti e lieti d’intascare guadagni senza lavorare. Non volendo contaminare il mondo della produzione col contatto, anche solo teorico, del mondo della produzione, egli dichiara che quelli che cercano nella produzione l’elemento costitutivo del valore di scambio perdono il loro tempo, perché:
«una teoria completa del valore che dovrebbe permettere di esplicare le diverse ragioni di scambio (cioè in linguaggio ordinario i differenti prezzi della merce) è impossibile nello stato attuale della scienza e lo sarà sempre» (XXIV).
Ma siccome il Pareto è un valoroso, parte alla conquista di questo impossibile.
Prima di mettersi in strada per l’impossibile egli arringa Marx:
«Voi cadete, egli dice, nell’errore che è quello di molti economisti, di non fare abbastanza attenzione a ciò che il valore d’uso non è una proprietà inerente a ciascuna merce come sarebbe la composizione chimica, il peso specifico ecc…. ma è, al contrario, un semplice rapporto di convenienza tra una merce ed uno o più uomini» (XXII).
Il Pareto ci insegna che il grano non ha la proprietà inerente di essere utile alla nutrizione dell’uomo ed i tessuti di lana quella di riscaldare le sue membra; se essi acquistarono delle proprietà preziose si è perché gli uomini lo decidono secondo la loro convenienza; essi avrebbero allora potuto attribuire le loro proprietà anche alle sabbie del mare ed alle foglie del prezzemolo. Il marmocchio, che non sa ciò che sia di sua convenienza, non è nutrito del grano, né riscaldato dalla lana.
Il lepre perde, correndo, la memoria, si dice; il Pareto perde la sua scrivendo. A pagina XXVII egli scrive: «il valore di scambio, che dipende dal grado finale d’utilità, determina le quantità fabbricate» il che equivale a dire che fine delle merci è l’essere utili e che si fabbricano perché sono utili.
«Quest’errore (l’inerenza del valore d’uso nella merce) è ancora più manifesto per il valore di scambio, continua il Pareto, ed è una delle cause principali del sofisma che si trova nella teoria del plus-valore di Marx» (XXII).
Cosi dunque è perché un oggetto è di mia convenienza che esso acquista un valore di scambio. Prendiamo un esempio: Il Pareto non à mangiato da due giorni, ed à quindi molta fame; entra da un fornaio; i pani di questi sono talmente di sua convenienza, che se egli non ne mangiasse uno, svenirebbe d’inanizione e che per non più soffrire la fame darebbe tutto il danaro del suo portafoglio: egli prende il pane e non paga che due soldi.
Pieno il ventre il Pareto si dirige verso la bottega d’un gioielliere, vede un anello, gli conviene, ma questa convenienza è molto meno forte di quella che egli aveva poco prima per il pane; nonostante egli compra l’anello con una pezza d’oro e non con due soldi. Secondo il Pareto quanto meno una merce è di convenienza degli uomini, tanto più è cara; la merce che non fosse di convenienza di nessuno non potrebbe quindi esser pagata con tutto l’oro del mondo. Quando si ragioni in tal guisa, è permesso di trovare che Marx manca di logica.
Il Pareto proseguendo nella geniale sua analisi del valore di scambio, fa la meravigliosa scoperta che le merci non si vendono sempre al medesimo prezzo ma a dei prezzi diversi, che, seguendo il profondamente banale Jevons, egli chiama ragioni di scambio, per meglio imbrogliare la questione e velare lo splendore della sua trovata, che potrebbe suscitargli degli invidiosi. Alle pagine LIII e LIV egli dà una lista dei prezzi di fondita per tonnellata a Glasgow dal 1853 al 1883. Questi prezzi sono diffatti svariatissimi, non ve ne à due eguali; quindi conclude non esservi valore di scambio reale, altrimenti i prezzi non varierebbero in tal guisa. Egli dimentica di dire o ignora che il ferro, come i bulbi di tulipano al secolo 17°, è diventato una materia di speculazione e che alla Borsa di Glasgow si vendono e si comprano delle tonnellate di ferro senza preoccuparsi se esse esistano: che i venditori non consegnano il ferro che hanno venduto e che i compratori non ricevono il ferro che hanno comprato e che tutto si regola a mezzo di differenze. Nel secolo XVII gli speculatori cercavano materie per esercitare le loro alte facoltà, essi presero il tulipano non trovandone altre. Oggi queste abbondano; le rendite dello Stato, le azioni delle strade ferrate, delle imprese finanziarie, il ferro, il cotone, il grano, il petrolio ecc, sono divenuti oggetti di speculazione. Gli speculatori del secolo XVII facevano montare i bulbi di tulipano a prezzi favolosi, a 10, 20 e 50 mila franchi; allora, come oggi, non si consegnava, né si riceveva la merce che si era venduta o comprata, gli speculatori dei giorni nostri si tengono nel loro rialzo e ribasso di prezzi in limiti più stretti.
Se si esamina la lista dei prezzi pubblicata dal Pareto, si vede che nel periodo dal 1853 al 1862 i prezzi oscillano attorno ad un prezzo medio di 61 sc. 6 p.; nel secondo periodo dal 1863 al 1871, attorno ad un prezzo medio di 55 sc. 1 p. e nel terzo periodo dal 1875 al 1882 attorno ad un prezzo medio di 53 sc. 3 p. Bisogna astrarre dal 1872, 1873, 1874 perché durante questi tre anni, fuvvi una richiesta eccezionale di ferro per riparare ai guasti della guerra franco-tedesca, per rinnovare gli armamenti militari e per accrescere il macchinario industriale che prese in Europa uno sviluppo straordinario. La domanda di ferro era sì forte che l’industria durava fatica a soddisfarla; per ciò rialzo esagerato dei prezzi della tonnellata di ferro.
Il Pareto, e gli economisti che negano la teoria del valore di Marx, senza poterla confutare, dovrebbe allora spiegarci perché la speculazione, sempre pazza, invece di far montare il prezzo del ferro a tassi favolosi, come quelli dei tulipani nel secolo XVII, è obbligata di farlo oscillare attorno ad un prezzo medio, che anzi decresce di giorno in giorno? Il Pareto si schiva da ogni tentativo di spiegazione trattando sdegnosamente da debole di spirito
«le persone profane alle scienze matematiche e disgraziatamente qualche volta anche le persone che le conoscono, che sono molto portate, per ricavare la parte principale di un fenomeno, a prenderne una media. Questo procedimento è molto sospetto e tutte queste medie non rappresentano meglio il fenomeno, che si cerca di chiarire di quello che non lo farebbe un numero scelto a caso fra i limiti estremi delle cifre che si considerano» (XXIV).
Che terribile negatore! Ma il Pareto s’immagina che cosa nega negando il valore di una cifra media a distrigare da una serie di fenomeni il carattere comune che li stringe e li collega? La media matematica assomiglia a quelle fotografie accumulate di parecchi individui imparentati che danno il tipo o la fisonomia media della famiglia senza rassomigliare esattamente ad alcuno dei suoi membri. Avendo in sospetto ogni media, egli ignora che mette ad un tratto in sospetto le matematiche e le scienze esatte perché esse sono inesatte nei casi particolari. Perché non esistono due cose assolutamente uguali negherà forse il Pareto che 1 e 1 fanno due? Perché non esistono due triangoli che abbiano esattamente la medesima superficie, negherà egli che due triangoli che hanno gli angoli ed i lati eguali sono eguali? Le scienze esatte fanno astrazione delle differenze dei casi particolari per stabilire i loro assiomi ed i loro teoremi, intorno ai quali oscillano i casi particolari come attorno ad una media.
Ma non bisogna prendere sul serio ciò che dice il Pareto: la sua mania di negare tutto è si forte che egli nega la sua propria negazione; egli fa della dialettica hegeliana senza saperlo. Se a pagina XXIV egli dichiara che ogni cifra media è una fantasia, la cui scelta si può affidare al caso, a pagina XXIX egli afferma che il prezzo medio è una realtà che
«la concorrenza dei produttori fa che il valore di scambio d’una merce diminuisca e finisca coll’oscillare attorno ad un certo valore normale».
E soggiunge:
«Come si stabilirà questa ragione normale di scambio?» cioè questo prezzo medio.
Marx prova che la quantità di lavoro incorporato in una merce costituisce il suo valore e che i prezzi oscillano attorno a questo valore.
Errore, replica il Pareto, e per ben dimostrare quanto sia grossolano l’errore di Marx, egli comincia col prestargli degli errori di fabbricazione sua propria. Questo metodo è molto usato; esso è il solo che fornisca agli economisti ed agli avversari dei socialisti delle armi per confutare le loro teorie.
Il Pareto dice a pag. XXVI:
«facendo dipendere il costo di produzione unicamente dal lavoro, Marx non fa che seguire la teoria di Ricardo, ma comparando questi due autori, si vede subito che Ricardo designa col termine «lavoro» tanto il lavoro presente quanto il lavoro passato che presta il suo concorso alla produzione, sotto la forma di capitale; mentre Marx non à in vista che il lavoro presente e si sbarazza del lavoro passato conglobandolo nelle condizioni normali della produzione».
Così dunque nel costo di produzione, nel valore della merce Marx non fa entrare il lavoro rappresentato sotto forma di materia prima che si trasforma e di macchina che si logora. Ma siccome il Marchese Pareto ha il genio dell’auto-contraddizione, dice a p. XXXVI il contrario di ciò che egli afferma a pag. XXVI: egli riconosce che per Marx
«nel lavoro incorporato nella merce è del resto compreso il lavoro necessario per riparare i fabbricati, le macchine ecc…. e, in generale, per conservare il capitale».
Ora passiamo all’esame delle idee confuse, informi ed indigeste che gli Economisti, di cui il Pareto non è che il porta-voce, intendono sostituire alla teoria del valore di Marx.
Il nostro critico che rifiuta qualunque discussione su ciò che deve intendersi per valore, capitale ed altre espressioni economiche perché ciò sarebbe «fare della filologia e non dell’economia» riduce tutta la sua economia politica a non essere che un imbroglio di parole ed una serie di giuochi di parole.
Ricardo e Smith facevano dipendere il valore di scambio dal costo di produzione, i moderni economisti demoliscono la teoria di questi padri dell’Economia politica, semplicemente coll’invertire la frase; essi dicono che il costo di produzione dipende dal valore di scambio: questa semplice inversione di termini affascina il Pareto. Il medico contro volontà di Molière metteva il cuore a destra ed il fegato a sinistra ed a coloro che si meravigliavano di tale spostamento di organi, rispondeva imperturbabilmente: noi abbiamo cambiata tutta l’anatomia.
La nuova economia insegna dunque che il costo di produzione d’una merce dipende dal suo prezzo di vendita: se degli speculatori incettano i ferri, i grani, il petrolio o il cotone, come ciò è successo e succede in Europa e in America e mettendo i prezzi al rialzo li fanno aumentare del 20, 40 e del 50%, immediatamente le spese occasionate dalla loro produzione aumentano del 20, del 40, del 50%. Gli speculatori non avrebbero mai trovata una eguale scusa delle loro bricconate.
Il Pareto passando ad un altro giuoco di parole dice ora che
«il valore di scambio è la fatica che si sostiene per procurarsi la merce». (XXVII)
Egli evita, si vede, di servirsi delle parole fabbricare, produrre che suggerirebbero l’idea di lavoro e le sostituisce con quella di procurare la quale non desta che l’idea di scambio; male interpretando la sua parola si potrebbe dirgli che in un bazar, dove sono riunite le merci più diverse, non si dura fatica a procurarsi la merce di cui si ha bisogno. Ecco un esempio delle conclusioni ridicole alle quali si potrebbero far riuscire «le espressioni vaghe» degli economisti della «Nuova Scuola». Cambiando ancora una volta idea, il Pareto, dice, in nota, nella medesima pagina XXVII che il
«valore di scambio dipende dal grado finale d’utilità».
La utilità costituisce dunque il valore di scambio: la nuova economia a corto di trovate e di sotterfugi non sa che rimettere a nuovo i vecchiumi di Say, Mac-Culloch ed altre riduzioni all’assurdo di Ricardo e di Smith.
«Voi mi offrite, dice il Pareto, una tonnellata d’acqua contro il mio orologio, io che non sono bestia rifiuto di fare questo scambio; ma che io venga a morire di sete, io divento bestia ed io mi affretto di scambiare il mio orologio contro l’acqua che diventa per me d’un’utilità indispensabile» (XXVII e seguenti)
– L’utilità che secondo il Pareto «non è una proprietà inerente della merce» determina ciononostante il suo valore di scambio.
Una cosa che non esiste nella merce crea il suo valore. Zero diventa il creatore del valore! Non è tanto assurdo quanto sembra. Il capitalista è uno zero nella produzione; frattanto gli economisti giurano che egli ne è il fattore più importante, quello al quale spetta la parte più grossa dei frutti del lavoro. La teoria dello zero creatore è la vera teoria dell’inutilità creatrice del capitalista.
Disgraziatamente il Pareto abbandona il suo zero creatore per assicurarci che non si dà un prezzo al portatore d’acqua per l’acqua che porta, che allo scopo di ricompensarlo della fatica che egli ha sostenuto, del lavoro che egli ha incorporato nell’acqua: ed in una nota alla pagina XXXVIII dichiara che
«il valore di scambio è uguale al costo di produzione».
Il che equivale al dire che il valore di scambio è costituito dal lavoro presente e passato contenuto nella merce. Il Pareto ripete Marx.
Egli va più lontano. Egli era partito in guerra contro il Capitale colla ferma risoluzione di dimostrare l’utilità del Capitalista nella produzione e di scusare così il suo prelevamento quotidiano sui frutti del lavoro sotto il nome di rendita, interessi, benefici e profitti. Tutto ad un tratto e senza che nessuno ve lo obblighi egli ammette che
«è certo che se lo Stato si appropria di tutti i capitali, egli potrà cederne gratuitamente l’uso salvo le spese di mantenimento dei lavoratori (XLI)».
Il Pareto si mette dunque a pensare da rivoluzionario ed a convenire che una rivoluzione politica potrà, spossessando il capitalista, sopprimere i suoi furti quotidiani dei frutti del lavoro. Egli fa più, egli spiega che niente è più facile di questa soppressione, perché il capitalista non si manifesta nella produzione:
«Il prodotto nasce economicamente», egli attesta, «dalla combinazione del lavoro passato e di altri beni economici col lavoro presente, come l’acqua nasce dalla combinazione chimica dell’ossigeno e dell’idrogeno.» (XL).
Non essendo il capitalista del lavoro passato, né un bene economico, né formando del lavoro presente, è adunque un parassita. Che orrore!
Io ho il sospetto che il Pareto sia uno di quei burloni che si divertono a dimostrare il più seriamente possibile appunto il contrario di ciò che essi hanno enunciato: sotto pretesto di confutare la teoria di Marx egli si è assunto il compito più facile di mettere in ridicolo le «Nuove dottrine» dell’Economia politica borghese, di esporre la loro impotenza a spiegare i fenomeni economici, di mostrare gli illogismi e le contraddizioni colle quali gli economisti borghesi confondono tutto e si confondono essi stessi.
I signori Economisti dal «lasciar fare», dal «lasciar passare» hanno la modesta pretesa di aver scoperto le leggi eterne ed immutabili che devono regolare, in eterno, la produzione. Sciagura a chi non le osserva! profetizza il professore Todde, citato dal Pareto: come sciagura al fanciullo che misconoscendo la legge del calore prende in mano un carbone acceso. Superbi, essi assimilano le loro leggi economiche alle leggi dell’astronomia, della fisica e della chimica allo scopo di dimostrare chiaramente che essi hanno una nozione erronea di ciò che sia una legge.
Essi credono che la legge preesista e governi i fenomeni; che ella sia una specie di ordinanza di polizia che ingiunga loro di condursi nel tal modo e di causare tali effetti. I selvaggi che immaginarono la leggenda della Genesi non avevano altra idea: un ordine di Dio aveva creato il mondo: egli disse «sia la luce e la luce fu…egli chiamò la luce giorno e le tenebre notte» poi decretò «vi sia un sole ed una luna nella distesa dei cieli per distinguere la notte dal giorno».
Una legge non ha esistenza positiva, essa è un artificio intellettuale per permetterci di raggruppare i fenomeni della stessa natura, per classificarli e coordinarli, per mettere in evidenza il loro carattere comune e per conoscere le loro cause e i loro effetti, allo scopo di prevedere, quando un fenomeno si manifesta, gli effetti che si produrranno. Se in un pallone contenente dell’idrogeno e dell’ossigeno si fa passare una scintilla elettrica si sa in anticipazione che si produrrà dell’acqua; – se si mette un capitalista contro un guadagno dell’uno per mille e la salute e la vita d’una popolazione operaia, si sa che egli non esiterà un minuto a seguire il nobile esempio dei fabbricanti di zolfanelli, compresovi lo Stato francese, che invece di servirsi del fosforo amorfo, che è inoffensivo, impiegano di preferenza il fosforo naturale che permette loro di guadagnare qualche soldo di più alle spese della salute e della vita dei loro operai.
Pretendere che le leggi dell’Economia politica siano immutabili come quelle dell’astronomia è pretendere che le evoluzioni dei fenomeni economici siano lente e insensibili quanto quelle del mondo sidereo; pretendere che le leggi economiche siano invariabili come quelle della chimica e della fisica è pretendere che i fatti economici siano invariabili come le proprietà fisiche e chimiche della materia e equivale quindi al dire che i modi di produzione non si siano trasformati e non abbiano progredito dai tempi selvaggi e non progrediranno più in avvenire; equivale al dire una bella assurdità.
Il mondo economico o artificiale, essendo di creazione umana differisce dal mondo naturale sopratutto in ciò che i suoi fenomeni sono in uno stato costante di trasformazione.
Prendete per esempio l’evoluzione dell’istrumento di lavoro: esso esordisce coll’essere di pietra, poi di bronzo, di ferro, d’acciaio; dapprima maneggiato dall’artigiano, è strappato dalle sue mani per essere annesso ad un gigantesco organismo di ferro fuso e acciaio, mosso dall’acqua, dal vapore, dall’elettricità; la macchina-utensile maneggia l’operaio, lo trasforma in automa che non muove braccia e gambe se non per seguire i suoi movimenti.
I fenomeni economici, variando costantemente le leggi che li annodano e li collegano, devono per conseguenza variare costantemente. Durante il periodo comunista primitivo, i soli oggetti che il barbaro può possedere personalmente sono quelli che ha fabbricato egli stesso e dei qual egli si serve personalmente: tale è la legge economica dell’epoca comunista.
Il selvaggio ed il barbaro la credono eterna; essa è durata sì a lungo, che lo spirito umano ne è ancora tutto impregnato e che oggi i difensori della proprietà privata non tentano di legittimarla che presentandola come il frutto del lavoro del suo possessore. Il Pareto non domanderà certamente che si applichi la legge economica dell’epoca comunista, altrimenti il suo caro capitalista si vedrebbe spogliato degli istrumenti di lavoro che egli possiede personalmente ma che egli non ha fabbricati e dei quali egli non si serve personalmente.
Gli agronomi latini Columella, Palladius, ecc. e Oliviero de Serres, che al secolo XVI scriveva sul medesimo soggetto, erano gli economisti della piccola industria domestica; essi stabilivano come legge, che un buon proprietario non doveva violare, che bisognava produrre tutto nel suo possesso per non avere da comprare alcuna cosa al di fuori. Difatti, i signori del medio evo avevano nel loro maniero dei laboratori di tessitura, delle fabbriche di carri, delle officine per la fabbricazione delle armi, ecc. Tutti i villaggi di quell’epoca producevano i viveri e gli oggetti industriali che rendevano necessari i modesti bisogni dei loro abitanti. Il Pareto per fare atto di fede nell’immutabilità delle leggi economiche non si arrischierà a consigliare ai proprietari fondiari di filare la loro lana, di tessere le loro coperte e di costruire le loro macchine per mietere e battere il grano.
Il modo domestico di produzione, imposto al medio evo dalle difficoltà di comunicazioni si trasformò in industria artigiana nelle città situate in luoghi favorevoli allo sviluppo del commercio, quali la spiaggia del mare, le rive dei fiumi, l’incrociamento delle strade frequentate dalle carovane dei mercanti, ecc. L’industria artigiana generò a sua volta delle leggi economiche che si considerano eterne, immutabili. Il mercato per lo sfogo dei prodotti essendo ristretto, gli artigiani si organizzarono in corporazione per vegliare alla stretta esecuzione delle leggi economiche che derivavano dall’esiguità del mercato. I sindachi delle corporazioni avevano per missione di impedire qualunque concorrenza tra i maestri dei mestieri; essi fissavano i prezzi di vendita, limitavano il numero di apprendisti e di compagni che un maestro poteva occupare, come le qualità della merce che esso poteva produrre per non ingombrare il mercato; essi regolamentavano la materia prima di cui doveva servirsi e la maniera in cui doveva lavorarla, per non far torto alla buona fama industriale della città; essi gli imponevano il genere di istrumenti che doveva impiegare e gli interdivano ogni invenzione che gli potesse dare un vantaggio sugli altri mestieri. Queste multiple regolamentazioni possono sembrare ridicole agli economisti, ma esse erano logiche, necessarie ed imposte dalle condizioni dello scambio.
Ma quando, dopo la scoperta dell’America e la via delle Indie per il Capo di Buona Speranza il mercato si allargò smisuratamente e da mediterraneo divenne oceano, le leggi così logiche dell’industria artigiana divennero illogiche ed erano tanti ostacoli allo sviluppo delle industrie manifatturiere. Bisognava romperle ad ogni costo per proclamare la libertà del commercio e dell’industria: i Fisiocrati, che il Pareto e le altre aquile della «Nuova Economia» disprezzano, prepararono in Francia la testa degli uomini che dovevano operare questa rivoluzione economica.
Il «lasciate fare e lasciate passare» della concorrenza fu eretto a dogma infallibile della Economia politica. Tutto alla fine del secolo XVIII domandava imperiosamente la libertà; l’agricoltore più rumorosamente ancora che l’industria domandava la libera circolazione delle merci da città a città, da provincia a provincia, da nazione a nazione. L’agricoltura cambiò presto casacca: l’estensione rapida che prese il disboscamento delle foreste e il disseccamento degli stagni e delle paludi quando furono aboliti i regolamenti feudali che limitavano la coltivazione e talvolta la interdicevano, condusse una surproduzione di grano contro la quale i proprietari tentarono di garantirsi con tariffe doganali. Allora nacque la scuola protezionista che proclamò le leggi della sua economia immutabile ed eterna.
Ma gli agricoltori non erano tutti d’accordo sulla protezione: mentre i produttori di cereali e di bestiame imploravano dei dazi d’entrata, i viticoltori del mezzogiorno erano libero-scambisti arrabbiati. Il vino di Bordeaux aveva un monopolio: tutto il vino del mezzogiorno fu battezzato vino di Bordeaux uscendo da questa città. In tutti i paesi si domandava vino di Bordeaux. La coltivazione della vite prese uno sviluppo straordinario in Francia, poi io Italia, in Ispagna, in Algeria, in Grecia, in Turchia, in Crimea, ecc., da ogni luogo si importava vino a Bordeaux per farne vino di Bordeaux. I viticoltori del mezzogiorno vedendo i vini stranieri acquistare la qualità dei vini di Bordeaux colla stessa facilità che il raccolto dei loro vigneti cambiaron casacca a loro volta e divennero protezionisti furibondi. L’Italia ne sa qualche cosa. Gli economisti della proprietà fondiaria che avevano cantate le lodi del libero scambio, decantano allora con non meno convinzione i meriti del protezionismo. Altri tempi, altri bisogni, altre teorie economiche.
Il Pareto osserverà: gli economisti del protezionismo non sono guidati che dall’interesse particolare dell’industria che essi vogliono proteggere.
Da quando l’interesse ha cessato di essere la guida suprema dell’Economia borghese? Quando i socialisti espongono le sofferenze insopportabili delle popolazioni operaie i buoni apostoli del libero scambio rispondono: noi non vi possiamo nulla, l’interesse dell’industria esige tali miserie. Se non si abbassano i salari al loro più stretto minimum, l’industria pericola: e perisca l’umanità piuttosto che le fabbriche di cotone, piuttosto che i profitti capitalistici diminuiscano dell’uno per cento. Periscano le leggi eterne della vecchia e della nuova economia borghese, piuttosto che il grano si venda a 12 franchi l’ettolitro ed il vino a 18 franchi, piuttosto che la rendita fondiaria scemi di un centesimo, gridano i proprietari fondiari ed i loro economisti protezionisti.
Non sono i socialisti ma i fenomeni economici che si incaricano di distrurre le leggi eterne e già antiquate dell’Economia borghese. La Libertà e la Concorrenza sono i due grandi Dei della Trinità libero-scambista, la Stupidità è il suo Spirito Santo. La Concorrenza è il Padre e la Madre del Progresso, come Giove era il Padre e la Madre degli Dei e degli uomini.
Essa è la legge eterna, la condizione indispensabile di ogni sviluppo industriale e di ogni produzione mentrecché durante tutto il periodo della industria artigiana e dell’industria domestica, che durò migliaia di anni, si visse, si produsse e si progredì pur non adorando questo vecchio Dio.
D’accordo, bisognava scatenare la concorrenza per distruggere l’industria artigiana coll’industria manifatturiera e questa coll’industria meccanica; ma ecco che l’industria meccanica ingenerata dalla libertà e dalla concorrenza divora u suoi genitori, come quegli insetti che mangiano la loro madre al momento della loro esclosione. Più la concorrenza si esercita liberamente, più essa restringe il suo campo d’azione, più essa limita il numero d’industriali e di commercianti che si facevano concorrenza; a forza di rovinare e di cacciare dal campo trincerato della produzione e dello scambio dei commercianti e degli industriali essa non lascia in piedi che dei colossi i quali finiscono coll’intendersi fra loro per sopprimere ogni concorrenza. Lasciata sciolta liberamente per schiacciare i piccoli monopoli dell’industria artigiana, la concorrenza, dopo averli soppressi gli uni dopo gli altri, partorisce dei mostruosi monopoli che impediscono qualunque concorrenza. Il macchinario di una raffineria di zucchero, per esempio, è talmente dispendioso e la produzione talmente enorme che non può esistere in un paese che un piccolo numero di raffinerie, i direttori delle quali, previo accordo fissano i prezzi dello zucchero, come un tempo i sindaci delle corporazioni fissavano i prezzi delle merci. Le Compagnie delle Strade ferrate dopo aver rovinato l’industria dei trasporti per terra e per canali costituiscono dei giganteschi monopoli contro i quali qualunque concorrenza è impossibile. Sotto Napoleone III la Camera di commercio di Lilla, Roubaix e di altre città del dipartimento del Nord, costruirono a loro spese una strada ferrata locale per fare concorrenza alla Compagnia delle strade ferrate del Nord. Essa accetta la lotta, abbassa le sue tariffe al disotto di quanto ne costasse l’esercizio, rovina la strada ferrata delle Camere di commercio, la ricompra al prezzo di ferraccio e rialza le sue tariffe per coprirsi delle perdite.
I colossi dell’industria, del commercio, della proprietà fondiaria e della finanza popolano i Parlamenti dei loro azionisti e di loro creature che s’accordano nel votare leggi nel solo interesse dei monopoli che essi rappresentano e nel saccheggiare i tesori dello Stato con sovvenzioni, premi, indennità, garanzie d’interessi ed altri scandalosi favori. L’onesto Pareto si lamenta di questa manomissione dei poteri e delle casse pubbliche da parte delle miniere, delle strade ferrate, della grande proprietà fondiaria, dell’industria meccanica e dell’alta Banca; ma le sue geremiadi e tutta la sua indignazione morale sono portate dal vento come i gridi importuni del bambino che piange perché si rifiuta di dargli la luna. Bisogna essere ridicolmente illogici per accordare al capitalista il diritto di rubare all’operaio e negargli il diritto di rubare alla nazione; egli lo prende col diritto della forza.
Noi andiamo incontro ad una società nella quale i monopoli sopprimeranno qualunque concorrenza e qualunque libertà economica, nella quale i due grandi Iddii della trinità economica avranno vissuto, come hanno cessato di vivere lo Zevs dei Greci e il Jupiter dei Latini. Lo spirito santo della religione libero-scambista, la Sciocchezza, stoltifica gli Economisti acché non vedano i fenomeni che saltano loro agli occhi e acché continuino come le genti che hanno perduto «lo ben dello ‘ntelletto» a ripetere sempre il medesimo ritornello: Viva il lascia fare e il lascia passare! Evviva la Concorrenza!
Le forze economiche messe al mondo dalla libertà del commercio e dell’industria sono talmente colossali e la loro potenza talmente irresistibile che nei loro giuochi e nei loro conflitti esse ballottano gli uomini come festuche di paglia e rivoltano da capo a fondo le società. Create dall’uomo esse si ritorcono contro di lui, lo torturano, lo martirizzano. Quando la fame desolava una città del medio evo la raccolta era mancata ed i granai erano vuoti; quando la disoccupazione soffia il suo vento di carestia nelle città industriali i magazzini rigurgitano e la raccolta è stata abbondante.
L’abbondanza della raccolta che generava la gioia ed il benessere degli agricoltori durante il periodo dell’industria domestica ed artigiana, semina la disperazione e la rovina fra i coltivatori moderni. Ascoltate le lamentele dei viticoltori della Francia; essi si legnano non perché il gelo abbia abbruciate le viti in fiore, né perché la grandine abbia abbattuto i grappoli, ma perché il sole eccezionale e risplendente del 1893 ha raddoppiata la raccolta: le botti di vino si ammucchiano nelle loro cantine ed essi non possono venderlo. Tentate di consolarli, o Pareto, colle vostre arie di spavalderia verso la concorrenza. Il mondo intiero è minacciato di una crisi monetaria, non perché il danaro manchi, ma perché esso abbonda: si sono scoperte negli Stati Uniti dell’America del Nord delle miniere argentifere d’un’abbondanza mai raggiunta, l’estrazione è si facile che essa fa ribassare il prezzo del metallo, fa deprezzare tutte le pezze bianche che sono della moneta falsa legale, come disse benissimo il Pareto. Spiegate dunque questo deprezzamento colla teoria dell’utilità ed altre sciocchezze che l’Economia borghese oppone alla teoria del valore di Marx. Sarebbe l’argento divenuto meno utile all’uomo o meno di sua convenienza dopo che lo si estrae con meno lavoro? I governi, inquieti, fanno delle convenzioni internazionali, chiamano in loro aiuto delle teste forti dell’Economia borghese che divagano in congressi, in conferenze, in opuscoli ed in articoli di giornali sul Mono- e sul Bi-metallismo, ma che non hanno saputo trovar niente per allontanare la crisi prodotta dall’abbondanza dell’argento.
Da quando i naturalisti hanno studiato i costumi delle ostriche ed afferrato il secreto della loro generazione, si possono riprodurre in abbondanza le deliziose conchiglie; gli ostricultori temono appunto quest’abbondanza.
Nei centri più importanti dell’industria ostricaria, ad Arcachon, essi distruggono tutti gli anni una quantità di piccole ostriche ottenute artificialmente: se essi le allevassero tutte, si avrebbero tante ostriche che non si potrebbero vendere ad un prezzo rimuneratore. Distrurre è l’ultima parola della saggezza capitalistica: le crisi economiche danno questo spaventevole insegnamento. Difatti per fare riprendere gli affari e rianimare l’industria quando succedono delle crisi, bisogna sbarazzarsi, non importa come, delle merci che riempiono i magazzini, non si osa imitare gli olandesi che bruciavano le spezie per alzarne il prezzo, ma le si spediscono nelle colonie, in Asia, in Africa; le si danno laggiù a basso prezzo; le si lascian consumare; il macchinario industriale inoccupato si deteriora, le officine e le fabbriche si chiudono e le perdite si elevano a centinaia di milioni: le popolazioni operaie, testé surcariche di lavoro, oziano e la fame scende su di esse perché hanno troppo lavorato e troppo prodotto. Bisogna rassegnarsi ed accettare con sottomissione e riconoscenza i terribili mali che ci mandano le forze cieche del mondo economico, dicono i beati economisti.
Noi non vogliamo saperne di questo fatalismo orientale e cristiano, rispondono i socialisti. L’uomo ha saputo domare e addomesticare le forze del mondo naturale, di cui fu il trastullo, egli saprà domare ed addomesticare le forze del mondo sociale che egli ha creato.
I maestri delle corporazioni del medio-evo controllavano le forze economiche dell’industria artigiana e le forzavano ad assicurare il benessere dei produttori: la mansione era semplice, perché le forze economiche erano di debole potenza ed il loro campo d’azione limitato alla cinta di una città.
La mansione è oggi ardua, perché colossale è la potenza delle forze economiche moderne e largo come il mondo il loro campo d’azione. Essa non è però al disopra della intelligenza dell’uomo. Ma non è da un cervello, per vasto che sia, che può uscire l’organizzazione comunista della società. Marx lo sapeva bene e perciò invece di sognare un mondo utopistico, come glielo domandano gli economisti, egli ha demolito pezzo a pezzo l’edificio teorico dell’Economia borghese; egli ha disseccati i fenomeni della produzione capitalista, li ha presi alla loro origine, li ha seguiti nel loro sviluppo ed ha indicato lo scopo al quale essi tendono. E questo scopo è il Comunismo.
Sta a noi ed a quelli che verranno dopo di noi di assoggettarli ed obbligarli a concorrere al benessere ed alla felicità dell’Umanità.
Paolo Lafargue
La Perreux, 22 dicembre 1893.
51. Ed in italiano (N.d.T.)↩
52. P. LEROY-BEAULIEU, Il Collettivismo, esame critico del nuovo socialismo, p. 206.↩
53. G. DE-LAVALEYE, Il socialismo contemporaneo, p. 26.↩
54.
“Supponiamo, dice egli, che il libero commercio, stabilisca a un momento dato un tasso x per l’interesse e che questo tasso corrisponda a quello del 5% ecc.” (LXIII)
Volete tacere, disgraziato! griderebbero gli Ebrei o i Cristiani della Banca, se udissero queste supposizioni. Voi non sapete dunque che questo tasso sarebbe zero se il commercio fosse libero di stabilirlo. Voi ignorate dunque che i commercianti e gli industriali ci opprimono colle loro domande di credito gratuito e ci rimproverano di dividere con loro i guadagni che essi serbano agli operai, perché noi facciamo loro pagare un interesse per il denaro che anticipiamo loro.↩
[Archivio Pareto] [Archivio Lafargue]
Ultima modifica 2020.02.19