[Indice de L'origine e l'evoluzione della proprietà]
Il breve libro che il solerte editore Sandron presenta ora in elegante veste italiana, non è l'opera di un pensatore profondo ed originale, ma di un amabilissmο uomo di spirito, che si piace di proiettare la luce variopinta della sua genialità volterriana sovra i temi più attraenti della storia, della letteratura e della sociologia.
Legato per vincoli di parentela e per affinità d'intelletto al marxismo, il Lafargue segue nelle sue disquisizioni i criteri che il maestro del sοcialismο contemporaneo ha trasmesso come sacro deposito a' numerosi e fidi discepoli; e sul tronco talora aspro e roccioso delle concezioni marxiane sa innestare una serie di osservazioni acute e vivaci, rese più interessanti dal faccettato luccichio dello stile e dalla parigina impertinenza dell'epigramma. Libri di questa fatta, e si comprende di leggieri, non si prestano ad un particolareggiato commento, nè tollerano una critica minuziosa, e non è pertanto un commento od una critica, che noi vogliamo scrivere in questa rapida introduzione; nella quale intendiamo piuttosto, cogliendo occasione dall'opera annessa, esporre alcune considerazioni sull'argomento da essa trattato e rettificare alcune erronee asserzioni, che vi stanno racchiuse.
Il libro del Lafargue vuol dare uno sguardo sintetico alle forme storiche successive, che ha attraversato la costituzione della proprietà; vuol essere, in altre parole, un saggio di morfologia economica, di questa parte della scienza nostra troppo ingiustamente negletta, nonché dagli economisti teorici, dagli stessi storici dell'ecoconomia. E davvero convien riconoscerlo, per quanto il riconoscerlo pesi; se ormai sono numerosi gli scritti, i quali rintracciano fra le ceneri di un sepolto passato le origini dei rapporti sociali contemporanei, scarsi disgraziatamente sono gli scrittori, i quali abbiano intuita la esistenza di una serie di forme sociali successive, evolventi l'una dall'altra, e di cui ciascuna governata da una legge propria e diversa. — Νo il Marx, che schiudeva audacemente il nobile arringo nelle prime sue pubblicazioni, si vide su tale campo seguito da un forte manipοΙο di ricercatori; mentre altri scienziati, come il BüchnerI.1, i quali hanno compresa l'esistenza di una evoluzione economica, compientesi attraverso forme storiche progressive, non han saputo tracciar nettamente la causa di questa evoluzione, né separare con nitidezza le succedentisi forme sociali. Α maggior ragione pertanto dee salutarsi il libro del Lafargue come opportunissimo a colmare una vasta e deplorevole lacuna de' nostri studi e, nonostante i difetti e gli errori ond'è viziato, deve raccomandarsene vivamente lo studio a tutti i cultori della sociologia.
L'evoluzione economica, secondo l'autore, attraversa i seguenti stadi: si inizia colla proprietà comune, procede alla prοprietà di famiglia, da questa alla prοprietà feudale, ed infine alla proprietà borghese moderna, dalla quale il genere umano uscirà un giorno, per ascendere, o per ritornare, alla proprietà collettiva, chiudendo di tal guisa il cerchio fatato della storia, e della guerra sociale. Ma in questo quadro, che l'autore ci presenta, ciascuno, che sia per poco versato nella storia economica, avverte immediatamente una grave lacuna; pοiché fra la proprietà di famiglia e la proprietà feudale si frammette la proprietà a schiavi, la quale domina le società umane durante un periodo di parecchi secoli, nè può quindi essere trattata dall'economista o dallo storico siccome una quantità trascurabile. O forse il Lafargue vuol considerare la proprietà a schiavi come una forma della proprietà di famiglia? Ma anche ciò non sarebbe esatto, poiché la schiavitù, se talvolta coesiste alla proprietà di famiglia, non però coincide necessariamente con essa. Alle volte, infatti, la schiavitù (o meglio il servaggio) si accompagna alla proprietà collettiva, come in altri tempi nell'India, o nell'antichissimo Galles; altre volte invece essa coesiste alla proprietà individuale più assoluta e più rigida, come in Grecia ed in Roma. — Per tutto ciò la proprietà a schiavi non può affatto confondersi colla proprietà di famiglia, ma si asside accanto a questa nella vicenda storica dell'umanità; onde la catena delle costituzioni economiche tracciate dal Lafargue manca evidentemente di un anello, e quasi direi del più rilevante, e questa lacuna rende neccessariamente imperfetta la sua analisi e la sua esposizione.
Μa pur lasciando queste avvertenze generali e scendendo all'esame delle singole forme storiche, che il Lafargue viene recandoci innanzi, troviamo che il brillante autore si pone parecchie volte in contrasto coi risultati più certi dell'indagine scientifica. Sia poi per una insufficiente preparazione storica, o sia per pregiudizio di parte, il Lafargue vuole ad ogni costo provare che la forma economica primitiva è stata la proprietà comune. Il che non è esattamente vero. Per poco in fatti che si indaghi la evoluzione economica, si scorge come alle prime sue origini, o a quella prima fase che noi possiamo accertare colla osservazione, non è la proprietà comune che impera, bensì un possesso individuale e precario, mentre soltanto in un periodo più tardo, ed a reagire contro le influenze funeste del disgregamento, si introduce e si espande la prοpretà collettiva. Già un pubblicista, il quale ha indubbiamente commessi errori anche piú gravi di quello che qui rileviamo, ma che su questo punto è nel vero, notava come la difficoltà stessa di procacciarsi l'alimento renda ne' primi tempi impossibile la coesione sociale e necessaria la dispersione delle famiglieI.2. Ma anche all'infuori di ogni considerazione teorica, i fatti danno documento irrefragabile alla nostra affermazione. Lo ho già avuto occasione di dimostrare come nelle prime colonie d'America, che riproducono in una forma meravigliosamente plastica la preistoria d'Europa, gli immigranti istituissero anzitutto una economia dissociata di aziende indipendenti, le quali solo in un periodo successivo vennero a coagularsi sotto l'impero della comunitàI.3. Ma questo medesimo sviluppo ci appare nella Russia contemporanea; e l'importante volume pubblicato non è gran tempo sulle condizioni agrarie di quell'impero, quali si rilevano dalle inchieste delle Giunte Provinciali (Zemstwos), non consente alcun dubbio in proposito. Anche nella Russia, come nell'America, come nell'Europa preistorica, si ha dapprima la occupazione libera della terra da parte dei produttori indipendenti, i quali fοndano una moltitudine di aziende disperse; mentre solo in un periodo successivo queste vengono associate e surrοgate dalla comunità di villaggio, la quale assegna a ciascuno de' suoi membri il possesso temporaneo di una data estensione di terra e prescrive la redistribuzione periodica dei terreni, ad intervalli determinati. La serie delle forme economiche non è dunque, come crede il Lafargue: proprietà comune — proprietà privata, ma, come osservarono il Maine, il Pollοck e tanti ancora, la costituzione economica procede per questi tre stadi possesso individuale — proprietà collettiva — prοprietà privataI.4. So bene che contro questo concetto si sollevarono obbiezioni notevoli da scrittori non volgari. Così ad esempio il Maurer osserva che ad accogliere tale concetto converrebbe ammettere l'ipotesi assurda, che i proprietari liberi de' primissimi tempi facessero spontanea rinuncia alle terre isolate e compatte da essi appoderate ed alla indipendenza correlativa, per convertirsi in frammenti anonimi di una collettività produttrice, dalla quale avrebbero ricevuto il possesso precario di appezzamenti variabili di estensione e dispersi in zone remote l'una dall'altraI.5. — Ora l'obbiezione del Maurer sarebbe veramente ineluttabile, se il passaggio dal possesso individuale alla proprietà comune fosse stato il frutto di una libera elezione dei produttori dissociati; poiché non v'ha dubbio che una risoluzione di questa fatta sarebbe in antitesi ai sentimenti più radicati ed invincibili dell'anima umana. Ma il vero si è che la grande trasformazione storica, οnd'è uscita la proprietà collettiva, non è, come nol sono in genere le trasformazioni sociali, volontaria, bensì è forzosa, bensì è imposta dalle necessità imprescindibili della economia e della produzione. E, infatti, la insufficienza della produzione dissociata delle aziende libere, che, provocando ad un certo punto la generale penuria, la ruina universale, genera per sé stessa, indipendentemente dal volere come dalla coscienza dei singoli, la formazione di un organismo collettivo il quale si sostituisce agli individui produttori, ne assorbe le aziende e le terre, ed afferra afferra scettro della produzione e della proprietà. Εpperò l'argomento individualista del Maurer si sfata di fronte al carattere sociale e necessario della trasformazione, onde è uscita la proprietà comune.
La dipintura del comunismo primitivo, che il Lafargue ci porge col suo brio consueto, presenta alcuni tocchi un po' troppo carichi, altri che sono un po' fuor di luogo, ma in complesso può dirsi assai vera. — Se attuato nella pura sua forma, il cοmunismo primitivo ha dovunque per risultato una eguaglianza di condizioni, che filtra nelle consuetudini della popolazione e ne plasma il carattere, lasciandovi tracce che persistano durante un lungo periodo, anche successivamente alla formazione della proprietà privata. Così p. es., quando, nel 1592, un ukase stabilì che i più ricchi fra i Cosacchi portassero le vesti più belle, quelli di media ricchezza le mediocri, i più poveri le peggiori, i Cosacchi si opposero dicendo: siamo tutti eguali; poiché, come oggi per le vie di Nuova York, così allora fra quelle tribù per tanti secoli elaborate dal comunismo primitivo, la differenza di classe non era ancora pervenuta a riflettersi nella diversità dell'abbigliamento. Νé vogliamo negare che gli entusiasmi del Lafargue per queste forme prime di vita economica sian pienamente giustificati e legittimi; e nemmeno ci trova dissenzienti il suo accenno appassionato alla dissoluzione delle comunità primitive, la quale perό avrebbe richiesto un più completo ed approfondito esame, tanto sono notevoli le gradazioni ch'essa presenta ed i processi per i quali essa si compie. — In ogni paese del mondo, ad una certa fase della sua evoluzione, alla proprietà comune si sostituisce la proprietà privata; ma questa, alle prime sue origini, è circoscritta ad alcuni oggetti soltanto, dai quali si diffonde ai rimanenti solo dappoi. — Così, mentre nelle isole Fidij si riconosce la proprietà privata dei frutti, ma non dell'albero, a Giava si ammette la proprietà privata dei frutti e dell'albero, ma non della terra; onde, se l'anziano di un villaggio vuol tassare la proprietà degli alberi, o violarla, si leggono gli alberi stessi emigrare con tutta facilità e trasferirsi sopra un'altra parte della terra comune. Μa grado grado però, la proprietà individuale si sostituisce dovunque alla proprietà comune ed assoggetta le cose e gli uomini al proprio illimitato dominio. — Νé ci è d'uopo di rintracciare agli albori della storia umana gli esempi di questo grandioso fenomeno, poiché ne troviamo in tempi a noi prossimi le manifestazioni eloquenti. Meno di cinquant'anni sono trascorsi dacché gli Inglesi esprοpriavanο violentemente i Maori della Nuova Zelanda, distruggendone le comunità secolari; e non è guari ancora i pescatori dell'Αlaska, i quali formavano una vera collettività produttrice sul modello delle società primitive, vennero brutalmente espropriati dalla Compagnia Russo-Americana, che tolse loro la proprietà degli strumenti necessari alla loro industria, li ridusse a uno stato di semi-servaggio e li costrinse a lavorare a suo profitto, lasciando loro la metà soltanto della pesca. — Mezzo barbarico ma spedito, che qualche scrittore propone a modello di politica coloniale, additandolo come strumento impareggiabile a soggiogare gli indigeni ricalcitrantiI.6.
Ciò che però assolutamente difetta nello studio del Lafargue é un accenno alle cause, le quali hanno determinata la dissoluzione della proprietà comune e la transizione alla proprietà privata, famigliare o individuale che sia. E questa lacuna è tanto più deplorevole, in quanto che è appunti nel problema delle cause, che il magistero della scienza rifulge ed é riposto il lato filosofico della investigazione. Ora, attorno a siffatta questione, si combattono fra gli economisti e gli storici le più ardenti controversie. Mentre infatti, secondo alcuni economisti, quali il Wagner, e alcuni storici, come l'Inama-Sternegg, il passaggio dalla proprietà comune alla proprietà privata è esclusivamente il risultato delle esigenze della produzione, altri scrittori, come il Kowalewski (il quale pur riconosce che il passaggio dalla proprietà feudale alla proprietà borghese é dovuto alla necessità sociale di una maggior produzione) negano assolutamente che le esigenze della produzione imponessero la soppressione del comunismo primitivo, la quale sarebbe stata invece (secondo questi scrittori) il risultato della cupidigia e della violenza di pochi rapaci. Α noi, dopochè si lunga vicenda di studi abbiam consacrato a questo problema, non rimane più dubbio alcuno che entrambe tali soluzioni siano unilaterali e che soltanto nel loro connubio sia riposta la verità. — È infatti evidente che le esigenze della produzione, ignorate o inavvertite dai produttori, non bastano a provocare una trasformazione sociale, la quale, essendo compiuta da uomini, dev'essere sollecitata da motivi consaputi, agenti irresistibilmente sovr'essi. È dunque innegabile che la rapacità e la violenza dei singoli sono strumento podereso ed impulso immediato delle trasformazioni economiche in genere e di quella in ispecie onde la proprietà individuale è scaturita. Μa d'altra parte, è pur vero che la violenza individuale non approderebbe ad alcun risultato, se le influenze dissolventi di una produzione inefficace non le spianassero dapprima la via, e che è appunto la inefficacia della produzione coflettiva, che affievolendo progressivamente le aziende dei singoli comunisti, le abbandona per ultimo come facile preda ai più audaci usurpatori. Se dunque la cupidigia, congenita nell'uomo di tutte le età, è lo stromento che ha dissolta la proprietà primitiva, la causa che ha posto in moto quello stromento è la improduttività del comunismo agrariο, la quale si è resa sensibile nell'istante in cui la popolazione crescente ha imposta la estensione della coltura a terre più sterili, ο la sua intensificazioneI.7. È appunto con ciò che si spiega il fatto, pur rilevato dal Kowalewski, che la sostituzione della proprietà privata alla proprietà collettiva si compie dapprima sulle terre più prossime alle cittàI.8; precisamente perché su queste si pratica prima che sulle altre la coltivazione intensiva, la quale è incompatibile colla comunità del possesso. È pur con ciò che si spiega il fatto rilevato dall'inchiesta russa, più addietro da noi ricordata, che la proprietà comune si dissolve dapprima nelle regioni ove le terre sono più sterili; precisamente perciò su queste fa d'uopo, prima che sulle altre, di procedere ad una coltivazione razionale, che è incompatibile a priori colla proprietà comune. È con ciò infine che si spiega la permanenza secolare della proprietà collettiva ed il fatto che, solo al termine di un glorioso periodo di vita, essa sia stata distrutta dalle usurpazioni individuali; mentre invece la teoria della violenza, per sé presa, condurrebbe a concludere che la proprietà comune dovesse ruinare appena sorta, poiché fin dal primo suo sorgere sussistevano quelle cupidigie e quelle irrequiete violenze che, secondo la indicata dottrina, ne hanno provocato il tracollo.
Assai meno completa e notevole che lo studio della economia comunista, ci sembra l'indagine che l'autore nostro consacra alla proprietà di famiglia. Invero, non è che giusto soggiungerlo, questa forma intermedia della prοprietà non è stata finora l'oggetto di indagini molto profonde; ed inoltre essa è troppo commista ad altre forme di proprietà, quale la comunità di villaggio, o pura spesso la schiavitù, perché possa presentarsi come un tutto omogeneo e compatto all'attenzione dell'osservatore. Tuttavia una indagine, sia pure approssimativa, di questa forma di proprietà può tentarsi con qualche fortuna, quando si rivolga ai paesi ove essa ebbe pura splendido e più nitido svolgimento; esempio insuperabile quella sadruga slava, che Emilio di Laveleye ci ha descritta con tanta eloquenza e con sì rara vivacità di colorito. Secondo la giusta osservazione dell'Hearn, scrittore non ignoto al Lafargue e che ha studiato con grande amore la forma famigliare della proprietà — la proprietà di famiglia e la comunità di villaggio son due forme complementari, di cui l'una si sviluppa tante più prosperosa quanto meno l'altra incontri condizioni favorevoli alla propria espansioneI.9. Perciò nella Russia, ove l'autorità politica è più forte, si svolge la proprietà del comune, mentre fra gli Slavi del sud, presso i quali d'influenza del governo turco ha soffocato ogni tentativo di valida organizzazione politica, la costituzione della società comunale incontra insuperabili ostacoli e al posto di quella si accentua od impone l'organismo famigliare, sotto il cui scettro la proprietà si disciplina e raccoglie. Ma già nelle età più remote, là dove l'autorità del clan o della tribù non era abbastanza possente, o dove ormai era sfatata, ivi la proprietà di famiglia veniva sostituita alla proprietà comune; e con tanto maggiore costanza e frequenza, quanto che a questo passaggio davano, come sempre, energico impulso le esigenze della produzione, le quali richiedevano una forma economica più snodata e più snella che non fosse la proprietà collettiva, ed un controllo più immediato e più prossimo all'efficacia del lavoro individuale. Così nella Grecia, la proprietà primitiva, o meglio la proprietà dei primi tempi storici — essa stessa probabilmente sviluppatasi dalla decomposizione della proprietà comune — è una proprietà di famiglia indivisibile ed inalienabile. All'aurora della Società ellenica il principio della proprietà famigliare viene attuato nella sua forma più nitida ed il patrimonio trasmettesi ai figli indiviso; ma anche più tardi, quando la divisione è consentita, il principio della proprietà di famiglia non iscompare, poiché so ne veggono luminose le tracce nei provvedimenti intesi a vietare che i beni vengano trasmessi ad una famiglia straniera. Α tale intento, infatti, si obliga il figlio adottivo rinunciare a qualunque parte dei beni della famiglia onde è uscito e si nega alle fanciulle l'ereditàI.10; e per questo modo si giunge a conservare nell'orbita della famiglia il patrimonio, ad impedirne la dispersione.
Si potrebbero, a propositi di questo capitolo (il III), rimproverare ancora al Lafargue alcune cοntraddizioni, però di scarso rilievo e; toccanti alcuni punti secondari. — Così per es. egli dice: «In Francia la monarchia anteriore al 1789 si affaticò a conservare le organizzαzioni collettiviste dei cοntadini, assalite per una parte dai signori feudali, che le spogliavano brutalmente dei loro privilegi e dei loro possessi, per altra parte dalla borghesia che vi mise le mani addosso con ogni sopruso». —
Ε subito dοpο: «I signori feudali incoraggiavano l'organizzazione dei cοntadini in collettività famigliari.» O come si cοncilianο queste due affermazioni? Se i signori feudali assalivano le comunità famigliari, come puό dirsi che le incoraggiassero? Ιl lettore converrà almeno con noi che era questi, a dir poco, un metodo ben singolare di incoraggiamento.
Μa lasciamo le cattiverie saccenti, colpa e delizia della critica piccina, e rileviamo le ben maggiori lacune che il libro, di cui è parola, presenta. — Nel successivo capitolo, che discorre della proprietà feudale, abbiamo cercato indarno un accenno alla questione pura interessante e più viva, che oggi si dibatte fra gli storici di quella età per tanti rispetti sì grande. La questione riflette l'origine del le comunità agricole medievali, e la sua singolare importanza esige che noi ne diamo notizia ai nostri lettori. Secondo alcuni storici, fra cui primeggiano Fοustel de Coulanges, Seebohm, Inama-Sternegg, la comunità agricola, che associava i coloni dell'età feudale, sarebbe sorta fin dapprima come una istituzione servile, sarebbe stata una graziosa concessione fatta dal signore ai suoi servi, od una organizzazione da esso imposta, per motivi egoistici, ai lavoratori delle sue terre. L'organizzazione collettiva dei contadini era infatti, affermano questi scrittori, vantaggiosa allo stesso proprietario, sia perché creava fra quelli una associazione di lavoro, assai prοpizia alla produzione, sia perché rendeva più facile l'assetto dell'imposta e dei canoni, sia infine perché ne rendeva pίù certa l'esazione, mercé la respοnsabiΙità in solido dei coloni associati. Ρerciò si comprende che il proprietario, nell'atto stesse in cui fondava la signoria feudale, istituisse la comunità dei coltivatori. Le forme stesse di economia da cui la proprietà feudale è scaturita contenevano già, del resto, nel proprio seno l'embrione della comunità servile; già questa esisteva fra gli schiavi della villa romana, come fra i servi della tribù gallica, e da queste forme anteriori è prοceduta nel maniero feudale dei tempi di mezzo. — Tale è la tesi che difendono gli scrittori surricordati e che il Seebohm ha sviluppata e suffragata con gravissimi argomenti e con memοrabili prοve. «È certamente possibile, conchiude lo scrittore inglese, che durante un breve periodo, specialmente se non possedevano servi, le tribù si espandessero in libere cοmunità di villaggio; ma non si può ammettere che l'emigrazione germanica assumesse normalmente la forma della comunità libera, e sembra certo che i villaggi germanici fossero fin dai primi tempi dei manieri, cui erano annesse altrettante comunità servili.»I.11 Μa a questa teoria, dirò così, aristocratica si contrappone la teoria democratica, di cui Maurer, Maine, Nasse, Vinogradoff sono i più autorevoli campioni, la quale ravvisa nella comunità servile del medioevo la trasformazione, o la degenerazione, di una comunità libera primordiale. Ιl Vinogradoff specialmente, che ha indagato, con acuteizza britannica e con tenacia slava, le condizioni di vita delle classi agricole inglesi nell'età di mezzo, ha saputo rintracciare pazientemente nella comunità servile di questo periodo, le vestigia di una primitiva cοmunità indipendente; e sotto i palinsesti, scritti col ferro e col sangue dai rappresentanti della oppressione e del sopruso, ha ritrovato i caratteri d'oro della più antica libertà.I.12 Dopo le ricerche del Vinogradoff, le contraddizioni delle comunità medievali riescono luminosamente spiegate, siccome il prodotto dell'ibrida sovrapposizione delle norme imperative ed egoistiche della corte signorile sulle primitive norme democratiche della libera comunità rurale; e si spiega del pari vittoriosamente con questa dottrina la moltitudine di diritti, onde eran agguerriti i coloni nella comunità servile, e la modesta posizione di sovrano costituzionale che vi era fatta al signore, e la divisione della terra comuni in appezzamenti disgregati, reliquia dei metodi adequatori propri alle libere comunità primordiali. — Quindi non può, dopo le indagini dello storico russo, durante alcun dubbio circa l'origine essenzialmente libera della comunità rurale, di cui la organizzazione servile non è stata che un inquinamento, od una tarda degradazione. — Anche la storia della prοprίetà fondiaria s'aggiunge pertanto a giustificare il motto della signora di Stael, che la libertà è antica, il dispotismo è moderno.
Che se poniam mente alle osservazioni, dedicate dal nostro Lafargue all'organismo economico del feudalismo, non ci è difficile scorgere come il dolceloquente francese si lasci troppe volte trascinare dalla sbrigliata fantasia ad interpretazioni più cervellotiche che positive dei fenomeni sociali. Già si presente di leggieri che un sociologo così disinvolto e così sdegnoso d'ogni legatura di metodo come il Lafargue, il quale nei suoi e Studj sulla Criminalità in Francia non si peritò di sommare assieme le cifre dei prezzi del grano e quelle dei fallimenti, quasi fossero termini omogenei od addizionabili — non sia trattenuto dall'ossequio ai canoni di una scienza importuna nelle sue interpretaziοni economiche della storia. Niuna meraviglia pertanto se egli afferma decisamente che veniva eletto capo del villaggio quegli che possedeva la casa più spaziosa, la quale potesse servir di riparo agli abitatori in tempo di guerra, e che il principato ereditario è derivato dal costume, ben tosto invalso fra le tribù, di eleggere costantemente il proprio capo nella stessa famiglia. Che queste affermazioni rispondano al vero, è ciò che noi non oseremmo assicurare; avremmo piuttosto ragione d'assicurare il contrario. Anzitutto, il considerare l'eredità del potere come il frutto di una specie di misoneismo elettorale, non ispiega assolutamente nulla, poiché lascia nell'ombra la ragione di tale consuetudine, il motivo per cui, alla morte del primo suo capo, la tribù si è risolta a scegliere il successore fra i membri della sua stessa famiglia. Questa ragione, che le considerazioni astratte del Lafargue non ci rivelano, ci é invece spontaneamente fornita dall'esame obbiettivo delle cose. Nelle società primitiva l'eredità del potere era una conseguenza della scarsa ricchezza dei singoli gruppi sociali, la quale induceva a conservare il potere politico nel seno di una stessa famiglia, affine di scemare le spese di mantenimento del sovrano. Era una specie di calcolo degli interessi composti applicato alla sovranità; si sperava cioè di fare una economia sulla lista civile, pοichè il nuovo sovrano, ereditando la sostanza accumulata dal suo predecessore, non aveva più d'uopo di ricevere dal pubblico un dovizioso appannaggio. Il calcolo — è ben noto disgraziatamente ai più ignari — venne troppo spesso smentito dai fatti, poiché la sovranità ereditaria, lungi dallo scemare le spese di mantenimento del sovrane, contribuì a dilatarne la cifra; ma non importa. — Nella età di mezzo poi la eredità politica era voluta dalla stessa struttura della proprietà feudale, la quale imponeva la trasmissione ereditaria degli averi nel seno della famiglia, ad assicurare la amministrazione razionale di quelli, a mantenere intatto il tessuto connettivo fra le generazioni successive dei proprietari; e, facendo del potere politici una prerogativa personale del proprietario, aveva per conseguenza che l'eredità famigliare della proprietà trascinasse dietro a sé l'eredità famigliare del potere.
Ma lasciando pure da parte queste considerazioni, le quali, ben più che alla evoluzione della proprietà, si riferiscono al più complesso ed intricato sviluppo delle costituzioni politiche, e rivolgendoci alle indagini pi propriamente ecοnomiche dell'autore, osserviamo che nelle disquisiziοni sue concernenti l'economia feudale difetta completamente la nozione della base intima di questo sistema, o della causa storica che l'ha determinato. — Ιl piedestallo su cui si erige la economia del feudalismo è la servitù della gleba, e su questa base, affondata nel suolo e perciò meno evidente ai profani, si eleva il maestoso ed appariscente edificio, in cui si drappeggiano innanzi alla folla attonita le zimarre smaglianti e le formidabili armature. Ora la ragion d'essere della servitù della gleba, la quale, a sentire Lafargue, si direbbe cascata dal cielo come un aerolito della storia, è esattamente determinabile e determinata; la servitù della gleba non è che la risultante di due fattori, entrambi riferentisi alle condizioni della terra: da un lato la esistenza di terra libera trattabile dal lavoro puro, la quale, escludendo la possibilità di estorcere un profitto dall'impiego di un operaio giuridicamente è libero, costringeva i capitalisti dell'epoca a ridurre in servitù il lavoratore — dall'altro, il grado ormai depressο di produttività del terreno, che rendeva necessaria una forma di asservimento meno rigida e più civile, che non fosse l'antica schiavitù. — È appunto con ciό che si spiega perché in quei paesi, ove la terra è più sterile, e cessano prima che altrove le terre libere trattabili dal lavoro puro, ivi la servitù della gleba non perviene a costituirsi e dalla schiavtù primitiva si procede senz'altro alla piccola industria, dalla quale poi al salariato. Esempio gli Stati Scandinavi. Lo sviluppo singolarissimo della economia scandinava, che impronta di sé tutte le manifestazioni della vita presso quel popolo, e, per via indiretta, determina il carattere speciale che vi assume la letteratura, l'arte, il pensiero — è spiegabile solo quando si connetta alle influenze sociali della terra, che il Lafargue colle la grande maggioranza dei suoi correligiοnari politici, ha il torto estremo di obliare.I.13
Se non si tien conto di questo duplice nessi causale, fra la terra libera e la servitù della gleba, fra la serviti e il feudalismο, si cale nelle più errate interpretazioni e negli abbaglj storici pura perigliosi; dei quali lo stesso scrittore francese ci porge in queste pagine qualche deplorevole esempio. Così, egli afferma che la trasformazione del capo di villaggio in barone feudale ha un perfetto riscontro nella trasformazione dei capi di villaggio indiani in prοprietarj privati, quale fu compiuta ed organizzata dal governo britanmco in sullo scorcio del secolo XVIII. Ι conquistatori medievali, dice il Lafargue, considerarono i cari dei villaggi, i quali ne erano nulla più che gli amministratori, come i proprietari delle terre del villaggio, e li investirono direttamente della proprietà di queste, rendendoli in ricambio responsabili della esazione delle imposte e della condotta dei loro dipendenti; esattamente come, il governo inglese converti i capi dei villaggi indiani in proprietari privati, accordando loro una dispotica autorità ed ogni diritto di esazione sui loro antichi compagni ed eguali. Ora basta una imperfetta nozione della costituzione fondiaria dell'India, per farci avvertiti della fallacia di un tal paragone. Ιnfatti l'Inghilterra, o il suo proconsole Lord Cornwallis, convertì i zemίndars, i percettori delle imposte comunali, non già in signori feudali e perciò stesso vincolati da una fitta catena di obligazioni e restrizioni, ma in liberi proprietarj all'inglese; e mentre i capi di villaggio, convertiti in baroni feudali, si impadronirono delle persone dei coltivatori, o ridussero questi in servitù, nulla di tutto ció avvenne nell'India, ove il coltivatore rimase giuridicamente libero, quale era stato durante il periodo della democratica comunità rurale. Ε perché tale divario? Perché pel signore feudale l'asservimento del lavoratore era la condizione sine quα non alla percezione di un profitto, a motivo della esistenza di terre libere interminate, che vietavano di estorcere un reddito dal lavoro di un operajo giuridicamente libero; mentre nell'India le terre disponibili, ormai ridotte a misere dimensioni, erano quasi innocue al capitale, il quale poi riusciva con tutta facilità ad occuparle, precludendole ai lavoratori; onde questi, esclusi dalla possibilitàι di produrre a proprio conto sopra una terra libera, fatti ormai privi d'opzione, si trovavano dalla stessa fatalità dei rapporti economici costretti a vendere ai proprietarj il loro lavoro per quella scarsa mercede che piaceva a questi fissare. Ecco perché l'Europa medievale fu coltivata da uomini ben pasciuti ma servi, mentre nell'India moderna i coltivatori, i ryots, giuridicamente liberi,
Cascan di fame sul fiorente solco.
La funzione produttiva della proprietà feudale, la sua possente influenza a ristorare le sorti dell'agricoltura, esauste dalla schiavitù, avrebbe richiesto almeno un accenno nell'opera che esaminiamo; né può certamente lodarsi il silenzio che essa serba su questo punto. Tale influenza della economia feudale è del rimanente ben nota a quanti hanno indagato la storia dell'agricoltura, e si ripete in tutti i paesi del mondo durante quella fase del loro sviluppo. Ιn Italia, in Ιnghilterra, in Germania, in Francia ed in Russia, la proprietà feudale ed ecclesiastica ha rigenerato la produzione agraria ruinante; ed ancora nel Giappone, fino a pochi anni or sono, i Daimio, i signori feudali, vietavano severamente ai loro contadini di impiegare il concime di calce, a motivo delle sue influenze depauperanti del terreno, rese colà maggiormente sensibili dalle qualità speciali del suolo; mentre non fu che dopo la Ristorazione, o col sorgere dell'economia a salariati, che l'uso di quel concime corrosivo si è diffuso nell'Impero del sole nascente.
Si dirà forse che è questa una lacuna di ben picciolo rilievo; ma quandο pure ciò voglia ammettersi, non può dirsi altrettanto di quella che stiamo per additare. Lo studio della proprietà feudale, la quale si elabora specialmente nell'agricoltura‚ avrebbe, a quanto ci sembra, richiesto d'essere integrato da una indagine della corporazioni di mestiere, la quale fοrma il parallelo industriale del feudalismo ed il lineamento più caratteristico dell'età di mezzo. La struttura singolare della corporazione, la sua dipendenza dall'aziοne della terra libera, la identità sostanzίale di rimunerazione che essa consente al maestro ed al compagno, così eliminando il profitto, la reazione che questa negazione del profitto provoca da parte dei maestri e la servitù mascherata che essi impοngοnο per conquistare un reddito capitalista — ecco una serie di interessanti episodi che il Lafargue disgraziatamente tralascia e che sarebbe stato prezioso di rammentare. Νè meno sarebbe stato augurabile che egli avesse avvertita l'essenzial differenza fra le corpοrazioni mediοvali e le caste dell'oriente, alle quali pure si suole, tanto erroneamente, appajarle. Mentre infatti, le corporazioni di mestiere sono più che altro dei gruppi famigliari, in seno ai quali si compie un dato lavoro da persone di diνersa età, dal padre e dai figli e nipoti — le caste invece sono piuttosto gruppi di individui coetanei, i quali contribuiscono insieme da un'opera determinata; i genitori cioè lavorano in una industria ed i figli in un'altra, per ascendere poi, alla morte di quelli, alla prima. Differenza notevole di organizzazione industriale, la quale risulta da una corrispondente differenza dell'organismo tecnico, o dal contrasto fra le industrie primitive, ciascuna delle quali esige una serie di operazioni uniformi, adatte soltanto ad individui di una età determinata, e le industrie medieve, di cui ciascuna è ormai complicata e richiede operazioni di varia natura e convenienti ad individui di diνersa età.
Queste critiche, ed altre assai che potrebbero muoversi al capitolo che esaminiamo, non vogliono naturalmente negare la giustezza di parecchie osservazioni in esso contenute. Fra queste, colgo a volo le avvertenze sul carattere essenzialmente economico delle crociate, che il Lafargue (ripetendo considerazioni da me svolte nel 1886I.14) considera giustamente come, una espansione transmarina del capitale medievale mal retribuito in Εuropa. — Il Tarde, che è un valente sociologo, ma un terribile misoneista, è insorto contro quelle mie osservazioni ed ha ironicamente soggiunto che le crociate divengono quasi, sotto la mia penna, una spedizione del Tonchino del medio evo. Ma le considerazioni coscienziose basate sullo studio dei fatti non rovinano sotto i più abilmente ideati sarcasmi, e non è perciò meraviglia se, nonostante le censure del Tarde, la nostra tesi è ripetuta oggi dal Lafargue, come ieri dal Kautsky, come a ogni giorno dagli spiriti più intelligenti della scuola socialista. Il Lafargue è anzi, per tale riguardo, ben più nel vero del Kautsky, il quale, pur ravvisando nelle crociate una intrapresa economica, le considera come il prodotto della fame di terra dei proprietari feudaliI.15. Ora questa spiegazione si fonda sopra un anacronismo. Come può, infatti, concepirsi che i proprietari feudali avessero d'uopo di una conquista d'oltremare per soddisfare il loro desiderio di nuove proprietà terriere, se innanzi ad essi stendevansi terre libere sterminate, sulle quali non avevano che a stender la mano per annetterle senza colpo ferire ai propri domini? Evidentemente ciò sarebbe stato insensato; evidentemente quei motivi, che possono indurre i proprietari inglesi de' nostri giorni ad acquistare terre in America, poiché più non ne trovano disponibili in Europa, non valgono pei signori dell'età, feudale, i quali vivevano ed agivano in condizioni affatto diverse di territorio e di popolοsità! Evidentemente dunque il motivo economico, che spingeva i signori feudali alla conquista del Santo Sepolcro, non era già la brama di nuove terre, ma il bisogno di nuove conquiste d'uomini, ma la necessità di annettersi un nuovo materiale umano, che permettesse loro di impiegare fruttuosamente le loro ricchezze, o di dilatare i loro profitti.
Se nella dipintura della proprietà feudale, il Lafargue, come potevamo attenderci, addolcisce le tinte, se egli insiste sui carichi molteplici onde il signore del feudo è gravato e sulla condizione relativamente agiata del coltivatore, passando quasi sotto silenzio gli aggravi spietati che accasciano il servoI.16, altrettanto è fosca la sua descrizione dei processi, con cui è stata distrutta la proprietà feudale e la sua censura della moderna proprietà borghese. Le usurpazioni delle terre comuni da parte dei signori, lo sfruttamento sistematico dei contadini, la loro conversione in proletari, e tutti insomma i grandiosi processi capitalisti con cui si iniziano i nuovi tempi, son vivacemente descritti dall'autore; né gli esempi, specialmente attinti alla Francia, che egli ci adduce in proposito, posson dirsi poco istruttivi o ininteressanti. Tuttavia qui pure riappare quella perpetua omissione della indagine delle cause, che vizia tutta l'opera che esaminiamo; nella quale tu vedi piuttosto una serie di quadri dissolventi, l'un dall'altro disgiunti, di quello che la dipintura di una serie di organismi evolventi l'uno dall'altro. Sta bene, o piuttosto è male, diciamo noi al Lafargue, che i signori feudali abbiano invase le terre comuni, che i servi sieno stati mutati in proletari, e che l'usurpazione feudale non sia cessata se non per far luogo all'usurpazione borghese; ma perché tutto ciò? Quale è la causa del fatto? La causa, risponde l'eziologia scientifica, è riposta nell' incremento incessante della popolazione, che rendeva intollerabile la forma feudale o patriarcale della proprietà, incomportabile la persistenza dei campi e dei pascoli comuni, o degli usi civici, o dei rapporti agricoli medievali, inevitabile dunque la loro distruzione. Questa causa, la quale ha agite nei secoli scorsi nei paesi dell'Europa occidentale, nella Francia, nell'Italia, nell'Inghilterra, ecc., agiva sulle scorcio del secolo passato nell'India, agisce oggi nel Giappone ed in Russia, e dovunque consuma d'eccidio della piccola proprietà e della piccola industria e la loro sostituzione col capitalismo e colla grande proprietà. E se l'aumento della popolazione rendeva per tal guisa necessaria la sostituzione della forma economica feudale con altra più efficace e produttiva, la cessazione della terra libera, risultato dell'aumento stesso della popolazione, rendeva possibile la istituzione della forma economica progredita, poiché togliendo ai lavoratori privi di capitale ogni opzione ed ogni possibilità di indipendenza, rendeva ormai superfluo l'antico e gotico ingranaggio della servitù e consentiva di estorcere un profitto dal libero lavoratore. Per queste ragioni e per queste soltanto la proprietà feudale dovè e poté tramutarsi in proprietà borghese ed il servo medievale tralignò nel salariato moderno.
Eccoci infine di fronte al bersaglio di tutte le avversioni del nostro autore, alla meta della faticosa sua corsa. Non crediate, infatti, che le sue investigazioni storiche od anche preistoriche abbiano il pacifico scopo di indagare i rapporti reali delle età anteriοri; non crediate ch'egli abbia consultate le polverose pergamene de' tempi feudali, o dissepolte le opere dei trovatori, dei legisti, dei canonisti, a scopo di dilettazione accademica, o di erudito ammaestramento. Νo. Le sue escursioni i storiche non sono che un artificio, che un'opera di chiaroscuro; il suo intento riposto è ben altro, è di contrapporre al carattere collettivo della proprietà antica e feudale, il carattere individuale e quiritario della proprietà capitalista moderna, affine di trarre dal contrasto nuovo e poderoso argomento a condanna della economia contemporanea. Quindi alla dipintura indulgente delle forme passate di proprietà, segue ora la pittura severa ed inesorabile della proprietà borghese, della quale il Lafargue descrive con penna nervosa la genesi, gli splendori e le infamie. E l'antica istoria tante volte narrata. Privilegj mercantili, dazi protettori, sistema coloniale, debiti publici, brigantaggi collettivi e piraterie cosmopolite hanno presieduto, nelle più diverse nazioni, alla costituzione del capitalismo moderno; il quale, sorto dapprima timidamente nella manifattura o nella media proprietà fondiaria, si espande gradatamente e prevale mercè le immense fabbriche e le fattorie sterminate, ove si affolla la turba anonima dei proletari lavoratori.
Frammezzo alle molte osservazioni, che ripetono opinioni già note del Rogers, del Lavergne, del Marx e di altri illustri scrittori, abbiamo avvertito in questa parte dell'opera una idea assai notevole, la quale, se non è proprio originale all'autore, è certamente svolta da lui con particolare vigore, e con propria genialità. Il Lafargue osserva come la specializzazione delle industrie, che è caratteristica alla prima fase dell'economia borghese, vada grado grado svanendo coi progressi di questa, e come oggi si tenda ad una riconcentrazione delle imprese, alla agglomerazione delle industrie più disparate sotto il controllo di uno stesso capitalista. Oggi, infatti, le grandi imprese manifattrici non lasciano piú ad altre aziende il compito di produrre le materie prime di cui abbisognano, o le macchine loro necessarie, o i vari elementi della loro industria, ma ne assumono la produzione esse stesse. Invero, ove ben si guardi, tale processo non ha nulla di contraddittorio alla specializzazione delle industrie. Non è già, infatti, che questa oggidì scompaia o si attenui, mentre all' opposto essa si rende ai dì nostri sempre maggiore; ma al fatto tecnico della specializzazione delle industrie si associa il fatto economico della loro unificazione capitalista, ossia, mentre le influenze della tecnica agiscono in un senso decentrante, le influenze della economia operano in un senso accentrante. Si ha per tal modo una singolare evοluzione, o meglio una strana parabola; poiché in passati manca ogni specializzazione delle industrie e lo stesso individuo produce e manifattura le materie prime; in un periodo successivo si forma una moltitudine di industrie specializzate, ciascuna delle quali si limita alla produzione di una data merce ed è praticata e posseduta da una persona diversa; infine in un terzo periodo, l'attuale, una pluralità di industrie specializzate viene accentrata nella proprietà di una stessa persona, e per tal modo si riproduce, in una forma capitalista e senza violare punto la specializzazione delle industrie imposta dalla tecnica più progredita, la unità economica della primitiva produzione domestica.
Voi pensate forse che queste considerazioni tecnologiche siano esposte dal Lafargue soltanto allo scopo di illuminarci sulla struttura dell'industria moderna, o di riparare alla nostra deplorevole ignoranza intorno a sì vitale argomento. Lasciate le ingenue illusioni. Vi ha ora a raccogliere il frutto dell'indagine laboriosa, v'ha la perorazione del discorso che dobbiamo ancora ascoltare. Questa concentrazione progressiva delle industrie sotto il controllo di pochi magnati del capitale, questa tendenza progressivamente accentrante dell'industria moderna, non fa che spianare la via alla conclusione, cui l'autore vuol pervenire. E la conclusione voi già la presentite, voi non ignorate quale essa debba suonare sul labbro al genero di Carlo Marx; e non vi sorprenderete perciò se la ispirazione del gran pensatore traspare evidente nelle ultime pagine del libri. Quanto più, aveva detto Marx, si sviluppa l'economia capitalista, tanto più per una parte si accentrano le fortune e si riduce il numeri dei potentati capitalisti, che monopolizzano l'ora presente della evoluzione sociale, tanto più d'altra parte si accresce lo sfruttamento‚ la miseria, la degradazione nelle classi più povere, ma al tempo stesso si fa più compatta la loro associazione, imposta e suggellata dallo stesso organismo tecnico, ormai socializzante il lavoro, e si rende più formidabile la loro resistenza all'impero della proprietà. Ora procedendo questi movimenti antagonista, assottigliandosi vieppiù il vertice della piramide sociale, mentre se ne dilata la base, giunge il momento in cui la massa enorme e disciplinata dei miseri si trova di fronte un piccolo manipoli di milionari, di cui può fare agevolmente giustizia. Allora la proprietà capitalista sarà annientata, gli espropriatori saranno a lor volta espropriati. Come si scorge, è l'antitesi fra una proprietà sempre più individualizzata od accentrata in poche mani, ed un sistema di produzione, il quale socializza sempre più completamente il lavoro — è questa che deve, secondo Marx, addurre le genti nostre alla rivoluzione decisiva e risolvere infine l'antagonismo, eliminare la sopraffazione del capitale.
Ora il Lafargue, seguendo le orme del suocero e duca, ripete questo concetto ormai noto e si attende del pari dalla concentrazione progressiva delle ricchezze la dissoluzione fatale dell'odierna proprietà. Tuttavia può dubitarsi se l'amore figliale e la tradizione domestica non abbian fatto velo all'autore, vietandogli di scorgere le gravi smentite, che la statistica e la storia contemporanea infliggono alla concezione grandiosa di Marx. Invero questa progressiva degradazione delle classi operaie che il Marx presagiva e che sarebbe il fattore più energico della degringοlade finale, sembra essersi, fortunatamente, arrestata ed aver fatto luogo ad un miglioramento, che è, dove più, dove meno sensibile, ma che è incontestabile ovunque. E, cosa singolare! è l'opera stessa del Marx, è la sua influenza per tanti rispetti provvidenziale, che ha contribuito a sgominare la sua teoria, ad arenarne l'esplicazione. Infatti la critica possente, che il gran socialista avea fatto delle condizioni economiche odierne, la sua dipintura dantesca dell'inferno industriale, scossero gli statisti di tutti i paesi civili (fatta eccezione del nostro) e li indussero a provvedimenti rigeneratori delle classi povere, ad un'opera di sapiente legislazione sociale; la quale, arrestando nella sua china sinistra la degradazione del popolo lavoratore, prepari) la elevazione fisica di questo, la sua rinascenza morale ed economica. Perciò il movimento antinomico della società contemporanea verso la estrema ricchezza e la miseria estrema, trovasi, almeno nella seconda sua parte, interrotto ed invertito; di che gli stessi socialisti più intelligenti mostrano avere piena contezza nelle loro recenti pubblicazioni. Ora ammesso questo fatto (il quale perό, affrettiamoci a soggiungerlo, non giustifica punto le illazioni ottimiste che si vollero trarne) nοn soltanto la rivoluzione sociale presagita dal Marx muta sostanzialmente carattere, poichè piuttosto che una disperata rivolta di torme martirizzate e fameliche, diviene la razionale e civile conquista di un popolo intelligente e consapevole de' proprii destini; ma la necessità stessa di quella rivoluzione sembra ecclissarsi e dileguare, poiché cessa l'immiserimento progressivo del lavoratore, ossia la molla precipua che dee provocarla. Se pertanto un socialista de' nostri giorni vοrrà, ripigliare per proprio conto la tesi della inevitabilità della rivoluzione sociale, dovrà tener conto di ben altri elementi, quali sono, a nostro avviso, il lavoro improduttivo, la sua funzione capitalista, la sua necessaria alleanza col salariato, susseguente alla decrescenza progressiva nel reddito della proprietà, e parecchi ancora, ossia dovrà sostanzialmente scostarsi dal modo di argomentare del maestro, mentre, rinserrandosi nel cerchio mistico de' suoi raziocinj, mai non potrà raggiungere la dimostrazione agognata. Così la mutabilità incessante del tessuto economico sfata le più geniali e simmetriche teorie sociali e rende oggi utopistico quell'insieme di dogmi, che ieri pareva riflettere fedelmente la vita e la verità. Triste destino di noi sociologi, di cui l'opera fuggitiva è travolta dall'irrequieto flutto del tempo!
Diman morremo, come jer morirò
Quelli che amammo; via dalle memorie
Via dagli affetti, tenui ombre lievi
Dilegueremo
Ogni grande azione coreografica ha la sua apoteosi; e l'amico Lafargue, dopo aver fatto danzare innanzi ai nostri sguardi istupiditi la comunità di famiglia e quella di villaggio, la proprietà feudale ed il capitale moderno, principi e servi, preti ed ebrei, cortigiane reali e matriarche delle tribù primitive, ci serba ora pour la bonne bouche la grandiosa scena finale. In questa un bel cherubino, portato sull'ali della bellezza, della virtù e dell'amore, si vede salire al cielo fra gli osanna di un popolo libero, felice e rigenerato. Quel bel cherubino — chi di voi non l'ha indovinato? — è il comunismo, il quale è chiamato dai fati a succedere alla proprietà agonizzante e ad assidere, sulla base eterna dell'altruismo e dell'eguaglianza, la redenta umanità. A quelli fra voi che con farisaica impudenza si permettono di dubitar del presagio, il Lafargue risponde che essi son ciechi e sordi, poiché non veggono e non sentono l'impronta ornai essenzialmente comunista dell'ambiente che tutti ci avvolge. Ormai, dice il nostro filosofo, la proprietà collettiva tende da ogni parte a soppiantare la proprietà privata; ben più, tutte le manifestazioni, tutte le esplicazioni della vita perdono grado grado il carattere individualista per assumere una fisonomia recisamente collettivista. Dal club alla biblioteca pubblica, dal restaurant al teatro, dalla scuola alla ferrovia, al tram, al museo, al viaggio collettivo, alla banca, al parlamento, al consesso, può dirsi che ogni manifestazione della vita e della attività umana ha un carattere essenzialmente collettivo. Il comunismo non sarà dunque che la prosecuzione dell'indirizzo moderno, il suo coronamento finale; e ristabilendo quella eguaglianza di condizioni e quella solidarietà universale, che era il pregio più bello delle società primitive, compirà luminosamente il ciclo secolare della storia umana.
A questo punto, in cui si sta per uscire dal terreno compatto dell'indagine positiva e già si varca la soglia fantastica dell'oroscopo più ispirato, confessiamo di sentirci più che mai peritosi e tremanti. L'Apollo delfico non ci ha, disgraziatamente, concessa la dote presaga, nè in noi parla, come nel brillante letterato del socialismo, un dio rivelatore. Della sua profezia possiam dunque appena discorrere in qualità di profani e di scettici, come il neofita cristiano discorreva dei responsi della Pitonessa. Che la società contemporanea tenda o no verso il comunismo, è quanto potranno affermare con conoscenza e competenza solo i nostri nepoti; ma che gli argomenti del Lafargue in proposito, siano piuttosto infermicci è ciò che possiam dire fin d'ora e con noi può affermare ogni lettore spregiudicato. Come mai infatti, dal carattere collettivo che assumono le manifestazioni più esteriori della vita, può trarsi la conclusione che dunque noi si tende al comunismo? Μa allora anche la società romana doveva movere verso il comunismo e con maggior forza e maggior rapidità che la nostra, dacché maggiori e più intensi erano in essa gli elementi sociali o comuni della vita. Allora, una parte cospicua della popolazione riceveva alimento gratuito dallo stato e giochi e terre nelle colonie, che si istituivano ad ogni tratto; allora gran parte del suolo era proprietà dello stato, e la questione circa il possesso di quella era sempre aperta e sempre dibattuta. Eppure, malgrado tutti questi fattori socializzanti, la proprietà romana non riuscì al comunismo; tutt'altro! Ε di più; se l'uomo moderno tollera e consente la socializzazione quando si riferisca agli elementi più esteriori e superficiali della vita, ο quando sia spontanea, può credersi veramente ch'egli si adatterebbe ad una socializzazione che fosse coattiva e che tutte assorbisse fra le sue innumere spire le manifestazioni dell'attività umana? Ma chi non vede che la civiltà stessa, la quale ci rende irrequieti ed insofferenti di dominazione o di freno, renderebbe intollerabile la società comunista e che alla vita collettiva e coatta del nuovo ordinamento molti, e non i più pessimisti soltanto, troverebbero preferibile la morte? Se taluno ciò non comprende, davvero che egli torce lo sguardo per non vedere la vita che lo circonda, davvero che per lui è muta di ammaestramenti la realtà, che gli palpita attorno. Se dovessimo esprimere tutto il nostro pensiero, il quale del resto riflette qui la sincera stima nostra per lo spirito e pel talento del Lafargue, noi giungeremmo ad asserire che egli stesso non crede alla propria tesi e che, fra le linee della elaborata sua dimostrazione, fa capolino il sorriso pirrόniano del dubbio. Si direbbe quasi che ci troviamo dinanzi una sentinella perduta, a cui fu imposta dal comando supremo una consegna e che vuole ad ogni costo adempirla; ma quell'individualismo, che l'autore rinnega, compie su lui medesimo le sue vendette, e la brillante sentinella che l'autorità collettiva costringe ad agire e pensare secondo il verbo della maggioranza, si ribella in cuor suo, o adempie il sui compito in un modo impacciato e malfermo, che ne tradisce la reluttanza interiore.
Invero io non ignoro i successi che in questi ultimi anni han coronato la tesi collettivista in Inghilterra, in quella Inghilterra che era ritemta finora il paese classico dell'individualismo più disfrenato. Di certo; quel popolo così geloso delle franchigie individuali ed insofferente d'ogni ingerenza collettiva, quel popolo che ha combattuto per l'habeas corpus e dal quale sono usciti Adamo Smith ed Erberto Spencer, — vede oggi crescere nel suo seno i campioni del collettivismo più radicale. Ecco infatti l'Hobson, che in un'opera egregia sul capitalismo moderno, esce senza più a proclamare inevitabile il passaggio dall'industria individuale all'impresa collettiva. Come, egli dice, la guerra, che un tempo era compiuta spontaneamente dagli individui, od era una funzione privata, viene dappoi assunta ed organizzata dallo stato, o diviene una funzione sociale, così l'industria, che fu, dai tempi storici lino al giorno d'oggi, un'attribuzione dei singoli, diverrà quindi innanzi una funzione collettiva, di cui i cittadini non saran più che strumenti. Νé con ciό, egli soggiunge, la esplicazione della iniziativa individuale verrà punto a cessare; poichè nell'atto stesso in cui le antiche manifestazioni le verranno precluse, si schiuderanno ad essa più belle e più elevate forme di attività. Come la socializzazione della funzione guerresca non ha annientata la libera iniziativa individuale, ma l'ha indirizzata verso le nuove e pacifiche conquiste del commercio e della produzione, così la socializzazione della funzione industriale non fará che trasformare l'iniziativa individuale, schiudendole nuovo e piú fertile campo. Se infatti l'impresa collettiva potrà vantaggiosamente introdursi nelle industrie meccaniche, le quali esigono un impiego cospicuo di macchine, rimarranno pur sempre retaggio dell'impresa privata quelle industrie più squisite, nelle quali la personalità dell'artefice si trasfonde, a così dire, nel prodotto e lo impronta di un carattere individuale. E poichè, col diffondersi dell'agiatezza per tutti gli strati della società, la ricerca delle merci più squisite si farà sempre maggiore, così l'industria privata coesisterà pur sempre in dimensioni ragguardevoli accanto all'industria collettiva e sarà escluso il pericolo che questa assorba l'intera massa delle forze umane, uccidendo la libera iniziativa dell'uomo; alla quale poi rimarrà sempre schiuso il vastissimo campo delle arti, delle scienze, delle produzioni mentali. Così, se l'individuo sarà assoggettato alla collettività nel procacciamento delle necessità più materiali e volgari della vita, rimarrà però sempre all'indipendenza individuale una zona d'azione più lucente e superiore in quello sviluppo della forza produttiva che non è imposto dalle necessità dell'esistenza, ma è scopo a sè stesso, è, come dice Marx giustamente, il regno della libertà; ed il sacrificio parziale dell'iniziativa umana in alcune sfere della produzione, sarà compensato ad usura dalle nuove e più alte sfere di azione che le verranno ora assegnateI.17.
Tuttavia, qualunque giudizio voglia farsi di queste interessanti considerazioni, niuno potrà contestare ch'esse si ispirano ad una temperanza ben maggiore di quella che non si ravvisi nella tesi del Lafargue; poiché esse, in fin de' conti, concludono ad un collettivismo parziale, non peró alla socializzazione universale della vita, quale il francese vorrebbe. Ed anche gli altri scrittori della Gran Brettagna, che oggi inclinano al collettivismo, si staccano dalla tesi del Lafargue per due riguardi, l'uno qualitativo, l'altro quantitativo. Anzitutto, infatti, gli stessi campioni più ardenti dell'industria collettivista in Inghilterra, i Burns, i Tom Mann, i Keir Hardie ecc., non chieggono la statificaziοne, ma la municipalizzazione dell'industria; ed anzichè uno stato manifattore, un Briareo amministrativo che manipoli le forme più svariate della produzione, essi vagheggiano una moltitudine di comuni industriali, di città imprenditrici. In secondo luogo poi, non è già la totalità delle industrie che gli scrittorì britannici vorrebbero confiscata ed assorbita dai comuni, ma alcune produzioni soltanto. «Io, dice a tale propositi un economista inglese non volgare, il Price, io non credo alla morta e stagnante uniformità di un metodo invariabile di produzione universalmente predominante. Come in passato, così in futuro, vi sarà, a mio avviso, una varietà molteplice di forme industriali. Μa io penso che vi ha più di un indizio, che l'individualismo estremo, il quale fu non senza esagerazione attribuito alla organizzaziοne economica della prima metà del nostro secolo, vada cedendo a poco a peco ad influenze collettiviste. Ιo credo che i metodi dell'azione collettiva, sia poi dello stato, o delle corpοrazioni od associazioni private, debbano conquistare un posto più vasto e più esplicitamente riconosciuto nella economia futura della società, di quello che non abbian fatto nel passato immediato. Νé m'impaura tale tendenza, poiché son d'avviso che i suoi avversari, come i suoi difensori, ne abbiano esagerate le proporzioni e gli intenti.»
Μa lasciando ogni ulteriore riflesso intorno ad una questione, che è tuttora sub judice, e che l'avvenire soltanto potrà adeguatamente risolvere, e limitandoci a considerare il libro del Lafargue nella sua parte storica e positiva, noi non possiamo altrimenti riassumere il nostro giudizio sovr'esso, che dicendolo un interessante saggio di arte socialista, una pittura a tinte meditatamente artefatte, che serba i tocchi più delicati per la comunità primitiva e per la proprietà feudale e prodiga le tinte più nere alla società capitalista moderna. V'ha, evidentemente, in tutto ciό del partito preso; v'ha evidentemente il voluto silenzio rimpetto alle esorbitanze della società feudale, che niuno di noi al certo preferirebbe alla società borghese: niuno di noi e meno che tutti il Lafargue, il quale sotto la tirannide feudataria non avrebbe mai osato pubblicare il suo libro, od osandolo avrebbe incontrato il supplizio. Disgraziatamente è così; anche la storia, la quale parrebbe dovesse essere l'asilo supremo della imparzialità scientifica e della serenità obiettiva, è oggi divenuta il campo di battaglia delle passioni e dei partiti, l'arena in cui si scatenano tutte le furie degli interessi privati o di classe; cosicchè abbiamo oggi una storia aristocratica ed una storia democratica, e vediamo azzuffarsi fra loro, a colpi di citazioni formidabili e di in-folio micidiali, i Senofonti legittimisti ed i Taciti petrolieri. Ora fra questi Taciti della rivoluzione sociale un posto segnalato è dovuto indubbiamente al Lafargue e il suo libro per quanto viziato dal pregiudizio e dallo spirito tendenzioso, potrà leggersi pur sempre con frutto. Esso gioverà, non foss'altrο, come antidoto alle falsificazioni sistematiche sciorinate con opposti intenti dai portavoce dell'aristocrazia, delle quali Yves Guyot, nella confutazione premessa all'edizione francese di questo libro, ha dato non è guari così detestabile esempio. All'organismo guasto dall'azione deleteria di un lento veleno giova talora, ed è farmaco prezioso, un altro veleno; e perciò alle generazioni moderne, disorganizzate dal narcotico funesto della storia borghese, noi presentiamo ora l'antidoto della storia socialista, esprimendo l'augurio che dal cozzo dei due massimì sistemi, o dei due massimi errori, si sprigioni un giorno, e sia tosto, la luce serena e redentrice della verità.
I.1. Die Εntstehung der Volksicirthshaft, Tübingen 1893.↩
I.2. WESTERMARCK, Storia del matrimonio umano, trad. it. 1894, 37-38.↩
I.3. Analisi della Ρroprietà Capitalista, Torino 1889, Vol. II, pag. 22 e ss.↩
I.4. POLLOCK, Introduction à l'etude dela science politique, Paris 1893, 431-2.↩
I.5. MAURER, Einleitung in die Geschichte der DorfMark — ecc. Verfassung, München, 1854, pag. 9, 111 ecc.↩
I.6. SIEBER, Studi sulla civiltà economica primitiva, Pietroburgo, 1883, 19.↩
I.7. Si vegga a tale proposito MAINE, Village communities, 1872, 62-4.↩
I.8. (1) KOWALEWSKI, Tableau des origines et de l'évolution de la proprieté, Stockholm 1890, 189-90.↩
I.9. HEARN, The aryan household, Melbourne, 1879,189.↩
I.10. GUIRAUD, Le prοpricté foncière en Grèce jusqu'à la conquête romaine, Paris 1893, 233-4, 58 ecc. GUIRAUD, e come lui POHLΜΑNN, Geschichte des antiken Kommunismus und Sοzialismυs, München 1893, I. 32, 146 ecc. neganο che la proprietà in Grecia fosse, οriginariamente, collettiνa ed affermano che, fin dai primissimi tempi storici, gli averi erano retaggio della famiglia. Ma le reliquie della collettività preistorica sono così evidenti in queste proprietà famigliari, che neppure tutti gli arzigogoli professorali riescono a cancellarle.↩
I.11. SEEBOHM, The english village community, Lοndοn, 1884, pag. 423.↩
I.12. VINOGRADOFF, Villainage in England, Oxford 1892, 134 e ss.↩
I.13. Coloro i quali amano attribuire i fenomeni sociali a cause esclusivamente etnografiche spiegheranno la inesistenza della servitù nella Svezia come un prodotto del carattere nazionale, e troveranno a questa tesi una prova nel fatto che la Nuova Svezia, la colonia fondata in America dagli Svedesi, non conobbe mai la servitù. Ma ciò è dovuto semplicemente al fatto accidentale, che quelle stesse condizioni di sterilità del terreno, che avevano reso impossibile la servitù nella madre-patria, si ritrovavano del pari nella sua colonia.↩
I.14. Vedi la nostra Teoria economica della costituzione politica, Torino 1886, e già un passo delle Lezioni del FERRARA, 1857, ΙΙ, 13.↩
I.15. KAUTSKI, Thomas More und seine Utopie, Stuttgart, 1890, p. 56.↩
I.16. “Senza tener conto dei servigj prestati in natura, il servo francese doveva pagare le dimes tailles, capitations, ringtièmes, e le centièmes, corvées, aides, gabelles, ecc. Se vοleνα νendere sul mercato i prodotti del suo lavoro, doveva pagare i diritti di mésurage, pίquetage, minage, sterlage. palette, ecuellee,pied fourchu. angayage éprouvαge, e étalage”. Α. ΝEYMARCH, nel Journal de la societé de statistiqιιe de Paris, Marzo 1889.↩
I.17. HOBSON, Τhe evolution of mοdern capitalism, London 1894, 364 e ss.↩
Che senso ha, oggi, rileggere Paul Lafargue? La domanda, al di là di ogni valutazione della sua "Origine della proprietà", qui riproposta, investe, più in generale, il problema del personaggio Lafargue e della sua collocazione nella cultura dell'epoca.
Liquidato per lo più sbrigativamente, nelle sue non molte biografie, come membro della I Internazionale, promotore - con J. Guesde - del partito operaio francese, genero di Marx e divulgatore delle sue opere, Paul Lafargue è, in realtà, personaggio intellettualmente non privo di interesse e di una certa autonomia: come, del resto, mostrano chiaramente le sue numerose ed eterogenee opere.
Νato a Santiago di Cuba nel 1842 da famiglia etnicamente composita (il nonno paterno, francese, aveva sposato una mulatta; la nonna materna era caraibica; la madre di origine francese ed ebraica) visse a Cuba fino al 1851, quando tornò in Francia con la famiglia e, terminati gli studi liceali, si iscrisse alla facoltà di Medicina di Parigi. Nel 1865, a Londra, incontrò Karl Marx, che in una lettera del 7 giugno 1866 ne parla a Engels come di un "allieνο di Proudhon"II.1. E proudhoniano, infatti, Lafargue in quegli anni si professava, come dimostra un articolo pubblicato il 22 aprile 1866 su "La rive gauche", che attribuiva a Proudhon "l'onore e l'iniziativa di aver liberato la morale e la scienza economica da ogni elemento soprannaturale"II.2.
Ma l'incontro con Marx era destinato a influenzare in modo determinante il giovane Lafargue. Ammesso, come altri giovani, a frequentare casa Marx, Lafargue ascolta, discute, apprende da Marx i fondamenti dell'economia. E assiduamente corteggia, nel frattempo, la giovane Laura, appena diciottenne, dapprima indifferente alle profferte d'amore del romantico cubano (che cadrà in una disperazione così cupa da far temere per la sua vita), ma successivamente coinvolta dalle sue stravaganze e dalla sua esuberanza fino ad accettarne la proposta di matrimonio. Il 2 aprile 1866 Lafargue diventa così genero di Marx. Ma è giusto, per questo, considerarlo solo come un personaggio intellettualmente subalterno al grande suocero?
Certamente, Lafargue sarà uno tra i discepoli che contribuiranno maggiormente alla diffusione delle opere di Marx: ma identificarlo in questo ruolo sarebbe sbagliato, posto che, senza alcun dubbio, quale che sia il giudizio che se ne voglia dare, le sue opere rivelano aperture e curiοsità intellettuali forse confuse e superficiali, ma certamente assai più vaste di quelle di un semplice "divulgatore".
Versatile e appassionato, Lafargue unì, nel corso della sua lunga vita, un'intensa attività intellettuale a un impegno politico militante, che lo portò a partecipare personalmente alla lotta operaia, e a sostenerne la causa anche con i fatti. Ecco perché, più di una volta, egli fu accusato, imprigionato e processato: come accadde nel 1885, ad esempio, quando - per aver difeso i muratori in sciopero a Decazeville, che avevano letteralmente defenestrato una dei tecnici addetti al loro controllo - fu accusato di istigazione all'omicidio e di pillage, incarcerato, e liberato solo nel settembre del 1886.
Ma le vicende tutt'altro che facili della sua vita non solo non indebolirono la sua vis polemica, ma alimentarono la sua continua e provocatoria attività di pamphlettistaII.3. Perché tale fu, in primo luogo Paul Lafargue: un giornalista attento soprattutto agli avvenimenti politici; ma non solo a quelli. Un intellettuale militante, insomma, curioso di ogni fatto culturale e attento a cogliere ogni aspetto della realtà in cui viveva per interpretarla, dopo l'incontro con Marx (con tutti i limiti che ne derivano: forse troppo facili a cogliersi, oggi, ma in ogni caso evidentissimi) in chiave marxista. Ma sempre, questo va detto, con uno stile molto personale: lo stile che caratterizza - del resto - anche un'opera come L'origine della proprietà, certamente la meno adatta, come tema, alle divagazioni, alle ironie, alle citazioni più disparate, alli inesauribile vene del nostro personaggio.
Cimentandosi con questo tema classico del marxismo, e iscrivendo la storia della proprietà in uno schema evoluzionista e unilaterale, Lafargue prospetta dunque l'ipotesi che la proprietà, da comune, come sarebbe stata alle origini, sia diventata nell'ordine familiare, feudale e borghese (tappe, queste, ovviamente già percorse dalla storia): per tornare finalmente, con il comunismo, ad essere di nuovo, e indefinitamente, proprietà collettiva.
Addentrarsi in una critica di Lafargue storico sarebbe, oggi, troppo facile: né, del resto, avrebbe molto senso. In primo luogo perché Lafargue storico non era, e valutarlo come tale (vale a dire mettere in luce il suo schematismo, le sue lacune, i suoi errori) vorrebbe dire cogliere un aspetto secondario dell'opera: che, in questo caso, è certamente opera di divulgazione. E che in quanto tale, quindi, deve essere valutata: per il contributo che diede alla rottura di un'ideologia e del tutto indipendentemente dalla sua attendibilità storiografica.
Ma L'origine della prοprietà, come si è detto, non è certamente l'opera più adatta a rendere conto del personaggio Lafargue, della sua inesauribile curiosità, della indiscutibile piacevolezza del suo stile, caratterizzato, oltre che dalla violenza polemica, da uno straordinario gusto del paradosso: di cui è testimonianza tra le migliori l'opera cui egli deve la sua celebrità, vale a dire il celebre Diritto all'ozioII.4.
I socialisti rivendicano il diritto al lavoro? Lafargue capovolge il problema: gli operai lavorano tredici-quattordici ore al giorno, gli impiegati arrivanο a sedici-diciassette. Distrutti dalla fatica, abbrutiti, essi dovrebbero rivendicare, piuttosto, il diritto di oziare. Ma "una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui domina la civiltà capitalistica ... questa follia è l'amore del lavoro, la passiοne esiziale del lavoro, spinta sino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie". Ben diversa era la situazione in altri tempi: "I Greci, nell'epoca del loro splendore, non avevanο che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso di lavorare: l'uomo libero conosceva esclusivamente gli esercizi ginnici e i giochi dellο spirito ... I filosofi dell'Antichità insegnavano il disprezzo del lavoro, questa degradazione dell'uomo libero". Ma il proletariato "tradendo i suoi istinti, misconoscendo la sua missione storica, si è lasciato pervertire dal dogma del lavoro. Il suo castigo è stato terribile e tremendo. Tutte le miserie individuali e sociali sono nate dalla sua passione per il lavoro".
L'esaltazione dell'ozio ("diamoci all'ozio in ogni cosa, fuorché nell'amοre e nel bere, fuorché nell'oziare", è la citazione, da Lessing, premessa al pamphlet) è dunque inserita da Lafargue in una contrapposizione (di cui è superfluo sottolineare lo schematismo) tra una concezione pagana della vita come godimento, e un'ideologia cristiana utilizzata dal capitalismo, secondo la quale l'uomo è fatto per soffrire: concezione, ahimè, fatta propria dagli operai.
Ed ecco questi ultimi che "se appena si presenta un'occasione di lavoro, ci si buttano sopra, eccoli reclamare dodici, quattordici ore di fatica per sentirsi sazi". Con quali conseguenze? La disoccupazione: "ogni anno, in tutte le industrie, la disoccupazione torna con la regolarità delle stagioni. Al superlavoro micidiale per l'organismo fa seguito il riposo assoluto, per due mesi o quattro; e niente lavoro, niente pietanza... Istupiditi dal loro vizio, gli operai non hanno saputo capire che, per avere lavoro per tutti, occorreva razionarlo come l'acqua su una nave in difficoltà". Ecco dunque la soluzione: la riduzione dell'orario di lavoro. Al di là del paradosso, quel che Lafargue rivendica per gli operai, dunque, è il diritto al tempo libero, nella duplice prospettiva di un'umanizzazione delle condizioni di vita, e di rimedio contro la sovraproduzione e la disoccupazione. Che poi, dall'accoglimento della sua proposta, egli si aspetti conseguenze alquanto utopiche ("la borghesia, esonerata dal suo compito di consumatore universale, si affretterà a licenziare la massa di soldati, magistrati parrucchieri, ruffiani, ecc., da lei tolti al lavoro utile, perché l'aiutassero a consumare e a dilapidare") è altra cosa - espressione di una indiscutibile ingenuità dell'uomo - che nulla toglie, tuttavia, all'intelligenza di aver colto il problema e di averlo prospettato in una fοrma di grande piacevolezza e leggibilità.
Ma veniamo all'altra caratteristica dello stile di Lafargue: la violenza polemica, di cui è testimonianza - anch'essa non priva di spunti di notevole divertimento - il "necrologio" scritto nel 1885, nel carcere di Saint Pelagie, alla notizia della morte di Victor HugoII.5.
Da oggi - scrive Lafargue - Victor Hugo appartiene alla storia. Dopo il colpo di stato del 1852, la leggenda si era impadronita di lui. Durante l'Impero, non lo si poteva attaccare nell'interesse della propaganda bonapartista e repubblicana. Dopo, egli era un vecchio, che bisognava rispettare. Ma ora egli riposa al Pantheon, e la critica riacquista i suoi diritti: e può dire, finalmente, che "ainsi que l'on se nourrit de pain et de viande, Hugo se repait d'Ηumanité et Fraternité". Victor Hugo, "le trepied de Dieu", è stato il tamburo di una classe, il cantore ufficiale di un regime che nascondeva lo sfruttamento sotto i paludamenti dì una retorica umanitaria.
Questo, in sintesi, il contenuto del necrologio, il cui stile scorrevole nella forma e aspro nel contenuto torna in molte altre opere, al di là della varietà degli argomenti. E gli argomenti trattati da Lafargue, come già detto, furono i più vari: tra il 1885 e il 1886, egli si occupò di linguistica, con l'obiettivo di leggere i rapporti sociali attraverso le variazioni del linguaggio. In polemica con la scuola indoeuropea, secondo la quale le analogie nell'evoluzione delle lingue erano la conseguenza di una unità primitiva, e svelavano la derivazione di tutte le lingue da un centro unico, dal quale esse si sarebbero diffuse, Lafargue sosteneva che non esisteva una lingua madre. La lingua - egli diceva - dipende dallo sviluppo delle forze produttive, e le analogie riflettono l'esistenza di condizioni economiche e sociali simili tra loro II.6.
In un'analoga prospettiva si pongono gli studi sul folklore: esprimendo il sentimento popolare, anche il folklore svela la realtà dei rapporti sociali.
"Les chansons et les ceremonies populaires du mariage", pubblicato sulla "Nouvelle revue" senza firma nell'86II.7, affronta un tema caro a Lafargue. Il matrimonio, egli scrive, si propone come istituto volto ad assicurare alla donna rispetto e sicurezza. Non è vero: il matrimonio rende la donna schiava. Le canzoni popolari ne sono la prova più evidente: il popolo, che con esse si esprime, ben sa quello che la donna deve aspettarsi dal matrimonio.
"La poesie populaire ... née on ne sait οù, recueillie et trasmise oralement, est l'expression fidèle, naive, spontanée de l'ame populaire, la confidente de ses joies et de ses douleurs, le compendium de sa science, de sa théogοnie et de sa cosmographie".
"La poesie chantée est l'unique moyen que connaissent et qu'emploient les peuples sans cultures pour préserver les resultats de leur experience quotidienne et à fin de les mieux graver dans la mémoire, ils accompagnent leurs chants de mouvements rythmiques du corps, de la danse"II.8.
Certo la prospettiva nella quale oggi si guarda al ruolo della poesia nelle società preletterarie è cambiata. Diversa è infatti, in queste società, la funzione della canzone popolare e quella della poesia epica, che Lafargue (parlando ad esempio dei poemi omerici, e in particolare dell'Iliade) interpreta, non diversamente dalle canzoni, come creazione ed espressione dei sentimenti popolari. La poesia epica, infatti, è lo strumento della conservazione di un ordine che, in mancanza della scrittura, affida la trasmissione delle sue regole alla parola dei cantori: aedi e rapsodi, che per generazioni ripetono i loro racconti, modificandone talvolta la trama, entro certi limiti; ma, all'interno di questa, ripetono parole o frasi che trasmettono un messaggio immutato, propagandando i valori della classe dominante e riproponendo agli ascoltatori una serie di modelli di comportamento aristocratici, che il popolo impara a considerare vincolanti II.9. Ma, di nuovo, al di là di ogni riserva nel merito, va anche qui rilevata levata la sensibilità di Lafargue a un problema che esorbita dal campo dì interesse di un semplice divulgatore di Marx. E non è tutto: fra gli interessi di Lafargue sta, infatti, anche la critica letteraria: e un interesse particolare, all'interno di questo tipo di produzione, sembra meriti la recensione al romanzo Sapho, di Alphonse Daudet, apparso nel 1884II.10.
Sapho è una cortigiana che, innamoratasi di un giovane borghese, rifiuta il suo danaro, gli facilita la vita, lo accudisce e lo ama, insomma, fino al momento in cui il giovane entra nella carriera ufficiale: e a questo punto sparisce spontaneamente senza neppure dargli il fastidio di abbandonarla, senza chiedergli nulla, neppure un po' di riconoscenza.
La storia di Sapho fornisce a Lafargue il pretesto per una spietata analisi del borghese francese: "le bourjois francais est un être raisonnable, qui ne se laisse entraîner par la passion que rarement; il se rane, la trentaine passée, pour faire une fin, selon son expression, à moins que, par hasard, il ne rencontre plus tôt une dot appetissante, une bonne affaire d'argent: alors il sacrifie sa jeunesse à sa ferme..." Ben diversi erano gli uomini solo un secolo prima!
Des Gieux, innamorato di Manon Lescaut, sperperava il suo patrimonio, sfidava le convenzioni sociali, e alla sua amata chiedeva solo amore. Ma un borghese non farebbe mai una cosa simile: "le bourjois est un anima! si egoiste, qu'il ne peut meme supposer qu'on puisse attendre de lui une action qui serait contrarre a ses interets". Che dire del romanzo di Alphonse Daudet, a questo punto? Che il suo 'eroe, il giovane Gaussiń, ha trovato quanto di meglio un giovane borghese può aspettarsi dalla vita: la cortigiana generosa, innamorata, consapevole delle regole del gioco al punto da vincere i suoi sentimenti: e per di più gratuita. L'errore di Sapho è stato gravissimo: dandosi per amore, ha perso il privilegio che il capitalismo accorda alle cortigiane. Ma per completare il discorso di Lafargue, è necessario integrare le sue considerazioni su Sapho con la parte de La religion du capital (1887)II.11 chiamata Le Sermon de la courtisane.
La cortigiana, scrive qui Lafargue, è "la parure de la civilisation capitalistique" è "un des moteurs du Dieu Capital". Essa, infatti, vende l'amore, e con questo dà valore al sesso. Ma poiché l'amore non esiste come merce, essa vende una merce inesistente. E il Dio Capitale, per cui furto e falsificazione sono le prime virtù teologali, la benedice per questo, rendendola partecipe della sua divinità: la cortigiana incarna Dio. Essa si contrappone, quindi, sia alla prostituta, che il Dio capitale maledice, giungendo a sottometterla all'ispezione corporale della polizia, come la carne venduta nei mercati, sia alla moglie, che pur onorando a parole, tutti lasciano sola: la moglie che, del resto, genera e sviluppa nell'uomo la gelosia, questa passione antisociale, che rinchiude l'uomo nel giogo della famiglia e dell'amour passion, questo sentimento che sconvolge il cervello, che spinge l'uomo a sacrificare i suoi interessi. Ma la cortigiana risolve ogni problema, sostituendo l'amore con la facile e borghese galanteria venale "qui petille comme l'eau de selz et n'enivre pas" (p. 85). Per questo il Dio Capitale la mette al riparo dalle debolezze del suo sesso. La natura matrigna condanna le donne alla fatica della riproduzione: ma alla cortigiana fa il dono della sterilità. Solo mogli e amanti devono implorare la vergine "o vergine santa, che hai concepito senza peccare, fammi peccare senza concepire": la cortigiana appartiene al terzo sessoII.12.
Come sempre, il discorso di Lafargue è "ad effetto", e come tale tutt'altro che esente da vistose contraddizioni: forse che la prostituta, ad esempio, non vende anch'essa amore? E allora perché il Capitale la maledice? Perché la moglie, questo oggetto di un pericoloso e antisociale sentimento, viene abbandonata alla sua solitudine? Perché, soprattutto, legare la posizione di privilegio delle cortigiane al capitalismo? Forse che esse non hanno avuto un ruolo e una dignità sociale notevole, oltre che una libertà inimmaginabile per le mogli (basta pensare alle etere greche) in società completamente diverse? Ma non è certo la coerenza o il rigore storico quel che rende interessante Lafargue in genere e, più specificamente, Il Sermone delle cortigiane: dal quale - piuttosto - emerge una volta di più una singolare sensibilità ai problemi della condizione femminile. E non sarà un caso - quindi - se, sulla scia dell'interesse suscitato dalla pubblicazione del Mutterecht di Bachofen (1861), Lafargue affronterà a sua volta il problema del matriarcato.
Lo storico svizzero aveva sostenuto che il patriarcato non era stata la forma originaria dell'organizzazione familiare. Preceduta da una fase di promiscuità sessuale, era esistita presso tutti i popoli, prima del dominio paterno, una fase matriarcale. L'ipotesi (provvidenziale per chi, come i marxisti, sosteneva la transitorietà della famiglia borghese, destinata a sparire con l'avvento del comunismo) era stata accolta da Engels ne L'origine della proprietàII.13: e fu ripresa anche da Lafargue, in una chiave che - bisogna dire - Bachofen non avrebbe probabilmente condivisi. Ma dilungarsi sui motivi di quest'affermazione ci porterebbe fuori argomentoII.14.
Il contributo di Lafargue al dibattito sul tema va segnalato perché costituisce un ulteriore conferma della sua sensibilità ai problemi della famiglia e dello sfruttamento della donna: testimonianza, anche questa, della sua attenzione agli aspetti "sovrastrutturali" del problema sociale, ma forse, al tempo stesso, segno tra i più evidenti della complessità e anche della contraddittorietà del personaggio.
La notte del 26 novembre 1911, infatti, Lafargue si diede la morte: e con lui morì, in circostanze oscure, anche la moglie.
Ebbene: quel che Lafargue pensasse del suicidio risulta abbastanza chiaramente dalle sue opere: nel "Diritto all'ozio", ad esempio, aveva lodato, in una nota (p. 121 n. 3) le popolazioni "primitive" che, uccidendo vecchi e malati, li liberavano da una vita senza gioie o dalla tristezza della vecchiaia. Ε quel che da questa nota si può intuire circa le ragioni del suo suicidio è confermato dal suo testamento spirituale: "Sano di corpo e di mente, mi uccido, prima che una vecchiaia impietosa, che mi tolse ad uno a uno i piaceri e le gioie dell'esistenza e che mi spogliò delle risorse fisiche e intellettuali, non paralizzi la mia energia e non spezzi la mia volontà, facendomi diventare un peso per me stesso e per gli altri. Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settant'anni: ho fissato la stagione dell'anno per il mio distacco dalla vita, e ho preparato il sistema per mettere in pratica la mia decisione: una iniezione ipodermica di acido cianidrico. Muoio con la suprema gioia della certezza che, in un prossimo futuro, la causa alla quale mi sono votato da quarantacinque anni trionferà. Viva il Comunismo. Viva il socialismo internazionale!"II.15.
Le motivazioni del gesto di Lafargue, dunque, sono chiarissime. Ma accanto a lui, la mattina del 27 novembre, fu rinvenuto il cadavere di Laura, seduta in poltrona, nella camera vicina a quella del marito, trovato nel suo letto. Quel che successe durante la notte tra il 26 e il 27 novembre, ovviamente, non sapremo mai: Laura discusse col marito, cercò di dissuaderlo dal suo proposito, e solo dopo essersi scontrata con la sua irremοvibilità decise di condividere la sua sorte? Oppure, lungi dal contrastarlo, aveva maturato con lui la decisione? Se così fu, va detto - quantomeno - che i tempi furono stabiliti dal marito anche per lei, posto che se Lafargue aveva circa settant'anni, al momento del suicidio (il tempo stabilito, appunto), Laura ne aveva circa dieci di meno. Dettagli, si potrà dire. Ma che rivelano un'abnegazione che, comunque si siano svolti i fatti, avrebbe meritato quantomeno un riconoscimento da parte di Paul, una parola che - nel testamento - alludesse alla decisione più o meno spontanea della moglie. Né la cosa cambia se Laura, ipotesi anche questa possibile, si diede la morte da sola, presa dalla disperazione dopo il suicidio del marito: anche per la moglie di chi aveva tante volte e con tanta passione denunciato l'oppressione della donna nella famiglia borghese, il matrimonio era stata una situazione di vita quantomeno pesantemente condizionata.
II.1. In una lettera dello stesso periodo alla figlia Laura, Marx scriveva: "Questo maledetto Lafargue mi annoia col suo poudhonismo e certamente non mi lascerà tranquillo finché non gli avrò rotto quella sua testa di creolo" (citata in M. DOMMANGET, Introduzione a P. Lafargue, Il diritto all'ozio, Milano 1982 (I ed. fr. 1969), p. 11.↩
II.2. Sempre su "La rive gauche", il 1.7.1866, Lafargue parlerà delle sue letture formative, citando tra gli altri, accanto a Proudhon, Fourier, Saint-Simon, Darwin e Comte.↩
II.3. Alle peripezie giudiziarie vanno aggiunte, tutt'altro che irrilevanti, le difficoltà economiche, che indussero Laura a dare lezioni private, peraltro insufficienti a risolvere il problema; e che i coniugi Lafargue, dopo che Paul aveva smesso di esercitare la professione medica e aperto uno studio di fotolitografia e incisione, riuscirono a superare solo con il contributo determinante di Engels.↩
II.4. Le citazioni dall'opera, che seguono, sono tratte dalle traduzioni ital. di R. Rinaldi, Milano, 1971, citata alla nota 1.↩
II.5. Non avendo trovato editori, per alcuni anni, il "necrologio" fu pubblicato sulla "Revue Socialiste" solo nel 1891, e quindi, col titolo "La legende de Victor Hugo" inserito in P. LAFARGUE, Critiques litteraires, introd. di J. Freville, Paris 1936, p. 121 ss.↩
II.6. Gli studi linguistici sono ora raccolti in MARX-ENGELS-LAFARGUE-STALIN, Marxisme et linguistique, Paris 1977.↩
II.7. E poi in Critiques litteraires, cit., p. 1 ss.↩
II.8. Critiques litteraires, cit., p. 2.↩
II.9. Si veda, ad esempio, il recentissimo Dike, la nascita della coscienza, di E.A. Havelock, Bari 1982, che, partendo dall'esperienza greca, esamina il problema della trasmissione della cultura in tutte le società preletterate.↩
II.10. La critica fu pubblicata senza firma su "Le Socialiste. Journal du parti ouvrier franςais", il 9.1.1886, ed è ora in Critique litteraires, cit.↩
II.11. In Ρ. LAFARGUE, Pamphlets socialistes, Paris 1900.↩
II.12. In una nota al "Sermone" Lafargue specifica che i suoi redattori si sono ispirati a Comte, che predicava una razza di donne superiori libere dalla maternità: la cortigiana, egli osserva, realizza dunque l'ideale del filosofo borghese.↩
II.13. Cfr., in particolare, la Prefazione alla 4ª edizione dell'opera.↩
II.14. Basterà ricordare, qui, che Bachofen attribuiva un ruolo fondamentale alla religione, considerandola "l'unica, la potente leva di ogni civilizzazione" (così nell'Intrοduziοne al Mutterrecht): e quanto questo fosse in contrasto con le idee di Lafargue è superfluo osservare. Lafargue, in altri termini, colse un aspetto del Mutterrecht ignorandone altri, non meno importanti per comprendere il senso complessivo dell'opera. Ma sul problema (così cόme sulle `letture' di destra di Bachofen: (Baümler in Germania ed Evola in Italia) vedi più a lungo la mia presentazione di JJ. Bachofen, Introduzione al diritto materno, Roma 1983, p. 7 sgg.↩
II.15. Pubblicato su "Le socialiste", 3-10 dicembre 1911.↩
1. L'opera più nota di Paul Lafargue, Il diritto all'ozio, ha avuto larghissima diffusione e vasta fortuna soprattutto in tempi meno recenti, al punto che nella cultura non specialistica il nome dell'autore quasi si confonde con il titolo iconoclastico del suo famoso pamphletIII.1. Ma il successo di quel lavoro, testimoniato dal giudizio entusiastico che ne ebbero molti autori di prestigio, fra cui KautskyIII.2, non ha certo attirato su Lafargue quell'attenzione che egli avrebbe meritato, soprattutto in chiave storica se si considera che l'autore, genero di Marx, fu un diretto e quasi ineguagliabile testimone del travaglio stesso del grande suocero. Al contrario Lafargue è rimasto quasi ai margini della cultura marxista. Persino la grande stagione marxista degli ultimi due decenni, durante la quale Marx e la sua Aftermath - per usare le parole di Popper - sono stati un punto obbligato di riferimento di ogni dibattito culturale, ha trascurato questo autore, come nota Franco Andreucci, quasi con sorpresa, nel suo contributo alla Storia del marxismo nell'età della Seconda InternazionaleIII.3. Le poche, recenti edizioni delle opere di Lafargue sono state sommerse dalla valanga di carta stampata, non sempre selezionata, che del marxismo ci ha proposto tutte le voci, tutte le possibili interpretazioni, tutti gli "incroci" più o meno arditi con le tendenze, recenti e meno recenti, della filosofia, della sociologia, dell'economia politica contemporanee.
Una ragione di questo relativo oblio va cercata, senza dubbio, nella fama non del tutto lusinghiera dell'autore, visto consuetamente come un puro volgarizzatore di Marx e di Engels. Rodolfo Mondolfo dice addirittura "grossolano volgarizzatore", "esageratore talvolta grottesco nella sua banalità", accusando lui ed altri autori come Plechanov di aver "ritenuto quasi dovere di coscienza dichiararsi seguaci del materialismo metafisico"III.4. Un giudizio severo, cui non possono mancare - se si considera la scrupolosità di chi lo esprime - dei fondamenti almeno apparenti.
Su Lafargue pesa, in certo modo, la sua stessa consuetudine con Marx, tanto più che lo stesso Marx, per vario tempo almeno, non lo ebbe in grande stima non condividendone alcune ambiguità culturali derivanti dalla primitiva, acritica adesione alle tesi di ProudhonIII.5. Lo stile dell'autore, poi, a metà fra l'impetuoso e il satirico, non privo di qualche frivolezza, se rivela acutezza d'ingegno, può senz'altro ingenerare un sospetto di superficialità, anche perché è facile scambiare con la superficialità la semplicità divulgativa.
Eppure Lafargue, riletto a mente fredda, senza guide ideologiche vincolanti, presenta aspetti di autentico interesse. Credo che tali aspetti siano stati sinora, forse, trascurati e che invece giovi metterli in luce, per due sostanziali ragioni. La prima risiede nel fatto che alcune impostazioni, alcuni accenti di Lafargue, si pongono in contraddizione con l'immagine che più consuetamente si ha della metodologia marxiana e marxista. La seconda ragione dipende dal fatto che Lafargue, più esplicitamente di Marx e dello stesso Engels, ha cercato di indagare sul futuro e di dare concretezza all'utopia marxiana della società senza proprietà e senza classi, così che le sue analisi si prestano a comparazioni con le condizioni concrete di oggi, con un futuro già realizzato o, quanto meno, in corso di realizzazione.
2. Dei presupposti epistemologici e metodologici del marxismo si è discusso tanto a lungo, che muove quasi a tedio ritornare sull'argomento. A parte la dominante interpretazione storico-materialistica - sovente riproposta badando più a Hegel che a Marx, quasi che la preoccupazione di quest'ultimo non fosse stata il rovesciamento dei termini hegeliani - si è "spiegato" Marx in termini disparati, oscillando da un estremo oggettivismo strutturalistico al soggettivismo fenomenologicoIII.6. Un punto, tuttavia, è quasi sempre rimasto fermo nelle analisi dei filosofi marxisti, la dissociazione assai netta fra marxismo e empirismo. Da questa dissociazione è scaturita la convinzione che i concetti esplicativi adottati da Marx per costruire la sua scienza economica e sociale fossero un prius rispetto alla realtà, a tal punto che si è pervenuti a teorizzare la necessità di piegare l'osservazione empirica alle prioritarie esigenze concettuali.
Emblematica mi è parsa, già da anni, una frase che la recente sociologia inglese, ansiosa di reagire a due secoli di predominio empiristico (benché temperato da altre tendenze sino all'eclettismo), ha ripetuto e ribadito e applicato senza posa: "concrete conditions do not validate concepts, it is the concept which makes possible and validates analyses of the concrete"III.7. In questa prospettiva l'unico sforzo consentito al social scientist è la corretta deduzione da canoni indiscutibili delle conseguenze appropriate nelle singole circostanze. Una metodologia tomistica - potremmo dire - senza giustificazioni ultraterrene per il vincolo di obbedienza. Il vincolo è spiegato in nome della scienza, presumendosi che con Marx la scienza sociale abbia compiuto quella "rivoluzione" che Kuhn avrebbe teorizzato molti decenni dopo la scomparsa di Marx. In una siffatta prospettiva, l'accostamento empirico viene equiparato comunemente all'accostamento metafisico e continuamente accusato di ideologismo: un'accusa che appare quasi ritorsione polemica a quei filosofi empiristi che hanno coscienza dei propri e degli altrui limiti, e che tanto più sembra curiosa provenendo da chi, incessantemente, ha predicato la necessaria politicità della scienza.
Un'asserzione come quella citata, certamente, è estrema nella sua durezza scolastica e, per rimanere nel campo dei pensatori di ispirazione marxista, va oltre Gouldner, Althusser, Adorno nel proclamare che la realtà non soltanto non esiste senza i concetti che la spiegano (su cui, parlando di realtà da conoscere scientificamente, si potrebbe anche convenire), ma addirittura deve piegarsi alle superiori esigenze della purezza concettuale.
Anche senza andare a questi estremi, tuttavia, la reciproca repulsione fra marxismo ed empirismo, sia pure inteso quest'ultimo nelle sue versioni più aggiornate, è un fatto costante. Anche un autore come Rovatti, tanto per fare un significativo esempio italiano, pur così attento nel delineare la sostanza del metodo critico marxiano e nell'affermare che la realtà si coglie sciogliendo il velo ideologico che la ricopre - asserzione che un attento empirista può ben condividere - ammonisce a far sì che "la critica non svanisca in un empiristico e ideologico accertamento dei fatti" e riafferma l'indispensabilità del metodo dialettico per procedere dall'apparenza alla realtàIII.8.
Di un'assoluta incompatibilità fra marxismo ed empirismo, come pure fra marxismo ed altre correnti non hegeliane della filosofia moderna - a partire dall'illuminismo per andare all'utilitarismo e al positivismo - mi sono sempre permesso di dubitare fortemente. Tralascio ora il fatto che accurati studi sullo stesso Marx ne abbiano messo in luce ascendenze diverse da quella hegelianaIII.9. Osservo che la rilettura di Marx ed Engels - ancora, senza precostituite guide ideologiche - porta a vedere questi problemi più elasticamente. Sono precisamente Marx ed Engels, tanto per fare un esempio, che ne L'ideologia tedesca (un testo, quindi, non sospetto neppure per gli assertori della tesi della coupure épistemologique) affermano senza riserve che i presupposti da cui muove la loro analisi e precisamente "gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita... sono dunque constatabili per via puramente empirica"III.10. E osservo anche, per tornare al nostro tema, che dai testi di Lafargue possono trarsi utili indicazioni nello stesso senso.
L'intero discorso di Lafargue, quale viene sviluppandosi nell'opera qui presentata, è improntato ad una metodologia che, se risente indubbiamente di influenze storicistiche addirittura prehegeliane (è noto il continuo riferirsi dell'autore alle tesi di Vico) procede secondo prospettive evoluzionistiche non troppo lontane da quelle delle scuole positivistiche dei suoi tempiIII.11. Νé mi attarderò a dubitare, ancora con spirito ribelle verso le categorizzazioni metodologiche e le opposizioni fra scuole di pensiero, che esista veramente una fondamentale alternativa fra la ricerca "storicistica" di leggi universali e l'identica ricerca, compiuta dai positivisti ottocenteschi spesso con fondamenti empirici, più o meno espliciti e più o meno correttamente applicati. Credo però opportuno segnalare alcune affermazioni di Lafargue, che non compaiono nella Origine ed evoluzione della proprietà, ma non risultano affatto smentite in tale opera che può quindi esser letta, utilmente, tenendole in conto.
Ne Il determinismo economico di Carlo Marx (quell'opera, incidentalmente, che Mondolfo segnala come esempio di pedissequa ripetizione delle tesi marxiane)III.12, Lafargue non soltanto polemizza contro la filosofia idealistica proprio per la sua natura deduttivisticaIII.13, ma fonda l'intera sua analisi su una concezione ipotetica dei concetti cardine impiegati (a partire dalla nozione stessa di "determinismo economico) con espressioni che meritano di essere ricordate. "Il determinismo economico - egli afferma - è un nuovo strumento che Marx ha messo a disposizione dei socialisti per riportare un certo ordine nella confusione di eventi che persino gli storici e i filosofi sono stati incapaci di classificare e ordinare". E, contrastando fortemente il vezzo di criticare Marx attribuendogli la pretesa di aver spiegato la realtà, una volta per tutte, in termini assiomatici, osserva con semplicità: "dopotutto, la verità è solo l'ipotesi che porta ai risultati migliori: spesso l'errore è il cammino più breve verso una scoperta". Ed infatti Marx, egli conclude, "non ha presentato il suo metodo di interpretazione storica come una dottrina dotata di assiomi, teoremi, lemmi e corollari: per lui si tratta soltanto di uno strumento di ricerca, che ha formulato in uno stile lapidario sottoponendolo alla necessaria verifica"III.14.
Non è certo il caso di parlare di inconsapevole prepopperismo di Lafargue: dopo tutto il concetto di trials and errors era già cosa nota nei tempi di cui parliamo, se addirittura gli utopisti avevano simbolizzato il concetto con i segni del loro particolare alfabeto. Lafargue esprime soltanto il ragionevole portato di una cultura diffusa. E se è vero che egli fu soprattutto un volgarizzatore, si vede che la nozione elastica e problematica di ipotesi scientifica era già così diffusa da poter essere volgarizzata.
Questo stesso testo di Lafargue, poi, riserva altre, relative sorprese. Durante una lunga discussione sull'origine delle idee astratte, l'autore insiste - per esempio - sul fatto che "il significato concreto precede sempre il significato astratto"III.15 e conclude le sue osservazioni, dopo aver portato numerosi esempi a sostegno di questa tesi, con le seguenti, semplici parole: "poiché gli oggetti della realtà differiscono fra loro, e dal loro prototipo immaginario, sempre unico e identico a se stesso, Platone ritiene che gli oggetti reali siano immagini vane e menzognere, e che il tipo ideale sia un'entità di creazione divina. In questo caso, come infinite altre volte, Dio creatore è l'uomo pensante"III.16.
Ancora, sarebbe curioso parlare di inconsapevole preweberismo di Lafargue. Tuttavia si è tentati di dire che nihil novi sub sole. E di osservare una qualche sintonia con un'affermazione di Marx che a torto, a parer mio, potrebbe addursi a sostegno della metodologia concettualista e dogmatica sopra ricordata: "in un'indagine di tale specie si deve sempre partire dal presupposto che le cοndiziοni reali corrispondano al loro concetto o, ciò che significa la stessa cosa, che le condizioni reali vengano esposte solo in quanto coincidano con il tipo generale ad esse corrispondente"III.17. Espressione che, mentre correttamente esclude la possibilità di dare spiegazioni scientifiche senza far uso di astrazioni concettuali, non esclude certamente la necessità di riconsiderare eventualmente i concetti alla luce della realtà e di presupporre, se occorre, altri concetti: nient'altro ha fatto, d'altronde, lo stesso Marx sovvertendo i concetti tradizionali dell'economia politica dopo averne svelato, criticamente, l'arbitraria natura ideologica.
Si può andare oltre Marx sulla via dello svelamento? Lafargue sembra rispondere affermativamente, ma a parte la sua opinione specifica - che, provenendo da un "volgarizzatore" non dovrebbe essere troppo lontana da quella dello stesso Marx - tutto sta nel decidere (fideisticamente?) se a partire da Marx debba considerarsi esaurito il metodo critico induttivo e ci si debba rassegnare, per il futuro, al puro dogmatismo interpretativo. Ho seri dubbi che Marx medesimo trarrebbe una simile conclusione.
3. Dicevo sopra che Paul Lafargue ha cercato di indagare sul futuro e di dar corpo all'utopia di Marx ed Engels. Naturalmente non si deve pensare all'autore come a un futurologo nel senso che la parola ha più recentemente acquistato. Come in Marx ed Engels, anche in Lafargue sono poche le pagine direttamente dedicate alla futura società socialista. Tuttavia l'immagine che il nostro autore possiede del futuro è netta e ben delineata, in quanto scaturisce quasi spontaneamente dalla sua visione - a mezzo fra la concezione vichiana e quella positivistica - della storia umana come suddivisa in fasi necessarie.
Secondo le prospettive marx-engelsiane più "pure", tali fasi sono strettamente collegate alle diverse configurazioni della proprietà; e la proprietà, a sua volta, si connette altrettanto strettamente al problema della giustizia, secondo il principio lockiano che "dove non c'è proprietà, non c'è ingiustizia alcuna: è una proposizione certa quanto un teorema di Euclide, essendo l'idea di proprietà un diritto a una cosa, ed essendo l'idea alla quale corrisponde la parola ingiustizia l'invasione o la violazione di questo diritto"III.18.
Partendo da assunzioni di tal fatta, Lafargue costruisce una concezione della storia e del mondo in cui le tematiche sociologico-giuridiche acquistano un rilievo notevole: e d'altronde l'interesse dell'autore per tali aspetti delle relazioni sociali è testimoniato anche da altri lavori più specifici, che non è necessario qui ricordare diffusamente.
Ciò che più importa, è osservare che proprietà e giustizia - come detto - sono inestricabilmente connesse sino a caratterizzare l'intero cammino dell'uomo, che Lafargue descrive circolarmente. Il suo punto di partenza, come in Marx ed Engels, ma come ho detto ancor più esplicitamente che in essi, è il comunismo primitivo, ed il suo punto d'arrivo è nuovamente il comunismo che, classicamente, scaturirà dalla "espropriazione degli espropriatori" da parte delle masse salariate, maggioritarie e rivoluzionarie. Si deve intendere questa visione, a mio avviso, nella forma più semplificata, quella che unisce alla scomparsa della proprietà, delle classi e dello stato anche la scomparsa del diritto, strettamente associato all'idea astratta e caduca di giustizia: né ci si può attendere proprio da Lafargue un'analisi più raffinata che dissoci, per esempio, Marx da Engels secondo l'idea che quest'ultimo abbia semplificato e "volgarizzato" anch'egli le tesi articolate del pensatore di TreviriIII.19.
Ciò detto, sarebbe tuttavia imprudente concludere accusando Lafargue di scarsa originalità.
La lettura delle sue pagine, infatti, induce a moderare non poco questo giudizio che, per quanto riguarda l'Origine ed evoluzione della proprietà, è stato specificamente ripetuto, pur con molti elogi alla brillantezza di stile, da Achille Loria, curatore e introduttore della prima edizione italiana dell'opera nel 1896III.20. Non credo necessario qui, ripercorrere le critiche molto aspre avanzate dal Loria, che non risparmia alcuna, sostanzialmente, delle tesi di Lafargue e che, al di là della confutazione di singoli argomenti, ribadisce di continuo un'accusa fortemente condizionata dalla filosofia e dall'epistemologia del tempo: che Lafargue avrebbe omesso, quasi sempre, di considerare le "cause" che avrebbero provocato la crisi delle varie forme di proprietà e, dopo di essa, il sorgere delle forme susseguentiIII.21. Considerare qui tali critiche sarebbe superfluo (se non dal punto di vista storico) perché, in fin dei conti, tanto Lafargue quanto Loria - e forse il secondo assai più del primo - applicano una nοzione di "causa" che difficilmente potrebbe raccordarsi con quella, mοlto più elastica ed ipotetica, che è in uso presso le scienze umane oggi.
Non è del resto qui, a parer mio, l'interesse che suscita il Lafargue. Νé mi pare centrale l'analisi, pur suggestiva, che Lafargue conduce sulle forme precapitaliste: anche se va messo in rilievo che l'autore, analizzandole secondo prospettive marxiste ancor più accuratamente di Engels, ha aperto una strada che pochi studiosi marxisti hanno seguito nei decenni successiviIII.22.
Ciò che merita attenzione, piuttosto, è proprio l'ultimo anello della catena, cioè la proprietà capitalistica ed in particolare la fase di essa che più si caratterizza per il predominio dell'astrattezza sulla realtá: il capitale finanziario. Lo stesso Loria non può esimersi dall'approvare certi aspetti dell'analisi di Lafargue, soprattutto in tema di concentrazione industriale e di specializzazione del lavoroIII.23. Qui l'acutezza di Lafargue si esprime appieno non soltanto nell'illuminare fenomeni particolari con discreta lungimiranza, ma nel cogliere pianamente alcune tendenze di fondo della società che oggi chiamiamo "postcapitalistica". E se le sue analisi trovano riscontro in alcune, ben note (ma a quel tempo poco discusse) tesi dello stesso Marx, va pur detto che difficilmente esse si trovano espresse con altrettanta chiarezza in altri scrittori socialisti.
Il ragionamento di Lafargue parte dalla constatazione che l'economia capitalistica genera il nucleo della successiva e nuova fase comunistica, non solo perché - secondo l'espressione marxista classica - essa sprigiona le forze sociali che la distruggeranno, ma anche perché la concentrazione dei capitali che è resa necessaria dalla vastità delle imprese e delle iniziative è tale da trascendere le forze del singolo capitalista e da render necessario, oltre le stesse forme associative, l'intervento del governo attraverso, primariamente, il debito pubblico. Questo fenomeno comporta la polverizzazione della proprietà e la perdita stessa del suo senso sociale e giuridico: "la proprietà capitalistica non ha più nessun carattere personale; colui che la possiede non l'ha creata e non l'adopera; egli è, sotto ogni aspetto, estraneo alla sua proprietà" (qui p. 193). Abbiamo così il "collettivismo capitalistico", secondo una formula prossima alle note espressioni marxiane in tema di società per azioni e di cooperativeIII.24. E traiamo così una conferma: che secondo la "pura" analisi marxista, direttamente ispirata all'insegnamento di Marx, le forme economiche tipiche della società tardo-capitalistica non sono elementi spurii e inspiegabili senza ripudiare le premesse di quell'analisi quali sono tradizionalmente intese, ma al contrario fenomeni necessari che al tempo stesso anticipano il futuro comunista e accelerano il processo rivoluzionario. L'idea della separazione fra proprietà e controllo, in altri termini, lungi dall'essere ignota ai pensatori marxisti (ed eventualmente nota in embrione al solo, ultimissimo Marx, come osserva Dahrendorf)III.25, rappresenta un elemento già acquisito ai tempi di Lafargue, cinquant'anni prima di Berle e Means: con l'unica precisazione da fare, che i marxisti, ancor prima di Hilferding e di Sweezy, ne traggono conclusioni opposte a quelle che ne trarranno, in seguito, economisti e sociologi di diversa ispirazione. Ed infatti lo stesso Lafargue osserva: "gli economisti ufficiali sostengono che il dividere i grandi organismi industriali in azioni ed obbligazioni sia un modo di frazionare la proprietà, di democratizzarla. Ma non voglion vedere che questa democratizzazione della proprietà ha reso possibile ai capitalisti di far uscire dalle calze vecchie, dai nascondigli segreti ove il denaro si celava, tutto il capitale monetario, di accumularlo nelle loro mani e di monopolizzarne la gestione, aspettando il momento in cui, coi loro raggiri, potranno rendersene padroni affatto. Con questo sistema sono venute su ai giorni nostri quelle colossali fortune mobiliari che sommano a centinaia ed a migliaia di milioni. Questo modo di frazionare e di spargere la proprietà delle imprese industriali e commerciali fece sì che la massa venne spogliata dei suoi capitali, a profitto di qualche re dell'alta banca"III.26.
La visione della società tardo-capitalistica che trasmuta nel collettivismo e, di qui, nel nuovo comunismo, si collega in Lafargue, ancora classicamente, ma ben chiaramente, al cammino della divisione del lavoro e, molto nettamente, al progresso tecnologico e industriale. Qui il riferimento a Il diritto all'ozio non può essere assolutamente trascurato relegando il pamphlet al ruolo di brillante divertissement che gli è solitamente assegnato. La macchina nella società comunista libera l'uomo dalla schiavitù del lavoro travolgendo la filosofia stessa del lavoro, tanto cara - con orrore di Lafargue - alla classe operaia.
L'idea è stata sempre ritenuta ingenua, benché si debba osservare che proprio nelle società tardo-capitalistiche si sia giunti a teorizzare, sia pure con finalità variabili e sovente opposte, la riduzione dell'orario di lavoro in misura impensabile un secolo fa. E tanto si è teorizzata e praticata questa idea, che addirittura potremmo esser tratti a dire, contro Lafargue, che il diritto all'ozio è una conquista delle società capitalistiche, anziché di quelle socialiste. È quasi superfluo dire che Lafargue, ancora con anticipo rispetto alla Luxemburg o a Sweezy, ha una risposta pronta. Il mondo capitalistico "ozia" in quanto "le nazioni civili dipendono oggidì... anche dai paesi semi-inciviliti, sia per le materie prime e per le derrate, sia per lo smercio dei prodotti" (qui p. 177). Ozia come la minoranza dei capitalisti e dei borghesi oziava giovandosi del lavoro della maggioranza dei salariati "nazionali" ottocenteschi, giacché null'altro che maggioranza salariata e sfruttata è, oggi, la moltitudine degli occupati, dei sottoccupati e dei disoccupati del Terzo Mondo.
Ed in effetti il problema, teoricamente semplicissimo, è sempre questo. Trovarlo espresso nel "volgarizzatore" Lafargue conferma della chiarezza, se non altro, con cui già un secolo fa era stato individuato.
Tutto sta nel chiarire l'estensione della minoranza sfruttatrice e le forme di sfruttamento. Capire se, per avventura, le società "in transizione" (formula con cui spesso, pudicamente, si coprono tralignamenti e protervie delle società "posi-rivoluzionarie") non si colΙochinο sempre più, gradualmente, accanto alle società "borghesi" nell'esercitare lo sfruttamento su scala internazionale. E su questo, sarebbe difficile interrogare Marx, Engels, o anche il nostro Lafargue. Non possiamo chieder loro di "svelare", oltre alle mistificazioni dell'economia "borghese", anche quelle della economia socialista.
III.1. Le droit à la paresse (1880), Maspéro, Paris 1969. Cfr. ira l'edizione italiana (Il diritto all'ozio, Feltrinelli, Milano 1978, 2" ed.) preceduta da un'ampia e utile introduzione di Maurice Dommanget.↩
III.2. V. il riferimento in M. DOMMANGET, Introduzione, cit., p. 31.↩
III.3. F. ANDREUCCI, La diffusione e la volgarizzazione del marxismo, in AA.VV., Storia del marxismo, voi, secondo (Il marxismo nell'età della Seconda Internazionale), Einaudi, Torino 1979, p. 49, nota 29.↩
III.4. R. MONDOLFO, Umanesimo di Marx, Einaudi, Torino 1975 (reprints), p. 97-98.↩
III.5. È ancora M. DOMMANGET (op. cit., p. 11) a citare la seguente espressione di Marx, contenuta in una lettera del 1866 alla figlia Laura, futura moglie di Lafargue: "questo maledetto Lafargue mi annoia col suo proudhonismo e certamente non mi lascerà tranquillo finché non gli avrò rotto quella sua testa di creolo".↩
III.6. Mi riferisco alle tante discussioni insorte soprattutto con riferimento all'interpretazione della famosa (e non pubblicata) Introduzione del 1857 a Perla critica dell'economia politica e sul rapporto fra astratto e concreto nella conoscenza (su cui v. ben diverse soluzioni in G. DELLA VOLPE, Logica come scienza storica, Editori Riuniti, Roma 1969; C. LUPORINΙ, Il circolo concreto-astratto-concreto, "Rinascita" 29.10.1962; M. DAL PRA, La dialettica in Marx, Laterza, Bari 1972; L. ALTHUSSER, Dal "Capitale" alla filosofia di Marx", in L. ALTHUSSER-E. BALIBAR, Leggere il Capitale, Feltrinelli, Milano 1971, p. 47 ss.; P.A. RΟVATTI, Critica e scientificità in Marx, Feltrinelli, Milano 1973).↩
III.7. B. HINDESS-P.Q. HIRST, Pre-capitalist Modes of Production, Routledge and Kegan Paul, London 1975, p. 180.↩
III.8. P. ROVATTI, Critica e scientificità in Marx, cit., p. 138.↩
III.9. R. GUASTINI, Marx: dalla filosofia del diritto alla scienza della società, Il Mulino, Bologna 1975. Questo autore, pur partendo da prospettive strutturaliste althusseriane, mette in luce per esempio, per il primo Marx, le forti influenze giusnaturalistiche presenti nel suo pensiero.↩
III.10. K. MARK-F. ENGELS, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 8.↩
III.11. Si può esser tentati, per esempio, di istituire confronti fra il procedimento di Lafargue e quello di autori positivisti che hanno studiato l'evoluzione delle istituzioni giuridiche (per es. G. D'AGUANNO, La genesi l'evoluzione del diritto civile secondo le risultanze delle scienze antropologiche e storico sociali, Fratelli Bocca, Torino 1890).↩
III.12. R. MONDOLFO, Umanesimo di Marx, cit., p. 97, nota 5.↩
III.13. "La filosofia idealistica ... è una sciagurata applicazione alla storia del metodo deduttivo delle scienze astratte le cui proposizioni, logicamente condizionate, derivano da qualche assioma non dimostrabile, che si impone in forza del principio dell'evidenza" (Le déterminisme écοnοmíque de Karl Marx, V. Giard e E. Βrière, Paris 1909, p. 10: utilizzo qui la trad. it. apparsa con le Edizioni Il Formichiere, Milano 1976, p. 19).↩
III.14. Le déterminisme économíque de Karl Marx, cit., ρ. 3-5 (tr. it. p. 15).↩
III.15. Οp. cit., p. 81 (tr. it. p. 63).↩
III.16. Οp. cit., p. 95 (tr. it. p. 72) (cors. nel testo mio).↩
III.17. K. MARX, Il capitale, libro III, vol. I, Einaudi, Torino 1975, p. 208.↩
III.18. La citazione, tratta dal Saggio sull'intelletto umano, è così ripοrtata ne Le déterminisme écοnοmique de Karl Marx, cit., p. 141 (nota) (tr. it., p. 106).↩
III.19. Mi riferisco alle note tesi di D. ZOLO, La teoria comunista dell'estinzione dello stato, Di Donato, Bari 1974.↩
III.20. È curioso il fatto che Loria abbia introdotto l'opera e addirittura associato il suo nome a quello dell'autore (di continuo a piè di pagina, compare la dicitura: "Loria-Lafargue, Origine ed evoluzione ...") e al tempo stesso assunto un atteggiamento distruttivo, quasi volesse guidare la lettura delle pagine brillanti di Lafargue e ammonire i lettori contro il pericolo di seduzioni.↩
III.21. A. LORIA, Introduzione critica a P. LAFARGUE, Origine ed evoluzione della proprietà, Sandron, Palermo 1896, passim e spec. p. 12, p. 25 ss., p. 35-36.↩
III.22. V. per esempio la scarsa bibliografia sull'argomento riportata in appendice al già citato volume di B. HINDESS-P.Q. HIRST, Pre-capitalist Modes of Production.↩
III.23. A. LORIA, op. cit., p. 38-39.↩
III.24. K. MARX, Il capitale, libro III, vol. I, cap. XXVIII.↩
III.25. P. DAHRENDORF, Classi e conflitto di classe nella società industriale, Laterza, Bari 1970, ρρ. 44 ss., 76 ss.↩
III.26. Queste affermazioni, originariamente scritte ne Le communisme et l'évοlution économique, 1892, sono riprese nell'opera qui presentata, p. 188, nota 25) (il corsivo nel testo mio).↩
Engels, nell'aprile del 1895, nel comunicare a Lafargue di aver ricevuto il suo libro intitolato Origine ed evoluzione della proprietà, appena edito, gli faceva sapere che la sua opera si presentava con uno stile "brillante" e mostrava degli "scorci storici assai ben fatti", e che in essa vi era del "vero e dell'originale" IV.1. Il difetto principale consisteva però nel fatto che egli aveva avuto troppa fretta di terminare il libro. L'articolazione interna, soprattutto delle sezioni sulla proprietà feudale e capitalista, aggiungeva ancora il collaboratore di Marx, avrebbe dovuto "essere più accurata". IV.2
È indubbio che nello scrivere la sua opera, Lafargue abbia preso a modello L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, dello stesso Engels, che aveva visto la luce una decina di anni prima; e non è un caso che la sua opera sia proprio dedicata all'amico.
Il tema di fondo che la pervade è teso innanzitutto a smentire le asserzioni degli economisti contemporanei che parlavano di un capitalismo che esisteva da sempre e sempre uguale a se stesso, tranne che nell'aspetto quantitativo, e cerca di dimostrare invece come il capitale abbia origini abbastanza recenti. La comparsa relativamente tarda della forma capitale, per Lafargue, è la prova migliore che la proprietà non è rimasta sempre identica a se stessa, ma che ha subito una lunga evoluzione ed è passato attraverso una serie di forme diverse, ognuna delle quali era lo sviluppo-negazione della precedente. La forma capitalista, l'ultima apparsa in ordine cronologico, sta già maturando nel suo seno tutti i presupposti per il suo superamento e per lasciare il posto ad una società senza classi, ad una società comunista.
"Il comunismo - afferma Lafargue - esiste allo stato latente nelle profondità del mondo economico"IV.3 e la società futura non è altro che la riproposizione, sotto forme più complesse, del comunismo primitivo, inglobando però in sé tutto ciò che il capitalismo ha apportato di positivo, grazie al massiccio sviluppo delle forze produttive. L'evoluzione umana si sviluppa infatti per Lafargue come una spirale i cui cerchi si fanno sempre più grandi: "essa giunge necessariamente a dei punti che si corrispondono, ed allora noi vediamo risorgere certe forme anteriori, che credevamo scomparse per sempre; ma ricompaiono però profondamente modificate dalla serie continua dei fenomeni economici e sociali che si sono succeduti nel frattempo" IV.4.
Lafargue nel suo scritto sulla proprietà traccia un panorama, a volte ben documentato, delle principali forme di proprietà che si sono succedute nel corso della storia dopo l'uscita dell'umanità dalla fase del comunismo primitivo. Ripercorre la strada che parte dalla primitiva divisione del lavoro tra l'uomo cacciatore e pescatore e la donna responsabile dell'economia familiare e della coltivazione dei campi, e giunge a descrivere la nascita del commercio, della schiavitù, dell'organizzazione feudale e del capitalismo. Mostra come i mercanti siano diventati lo strato sociale che ha assunto potenzialmente l'aspetto della nuova classe dominante, che ha fondato le prime manifatture ed è diventato, nel suo ulteriore sviluppo, la moderna borghesia. Questa, sottolinea Lafargue, ha obbligato i lavoratori, gli operai delle manifatture ad un lavoro ripetitivo, automatizzato, che ha sottomesso l'uomo alla macchina, giungendo sino ad incorporarlo in essa. Ora la produzione capitalistica tende a costituire dei giganteschi organismi di produzione formati dalle industrie più diverse. Questi colossi "consumano calore, luce, elettricità e altre forze materiali insieme con le forze muscolari e cerebrali dell'uomo. La materia umana è fusa in questo stampo economico" IV.5. Con l'industria capitalistica nasce la moderna finanza, le cui armi sono il prestito e l'usura, che hanno trasformato il credito in uno degli elementi chiave del moderno capitalismo.
Questa, a grandi linee, è la trama dell'Origine ed evoluzione della proprietà. Essa poco aggiunge alle analisi e agli studi di Marx e di Engels; tuttavia riesce ad esporre, in modo limpido e lineare, e con un'ampia documentazione, le scoperte e le argomentazioni marxiste sul problema della proprietà e delle strutture sociali. L'importanza degli studi e delle volgarizzazioni delle teorie marx-engelsiane svolti da Lafargue risiedono nel fatto che egli si trovava ad operare in una situazione nella quale il "revisionismo" era ormai diventato dominante ed anche anche l'"ortodossia" portava in sé, allo stato latente, tutti i sintomi che sarebbero sfociati nell'aperto ripudio dei principi del socialismo marxista. Bisogna considerare inoltre, per comprendere il valore delle sue ricerche e delle sue riproposizioni delle tematiche marxiste, il suo inserimento critico nel contesto del socialismo francese di fine secolo composto prevalentemente da proudhoniani, blanquisti, possibilisti e da anarcosindacalisti. Era il periodo in cui Jean Jaurès diffondeva in Francia il suo umanesimo, tentando di coniugare socialismo con liberalismo e democrazia, e cercava di conciliare il materialismo storico con l'idealismo, diffondendo l'idea che il motore della storia non era da ricercarsi nei rapporti di produzione, ma nelle contraddizioni tra le attitudini estetiche ed altruiste dell'uomo. Erano i tempi in cui Georges Sorel manifestava le sue meditazioni che sarebbero poi sfociate nelle riflessioni sulla "decomposizione del marxismo", e in cui Jules Guesde, compagno di partito di Lafargue, maturava quelle posizioni politiche che lo avrebbero portato all'interventismo nella prima guerra mondiale. Lafargue si sforzava di diffondere e di far penetrare in questo ambiente e nella classe operaia le teorie del materialismo storico, mentre, nel contempo, cercava di difenderlo dalle deformazioni e dalle interpretazioni di comodo che iniziavano a circolare. In questo quadro si possono comprendere i suoi continui sforzi per difendere nella sua integrità, contro "economisti borghesi" e socialisti revisionisti, la teoria marxista del valore IV.6. In uno studio dedicato alla funzione economica della Borsa nel capitalismo maturo, pubblicato nel 1897, Lafargue prende lo spunto da alcune osservazioni di Marx e di Engels per dimostrare che la Borsa non fa altro che ricondurre ad un saggio medio di interesse o di profitto tutti i capitali, e che a "quantità uguali di capitali sono distribuite parti aliquote del plusvalore creato dal capitale sociale complessivo" IV.7. In questo modo cercava di applicare gli insegnamenti del terzo libro del Capitale, allora poco conosciuto, in un campo non certo nuovo, ma i cui sviluppi abnormi erano molto recenti.
Anche se uno studioso di Lafargue, Claude Willard, ha scritto che, salvo eccezioni, l'economia politica non era un campo in cui il suo apporto sia stato veramente originale e creativo, in quanto si era limitato soprattutto a volgarizzare i temi fondamentali della critica economica marxista IV.8, in realtà Lafargue è molto attento all'evoluzione subita dal capitalismo nei paesi avanzati verso la fine del secolo. Si avvede infatti che si è aperta una nuova fase caratterizzata dall'enorme concentrazione di capitali, dal sorgere dei cosiddetti trust, e questo nuovo stadio egli lo pone al centro dell'attenzione di alcuni suoi scritti, ed in particolare di Les trusts américains, pubblicato nel 1903 IV.9. La parte finale dell'Origine ed evoluzione della proprietà anticipava già queste ricerche successive. Anzi si può affermare che questo scritto sul capitale monopolistico può essere considerato come il proseguimento, e completamento, del suo libro sulla proprietà.
Questi studi appaiono del tutto originali non solo per il socialismo francese del periodo ma anche rispetto a quello europeo; è la prima volta infatti, dopo la morte di Marx, e prima degli studi di Hilferding (1910) e di Lenin (1916), che un socialista tenta di abbozzare l'analisi della nuova realtà del capitalismo, evoluto ormai in imperialismo.
Lafargue è estremamente cosciente che le gigantesche società emerse in America, e che stanno invadendo l'Europa, sono di fondamentale importanza nello sviluppo del capitalismo. "I trusts americani - afferma egli infatti - sono un fenomeno storico nuovo e di così potente rilievo nel mondo capitalista da relegare in secondo piano tutti i fatti economici, politici e scientifici avvenuti in questi ultimi quarant'anni IV.10. In questa nuova fase del capitalismo la concorrenza, egli sostiene, tende alla sua soppressione; tuttavia i suoi meccanismi interni spingono verso la formazione di grandi concentrazioni di capitali e verso l'espropriazione di una crescente "plebe di borghesi scontenti, colpiti nei loro interessi". Gli imprenditori maggiormente forniti di capitali, meglio attrezzati, più abili nello sfruttamento del lavoro salariato e meno scrupolosi, prevalgono e si affermano. Non si tratta in ogni caso di una competizione pacifica fra capitalisti ma di una lotta violenta senza esclusione di colpi. Egli nell'affermare ciò si basa sulla documentazione e sui fatti allora conosciuti, in special modo nel campo dei trust petroliferi, per dimostrare che il capitale trustificato, come era già avvenuto nella fase dell'accumulazione primitiva, metteva in pratica dei metodi degni del più rinomato banditismo. Il trust-system, come egli lo definisce, è figlio, più o meno legittimo, della produzione mercantile ed è il risultato naturale della sua evoluzione. Lafargue mette in risalto il ruolo essenziale nel processo di trustificazione svolto dalla moderna finanza, questa "potente pompa aspirante e premente" che concentra i capitali e li fa rifluire nei canali dell'industria e del commercio IV.11. "Il sistema dei trust - secondo Lafargue - ha potuto organizzare e sviluppare le sue colossali imprese soltanto perché si trovava a disposizione capitali considerevoli; esso presuppone dunque un'intensissima concentrazione di capitali. Essendo tale concentrazione una condizione vitale per le sue imprese, esso doveva coronare l'integrazione industriale con una organizzazione unitaria della banca" IV.12. Quest'unione tra banca e industria, che sarà poi al centro dell'attenzione dello studio di Hilferding IV.13 non nasce a caso ma è imposta dallo sviluppo economico. Da un lato le imprese industriali, che i capitali accumulati individualmente non sono ormai più in grado di costituire, sono dipendenti dalle banche per i capitali necessari al loro funzionamento; dall'altra le banche, concentrando i capitali che non sono assorbiti dai prestiti dello Stato e che non trovano più impiego nella piccola industria, per farli fruttare, sono obbligate a metterli a disposizione delle grandi società industriali. Negli Stati Uniti, che Lafargue porta ad esempio, "gli interessi della banca e dell'industria non sono mai stati così intimamente uniti" IV.14.
I primi tentativi di organizzazione monopolistica il capitalismo li aveva compiuti con i cartelli, i pools, ecc., ma ben presto questi erano stati superati dai trust. Se ad organizzare i primi erano stati degli industriali, i trust sono invece stati creati da finanzieri che non avevano alcun legame con il mondo industriale. Secondo Lafargue questo fatto di per sé indica che ci si trova in presenza di una nuova era della produzione mercantile, che ha compiuto le sue grandi trasformazioni solo sotto l'impulso di individui venuti dall'esterno della professioneIV.15. Vedremo più avanti cosa significa questo rispetto al cambiamento della struttura della classe borghese.
Il trust-system, continua Lafargue, alla fine dell'ottocento, non è ancora giunto al suo sviluppo completo ma già accentua energicamente le sue linee di tendenza, tanto che in questo periodo ci si può formare un'idea generale, anche se necessariamente incompleta. Esso concentra gli sforzi dei "generali della finanza" nell'organizzare e sviluppare il processo produttivo, nel trasformare i suoi procedimenti e nel perfezionare il suo macchinario in modo che esso renda maggiori profitti con minori spese, e profitti più considerevoli rispetto a quelli che le imprese singole realizzavano quando lavoravano in una indipendenza anarchica IV.16. In tal modo il trust-system afferma il suo "carattere pratico" e segna il suo posto nell'evoluzione del capitale. La novità consiste nel fatto che il nuovo assetto del processo produttivo crea enormi complessi industriali che abbracciano diversi settori che vanno dal reperimento delle materie prime sino alla distribuzione del prodotto finito. Il trust, con tutti i mezzi, quindi anche con l'aperta violenza, cerca di integrare i diversi campi produttivi in un unico monopolio. "Le società anonime centralizzando masse importanti di capitali hanno permesso di mettere in piedi vaste imprese e hanno accentuato la tendenza ad annettere le industrie complementari ad una industria principale" IV.17. Il trust-system tende soprattutto, e prima di tutto, all'organizzazione della produzione diretta ma non perde tuttavia di vista lo smercio dei prodotti IV.18, esso cerca di porre il commercio sotto la tutela del produttore capitalista. Invadendo il campo del commercio all'ingrosso trasforma di conseguenza il commercio al dettaglio imponendogli le sue leggi. Si potrebbe quindi pensare alla possibilità di elaborare dei piani generali di produzione e di distribuzione, visto che poche proprietà controllano il processo produttivo dall'inizio alla fine. In realtà il piano c'è, ma si limita alla gestione della singola impresa; al di fuori di questa vige la legge del mercato, con la quale ogni singola società deve fare i conti. L'organizzazione dell'economia in trust, infatti, se da una parte tende all'eliminazione dell'anarchia del mercato, dall'altra non fa altro che trasferire questa contraddizione, tipica ed immanente, del sistema capitalista ad un livello superiore.
I trust, nonostante il loro tentativo di regolamentare la produzione, sono sottoposti alla medesima fatalità delle industrie indipendenti. Dal momento che la loro attrezzatura immobilizza un capitale enorme essi sono costretti a produrre senza preoccuparsi della saturazione dei mercati. Per di più impiegando una parte dei loro giganteschi utili per accrescere e migliorare la loro attrezzatura, creano in tal modo "una sovrabbondanza di mezzi di produzione" IV.19. Le crisi di sovrapproduzione invece di scomparire tendono così ad estendersi e ad intensificarsi.
Nel suo studio Lafargue espone in che modo la concorrenza, un tempo "proclamata sovrana", condizione di ogni produzione, di ogni commercio e di ogni morale capitalista tenda ad autosopprimersi e a generare, "attraverso il suo stesso movimento, la concentrazione capitalista, che porta fatalmente all'organizzazione dell'industria" IV.20. Il trust elimina la concorrenza in certi settori ma la ripropone su una scala più ampia. Tra i diversi trust si manifesta infatti una tendenza a moderare l’azione della concorrenza regolamentando la produzione e fissando i prezzi di vendita mediante patti segreti o cartelli IV.21. Ma qualunque sia la precauzione presa accade di continuo che i firmatari dell’accordo lo violino apertamente o segretamente appena ne hanno l’interesse o appena il mercato dà segni di sovrapproduzione IV.22.
Lafargue giunge a stabilire un nesso diretto tra questa trasformazione dell’economia capitalista e la fase aggressiva imperialista. I trust trovando il campo nazionale troppo ristretto per i loro affari, per lo smercio dei loro prodotti e per l’acquisizione delle materie prime devono necessariamente espandersi sul mercato internazionale. Cosicché i capitalisti non esitano a risfoderare le teorie aggressive espansioniste, a massacrare razze intere e a conquistare nuovi territori. “Le nazioni europee del XVI, XVII e XVIII sec., - scrive – si disputavano, armi alla mano, le colonie per rubare agli indigeni i metalli e legnami preziosi ecc. … La borghesia capitalista, giunta al suo apogeo, arraffa con l’astuzia e con la forza le colonie e i mercati per inondarli di merci derubate ai lavoratori salariati”IV.23. Il fenomenale potenziamento della produzione trustificata, nell’ultimo decennio dell’ottocento, ha costretto, ad esempio, la repubblica americana ad abbandonare la sua tradizionale politica per lanciarsi nell’avventura imperialistica IV.24. In questo modo la produzione capitalista si internazionalizza sempre di più; i trust che hanno visto la luce negli Stati Uniti hanno ormai varcato le frontiere per conquistare nuovi mercati. I gruppi capitalisti colpiti da questa concorrenza si organizzano a loro volta in trust, mettendo in moto un circuito vizioso di concentrazione e centralizzazione a livello mondiale. Come conseguenza la centralizzazione viene spinta al suo limite estremo.
A Lafargue sfugge però, in questa sua descrizione, un aspetto essenziale della fase imperialista, che verrà invece sottolineato da Lenin, e cioè l’importanza assunta dall’esportazione di capitali in confronto all’esportazione di merci. Egli descrive in modo brillante quattro dei cinque punti che il leader russo fisserà per caratterizzare il capitalismo nella fase monopolista, ma lascia in ombra il fatto che l’eccedenza, nei paesi più avanzati, non era solo di merci ma anche di capitali, i quali erano costretti, per rastrellare maggiori profitti, ad emigrare verso paesi più arretrati.
Secondo Lafargue i trust esercitano anche la loro influenza sulla sfera sovrastrutturale della nazione; la religione, la scuola, la stampa e gli stessi partiti politici sono sottoposti all’invadente dominio dei grandi gruppi industrialiIV.25. Essi si mostrano indifferenti alla forma politica dello Stato e ai partiti che governano, purché difendano i loro interessi. La loro indifferenza giunge sino al punto di finanziare contemporaneamente i partiti governativi e i partiti di opposizione. I grandi dirigenti dei trust, i Morgan e i Vanderbilt, “disdegnano di aspirare alle cariche pubbliche; essi preferiscono tendere i fili che fanno muovere come tanti burattini i deputati, i senatori e i presidenti della Repubblica”IV.26. Essi formano un governo occulto, ma reale, al di sopra del governo apparente e fittizio IV.27.
Lafargue sembra anche intravvedere uno degli aspetti nuovi dell’azione dei trust sull’organizzazione sociale: i capitalisti, osserva, hanno una grande fiducia nei trust, ma le vittime della concentrazione capitalista, si chiede, “sosterranno con rassegnazione la loro oppressione? Non imporranno la nazionalizzazione di questi monopoli industriali?”.
Il sistema dei trust, osserva ancora il dirigente socialista, ha introdotto nella società capitalista importanti mutamenti sociali e politici, indipendentemente dalla sua volontà o intenzione; esso compie un’opera “rivoluzionaria senza saperlo e senza volerlo”IV.28. Innanzitutto i trust offrono ai socialisti una conferma eclatante ed inconfutabile delle dottrine che essi diffondono sulla concentrazione delle ricchezze, sulla proletarizzazione e sul depauperamento delle masse nelle nazioni e civiltà capitalista. Il sistema dei trust prepara gli uomini alla rivoluzione sociale, “industriali preoccupati della concorrenza, rovinati e privati della loro proprietà, e negozianti imbrigliati e rovinati formano una massa di malcontenti sempre in aumento che gridano contro i trust”, colpisce duramente i contadini mettendo le campagne in fermento, e soprattutto lede gravemente gli interessi dei salariati, imponendo un dominio più pesante, rendendo più difficili gli scioperiIV.29.
I trust sfruttano l'operaio altrettanto seriamente quanto i loro confratelli dell'industria indipendente, mettono a profitto i metodi perfezionati di produzione per intensificare lo sfruttamento e si servono della loro influenza corruttrice sul potere politico per ottenere leggi contro gli operai e "fucilate contro gli scioperanti" IV.30.
Da queste analisi interessanti e penetranti Lafargue giunge però a conclusioni troppo ottimistiche sulle conseguenze dell'azione sociale dei trust. La riorganizzazione del capitalismo attraverso i monopoli descritta in modo egregio nei suoi studi, avrebbe dovuto creare una immediata coscienza anticapitalista non solo tra le masse operaie, direttamente sfruttate dai monopoli, ma anche tra la piccola borghesia e tra quei borghesi che subivano la pesante ingerenza del grosso capitale. Ma come si è ormai potuto verificare storicamente, la coscienza del proprio ruolo sociale e politico delle classi sfruttate non nasce direttamente, e conseguentemente, dalle relazioni economiche, se non in casi eccezionali e particolari, e comunque non in modo progressivo.
Vi sono però alcuni argomenti sottolineati da Lafargue nei suoi scritti inerenti all'evoluzione della proprietà che è importante mettere in rilievo dal momento che già alla fine dell'ottocento, e ancora dipiù successivamente, i teorici del movimento operaio ufficiale hanno teso a relegare in secondo piano o a dimenticare del tutto.
Lafargue, come abbiamo detto, insiste nel presentare le forme di produzione nella loro dinamica evolutiva in quanto esse presentano aspetti estremamente diversi a seconda dei differenti gradi di sviluppo dell'industria e del processo produttivo. Il capitalismo, egli sottolinea nel prendere in esame la più recente forma di produzione, è caratterizzato non dalla proprietà personale o dallo sfruttamento individuale, ma dalla forma capitale stessa. "Il capitale, egli spiega, è la forma caratteristica della proprietà della società moderna". IV.31
Il capitalismo, a differenza dei modi di produzione che l'hanno preceduto, ha assunto una forma di sfruttamento e di appropriazione del sopralavoro non più definibile come sfruttamento legato ad una persona fisica, anche quando ad intascare il plusvalore estratto da una fabbrica è un singolo capitalista. Questo è facilmente spiegabile se si ha presente, come senz'altro Lafargue, la teorizzazione marxista della trasformazione dei valori in prezziIV.32. Il capitalista non utilizza il plusvalore prodotto direttamente dagli operai della sua azienda ma una quota del plusvalore totale, rapportata alla quantità di capitale che egli ha investito nel processo produttivo. Non si può dire quindi che il profitto realizzato in una singola unità produttiva sia esattamente quello prodotto direttamente dagli operai che vi sono impiegati, in quanto può essere inferiore o superiore, ma rappresenta idealmente una quota prelevata dal fondo globale del plusvalore prodotto da tutti gli operai. Per cui si può affermare che lo sfruttamento operaio nella fase capitalista è diventato complessivo e quindi sociale. Per di più il capitale, nel suo sviluppo, associando in una stessa fabbrica masse sempre più vaste di operai e sviluppando il mercato delle merci e della forza lavoro in modo notevole, ha tolto alla proprietà privata quell'impronta individuale che caratterizzava la produzione corporativa e particellare del medioevo. "La produzione industrale – afferma Lafargue –, l'agricoltura, il commercio e la finanza capitalista hanno potuto sorgere e svilupparsi solo distruggendo il carattere essenziale della proprietà privata, trasformando quest'ultima in proprietà impersonale..."IV.33. Ed è talmente impersonale che egli definisce il capitalismo come "collettivismo capitalistico". Riprendendo le indicazioni di Marx e di Engels, sparse nei loro scritti, Lafargue sottilinea il carattere sempre più sociale e sempre più anonimo assunto dalla proprietà nella fase capitalista. La dinamica del capitale lo rende, nel suo processo di concentrazione e centralizzazione, sempre più anonimo e sempre più slegato dal diretto proprietario fisico. "È la soppressione – come aveva scritto anche Marx – del capitale come proprietà privata nell'ambito del modo di produzione capitalistico stesso".IV.34
Se questo fatto non era immediatamente percepibile nella fase iniziale del capitalismo, in cui l'imprenditore si presentava come l'attore principale e l'eroe dell'accumulazione, lo sviluppo della finanza e della società per azioni si sono incaricati di lacerare gli ultimi veli che ancora mascheravano questa impersonalità. Nella visione di Marx il capitalista è considerato né più né meno che una semplice funzione dello sviluppo del capitale, che mette in movimento il capitale che si autovalorizza, facendo produrre plusvalore agli operai impiegati nel processo produttivo attraverso una loro remunerazione sotto forma di salario. Ora l'azionista di un'impresa capitalista è ormai completamente scisso dalla sua "proprietà", non viene mai a contatto con essa; non ha bisogno né di vederla né di conoscere la sua ubicazione e neppure di rappresentarsela mentalmente; egli se la rappresenta solamente con pezzi di carta variamente stampata e colorata.IV.35 Lafargue sottolinea il fatto che nel "collettivismo capitalistico" gli azionisti posseggono "collettivamente" l'impresa in quanto essa è necessariamente indivisa; essi non ne hanno l'uso, sebbene riscuotano individualmente il frutto, senza fornire direttamente alcun lavoro.
La finalità della società per azioni, considerata nella sua entità come impresa, non muta. Il profitto, "la stella polare della produzione mercantile", resta infatti ancora la guida economica di queste gigantesche imprese anonime.IV.36
Anzi, la tecnologia avanzata, l'intensificazione del lavoro e i vantaggi derivanti dalla concentrazione di tutte le operazioni relative alla produzione, al trasporto ed alla distribuzione permettono a questi complessi industriali di realizzare profitti ancora maggiori.
Nel capitalismo più sviluppato avviene ancora un ulteriore passo in avanti verso questo processo di separazione della proprietà dal possesso del capitale. La concentrazione e la centralizzazione del capitale si spinge a tal punto che lo Stato interviene e trasforma la proprietà privata in proprietà "amministrata dallo Stato".IV.37
E come aveva già spiegato Engels, con la statizzazione completa dell'economia non si ha un superamento del sistema capitalista; "il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice" e rappresentato nella sua forma più pura.IV.38
È importante sottolineare questo aspetto della compenetrazione Stato-Capitale, cioè della sottomissione sempre maggiore dello Stato al Capitale, perché si è sempre teso a presentare qualsiasi statizzazione o nazionalizzazione di un certo peso come un superamento della società capitalista o perlomeno un mutamento qualitativo del capitalismo stesso. In realtà per Lafargue, come per Marx ed Engels prima, il capitale nelle mani dello Stato, con la conseguente scomparsa della figura fisica del capitalista imprenditore, non era che il derivato naturale e conseguente dello sviluppo del capitalismo. Ciò che invece non compresero i vari Lassalle prima e tutti i socialisti riformisti poi.
Come conseguenza di quanto detto si può affermare quindi che la sempre maggiore scissione fra proprietà e controllo del capitale e la tendenza alla spersonalizzazione del capitale sono due aspetti dello stesso fenomeno. Se lo esaminiamo dal punto di vista del secondo aspetto si può comprendere anche il cambiamento di forma che subisce la classe borghese in questo processo. La funzione del capitalista imprenditore, in quanto personificazione del capitale, viene sempre più sostituita da quella di dipendenti retribuiti, da direttori e da managers.IV.39 La classe borghese si trasforma e si riempie di figure nuove che il processo di produzione e di distribuzione crea e mantiene.IV.40 Già con la formazione della società per azioni e dei trust, i quali "ricreano un nuovo genere di proprietà collettiva, posseduta da collettività più o meno numerose di azionisti o obbligazionisti", viene dimostrato con i fatti la perfetta inutilità del proprietario capitalista,IV.41 mentre viene messo anche in evidenza la natura sempre più parassitaria della classe capitalistica stessa. I banchieri e i rentiers, afferma Lafargue, sono i nuovi "nobili" della società borghese, e come la nobiltà scomparve quando si esaurì la sua funzione, così il capitalista è diventato "inutile" per la produzione sociale.IV.42
Con queste affermazioni Lafargue non fa altro che sottolineare ciò che era già stato messo in evidenza da Marx e da Engels quando affermavano che il capitalista, come persona fisica, "non ha più alcuna attività sociale che non sia l'intascar rendite"IV.43 in quanto è "diventato ormai un personaggio superfluo", e, avendo perso ogni funzione sociale, deve scomparire dal processo di produzione.IV.44
Lafargue riprende così e sviluppa concetti di grande importanza e di evidente attualità, che rappresentano degli strumenti analitici estremamente fecondi e utilizzabili anche oggi se estrapolati dalle descrizioni contingenti come dalle analisi antropologiche ormai superate da più recenti studi.
IV.1. Lettera di F. Engels a Lafargue del 3 aprile 1895, in Marx-Engels, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1977, Vol. 50, pp. 491-493.↩
IV.2. Inoltre, occorre aggiungere, è molto difficile pensare che Engels abbia approvato, anche se non lo scrive all'amico e discepolo, l'affermazione secondo la quale le diverse società umane devono passare necessariamente per le stesse forme evolutive. Egli conosceva molto bene le obiezioni rivolte da Marx a coloro che pretendevano di trovare nel suo metodo una chiave per incasellare qualsiasi fatto storico e trasformare in questo modo la sua teoria in una qualsiasi "filosofia della storia". ↩
IV.3. P. Lafargue, Origine ed evoluzione della proprietà, in testo, p. 203↩
IV.4. Ibidem, p. 196↩
IV.5. Ibidem, p. 180-181↩
IV.6. Cfr. i suoi articoli su "La Revue Socialiste", sett. 1892, vol. XVI, pp. 288-95; "Le Socialiste", 19-26 marzo 1905↩
IV.7. P. Lafargue, La fonction économique de la Bourse, contribution a la théorie de la valeur, Giard & Brière, Paris, 1897↩
IV.8. C. Willard, nel suo Paul Lafargue e la critica della società borghese, in Storia del marxismo contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 1977, vol. 3, p. 128, sostiene che Lafargue si sia limitato ad esporre i risultati del I vol. del Capitale. In realtà Lafargue mostra, in diverse occasioni, di conoscere molto bene anche il II e soprattutto il III volume. Cfr. i suoi interventi sulla "Critica Sociale", nel 1894, in difesa della teoria del valore.↩
IV.9. P. Lafargue, Les trusts américains, Giard & Brière, Paris, 1903. Lo stesso Willard è costretto a riconoscere di questo saggio che "apporta un reale arricchimento dell'opera di Marx". C. Willard, Le Mouvement socialiste en France (1893-1905). Les guesdistes, Paris, 1905, p. 352.↩
IV.10. P. Lafargue, Les trusts américains, cit., pp. V-VI. ↩
IV.11. Ibidem, p. 98.↩
IV.12. Ibidem, p. 103.↩
IV.13. R. Hilferding, Il capitalismo finanziario, Milano, Feltrinelli, 1976. Il libro fu pubblicato originariamente nel 1910.↩
IV.14. P. Lafargue, Les trusts américains, cit., p. 103.↩
IV.15. Ibidem, p. 34.↩
IV.16. Ibidem, p. 95.↩
IV.17. Ibidem, p. 81.↩
IV.18. Ibidem, p. 91.↩
IV.19. Ibidem, p. 104-105.↩
IV.20. Sin dal 1897, in un articolo intitolato Les Monopoles Capitalistes, pubblicato nella “Pétite Republique”, il 19 Marzo 1987, Lafargue sottolinea come la società capitalista “tenda ad eliminare la concorrenza e a costituire giganteschi monopoli nazionali ed internazionali”.↩
IV.21. P. Lafargue, Les trusts américains, cit., p. 119.↩
IV.22. Ibidem, p. 29.↩
IV.23. Ibidem, p. 23.↩
IV.24. Ibidem, p. 105.↩
IV.25. Ibidem, p. 12. ↩
IV.26. Ibidem, p. 16. ↩
IV.27. Ibidem.↩
IV.28. Ibidem, p. 123.↩
IV.29. Ibidem, p. 124-125. ↩
IV.30. Ibidem, p. 97. ↩
IV.31. P. Lafargue, Origine ed evoluzione della proprietà, cit., p. 47. ↩
IV.32. Cfr. La soluzione data da Marx alla trasformazione dei valori in prezzi nel suo III volume del Capitale. ↩
IV.33. P. Lafargue, Origine ed evoluzione della proprietà, cit., p. 192.↩
IV.34. C. Marx, Il Capitale, Vol. III, Roma, Editori Riuniti, 1965., p. 519. ↩
IV.35. P. Lafargue, Origine ed evoluzione della proprietà, cit., p. 193. ↩
IV.36. P. Lafargue, Les trusts américains, cit., p. 104-105. ↩
IV.37. P. Lafargue, Origine ed evoluzione della proprietà, cit., p. 48.↩
IV.38. F. Engels, Antidühring, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 297.↩
IV.39. C. Marx, Il Capitale, vol. III, pp. 452-461.↩
IV.40. Ecco cosa scrive Marx al riguardo: "Essa (la soppressione della proprietà privata nel capitalismo) ... ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome". Il Capitale, vol. III, cit. p. 520.↩
IV.41. P. Lafargue, Les trusts américains, cit., p. 108.↩
IV.42. P. Lafargue, Origine ed evoluzione della proprietà, cit., pp. 194-195.↩
IV.43. F. Engels, op cit., p. 302.↩
IV.44. C. Marx, op. cit., p. 458.↩
Indice de L'origine e l'evoluzione della proprietà
Ultima modifica 2021.05