Antonio Labriola 1895
Le pagine seguenti trovansi a far da preambolo ad una serie di opuscoli, direi quasi per caso.
Le scrissi fin dal 7 di aprile (e tal data conviene che serbino, perché in questa stampa nulla vi aggiungo e nulla ne tolgo), a richiesta di una nuova rivista di Parigi, il “Devenir Social”, che comincerà a pubblicano in un dei suoi prossimi fascicoli.
Ebbe voglia di leggerle, nell’originale italiano, il mio cortese amico Benedetto Croce di Napoli, il quale mi chiese gli permettessi di darle alle stampe, come primo di quei saggi intorno alla concezione materialistica della storia, che egli già da gran tempo, per la conoscenza che ha dei miei studii e delle mie opinioni su tale argomento, mi consigliava di pubblicare.
Per tale offerta, che accettai con animo grato, io mi trovo ora nell’impegno di continuare, senza soverchio indugio, e a non lunghi intervalli, la pubblicazione di questi saggi. Così che anticiperò di un anno su quello che avrei avuto in animo di fare, se appunto la gentile offerta di un amico, fattosi per cotal modo mio spontaneo editore, non mi avesse indotto a passar sopra a certe difficoltà che nascevano in me dal sentirmi non del tutto maturo all’impresa.
Roma, 10 giugno 1895
Nel rivedere la stampa di questa seconda edizione, che vien fuori a così breve distanza dalla prima, io mi son ristretto a portarvi alcune poche correzioni di sola e pura forma.
Roma, 15 ottobre 1895.
Serbo a quest’opuscolo, come il lettore può vedere in fine, la data del 7 aprile 1895, quando appunto finii di scriverlo, per darlo a pubblicare per la prima volta in francese nel "Devenir Social". Da quella primitiva redazione non mi dilungai di molto nelle due edizioni italiane, che vennero fuori a breve distanza l’una dall’altra, quell’anno stesso, dal 10 di giugno al 15 di ottobre, e nella riproduzione francese apparsa ben due volte presso gli editori Giard et Brière.
Ora all’editore italiano occorrono esemplari, cosi di questo come degli altri miei Saggi sul materialismo storico: ed io acconsento che essi siano via via ristampati, non potendo io né rivederli a fondo, né rimaneggiarli nell’intrinseco, per molte ragioni, ma soprattutto per questa, che a me pare che siano lavori da lasciare proprio così come furono concepiti la prima volta.
Questa terza edizione di questa commemorazione non è, dunque, salvo alcune correzioni nelle parole e nel giro di qualche frase, se non la ristampa della seconda. Il lettore rimanga di ciò inteso. Riportandosi alla data della prima pubblicazione potrà facilmente identificare certe allusioni storiche, e non vorrà prendere abbaglio nel sentir parlare insistentemente di questo secolo... che era poi il decimonono.
Ho aggiunto a questa ristampa la traduzione del Manilesto, che fu chiesta da molti recensenti delle altre due edizioni del mio scritto, il quale parve non del tutto intelligibile, per la mancanza appunto di tale sussidio.
Roma, 9 maggio 1902.
Di qui a tre anni noi socialisti potremo celebrare il nostro giubileo. La data memorabile della pubblicazione del Manifesto dei comunisti (febbraio 1848) ci ricorda il nostro primo e sicuro ingresso nella storia. A quella data si riferisce ogni nostro giudizio ed ogni nostro apprezzamento su i progressi, che il proletariato è andato facendo in questo cinquantennio. A quella data si misura il corso della nuova èra, la quale sboccia e sorge, anzi si sprigiona e sviluppa dall’èra presente, per formazione a questa stessa intima ed immanente, e perciò in modo necessario e ineluttabile; quali che sian per essere le vicende varie e le successive fasi sue, per ora di certo imprevedibili. A tutti quelli fra noi, cui prema e giovi di possedere la piena consapevolezza dell’opera propria, occorre di tornare più volte col pensiero su le cause e su i moventi, che determinarono la genesi del Manifesto, in quelle circostanze in cui esso per l’appunto apparve, e cioè alla vigilia della rivoluzione, che scoppiò da Parigi a Vienna, da Palermo a Berlino. Soltanto per cotesta via ci è dato di trarre dalla stessa forma sociale, nella quale ora noi viviamo, la spiegazione della tendenza al socialismo; e di giustificare in conseguenza, per la stessa presente ragion d’essere di tale tendenza, la necessità del suo effettivo trionfo, del quale facciamo tuttodì il presagio.
Quale è, in fatti, se non questo, il nerbo del Manifesto; o la sua essenza, e il suo carattere decisivo?[1]
Sarebbe cosa vana, invero, il voler ciò ricercare invece nelle misure pratiche, che ivi son suggerite e proposte in fine del Capo secondo, come adottabili nella eventualità di un successo rivoluzionario del proletariato, o nelle indicazioni di orientamento politico, rispetto agli altri partiti rivoluzionarii di allora, che trovansi al Capo quarto. Coteste indicazioni e cotesti suggerimenti, per quanto apprezzabili e notevoli nel tempo e nelle circostanze in cui furon formulati e dettati, e per quanto soprattutto importanti per giudicare in modo preciso dell’azione politica che i comunisti tedeschi spiegarono nel periodo rivoluzionario del 1848-50, non costituiscono oramai più per noi un insieme di vedute pratiche, per rispetto alle quali ci tocchi di deciderci, pro o contra, in ogni caso e ricorrenza. I partiti politici, che dal tempo della Internazionale in qua si vennero costituendo in varii paesi su la base del proletariato e in suo nome esplicito e chiaro, ebbero ed hanno, a misura che sorgono e poi si sviluppano, vivo bisogno di adattare e di conformare a varie e multiformi circostanze e contingenze le esigenze e l’opera loro. Ma nessuno di cotesti partiti ha tale coscienza di sapersi ora così prossimo alla dittatura del proletariato, da sentire in sé urgente il bisogno, o sia pure il desiderio o la tentazione, di rivedere e di valutare le proposte del Manifesto alla stregua di una verificazione, che paia probabile, perché ritenuta prossima. Gli esperimenti storici non sono, in verità, se non quei soli, che la storia stessa fa imprevedutamente, non a disegno, né di proposito, né a comando. Così accadde ai tempi della Comune, che fu, ed è, e rimane fino ad ora per noi, il solo esperimento approssimativo, sebbene confuso perché subitaneo e di breve durata, dell’azione del proletariato, che sia messo alla nuova e dura prova d’impossessarsi del potere politico. Esperimento quello non voluto ad arte, né cercato a disegno, imposto anzi dalle circostanze, ma eroicamente sostenuto; e che ora si converte per noi in salutare ammaestramento. Là dove il movimento socialistico è appena allo stato dell’infanzia, può darsi che questi o quegli, in difetto di esperienza propria e diretta, si appelli, come accade spesso in Italia, all’autorità di un testo, come a precetto: – ma ciò effettivamente non conta proprio nulla.
Né quel nerbo, od essenza, e carattere decisivo sono, a mio avviso, da cercare nella orientazione su le altre forme di socialismo, che il Manifesto reca sotto al nome di Letteratura. Tutto ciò che ivi è detto, al Capo terzo, serve, senza dubbio, a definire mirabilmente, per via di antitesi, e nella forma di brevi, succose e calzanti caratteristiche, le differenze che effettivamente corrono tra il comunismo, che ora, con espressione da molti miseramente abusata, si è soliti di chiamare scientifico, ossia tra il comunismo, che ha per soggetto il proletariato, e per argomento la rivoluzione proletaria, e le altre forme reazionarie, borghesi, semi-borghesi, piccolo-borghesi, utopistiche e cosi via. Tutte coteste forme, meno una[2], ricorsero e si rinnovarono più volte, e ricorrono e si rinnovano anche ora nei paesi nei quali il movimento proletario moderno è appena in sul nascere. Per tali paesi, e in tali circostanze, il Manifesto ha esercitato ed esercita tuttora l’ufficio di critica attuale, e di frusta letteraria. Ma nei paesi nei quali, o quelle forme furon già teoricamente e praticamente superate, come è in gran parte il caso della Germania e dell’Austria, o sopravvivono solo allo stato settario e soggettivo, come accade già in Francia e in Inghilterra, per non dire delle altre nazioni via via enumerando, il Manifesto, per questo rispetto, ha compiuto oramai tutto l’ufficio suo. E non fa che registrare, come per memoria, ciò cui non occorre più di pensare, data l’azione politica del proletariato, che già si svolge nel suo normale e graduale processo.
Or questa fu per l’appunto, e come per anticipazione, la disposizione d’animo e di mente di quelli che lo scrissero. Di ciò che avean superato per virtù di pensiero, il quale sopra pochi ma chiari dati di esperienza anticipi sicuro gli eventi, essi non esprimevano, oramai, se non la eliminazione e la condanna. Il comunismo critico - questo è il vero suo nome, e non ve n’è altro di più esatto per tale dottrina – non recitava più coi feudali il rimpianto della vecchia società, per poi fare a rovescio la critica della società presente: – anzi non mirava che al futuro. Non si associava più ai piccolo-borghesi nel desiderio di salvare il non salvabile: – come ad esempio la piccola proprietà, o il quieto vivere della piccola gente, cui la vertiginosa azione dello stato moderno, che della società attuale è l’organo necessario e naturale, torna grave e pesante solo perché esso stato, rivoluzionando di continuo, reca in sé e con sé la necessità di altre nuove e più profonde rivoluzioni. Né traduceva in arzigogoli metafisici, o in riflessi di morboso sentimento, o di religiosa contemplazione, i contrasti reali dei materiali interessi della vita di tutti i giorni: – anzi questi contrasti rendeva ed esponeva in tutta la prosa loro. Non costruiva la società dell’avvenire su le linee di un disegno, in ogni sua parte armonicamente condotto a finimento. Non levava parole di lode e di esaltazione, o di evocazione e di rimpianto, alle due dee della mitologia filosofica, la Giustizia e la Eguaglianza: alle due dee, cioè, che fanno così trista figura nella misera pratica della vita cotidiana, quando si riesca ad intendere, come la storia da tanti secoli si procuri l’indecente passatempo di fare e di disfare quasi sempre a controsenso degl’infallibili dettami loro. Anzi quei comunisti, pur dichiarando, con esibizione di fatti che hanno forza di argomento e di prova, che i proletarii fossero oramai destinati a far la parte di sotterratori della borghesia, a questa rendevano omaggio, come ad autrice di una forma sociale, che è in estensione ed in intensità uno stadio notevole del progresso umano, e che sola può far da arena alle nuove lotte promettenti esito felice al proletariato. Necrologia di stile così monumentale non fu mai scritta. Quelle lodi rese alla borghesia assumono una certa originale forma di umorismo tragico, e son parse ad alcuno come scritte con intonazione da ditirambo.
Nondimeno quelle definizioni negative ed antitetiche delle altre forme di socialismo allora correnti, e poi dopo, e fino ad ora, spesso ricorrenti, per quanto inappuntabili nella sostanza, nella forma e nello scopo cui mirano, né pretendono di essere, né sono, la effettiva storia del socialismo, e non recano, né la traccia, né lo schema di questa, se altri voglia scriverla. La storia, in vero, non poggia su la differenza di vero e di falso, o di giusto e d’ingiusto, e molto meno su la più astratta antitesi di possibile e di reale; come se le cose stessero da un canto, e avessero dall’atro canto le proprie ombre e fantasmi, nelle idee. Essa è sempre tutta d’un pezzo, e poggia tutta sul processo di formazione e di trasformazione della società: il che è da intendere in senso obiettivo, e indipendentemente da ogni nostro soggettivo gradimento o sgradimento. Essa è una dinamica di genere speciale; se così piace ai Positivisti, che di tali espressioni tanto si dilettano, e spesso non vanno più in là della parola nuova che mettono in giro. Ora le varie forme di concezione e di azione socialistica, che apparvero e sparirono nel corso dei secoli, con tante differenze nei motivi, nella fisionomia e negli effetti, vanno tutte studiate e spiegate per le condizioni specifiche e complesse della vita sociale in cui si produssero. Ad esaminarle si vede, che non costituiscono un solo insieme di processo continuativo; perché la serie ne è più volte interrotta dal cambiare del complesso sociale, e dall’oscurarsi e spezzarsi della tradizione. Solo dal tempo della Grande Rivoluzione il socialismo assume una certa unità di processo, che si fa poi più evidente dal 1830 in giù, col definitivo avvento della borghesia al dominio politico in Francia e in Inghilterra, e diventa da ultimo intuitiva e direi palpabile dalla Internazionale in qua. Su questa via, su questo cammino, sta, come gran colonna miliare, il Manifesto, con doppia indicazione, direi così, dalle due parti. Di qua è l’incunabulo della nuova dottrina, che ha poi fatto il giro del mondo. Di là è l’orientazione su le forme che esso esclude, ma di cui non reca l’esposizione e il racconto[3].
Il nerbo, l’essenza, il carattere decisivo di questo scritto consistono del tutto nella nuova concezione storica, che gli sta in fondo, e che esso stesso in parte dichiara e sviluppa, quando nel resto non vi accenni, e non vi rimandi, o non la supponga soltanto. Per questa concezione il comunismo, cessando dall’essere speranza, aspirazione, ricordo, congettura o ripiego, trovava per la prima volta la sua adeguata espressione nella coscienza della sua propria necessità; cioè nella coscienza di esser l’esito e la soluzione delle attuali lotte di classe. Né queste son quelle di ogni tempo e luogo, su le quali la storia del passato s’era esercitata e svolta; ma son quelle, invece, che tutte si assottigliano e si riducono predominantemente nella lotta tra borghesia capitalistica e lavoratori fatalmente proletarizzati. Di questa lotta il Manifesto trova la genesi, determina il ritmo di evoluzione, e presagisce il finale effetto.
In tale concezione storica è tutta la dottrina del comunismo scientifico. Da questo punto in poi gli avversarii teorici del socialismo non sono chiamati più a discutere della astratta possibilità della democratica socializzazione dei mezzi di produzione[4]; come se di ciò s’avesse a far giudizio per illazioni tratte dalle generali e comunissime attitudini della cosi detta natura umana. Qui si tratta invece di riconoscere, o di non riconoscere nel corso presente delle cose umane una necessità, la quale trascende ogni nostra simpatia ed ogni nostro subiettivo assentimento. Trovasi o no la società d’essere ora così fatta, nei paesi più progrediti, da dovere essa riuscire al comunismo per le) leggi immanenti al suo proprio divenire, data la sua attuale struttura economica, e dati gli attriti che questa da sé in se stessa necessariamente produce, fino a far crepaccio e dissolversi? Ecco il soggetto della disputa, dopo che tale dottrina è apparsa. Ed ecco insiememente la regola di condotta, che s’impone all’azione dei partiti socialistici; o che siano essi di soli proletarii, o che accolgano nelle loro file uomini usciti da altre classi, i quali facciano la parte di volontarii nell’esercito del proletariato.
Per ciò noi socialisti, che ci lasciamo ben volentieri chiamare scientifici, se altri non intende per cotal modo di confonderci coi Positivisti, ospiti spesso ma da noi non sempre bene accetti, che a lor grado monopolizzano il nome di scienza, noi non ci battiamo i fianchi per sostenere una tesi astratta e generica, come fossimo causidici o sofisti: né ci affanniamo a dimostrare la razionalità degli intenti nostri. I nostri intenti non sono se non la espressione teorica e la pratica esplicazione dei dati che ci offre la interpretazione del processo che si compie attraverso noi e intorno a noi; e che è tutto nei rapporti obiettivi della vita sociale, di cui noi siamo soggetto ed oggetto, causa ed effetto, termine e parte. I nostri intenti son razionali, non perché fondati sopra argomenti tratti dalla ragion ragionante, ma perché desunti dalla obiettiva considerazione delle cose; il che è quanto dire dalla dilucidazione del processo loro, che non è, né può essere, un resultato del nostro arbitrio, anzi il nostro arbitrio vince ed aggioga.
Il Manifesto dei comunisti, al quale, quanto a specifica efficacia, non può fare da surrogato nessuno degli scritti anteriori o posteriori degli autori stessi, che per estensione e portata scientifica son di tanto maggior peso, ci dà nella sua classica semplicità l’espressione genuina di questa situazione: il proletariato moderno è, si pone, cresce e si svolge nella storia contemporanea come il soggetto concreto, come la forza positiva, dalla cui azione, inevitabilmente rivoluzionaria, il comunismo dovrà necessariamente resultare. E per ciò questo scritto, cioè per tale enunciazione di presagio teoreticamente fondato ed espresso in detti brevi, rapidi, concisi e memorabili, costituisce un’accolta, anzi un vivaio inesauribile di germogli di pensieri, che il lettore può indefinitivamente fecondare e moltiplicare; serbando esso la forza originale ed originaria della cosa nata appena appena, e non ancora divelta e distratta dal campo di sua propria produzione. Osservazione cotesta, che va principalmente rivolta a quelli, che, facendo professione di dotta ignoranza, quando non siano a dirittura fanfaroni, ciarlatani o allegri sportisti, regalano alla dottrina del comunismo critico precursori, patroni, alleati e maestri d’ogni genere, in oltraggio al senso comune e alla volgare cronologia. O sia che inquadrino la nostra dottrina materialistica della storia nella concezione il più delle volte fantastica e troppo generica della universale evoluzione, che già da molti fu ridotta in nuova metafora di novella metafisica; o sia che cerchino in tale dottrina un derivato del darwinismo, che solo in un certo modo, ma in senso, assai lato, ne è un caso analogico; o che ci favoriscano l’alleanza e la padronanza di quella filosofia positivistica, la quale corre dal Comte, degeneratore reazionario del geniale Saint-Simon, a questo Spencer, quintessenza di borghesismo anemicamente anarchico: il che vuol dire, dare a noi alleati e protettori i dichiarati e decisi avversarii nostri.
Tale forza germinativa, tale classicità di efficacia, tale compendiosità di sintesi di molte serie e gruppi di pensieri in uno scritto di così poche pagine[5], son dovute al modo della sua origine.
Due tedeschi ne furono gli autori, ma non vi portaron dentro, né la sostanza, né la forma delle personali opinioni, che a quel tempo sapean di solito d’imprecazione, di piato e di rancore in bocca ai profughi politici, o a quelli, che, com’era il caso loro, volontarii abbandonassero la patria, per godere altrove aere più spirabile. Né v’introdussero direttamente l’immagine delle condizioni del loro paese, che erano politicamente misere, e socialmente, ossia economicamente, solo per alcuni primi inizii, e solo in certi punti del territorio, confrontabili a quelle che già in Francia e in Inghilterra erano ed apparivano moderne. Vi portarono invece il pensiero filosofico, per cui solo la patria loro s’era messa e mantenuta all’altezza della storia contemporanea; di quel pensiero filosofico, che, appunto nelle persone loro, assumeva a quel tempo la notevole trasformazione, per la quale il materialismo, già rinnovato da Feuerhach, combinandosi con la dialettica, diveniva capace di abbracciare e di comprendere il moto della storia nelle sue cause più intime, e fino allora inesplorate, perché latenti e non facili a districare. Comunisti e rivoluzionarii ambedue, ma non per istinto, né per puro impulso o per passione, essi aveano quasi elaborata tutta una nuova critica della scienza economica, e avean compreso il nesso e il significato storico del movimento proletario di qua e di là della Manica, ossia di Francia e d’Inghilterra, già prima che fossero chiamati a dettare nel Manifesto il programma e la dottrina della Lega dei comunisti. Questa, risedendo a Londra con notevoli diramazioni sul continente, avea dietro di sé un buon tratto di vita e di sviluppo proprio, attraverso a diverse fasi. Dei due, l’Engels, autore già da qualche tempo di un saggio critico, che, passando sopra ad ogni correzione subiettiva ed unilaterale, per la prima volta ritrae obiettivamente la critica dell’economia politica dalle antitesi inerenti agli enunciati ed ai concetti dell’economia stessa, era poi venuto in fama per un libro su la condizione degli operai inglesi, che è il primo tentativo riuscito di rappresentare i moti della classe operaia come resultanti dal giuoco stesso delle forze e dei mezzi di produzione[6]. L’altro, Marx, avea dietro di sé, in breve corso d’anni, l’esperienza di pubblicista radicale in Germania, e quella del pari di pubblicista a Parigi e a Bruxelles, la escogitazione quasi matura dei primi rudimenti della concezione materialistica della storia, la critica teoreticamente vittoriosa dei presupposti e delle illazioni della dottrina di Proudhon, e la prima dilucidazione precisa della origine del sopravvalore dalla compra e dall’uso della forza-lavoro, cioè il primo germe delle concezioni venute più tardi a maturità di dimostrazioni, di riconnessioni e di particolari nel Capitale. Ambedue congiunti per molte e varie vie di comunicazione ai rivoluzionarii dei vani paesi di Europa, e specie di Francia, del Belgio e dell’Inghilterra, non composero il Manifesto come saggio di personale opinione, ma anzi come la dottrina di un partito, che, nel suo non largo ambito, era già nell’animo, negl’intenti e nell’azione la prima Internazionale dei lavoratori.
Di qui comincia il socialismo strettamente moderno. Qui è la linea di delimitazione da tutto il resto.
La Lega dei comunisti era divenuta tale, dopo d’essere stata Lega dei Giusti; e questa alla sua volta s’era gradatamente specificata, per chiara coscienza d’intenti proletarii, dalla lega generica dei profughi, ossia degli sbanditi. Come tipo, che rechi in sé quasi in disegno embrionale la forma d’ogni ulteriore movimento socialistico e proletario, essa avea attraversato le varie fasi della cospirazione e del socialismo egalitario. Avea metafisicato con Grün, e utopizzato con Weitling. Avendo sua sede principale a Londra, s’era affiatata, rifluendo in piccola parte sopra di esso, col movimento cartista; il quale esemplificava nel suo carattere saltuario, perché di primo esperimento, e punto premeditato, perché non più di cospirazione o di setta, la dura e faticosa formazione del partito vero e proprio della politica proletaria. La tendenza al socialismo non giunse a maturità nel cartismo, se non quando il moto suo fu prossimo a fallire, e di fatti fallì (indimenticabili voi, Jones ed Harney!). La Lega fiutava da per tutto la rivoluzione, e perché la cosa era nell’aria, e perché il suo istinto e il suo metodo d’informazioni a ciò la portava: – e, mentre la rivoluzione effettivamente scoppiava, essa si fornì nella nuova dottrina del Manifesto di un istrumento di orientazione, che era in pari tempo un’arma di combattimento. Già di fatti internazionale, parte per la qualità e origine varia dei membri suoi, ma assai più ancora per l’istinto e per la vocazione che erano in tutti loro, essa venne a prender posto nel movimento generale della vita politica, qual precorrimento chiaro e preciso di tutto ciò che ora può ragionevolmente dirsi socialismo moderno; se cotal parola di moderno non deve esprimere una semplice data di cronologia estrinseca, ma anzi un indice del processo interno, ossia morfologico della società.
Una lunga intermissione dal 1852 al 1864, che fu il periodo della reazione politica, e quello in pari tempo della sparizione, della dispersione e del riassorbimento delle vecchie scuole socialistiche, separa la Internazionale appena iniziale dell’Arbeiterbildungsverein di Londra, dalla Internazionale propriamente detta, che dal 1864 al 1873 intese a parificare nelle condizioni di lotta l’azione del proletariato in Europa ed in America. Altre intermissioni ebbe l’azione del proletariato, meno che in Germania e specialmente in Francia, dalla dissoluzione della Internazionale di gloriosa memoria, fino a questa nuova, che ora vive di altri mezzi e si sviluppa con altri modi, consentanei quelli e questi alla situazione politica in cui ci troviamo, e ai suggerimenti di una più larga e maturata esperienza. Ma, come i sopravvissuti, tra quelli che fra il novembre e il dicembre del 1847 discussero ed accettarono la nuova dottrina, riapparvero poi su la scena pubblica nella grande Internazionale, e son riapparsi da ultimo in questa nuova, così il Manifesto è tornato via via alla luce della pubblicità, facendo effettivamente quel giro del mondo in tutte le lingue dei paesi civili, che s’era ripromesso ma non poté compiere al suo primo apparire.
Quello è il vero precorrimento: quelli furono i veri precursori nostri. Si mossero prima degli altri, di buon tempo, con passo affrettato ma sicuro, su quella via che noi appunto dobbiamo percorrere, e che difatti percorriamo. Mal s’attaglia il nome dei precursori a quelli i quali corsero vie, che poi sia convenuto di abbandonare: ossia a quelli i quali, per uscir di metafora, formularono dottrine e iniziarono movimenti, senza dubbio spiegabili per i tempi e per le circostanze in cui nacquero, ma che furon poi tutti superati dalla dottrina del comunismo critico, che è la teoria della rivoluzione proletaria. Non è già che quelle dottrine e quei tentativi fossero apparizioni accidentali, inutili e superflue. Nulla v’è di assolutamente irrazionale nel corso storico delle cose, perché nulla v’è in esso d’immotivato, e perciò di meramente superfluo. Né a noi è dato di giungere, nemmeno ora, alla coscienza del comunismo critico, senza ripassare mentalmente per quelle dottrine, ripercorrendo il processo della loro apparizione e sparizione. Il fatto è che quelle dottrine non sono soltanto passate nel tempo, o dalla memoria, ma furono intrinsecamente sorpassate, e per la mutata condizione della società, e per la progredita intelligenza delle leggi su le quali poggia la formazione ed il processo di essa.
Il momento in cui si avvera cotesto passare, che è un sorpassare intrinsecamente, gli è quello appunto in cui il Manifesto apparisce. Come primo indice della genesi del socialismo moderno, questo scritto, che della nuova dottrina non reca se non i cenni più generali ossia i più facilmente comunicabili, porta in sé le tracce del terreno storico in cui nacque, che fu quello della Francia, dell’Inghilterra e della Germania. Il terreno di propagazione e di diffusione è diventato poi via via più largo, ed è oramai tanto vasto quanto è il mondo civile. In tutti i paesi, nei quali la tendenza al comunismo si è venuta successivamente sviluppando attraverso agli antagonismi variamente atteggiati, ma pur ogni giorno sempre più chiari, fra borghesia e proletariato, in parte o in tutto s’è andato poi più volte ripetendo il processo della prima formazione. I partiti proletarii, che via via si son costituiti, han ripercorso gli stadii di formazione, che i precursori primi percorsero la prima volta: se non che tale processo s’è fatto da paese a paese e di anno in anno sempre più breve, e per la cresciuta evidenza, urgenza ed energia degli antagonismi, e perché assimilare una dottrina o un indirizzo è cosa naturalmente più facile, che non sia il produrre la prima volta e quella e questo. Quei collaboratori nostri di cinquanta anni fa, furono anche per questo rispetto internazionali; perché dettero al proletariato delle varie nazioni, col proprio esempio ed esperimento, la traccia anticipata e generale del lavoro da compiere.
Ma la coscienza teoretica dei socialismo sta oggi, come prima, e come starà sempre, nella intelligenza della sua necessità storica, ossia nella consapevolezza del modo della sua genesi; e questa si rispecchia, come in breve campo di osservazione e come in compendioso esempio, nella formazione appunto del Manifesto. Esso stesso, per l’intento di battaglia che si propone, non reca in sé apparenti le tracce della sua origine; perché si esprime in midollo di enunciati e non in apparato di dimostrazioni. La dimostrazione è tutta nell’imperativo della necessità. Ma la formazione si può tutta rifarla; e rifarla vuoi dire ora per noi intendere per davvero la dottrina del Manifesto.
C’è sì un’analisi, che, separando astrattamente i fattori di un organismo, li distrugge in quanto elementi concorrenti nella unità del complesso: – ma ce n e un’altra di analisi, ed essa sola ha valore per la intelligenza della storia, ed è quella che distingue e separa gli elementi soltanto per ravvisarvi la necessità obiettiva della concorrenza loro nel resultato. Oramai è opinione popolare, che il socialismo moderno sia un normale e perciò inevitabile portato della storia attuale. La sua azione politica, che ammette, sì, d’ora innanzi indugi e ritardi, ma non più riassorbimento totale e annichilimento, cominciò decisamente con la Internazionale. Più indietro però di questa sta il Manifesto. La sua dottrina è innanzi tutto la luce teorica portata sul movimento proletario; il quale, del resto, s’era generato e continua a generarsi indipendentemente dall’azione di ogni dottrina. E poi è più che questa luce. Il comunismo critico non sorge se non nel momento in cui il moto proletario, oltre ad essere un resultato delle condizioni sociali, ha già tanta forza in sé da intendere, che queste condizioni sono mutabili, e da intravvedere con quali mezzi e in che senso possano essere mutate. Non bastava che il socialismo fosse un resultato della storia; ma bisognava inoltre intendere come fosse intrinsecamente cotale resultato, e a che cosa menasse l’agitazione sua. L’enunciazione di tale consapevolezza, che cioè il proletariato, come resultato necessario della società moderna, ha in sé la missione di succedere alla borghesia, e di succederle come forza produttrice di un nuovo ordine di convivenza, in cui le antitesi di classe dovranno sparire, fa del Manifesto un momento caratteristico del corso generale della storia. Esso è una rivelazione, ma non già come apocalissi o promessa di millennio. È la rivelazione scientifica e meditata del cammino che percorre la nostra società civile (che l’ombra di Fourier mi sia benigna); la quale rivelazione, pei modi come è espressa, assume la parola decisiva e direi fulminea di chi enuncia nel fatto la necessità del fatto stesso.
A tale stregua il Manifesto ci ridà la storia interna della sua origine, che al tempo stesso ne giustifica la dottrina, e ne spiega il singolare effetto e la maravigliosa efficacia. Senza perderci in molti particolari, ecco le serie e i gruppi di elementi, che, raccolti e trasformati in quella rapida e calzante sintesi, vi rappresentano come il nocciolo d’ogni ulteriore sviluppo del socialismo scientifico.
La materia prossima, diretta ed intuitiva è data dalla Francia e dall’Inghilterra, che avean già messo sulla scena politica di dopo il 1830 un movimento operaio, il quale a volte si mescola e a volte si distingue dagli altri movimenti rivoluzionarii, corre per gli estremi dalla rivolta istintiva al disegno pratico del partito politico (p e. la Carta, e la democrazia sociale), e genera diverse forme temporanee e caduche di comunismo, o di semicomunismo, come era quello che allora chiamavasi socialismo.
Per riconoscere in tali moti, non più la fugace apparizione di turbamenti meteorici, ma il fatto nuovo della società occorreva una teoria, che non fosse, né un semplice complemento della tradizione democratica, né la soggettiva correzione degl’inconvenienti oramai riconosciuti della economia della concorrenza: le quali due cose passavano allora, come è noto, per la testa e per le bocche di molti. La nuova teoria fu appunto l’opera personale di Marx e di Engels; i quali trasferirono il concetto del divenire storico per processo di antitesi, dalla forma astratta, che la dialettica di Hegel avea per sommi capi e negli aspetti generalissimi già descritta, alla spiegazione concreta delle lotte di classe; e quel movimento storico, che era parso passaggio di una in altra forma di idee, per la prima volta intesero come transizione da una in altra forma della sottostante anatomia sociale, ossia da una in altra forma della produzione economica.
Cotesta concezione storica, elevando a teoria quel bisogno della nuova rivoluzione sociale, che era più o meno esplicito nella coscienza istintiva del proletariato, e nei suoi moti passionati e subitanei, nell’atto che riconosceva la intrinseca e immanente necessità della rivoluzione, di questa stessa cambiava il concetto. Ciò che era parso possibile alle sètte dei cospiratori, come cosa che possa volersi a disegno e predisporsi a volontà, diventava un processo da favorire, da sorreggere e da secondare. La rivoluzione diventava l’obietto di una politica, le cui condizioni son date dalla situazione complessa della società: cioè un resultato, al quale il proletariato deve giungere, attraverso lotte varie e mezzi varii di organizzazione, non ancora escogitati dalla vecchia tattica delle rivolte. E ciò perché il proletariato non è un accessorio, un amminicolo, una escrescenza, un male eliminabile di questa società in cui viviamo; ma è il suo sostrato, la sua condizione essenziale, il suo effetto inevitabile, e, alla sua volta, la causa che conserva e mantiene in essere la società stessa: onde non può emanciparsi, se non emancipando tutto e tutti, ossia rivoluzionando integralmente la forma della produzione.
Come la Lega dei Giusti era diventata Lega dei comunisti, spogliandosi delle forme simboliche e cospiratorie, e volgendosi verso i mezzi della propaganda e dell’azione politica a grado a grado, e qualche tempo in qua da che l’insurrezione di Barbès e Blanqui fu fallita (1839), così la dottrina nuova, che la Lega stessa accettava e faceva sua, superò definitivamente le idee che guidavano l’azione cospiratoria, e convertì in termine e resultato obiettivo di un processo ciò che i cospiratori pensavano stesse alla punta di un loro disegno, o potesse essere l’emanazione e l’efflusso del loro eroismo.
E in ciò è un’altra linea ascendente nell’ordine dei fatti, un’altra connessione di concetti e di dottrine.
Il comunismo cospiratorio, il blanquismo di allora, ci fa risalire attraverso a Buonarroti, e in parte attraverso a Bazard e alla Carboneria, fin su su alla cospirazione di Babeuf; il quale fu vero eroe di tragedia antica, che dà di cozzo nel fato, per la ignorata incongruenza del proprio disegno con la condizione economica del tempo, non atta ancora a mettere su la scena politica un proletariato fornito di esplicita coscienza di classe. Da Babeuf, attraverso ad alcuni elementi men noti del periodo giacobino, e poi a Boissel e a Fauchet, si risale all’intuitivo Morelly e al versatile e geniale Mably, e, se si vuole, sino al caotico testamento del curato Meslier, ribellione istintiva e violenta del buon senso contro la selvaggia oppressione del povero contadino.
Furon tutti egalitarii cotesti precursori del socialismo violento, protestatario, cospiratorio; come egalitarii furono per la più parte i cospiratori stessi. Per un singolare, ma inevitabile abbaglio, essi tutti assunsero ad arma di combattimento, ma interpretandola e generalizzandola a rovescio, quella medesima dottrina della eguaglianza, che sviluppatasi come diritto di natura parallelamente alla formazione della teoria economica, era stata istrumento in mano della borghesia, che conquistava via via la sua attuale posizione, per convertire la società del privilegio in quella del liberalismo, del liberismo e del codice civile[7]. Per tale illazione immediata, che era in fondo una semplice illusione, e cioè, che, essendo tutti gli uomini eguali in natura, essi abbiano ad esser tutti eguali anche nei godimenti, si credeva che l’appello alla ragione racchiudesse in sé ogni elemento e forza di persuasione e di propaganda, e che la rapida, istantanea e violenta presa di possesso degli istrumenti esteriori del potere politico fosse il solo mezzo per rimettere a posto i renitenti.
Ma donde nacquero, e come si reggono coteste disuguaglianze, che paion tanto irrazionali alla luce di un così semplice e semplicistico concetto della giustizia? Il Manifesto apparve come la recisa negazione del principio della eguaglianza, così ingenuamente e così grossolanamente inteso. Nell’atto che annuncia come inevitabile l’abolizione delle classi nella futura forma di produzione collettiva, di queste classi stesse, come esse sono, come nacquero e come divennero, dà ragione come di un fatto, che non è l’eccezione o la deroga ad un principio astratto, ma anzi è lo stesso processo della storia.
Come il proletariato moderno suppone la borghesia, così questa non vive senza di esso. E l’uno e l’altra sono il resultuto di un processo di formazione, che tutto poggia sul nuovo modo di produrre i mezzi necessarii alla vita; cioè tutto poggia sul modo della produzione economica. La società borghese è sorta dalla società corporativa e feudale, e ne è sorta lottando, e rivoluzionando ciò che aveva dinanzi a sé, per impossessarsi degl’istrumenti e dei mezzi della produzione, i quali tutti poi culminano nella formazione, nell’allargamento, e nella riproduzione e moltiplicazione del capitale. Descrivere la origine ed il progresso della borghesia, nelle sue varie fasi, esporre i suoi successi nello sviluppo colossale della tecnica e nella conquista del mercato mondiale, indicare le conseguenti trasformazioni politiche, che di tali conquiste sono l’espressione, le difese e il resultato, vuol dire fare al tempo stesso la storia del proletariato. Questo, nella sua condizione attuale, è inerente all’epoca della società borghese; ed ebbe, ha ed avrà tante e tante fasi, quante ne ha questa società stessa, fino al suo dissolvimento. L’antitesi di ricchi e di poveri, di gaudenti e di sofferenti, di oppressori e di oppressi, non è un qualcosa di accidentale e di facilmente removibile, come era parso agli entusiastici amatori della giustizia. Anzi è un fatto di necessaria correlazione, dato il principio direttivo dell’attuale forma di produzione; il che apparisce nella necessità del salariato. – Questa necessità è in sé duplice. Il capitale non può impossessarsi della produzione se non a patto di proletarizzare, e non può continuare ad esistere, ad esser fruttifero, ad accumularsi, a moltiplicarsi e a trasformarsi, se non a patto di salariare i proletarizzati. E questi, alla lor volta, non possono esistere e rinnovarsi se non a condizione di darsi a mercede, come forza di lavoro, il cui uso è abbandonato alla discrezione, cioè alle convenienze dei possessori del capitale. L’armonia fra capitale e lavoro sta tutta in ciò, che il lavoro è la forza viva con la quale i proletarii di continuo mettono in moto e riproducono, con nuova giunta, il lavoro accumulato nel capitale. Questo nesso, il quale è un resultato di uno sviluppo, che è tutta l’intima essenza della storia moderna, se dà la chiave per intendere la ragion propria della nuova lotta di classe, di cui la concezione comunistica è divenuta l’ausilio e l’espressione, è d’altra parte così fatto, che nessuna protesta del cuore e del sentimento, nessuna argomentazione di giustizia può risolverlo o disfarlo.
Per tali ragioni, rese qui da me, a quel che spero, con plausibile popolarità, il comunismo egalitario rimaneva battuto. La sua impotenza pratica era una e medesima cosa con la sua incapacità teorica a rendersi conto delle cause delle ingiustizie, ossia delle disuguaglianze, che voleva, o coraggiosamente, o spensieratamente atterrare od eliminare d’un tratto.
Intendere la storia diventava da quel punto in poi la cura principale dei teorici del comunismo. E come si potrebbe mai più contrapporre alla dura realtà sua, intendo dire della storia, un vagheggiato e sia pure perfettissimo ideale? Né è chi possa affermare, che il comunismo sia lo stato naturale e necessario della vita umana, di ogni tempo e luogo, per rispetto al quale tutto il corso delle formazioni storiche ci debba apparire come una serie di deviazioni e di aberrazioni. Né ad esso si va, o si torna, per spartana abnegazione, o per cristiana rassegnazione. Esso può essere, anzi deve essere e sarà la conseguenza del dissolversi di questa nostra società capitalistica. Ma in questa la dissoluzione non può essere inoculata ad arte, né importata ab extra. Si dissolverà per il proprio peso, direbbe Machiavelli. Cadrà come forma di produzione, che genera da sé in se stessa la costante e progressiva ribellione delle forze produttive contro i rapporti (giuridici e politici) della produzione; e intanto non continua a vivere, finché vive e vivrà, se non aumentando con la concorrenza, che genera le crisi, e con la vertiginosa estensione della sua sfera di azione, le condizioni intrinseche della sua morte inevitabile. La morte anche qui nella forma sociale, come è accaduto in altro ramo di scienza per la morte naturale, è diventata un caso fisiologico.
Il Manifesto non dette, né dovea dare il disegno della società futura. Disse, invece, come la presente si dissolverà per la dinamica progressiva delle sue forze immanenti. A intender ciò occorreva principalmente la esposizione dello sviluppo della borghesia; e questa fu fatta in rapidi cenni, che sono un capitolo esemplare di filosofia della storia, capace sì di ritocchi e di complementi, e soprattutto di largo sviluppo, ma che non ammette correzione nel suo intrinseco[8].
Saint-Simon e Fourier, tuttoché non riprodotti nel tenore delle loto idee, né imitati nell’andamento delle loro trattazioni, rimanevano, per tale elevazione teoretica, come giustificati ed inverati. Ideologi ambedue, essi aveano per anticipazione di singolare genialità superata dentro di sé l’epoca liberale, che nell’orizzonte loro culminava nella Grande Rivoluzione. Il primo capovolse la interpretazione della storia dal diritto all’economia, e dalla politica alla fisica sociale, e, in mezzo a molte incertezze d’intendimento idealistico e d’intendimento positivo, trovò quasi la genesi del terzo stato. L’altro, per ignoranza di particolari, o in genere non noti ancora, o da lui trascurati, e per esuberanza d’ingegno non disciplinato, fantasticò una gran sequela di epoche storiche, vagamente distinte e contrassegnate per certi indici del principio direttivo delle forme di produzione e di distribuzione. E si argomentò poi di costruire una società in cui le presenti antitesi sparissero. Di queste antitesi scovrì, con acume di genialità, e studiò con amore una principalmente: il circolo vizioso della produzione; concorrendo in ciò, senza saperlo, col Sismondi, che nel medesimo tempo, con altro animo e per altre vie, per l’esempio delle crisi e pei denunciati inconvenienti della grande industria e della spietata concorrenza, timido dichiarava il fiasco della scienza economica, appena e da poco arrivata a compimento. Dall’alto della serena meditazione del mondo futuro degli armoniosi, Fourier guardò con sereno disprezzo la miseria dei civilizzati, e scrisse tranquillo la satira della storia. Ignari così l’uno come l’altro, perché ideologi, dell’aspra lotta che il proletariato è chiamato a sostenere, prima di metter termine all’epoca dello sfruttamento e delle antitesi, divennero, per bisogno subiettivo di conchiudere, l’uno progettista e l’altro utopista[9]. Ma per divinazione afferrarono alcuni lati notevoli dei principii direttivi della società senza antitesi. Il primo concepì nettamente il governo tecnico della società, senza dominio dell’uomo su l’uomo; e l’altro, cioè Fourier, indovinò, intravvide e presagì, attraverso a tante e tante stravaganze della sua lussureggiante e irrefrenata fantasia, non pochi aspetti notevoli della psicologia e della pedagogica di quella convivenza futura, nella quale, secondo l’espressione del Manifesto: il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti.
Il saintsimonismo s’era già dileguato quando il Manifesto apparve. Il foutierismo invece fioriva in Francia, e, per l’indole sua, non come partito, ma come scuola. Quando la scuola tentò di giungere all’utopia mediante la legge, i proletarii parigini erano già stati battuti nelle giornate di Giugno da quella borghesia, che, battendoli, preparò a se stessa il dominio di un sommo ed insigne avventuriero, durato poi venti anni.
Non come voce di una scuola, ma come promessa, minaccia e volontà di un partito, veniva alla luce la nuova dottrina dei comunisti critici. I suoi autori e seguaci non viveano di fantasia del futuro, ma con animo tutto intento alla esperienza e alle necessità del presente. Viveano della coscienza dei proletarii, cui l’istinto, non sorretto ancora dalla esperienza, spingeva a rovesciare a Parigi e in Inghilterra il dominio della borghesia, con rapidità di mosse non dirette da una tattica studiata. Quei comunisti diffusero in Germania le idee rivoluzionarie, furono i difensori delle vittime di Giugno, ed ebbero nella “Neue Rheinische Zeitung" un organo politico, che ora, alla distanza di tanti anni, per fino nei brani che qua e là ne vengon riprodotti, fa scuola[10]. Cessate le contingenze storiche, che nel 1848 spinsero i proletarii sul davanti della scena politica, la dottrina del Manifesto non trovò più, né base, né terreno di diffusione. Ha aspettato degli anni a diffondersi; perché sono occorsi degli anni avanti che il proletariato potesse riapparire, per altre vie e con altri modi, su la scena come forza politica, e fare di quella dottrina il suo organo intellettuale, e trovare in essa i mezzi di orientazione.
Ma, dal giorno in cui apparve, essa fu la critica anticipata di quel socialismus vulgaris, che vegetò per l’Europa, e specialmente in Francia, dal Colpo di Stato all’apparizione della Internazionale, la quale, del resto, nel breve periodo di sua vita, non ebbe tempo di vincerlo, di esaurirlo, di eliminarlo del tutto. Si alimentava cotesto socialismo volgare, quando non d’altro e di più sconnesso, principalmente delle dottrine e assai più dei paradossi di Proudhon, il quale, superato già da lungo tempo teoricamente da Marx[11], non fu praticamente battuto se non durante la Comune, quando i seguaci suoi, per la più salutare lezione delle cose, furon costretti a fare il contrario delle dottrine proprie e del maestro.
Fin dal primo momento in cui apparve, questa nuova dottrina del comunismo fu la critica implicita di ogni forma di socialismo di stato, da Louis Blanc a Lassalle. Il socialismo di stato, per quanto commisto allora a tendenze rivoluzionarie, si concentrava tutto nella favola, nell’Hokus Pokus, del diritto al lavoro. Questo è termine insidioso, se implica domanda che si rivolga ad un governo, sia pure di borghesi rivoluzionarii. Questo è assurdo economico, se si ha in mente di sopprimere la variabile disoccupazione, che influisce sul variare dei salarii, ossia su le condizioni della concorrenza. Questo può essere artificio di politicanti, se è ripiego per sedare le turbolenze di una massa agitantesi di proletarii non organizzati. Questa è una superfluità teoretica, per chi concepisca nettamente il corso di una rivoluzione vittoriosa del proletariato; la quale non può non avviare alla socializzazione dei mezzi di produzione, mediante la presa di possesso di questi: ossia non può non avviare alla forma economica, in cui non c’è né merce né salariato, e nella quale il diritto al lavoro e il dovere di lavorare fanno uno nella necessità comune a tutti che tutti lavorino.
La favola del diritto al lavoro finì nella tragedia delle giornate di Giugno. La discussione parlamentare che se ne fece in seguito fu parodia. Il piagnucoloso e retorico Lamartine, quel grande uomo di occasione, avea avuto la opportunità di pronunciare l’ultima o la penultima delle sue celebrate frasi: “L’esperienza dei popoli sono le catastrofi"; e ciò bastava per l’ironia della storia.
Ma quello scritto, che era il Manifesto, di così piccola mole com’è, e di stile così alieno dalla retorica insinuazione di una fede o di una credenza, se fu tante e tante cose come sedimento di pensieri varii ridotti per la prima volta ad unità intuitiva di sistema, e come raccolta di germi capaci di largo sviluppo, non fu però, né pretese di essere, né il codice del socialismo, né il catechismo del comunismo critico, né il vademecum della rivoluzione proletaria. Le quintessenze possiamo ben lasciarle all’illustre Schäffle, a cui conto lasciamo anche ben volentieri la famosa questione sociale che è questione di ventre. Il ventre dello Schäffle fece per molti anni bella mostra di sé per il mondo, a delizia di tanti sportisti del socialismo, ed a sollievo di tanti poliziotti. Il comunismo critico, in verità, cominciava appena col Manifesto; doveva svilupparsi, e difatti si è sviluppato.
Il complesso di dottrine, che ora si è soliti di chiamare marxismo, non è giunto invero a maturità, se non negli anni dal ’60 al ’70. Ci corre di certo molto dall’opuscolo Capitale e lavoro a mercede[12], nel quale si tocca per la prima volta, in termini precisi, del come dalla compra e dall’uso della merce-lavoro si ottenga un prodotto superiore al costo, il che era il nocciolo della insoluta questione del plusvalore, fino agli amplii, complicati e multilaterali sviluppi del libro del Capitale. Questo libro esaurisce la genesi dell’epoca borghese, in tutta l’intima struttura sua economica; e quest’epoca stessa supera intellettualmente, perché la spiega ne’ suoi modi di procedere, nelle sue leggi particolari, e nelle antitesi che essa organicamente produce, e che organicamente la dissolvono.
E corre eguale divario dal movimento proletario, che fallì nel 1848, a questo dei nostri giorni, che per entro a molte difficoltà, dopo esser riapparso alla superficie della vita politica, si è venuto sviluppando con tale e tanta costanza di processo, ma con lentezza di studiati movimenti. Fino a pochi anni fa, cotesta regolarità di movimento progressivo nel proletariato non si notava ed ammirava, se non nella Germania sola, dove la democrazia sociale, come albero da proprio terreno, dalla conferenza operaia di Norimberga del 1868 in poi, era venuta normalmente crescendo con costanza di processo. Ma poi il fatto della Germania si è in varie forme ripetuto in altri paesi.
Ora in questo sviluppo ampio del marxismo, e in questo crescere del movimento del proletariato nei compassati modi dell’azione politica, non c’è stata forse, come molti dicono, una attenuazione del carattere bellicoso della originaria forma del comunismo critico? O che sia stato forse questo un passaggio dalla rivoluzione alla così detta evoluzione? o anzi un’acquiescenza dello spirito rivoluzionario alle esigenze del riformismo?
Queste riflessioni ed obiezioni sorsero e sorgono di continuo, così nel seno del socialismo, per bocca dei più accesi d’animo e di fantasia fra i suoi seguaci, come da parte degli avversarii, cui giova di generalizzare i casi dei particolari insuccessi, delle soste e degli indugi, per affermare, che il comunismo non ha del tutto avvenire.
Chi misuri l’attuale movimento proletario, e il suo corso vario e complicato, alla impressione che di sé dee lasciare il Manifesto, quando la lettura di esso non sia accompagnata da altre conoscenze, può facilmente credere, che qualcosa di troppo giovanile e prematuro fosse nella sicura baldanza di quei comunisti di or fa cinquant’anni. Nelle parole loro c’è come un grido di battaglia, e l’eco della vibrata eloquenza di alcuni oratori del cartismo, e l’annuncio quasi di un nuovo ’93, ma così fatto, da non dar luogo a un novello Termidoro.
E il Termidoro, invece, è venuto, e s’è ripetuto più volte nel mondo, in forme varie, e più o meno esplicite o dissimulate; ne fossero autori, dal 1848 in qua, ex-radicali alla francese, o ex-patrioti all’italiana, o burocratici alla tedesca, adoratori in idea del dio stato e in pratica buoni servi del dio danaro, o parlamentari all’inglese, scaltriti negli artifici e ripieghi dell’arte di governo, o perfino poliziotti in maschera di anarchisti di Chicago, e simili. E di qui le molte proteste contro il socialismo, e di qua e di là le argomentazioni di pessimisti e di ottimisti contro la probabilità del suo successo. A molti pare che la costellazione del Termidoro non debba più sparire dal cielo della storia; ossia, per parlare in prosa, che il liberalismo, che è la società degli eguali in diritto presuntivo, segni l’estremo limite della evoluzione umana, e che di là da esso non possa darsi che regresso. A ciò s’accomodano volentieri tutti quelli, che nella sola successiva estensione della forma borghese a tutto il mondo ripongono la ragione ed il fine di ogni progresso. Ottimisti o pessimisti che siano, trovan tutti le colonne d’Ercole del genere umano. Non rare volte accade che tale sentimento, nella sua forma pessimistica, operi inconsapevolmente su molti di quelli che vanno ad ingrossare, con gli altri déclassés, le file dell’anarchismo.
C’è poi di quelli che si spingono più oltre di così, e si metton quindi a teorizzare su la obiettiva inverosimiglianza degli assunti del comunismo critico. L’enunciato del Manifesto, che, cioè, la semplificazione di tutte le lotte di classe in una sola rechi in sé la necessità della rivoluzione proletaria, sarebbe intrinsecamente fallace per cotesti polemisti che teorizzano. Questa dottrina nostra sarebbe infondata, come quella che pretende di trarre una illazione scientifica ed una regola di condotta pratica dalla argomentata previsione di un presunto fatto, il quale invece, secondo cotesti buoni e pacifici oppositori, sarebbe un semplice punto teorico spostabile e differibile all’infinito. La pretesa inevitabile, e finale, e risolutiva collisione tra le forze produttive e la forma della produzione non verrebbe mai a capo, perché si disperde difatti, secondo loro, in infiniti particolari attriti, si moltiplica nelle parziali collisioni della concorrenza economica, trova indugio e impedimento nei ripieghi e nelle violenze dell’arte di governo. In altri termini, la società presente, anziché far crepaccio e dissolversi, rinnoverebbe in perpetuo l’opera di sua riparazione e ritocco. Ogni moto proletario, che non venga represso con la violenza, come fu nel giugno del 1848 e nel maggio del 1871, cesserebbe per lenta esaustione, come accadde del cartismo, che finì nel Trades-Unionismo, cavallo di battaglia di cotesto modo di argomentare, onore e vanto dei volgari economisti e dei sociologi da strapazzo. Ogni moto proletario moderno sarebbe meteorico e non organico, sarebbe un turbamento e non un processo; e noi, la mercè di cotali critici, saremmo, malgrado nostro, tuttora utopisti.
La previsione storica, che sta in fondo alla dottrina del Manifesto, e che il comunismo critico ha poi in seguito ampliata e specificata con la più larga e più minuta analisi del mondo presente, ebbe di certo, per le circostanze del tempo in cui apparve la prima volta, calore di battaglia, e colore vivissimo di espressione. Ma non implicava, come non implica tuttora, né una data cronologica, né la dipintura anticipata di una configurazione sociale, come fu ed è proprio delle antiche e nuove profezie e apocalissi.
L’eroico Fra Dolcino non era sorto di nuovo a levar per le terre il grido di battaglia, per la profezia di Gioacchino di Fiore. Né si celebrava nuovamente a Münster la risurrezione del regno di Gerusalemme. Non più Taborriti o Millenarii, Non più Fourier, che aspettasse chez soi, a ora fissa, per degli anni, il candidato della umanità. Non era più il caso che l’iniziatore di una nuova vita cominciasse da sé a mettere in essere, con mezzi escogitati, e in modo unilaterale ed artificiale, il primo nocciolo di una consociazione, che rifacesse, come albero da germoglio, la pianta uomo: – come accadde da Bellers, attraverso Owen e Cabet, fino alla impresa dei fourieristi nei Texas, che fu la catastrofe, anzi la tomba, dell’utopismo, illustrata da un singolare epitaffio, la calda eloquenza di Considérant che ammutolì. Qui non è più la setta, che in atto di religiosa astensione si ritragga pudica e timida dal mondo, per celebrare in chiusa cerchia la perfetta idea della comunanza; come dai Fraticelli giù giù alle colonie socialistiche di America.
Qui, invece, nella dottrina del comunismo critico, è la società tutta intera, che in un momento del suo processo generale scopre la causa del suo fatale andare, e, in un punto saliente della sua curva, la luce a se stessa per dichiarare la legge del suo movimento. La previsione, che il Manifesto per la prima volta accennava, era, non cronologica, di preannunzio o di promessa; ma era, per dirla in una parola, che a mio avviso esprime tutto in breve, morfologica.
Di sotto allo strepito e al luccichio delle passioni, su le quali di solito si esercita la cotidiana conversazione, più in qua dai moti visibili delle volontà operanti a disegno, che è quello che cronisti e storici vedono e raccontano, più in giù dall’apparato giuridico e politico della nostra convivenza civile, a molta distanza indietro dalle significazioni, che la religione e l’arte dànno allo spettacolo e all’esperienza della vita, sta, e consiste, e si altera e trasforma la struttura elementare della società, che tutto il resto sorregge. Lo studio anatomico di tale struttura sottostante è la Economia. E perché la convivenza umana ha più volte cambiato, o parzialmente o integralmente, nel suo apparato esteriore più visibile, e nelle sue manifestazioni ideologiche, religiose, artistiche e simili, occorre di trovare innanzi tutto i moventi e le ragioni di tali cangiamenti, che son quelli che gli storici di solito raccontano, nelle mutazioni più riposte, e alla prima meno visibili, dei processi economici della struttura sottostante. Cioè, bisogna rivolgersi allo studio delle differenze che corrono tra le varie forme della produzione, quando si tratti di epoche storiche nettamente distinte, e propriamente dette: – e dove si tratti di spiegarsi il succedersi di tali forme, ossia il subentrare dell’una all’altra, occorre di studiare le cause di erosione e di deperimento della forma che trapassa: – e da ultimo, quando si voglia intendere il fatto storico concreto e determinato, bisogna studiare e dichiarare gli attriti e i contrasti che nascono dai vani concorrenti (ossia le classi, le loro suddivisioni, e gl’intrecci di quelle e di queste), che formano una determinata configurazione.
Quando il Manifesto dichiarava, che tutta la storia fosse finora consistita nelle lotte di classe, e che in queste fu la ragione di tutte le rivoluzioni, come anche il motivo dei regressi, esso faceva due cose ad un tempo. Dava al comunismo gli elementi di una nuova dottrina, e ai comunisti il filo conduttore per ravvisare nelle intricate vicende della vita politica, le condizioni del sottostante movimento economico.
Nei cinquanta anni corsi da allora in qua, la previsione generica di una nuova èra storica è diventata pei socialisti l’arte minuta dell’intendere caso per caso quel che si convenga e sia dovere di fare; perché quell’èra nuova è per se stessa in continua formazione. Il comunismo è diventato un’arte, perché i proletarii sono diventati, o sono avviati a diventare, un partito politico. Lo spirito rivoluzionario si plasma tuttodì nella organizzazione proletaria. L’auspicata congiunzione dei comunisti e dei proletarii[13] è oramai un fatto. Questi cinquant’anni furono la prova sempre crescente della ribellione sempre cresciuta delle forze produttive contro le forme della produzione.
Fuori di questa lezione intuitiva delle cose, noi non abbiamo da offrire altra risposta, noi utopisti, a quelli che parlano ancora di turbamenti meteorici, che, secondo l’opinione loro, torneranno tutti alla calma di questa insuperata ed insuperabile epoca di civiltà. E tale lezione basta.
A undici anni dalla pubblicazione del Manifesto, Marx racchiudeva in chiara e trasparente formula i principii direttivi della interpretazione materialistica della storia; e ciò nella prefazione ad un libro, che è il prodromo del Capitale[14]. Ecco riprodotto il brano:
Il primo lavoro da me intrapreso, per risolvere i dubbii che mi assediavano, fu quello di una revisione critica della Filosofia del diritto di Hegel; del quale lavoro apparve la prefazione nei “Deutsch-Französische Jahrbücher" pubblicati a Parigi nel 1844. La mia ricerca mise capo in questo resultato: che i rapporti giuridici e le forme politiche dello stato non possono intendersi, né per se stessi, né per mezzo del così detto sviluppo generale dello spirito umano; ma anzi hanno radice nei rapporti materiali della vita, il cui complesso Hegel raccoglieva sotto al nome di società civile, secondo l’uso dei francesi ed inglesi del secolo decimottavo; e che inoltre l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica. Le ricerche intorno a questa, dopo cominciatele a Parigi, io le continuai a Bruxelles, dove ero emigrato per l’ordine di sfratto avuto dal signor Guizot. Il resultato generale che n’ebbi, e che, una volta ottenuto, mi valse come di filo conduttore dei miei studi, può essere formulato come segue:
Nella produzione sociale della loro vita gli uomini entran fra loro in rapporti determinati, necessarii ed indipendenti dal loro arbitrio, cioè in rapporti di produzione, i quali corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle materiali forze di produzione. L’insieme di tali rapporti costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale, su la quale si eleva una soprastruzione politica e giuridica, e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. La maniera della produzione della vita materiale determina innanzi e soprattutto il processo sociale, politico e intellettuale della vita. Non è la coscienza dell’uomo che determina il suo essere, ma è all’incontro il suo essere sociale che determina la sua coscienza. A un determinato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società si trovano in contraddizione coi preesistenti rapporti della produzione (cioè coi rapporti della proprietà, il che è l’equivalente giuridico di tale espressione), dentro dei quali esse forze per l’innanzi s’eran mosse. Questi rapporti della produzione, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro impedimenti. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Col cangiare del fondamento economico si rivoluziona e precipita, più o meno rapidamente, la soprastante colossale soprastruzione. Nella considerazione di tali sommovimenti bisogna sempre distinguer bene tra la rivoluzione materiale, che può essere naturalisticamente constatata per rispetto alle condizioni economiche della produzione, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche e filosofiche, ossia le forme ideologiche, nelle quali gli uomini acquistano coscienza del conflitto, e in cui nome lo compiono. Come non può farsi giudizio di quello che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso, cosi del pari non può valutarsi una determinata epoca rivoluzionaria dalla sua coscienza; anzi questa coscienza stessa deve essere spiegata per mezzo delle contraddizioni della vita materiale, cioè per mezzo del conflitto che sussiste tra forze sociali produttive e rapporti sociali della produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive per le quali essa ha spazio sufficiente; e nuovi rapporti di produzione non subentrano, se prima le condizioni materiali di loro esistenza non siano state covate nel seno della società che è in essere. Per ciò l’umanità non si propone se non quei problemi che essa può risolvere; perché, a considerare le cose dappresso, si vede, che i problemi non sorgono, se non quando le condizioni materiali per la loro soluzione ci son già, o si trovano per lo meno in atto di sviluppo. A guardar la cosa a grandi tratti, le forme di produzione asiatica, antica, feudale, e moderno-borghese possono considerarsi come epoche progressive della formazione economica della società. I rapporti borghesi della produzione sono l’ultima forma antagonistica del processo sociale della produzione – antagonistica non nel senso dell’antagonismo individuale, anzi di un antagonismo che sorge dalle condizioni sociali della vita degli individui; – ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese mettono già in essere le condizioni materiali per la risoluzione di tale antagonismo. Con tale formazione di società cessa perciò la preistoria del genere umano.
Quando Marx così scriveva, da parecchi anni già era egli uscito dall’arena politica, e non vi rientrò se non più tardi, ai tempi della Internazionale. La reazione avea battuto in Italia, in Austria, in Ungheria, in Germania la rivoluzione, o patriottica, o liberale, o democratica. La borghesia, dal canto suo, avea battuto in pari tempo i proletarii in Francia e in Inghilterra. Le condizioni indispensabili allo sviluppo del movimento democratico e proletario vennero d’un tratto a mancare. La schiera, non certo molto numerosa, dei comunisti del Manifesto, che s’era mescolata alla rivoluzione, e poi dopo partecipò a tutti gli atti di resistenza e di insurrezione popolare contro la reazione, vide da ultimo troncata la sua attività col memorabile processo di Colonia. I sopravvissuti del movimento tentarono di ricominciare a Londra; ma a breve andare Marx ed Engels ed altri volsero le spalle ai rivoluzionari di professione, e si ritrassero dall’azione prossima. La crisi era passata. Una lunga pausa sopraggiungeva. Ne era indizio la lenta sparizione del movimento cartista, ossia del movimento proletario del paese che è la colonna vertebrale del sistema capitalistico. La storia avea per il momento dato torto alla illusione dei rivoluzionarii.
Prima di dedicarsi quasi esclusivamente alla prolungata incubazione degli elementi già da lui trovati della critica dell’economia politica, Marx illustrò in varii scritti la storia del periodo rivoluzionario del 1848-50, e specie le lotte di classe in Francia, documentando così, che, se la rivoluzione, nelle forme che essa avea per il momento assunte, era fallita, non rimaneva per ciò solo smentita la teoria rivoluzionaria della storia[15]. La traccia appena indicata nel Manifesto veniva già a metter capo nella esposizione piena.
E più in qua lo scritto, che ha per titolo: Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte[16], fu il primo tentativo di plasmare la nuova concezione storica nel racconto di un ordine di fatti, che sia chiuso in termini di tempo precisi. Non è, certo, piccola difficoltà quella di risalire dal moto apparente al moto reale della storia, per iscovrirne il nesso intimo. Cioè, ci è grande difficoltà a risalire dagl’indici passionati oratorii, parlamentari, elettorali e simili, all’intimo ingranaggio sociale, per iscovrire in questo, dichiarandoli, i vari interessi dei grandi e dei piccoli borghesi, dei contadini, degli artigiani e degli operai, dei preti e dei soldati, dei banchieri, degli usurai e della canaglia; i quali interessi operano, consapevolmente o inconsciamente che siasi, urtandosi, elidendosi, combinandosi, o fondendosi nella disarmonica vita dei civilizzati.
La crisi era passata, ed era passata precisamente nei paesi, che costituivano il terreno storico dal quale il comunismo critico era sorto. Intendere la reazione nelle sue riposte cause economiche era tutto quello che i comunisti critici potessero fare; perché, per il momento, intendere la reazione era come continuare l’opera della rivoluzione. Così accadde, in altre condizioni e forme, venti anni dopo, quando Marx, in nome della Internazionale, scrisse nell’opuscolo su la Guerra civile in Francia una apologia della Comune, che fu al tempo stesso la critica obiettiva di quella.
L’eroica rassegnazione, con la quale Marx uscì di dopo il 1850 dall’arena politica, ha un riscontro nel suo ritiro dalla Internazionale, dopo il Congresso dell’Aia nel 1872. Ai biografi i due fatti possono interessare per ritrovarvi dentro il suo carattere personale; nel quale, in effetti, e le idee e il temperamento, e la politica e il pensiero facevano tutt’uno. Ma in questi fatti particolari c’è una significazione più lata, e di maggior peso per noi. Il comunismo critico non fabbrica le rivoluzioni, non prepara le insurrezioni, non arma le sommosse. È, sì, tutt’una cosa col movimento proletario; ma vede e sorregge questo movimento nella piena intelligenza della connessione che esso ha, o può e deve avere, con l’insieme di tutti i rapporti della vita sociale. Non è, in somma, un seminario in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione proletaria; ma è solo la coscienza di tale rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze, la coscienza delle sue difficoltà.
Il movimento proletario è venuto crescendo in modo colossale in questi ultimi trent’anni. Attraverso a molte difficoltà, e con molte vicende di passi indietro e di passi in avanti, esso ha via via assunto forme politiche, con metodi a grado a grado escogitati e lentamente provati. I comunisti non hanno evocato tutto ciò con l’azione magica della dottrina, sparsa e comunicata con la virtù persuasiva della parola e dello scritto. Fin dal principio seppero di essere l’estrema ala sinistra di ogni movimento proletario; ma, a misura che questo si sviluppava e si specificava, era necessità e dovere ad un tempo per loro, di secondare, nei programmi e nell’azione pratica dei partiti, le varie contingenze dello sviluppo economico, e della conseguente situazione politica.
In questi cinquant’anni dalla pubblicazione del Manifesto in qua, le specificazioni e le complicazioni del movimento proletario son divenute tali e tante, che non è oramai mente che tutte le abbracci, e penetri, e intenda, e spieghi nelle loro vere cause e relazioni. L’internazionale unitaria durata nel periodo di tempo del 1864-73, assolto che ebbe l’ufficio suo, che fu quello di un pareggiamento preliminare nelle generali tendenze, e nelle idee comuni e indispensabili a tutto il proletariato, dovette sparire; né altri penserà, o potrà mai pensare, di rifar nulla che le rassomigli.
Due cause, fra le altre, hanno fortemente contribuito a questa vasta specificazione e complicazione del movimento proletario. La borghesia ha sentito in molti paesi il bisogno di limitare, a propria difesa, molti degli abusi che seguirono alla prima e subitanea introduzione del sistema industriale; e di qui nacque la legislazione operaia, o, come altri pomposamente dice, sociale. La stessa borghesia, o a propria difesa, o sotto la pressione delle circostanze, ha dovuto in molti paesi allargare le generiche condizioni della libertà, e specie estendere il diritto di suffragio. Per queste due circostanze, che han tratto il proletariato entro la cerchia della vita politica di tutti i giorni, la sua capacità di movimento è grandemente cresciuta; e l’agilità e pieghevolezza maggiore, di cui esso ora è fornito, gli permettono di contendere con la borghesia nell’arena dei comizi e nelle aule parlamentari. E come dal processo delle cose viene il processo delle idee, così a questo multiforme sviluppo pratico del proletariato, che è tanto vario di forme e d’intrecci, che nessuno può più vederselo innanzi agli occhi e ripensarlo tutto, ha corrisposto un graduale sviluppo delle dottrine del comunismo critico nell’intendere la storia e nell’intendere la vita presente, fino alla minuta descrizione delle più piccole parti della economia: – esso, in somma, è diventato una scienza, se tal nome vuoi essere inteso con la debita discrezione.
Ma non c’è forse in tutto ciò, dicono insistentemente alcuni, come uno sviarsi dalla dottrina semplice e imperativa del Manifesto? Quello che si è guadagnato in estensione o complessità, ripetono altri, non si è forse perduto in intensità e in precisione?
Coteste domande nascono, a mio avviso, da un erroneo concetto del presente movimento proletario, e da una illusione ottica circa il grado di energia e circa il valore rivoluzionario delle manifestazioni di molti anni fa.
Qualunque concessione la borghesia faccia nell’ordine economico, fino alla massima riduzione delle ore di lavoro, riman sempre vero il fatto, che la necessità dello sfruttamento, su cui poggia tutto l’ordine sociale presente, ha limiti insormontabili, oltre dei quali il capitale come privato istrumento di produzione non ha più la sua ragion d’essere. Se una determinata concessione può oggi sedare una immediata forma di inquietezza nel proletariato, la concessione stessa non può a meno di destare il desiderio di altre, e nuove, e sempre crescenti. Il bisogno della legislazione operaia, nato in Inghilterra in anticipazione del movimento cartista e sviluppatosi poi con esso, ottenne i suoi primi successi nel periodo di tempo immediatamente posteriore alla caduta del cartismo stesso. I principii e le ragioni di tale movimento furono, nell’intrinseco delle cause e degli effetti, studiati criticamente da Marx nel Capitale, e poi passarono attraverso la Internazionale nei programmi dei partiti socialistici. Ed ecco che da ultimo tutto cotesto processo, concentratosi nella domanda delle otto ore, è diventato nella festa del I° maggio una rassegna internazionale del proletariato, e un modo di raccoglier gl’indici dei progressi di esso. D’altra parte, la giostra politica cui il proletariato s’avvezza, ne democratizza le abitudini, anzi ne fa una vera democrazia; la quale a lungo andare non potrà più adagiarsi nella presente forma politica, che, come organo della società dello sfruttamento, è una gerarchia burocratica, una burocrazia giudicante, una associazione di mutuo soccorso fra i capitalisti, ed è il militarismo a difesa dei dazii protettori, della rendita perpetua del debito pubblico, della rendita della terra, e così via dell’interesse del capitale in ogni altra sua forma. I due fatti, adunque, che hanno apparenza, secondo l’opinione dei furenti e degl’ipercritici, di sviare in infinito le previsioni del comunismo, si convertono invece in nuovi mezzi e condizioni che quelle previsioni confermano. Gli apparenti deviatori della rivoluzione si convertono, in somma, in suoi moventi.
Nè bisogna inoltre esagerare la portata della aspettazione rivoluzionaria dei comunisti di cinquanta anni fa. Data la situazione politica dell’Europa d’allora, se fu fiducia in loro, fu quella di esser precursori, e furon di fatti: – se aspettazione fu in loro, era quella che le condizioni politiche d’Italia, d’Austria, di Ungheria, di Germania e di Polonia s’avvicinassero alle forme moderne, e ciò è accaduto poi più tardi, almeno in parte, e per altre vie: – se speranza fu in essi, era questa, che il movimento proletario di Francia e d’Inghilterra continuasse e si sviluppasse. La sopraggiunta reazione spazzò via molte cose, e molti impliciti o avviati sviluppi deviò e dilazionò. Ma spazzò anche via dal campo del socialismo la vecchia tattica rivoluzionaria: – e questi ultimi anni ne hanno creata una nuova. Ecco tutto[17].
Né il Manifesto volle esser altro e di meglio, se non il primo filo conduttore di una scienza e di una pratica, che la sola esperienza e gli anni poteano e doveano sviluppare. Ciò che esso reca intorno al generale andamento del moto proletario concerne, dirò così, il solo schema e il solo ritmo. In ciò si riflette, senza dubbio, l’impressione che produceva allora su i comunisti la esperienza dei due movimenti, che appunto cadevano sott’occhi; quello di Francia, cioè, e soprattutto il cartismo, che a breve andare fu colto da paralisi per la non accaduta manifestazione insurrezionale del 10 aprile 1848. Ma in tale schema non è nulla di idealizzato, che poi si converta in una tassativa tattica di guerra; come più volte era difatti accaduto, che i rivoluzionari riducessero in anticipato catechismo ciò che non può essere se non un semplice portato dello sviluppo delle cose.
Quello schema è diventato poi più vasto e più complesso, grazie all’allargarsi del sistema borghese, che tanta più parte di mondo ha investito e comprende. Il ritmo del movimento è diventato più vario e più lento, appunto perché la massa operaia è entrata su la scena come vero e proprio partito politico; il che, cambiando i modi e le scadenze dell’azione, ne cambia le movenze.
Come, innanzi al perfezionamento delle armi e degli altri mezzi di difesa, la tattica delle sommosse è apparsa inopportuna; – come la complicazione dello stato moderno fa apparire insufficiente la improvvisata occupazione di un Hotel de Ville, per imporre ad un intero popolo il volere e le idee di una minoranza, sia pur essa coraggiosa e progressiva: – così dal canto suo la massa proletaria non istà più alla parola d’ordine di pochi capi, nè regola le sue mosse su le prescrizioni di capitani, che possano, se mai, su le rovine di un governo di classe o di consorteria, crearne un altro dello stesso genere. La massa proletaria, là dove essa si è svolta politicamente, ha fatto e fa la sua propria educazione democratica. Cioè, elegge e discute i suoi rappresentanti, e fa sue, esaminandole, le idee e le proposte, che quelli per anticipazione di studio o di scienza abbiano intuito e presagito; e sa già, o comincia almeno ad intendere, secondo i varii paesi, che la conquista del potere politico non dee nè può esser fatta da altri in nome suo, sia pure da gruppi di coraggiosi antesignani, e che soprattutto quella conquista non può riuscire con un colpo di mano. Essa, la massa proletaria, in somma, o sa, o s’avvia ad intendere, che la dittatura del proletariato, la quale dovrà preparare la socializzazione dei mezzi di produzione, non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e sarà il resultato dei proletarii stessi, che siano, già in sé, e per lungo esercizio, una organizzazione politica.
Lo sviluppo e l’estensione del sistema borghese furon rapidi e colossali in questi cinquanta anni. Oramai esso corrode la vecchia e santa Russia, e crea, non che nell’America e nell’Australia, e nell’India, ma per fino nel Giappone, nuovi centri di produzione moderna, complicando le condizioni della concorrenza, e gl’intrecci del mercato mondiale. Gli effetti delle mutazioni politiche, o non mancarono, o non si faranno lungamente aspettare. Egualmente rapidi e colossali furono i progressi del proletariato. La sua educazione politica segna ogni giorno un nuovo passo verso la conquista del potere politico. La ribellione delle forze produttive contro la forma della produzione, ossia la lotta del lavoro vivo contro il lavoro accumulato, si fa ogni giorno più palese. Il sistema borghese è oramai su le difese, e rivela lo stato e la posizione sua in questa singolare contraddizione, che, cioè, il pacifico mondo della industria è diventato un immane accampamento, entro del quale vegeta il militarismo. L’epoca dell’industria pacifica è diventata, per l’ironia delle cose, l’epoca del continuo ritrovamento di nuovi e più potenti mezzi di guerra e di distruzione.
Il socialismo s’è imposto. Per fino i semisocialisti, per fino i ciarlatani che ingombrano di sé la stampa e le assemblee dei nostri partiti, non sempre senza imbarazzo nostro, sono un omaggio che le vanità e le ambizioni di ogni maniera rendono a modo loro alla nuova potenza che sorge all’orizzonte. Malgrado il divieto anticipato del socialismo scientifico, che non è dato a tutti d’intendere, pullulano e si moltiplicano ogni istante i farmacisti della questione sociale, che han tutti qualcosa di particolare da suggerire o da proporre, per curare od eliminare questo o quel malanno sociale; – nazionalizzazione del suolo; monopolio dei grani da parte dello stato; statificazione delle ipoteche; municipalizzazione dei mezzi di trasporto; finanza democratica; sciopero generale; – e così via, da non finirla mai! Ma la democrazia sociale elimina tutte coteste fantasie, perché l’istinto della propria situazione induce i proletarii, appena si addestrino nell’arena politica, ad intendere il socialismo in modo integrale[18]. A intendere, cioè, che ad una cosa sola essi devono soprattutto mirare: all’abolizione, cioè, del salariato: che una sola forma di società è quella che rende possibile, e anzi necessaria, la eliminazione delle classi: e cioè l’associazione che non produce merci; e che tal forma di società non è più lo stato, anzi è il suo opposto, ossia il reggimento tecnico e pedagogico della convivenza umana, il selfgovernment del lavoro. Non più giacobini, né quelli eroicamente giganti del ’93, né quelli in caricatura del 1848!
Democrazia sociale! - Ma non è questa, si ripete da molti, una evidente attenuazione della dottrina del comunismo, che fu espressa in termini così vibrati e risoluti nel Manifesto?
Non occorre certo di ricordare, come il nome di democrazia sociale avesse in Francia significati di molto varii fra loro dal 1837 al 1848, che tutti poi si diluirono in un vago sentimento. Né giova di spiegarsi, come i tedeschi sian riusciti a esprimere in tale denominazione, il cui significato nel caso loro è da cercare solo nel contesto del fatto stesso, tutto il ricco ed ampio sviluppo del loro socialismo, dall’episodio di Lassalle, oramai superato ed esaurito, fino ai giorni nostri. Certo è che democrazia sociale può significare, ha significato e significa tante cose, che né furono, né sono, né saranno mai, né il comunismo, né il consapevole avviamento alla rivoluzione proletaria. Certo è del pari, che il socialismo contemporaneo, anche nei paesi dove lo sviluppo suo è più chiaro, preciso e progredito, ha sopra di sé di molta scoria dalla quale deve via via liberarsi lungo il suo cammino; e certo è, infine, che a tanti intrusi e ingrati ospiti fra noi fa da scudo e da coverchio la troppo lata denominazione di democrazia sociale. Ma qui preme di dire ben altro, e di fissare l’attenzione sopra un punto di capitale importanza.
Conviene innanzi tutto di accentuare la prima parola del termine composto, non già a risolvere ogni questione, ma ad ovviare ad equivoci ed alterazioni. Democratica fu la costituzione della Lega dei comunisti; democratico fu il suo modo di procedere, anche nell’accogliere, discutendola, la nuova dottrina; democratica fu la sua condotta nel mescolarsi alla rivoluzione del 1848, e nel partecipare alla resistenza insurrezionale contro l’invadente reazione; democratico fu, da ultimo, perfino il modo della sua dissoluzione. In quel primo incunabulo dei nostri attuali partiti, in quella, dirò così, prima cellula del nostro complesso, elastico e sviluppatissimo organismo, oltre alla coscienza della missione da compiere come precorrimento, era già la forma e il metodo di convivenza, che soli convengono ai preparatori della rivoluzione proletaria. La setta era superata di fatto. Il predominio immediato e fantastico dell’individuo era già eliminato. Predominava la disciplina attinta alla esperienza della necessità, e alla dottrina, che di quella necessità deve essere appunto la coscienza riflessa. Così fu parimenti della Internazionale, il cui procedere parve autoritario solo a quelli, che non riuscirono ad introdurvi e a farvi valere l’importuna o fatua autorità propria. Così è e deve essere nei partiti proletarii, e dove ciò non è, o non può essere ancora, l’agitazione proletaria, elementare appena e confusa, genera soltanto illusioni, o dà pretesto all’intrigo. Ciò che così non è, sarà la conventicola, nella quale accanto all’illuso siede il pazzo e la spia. O sarà la setta dei Fratelli Internazionali, che come parassita si attaccò alla Internazionale, e la espose al discredito. O la cooperativa, che degeneri in impresa, o si venda a un potente. O il partito operaio non politico, che studia fra le altre cose le contingenze del mercato, per introdurre la tattica degli scioperi nelle sinuosità della concorrenza. O da ultimo l’accozzaglia dei malcontenti, per la più parte spostati e piccoli borghesi, che speculano sul socialismo come su di una fra le tante altre frasi della moda politica. Tutti questi ed attrettali impedimenti la democrazia sociale s’è trovato fra i piedi sul suo cammino, e dovette più volte, come deve tuttora di quando in quando, sbarazzarsene. Né sempre valse l’arte della persuasione. Il più delle volte convenne e conviene rassegnarsi, e aspettare che gli illusi traessero o traggano dalla dura scuola del disinganno l’ammaestramento, che non sempre si riceve volentieri per via dei ragionamenti.
Coteste intrinseche difficoltà del movimento proletario, che la scaltra borghesia può spesso fomentare, e difatti sfrutta, formano una non piccola parte della storia interna del socialismo di questi ultimi anni.
Il socialismo non trovò impedimenti al suo sviluppo soltanto nelle condizioni generali della concorrenza economica, e nella resistenza dell’apparato politico; ma anche nelle condizioni stesse della massa proletaria, e nella meccanica non sempre chiara, per quanto inevitabile, dei suoi movimenti lenti, vani, complessi, spesso antagonistici e contraddittorii. E ciò oscura agli occhi di molti la cresciuta ed acuita semplificazione di tutte le lotte di classe, nell’unica lotta tra capitalisti e lavoratori proletarizzati[19].
Il Manifesto, come non avea scritto, secondo l’uso degli utopisti, l’etica e la psicologia della società futura così non dettò la meccanica di questo processo di formazione e di sviluppo, in cui noi ci troviamo. Era già molto che alcuni pionieri dischiudessero la via, su la quale conviene di mettersi per intenderla e provarla. Del resto, l’uomo è l’animale esperimentale per eccellenza, e perciò ha una storia, anzi perciò solo fa la sua propria storia.
In questo cammino del socialismo contemporaneo, che è il suo sviluppo perché è la sua esperienza, ci siamo incontrati nella massa dei contadini.
Il socialismo, che si era dapprima praticamente e teoricamente fissato e svolto nello studio e nella esperienza degli antagonismi tra capitalisti e proletarii nell’ambito della produzione industriale propriamente detta, s’è da ultimo appressato alla massa nella quale vegeta l’idiotismo della campagna. Conquistare la campagna è la quistione del giorno: malgrado che il quintessenziale Schäffle avesse da gran tempo collocato in quella, a difesa dell’ordine, i cranii anticollettivistici dei contadini. La eliminazione, o l’accaparramento della industria domestica per opera del capitale; l’allargamento della industria agraria nella forma capitalistica; la sparizione della piccola proprietà, o la sua erosione mediante le ipoteche; il dileguarsi dei demanii comunali; l’usura, le tasse e il militarismo; – tutte coteste cose insieme cominciano ad operar miracoli anche in quei cranii, presuntivi custodi della conservazione.
A tale impresa si è messo innanzi tutti il socialismo tedesco, che era portato dal fatto stesso della sua colossale espansione dalla città ai piccoli centri, a toccare inevitabilmente i confini della campagna. Le prove saranno lunghe e non facili, anzi dure; il che spiega, e scusa, e scuserà per un pezzo gli errori che furono e saranno commessi ai primi passi[20]. Finché i contadini non saranno conquistati, noi avremo sempre alle spalle quell’ idiotismo della campagna, che fa o rinnova inconsapevolmente, appunto perché idiotismo, il 18 Brumaio e il 2 dicembre.
Con questa conquista della campagna andrà molto probabilmente di pari passo lo sviluppo della società moderna in Russia. Quando quel paese sarà entrato nell’èra liberale, con tutti i difetti e gl’inconvenienti che di questa son proprii, ossia con tutte le forme di sfruttamento e di proletarizzazione schiettamente moderne, ma coi vantaggi ed i compensi però dello sviluppo politico del proletariato, la democrazia sociale non avrà più da temere minaccia di improvvisi pericoli esterni; e quelli interni essa si troverà di aver vinto in pari tempo con la conquista dei contadini.
Istruttivo, è senza dubbio, il caso dell’Italia. Questo paese, data che ebbe già in su la fine del Medioevo l’avviata all’epoca capitalistica, uscì per secoli dalla circolazione della storia. Caso tipico di decadenza documentata, e studiabile precisamente nelle sue fasi! Rientrò in parte nella storia ai tempi della dominazione napoleonica. Risorta ad unità e diventata stato moderno, dopo l’epoca della reazione e delle cospirazioni, e nei modi e per le vicende che tutti sanno, l’Italia si è trovata di avere di recente tutti gl’inconvenienti del parlamentarismo, e del militarismo, e della finanza di novello stile, non avendo però in pari tempo la forma piena della produzione moderna, e la conseguente capacità della concorrenza a condizioni eguali. Impedita di concorrere coi paesi d’industria avanzata, per la mancanza assoluta del carbon fossile, per la scarsezza del ferro e per la deficiente preparazione delle operosità e delle attitudini tecniche, aspetta ora, o si lusinga, che le applicazioni della elettricità le dian modo di riguadagnare il tempo perduto, come si vede per gl’indizii dei varii tentativi da Biella a Schio. Uno stato moderno in una società quasi esclusivamente agricola, e in gran parte di vecchia agricoltura: – ciò crea un sentimento di universale disagio, ciò dà la generale coscienza della incongruenza di tutto e d’ogni cosa!
Di qui la incoerenza e la inconsistenza dei partiti, di qui le facili oscillazioni dalla demagogia alla dittatura, di qui la folla, la turba, l’infinita schiera dei parassiti della politica, e poi dei progettisti, dei fantastici e degl’inventori d’idee. Rischiara di luce vivissima questo singolare spettacolo dì uno sviluppo sociale impedito, ritardato, intralciato e perciò incerto, l’acuto ingegno, che se non è sempre frutto ed espressione di molta e vera coltura moderna, reca però in sé, per vecchio abito di millenare civiltà, l’impronta di un raffinamento cerebrale quasi insuperabile. L’Italia non fu, per ragioni ovvie, terreno proprio di una autogenetica formazione di idee e di tendenze socialistiche. Filippo Buonarroti, italiano, da amico già del minore dei Robespierre divenne il compagno di Babeuf, e fu poscia più tardi il rinnovatore del babuvismo nella Francia di dopo il 1830! Il socialismo fece la sua prima apparizione in Italia ai tempi della Internazionale, nella confusa e incoerente forma del bakuninismo; e non come movimento di massa proletaria, ma anzi come di piccoli borghesi, di déclassés e di rivoluzionari per impulso e per istinto[21]. Di recente, in questi ultimi anni, il socialismo vi si è andato fissando e concretando in una forma che riproduce, con molta incertezza però, ossia con poca precisione, il tipo generale della democrazia sociale[22].Ebbene, in Italia, il primo segno di vita, che il proletariato abbia dato di sé, è consistito nelle sollevazioni dei contadini di Sicilia, alle quali altre dello stesso tipo ne tennero dietro sul continente, ed altre assai probabilmente ne succederanno in seguito. Non è ciò assai significativo?
Dopo tale scorsa nel campo del socialismo contemporaneo, si torna volentieri col pensiero e con l’animo al ricordo di quei primi precursori nostri di cinquanta anni fa, i quali documentarono nel Manifesto la presa di possesso di un posto avanzato sulla via del progresso. Né ciò è da intendere segnatamente ed esclusivamente per rispetto ai soli teorici della schiera; cioè per Marx ed Engels. L’uno e l’altro avrebbero esercitato in ogni caso e sempre, o dalla cattedra, o dalla tribuna, o con gli scritti, una non piccola influenza su la politica e su la scienza, tale e tanta era in loro la potenza e la originalità dell’ingegno e la estensione delle conoscenze, quando anche non si fossero imbattuti mai sul cammino della vita nella Lega dei comunisti. Ma intendo dire di quegli uomini, che nel gergo vano ed orgoglioso della letteratura borghese sarebber detti oscuri: – di quel calzolaio Bauer, di quei sarti Lessner ed Eccarius, di quel miniaturista Pfänder, di quell’orologiaio Moll[23], di quel Lochner, o come altro si chiamino quei che primi iniziarono consapevolmente il nostro movimento. Sta come indice della loro apparizione il motto: Proletarii di tutto il mondo, unitevi. Sta come resultato dell’opera loro: il passaggio del socialismo dall’utopia alla scienza. La sopravvivenza dell’istinto loro e del loro primitivo impulso nell’opera nostra dell’oggi, è il titolo indimenticabile, che quei precursori si acquistarono alla gratitudine di tutti i socialisti.
Come italiano ritorno io tanto più volentieri su questo primo inizio del socialismo moderno, perché, per la mia parte almeno, non rimanga senza effetto un recente monito dell’Engels:
E così la scoverta, che, sempre e da per tutto, le condizioni e gli accadimenti politici trovino la loro spiegazione nelle rispettive condizioni economiche, non sarebbe stata punto fatta da Marx nell’anno 1845, ma anzi dal signor Loria nel r886. Per lo meno egli è riuscito ad imporre tale credenza ai suoi concittadini, e da che il suo libro fu tradotto in Francia, anche ad alcuni francesi, e può ora andare attorno per l’Italia tronfio e pettoruto, come scovritore di una teoria che fa epoca; finché i socialisti del suo paese non trovino il tempo di strappare all’illustre Loria le rubate penne di pavone[24].
Vorrei finire; ma conviene m’indugi ancora.
Da tutte le parti e da tutti i campi si levano proteste, sorgono lamenti, si affacciano obiezioni contro il materialismo storico. E al coro mescolano, di qua e ai là, la voce loro i socialisti immaturi, i socialisti filantropici, o i socialisti sentimentali e alquanto isterici. E poi ricomparisce, come monito, la questione del ventre. E son tanti quelli che giuocano di scherma logica con le categorie astratte dell’egoismo e dell’altruismo; e per molti vien sempre in buon punto la ormai inevitabile lotta per l’esistenza!
Morale! Ma non l’abbiamo noi udita da un pezzo già la lezione di cotesta morale dell’epoca borghese, dalla Favola delle Api di quel Mandeville, che fu coetaneo della prima formazione della Economia classica? E la politica di cotesta morale non fu spiegata, con caratteri di insuperata ed indimenticabile classicità, dal primo grande scrittore politico dell’epoca capitalistica, da Machiavelli: non inventore lui, ma anzi fedele ed accurato segretario ed estensore del machiavellismo? E la giostra logica dell’egoismo e dell’altruismo non ci sta tutta sott’occhi, dal reverendo Malthus, a cotesto tenue, vacuo, prolisso e noioso ragionatore, che è l’oramai indispensabile Spencer? Lotta per l’esistenza! Ma volete osservarne, studiarne ed intenderne una, che sia più intuitiva per noi di questa che è sorta e giganteggia nell’agitazione proletaria? O è forse che volete voi ridurre la spiegazione di cotesta lotta, – la quale si svolge e si esercita nel campo supernaturale della società, che l’uomo stesso si è creato attraverso la storia, col lavoro, con la tecnica e con le istituzioni, e che l’uomo stesso può cambiare con altre forme di lavoro, di tecnica e di istituzioni, – semplicemente a quella più generale della lotta, che piante ed animali, e gli uomini stessi in quanto sono puramente animali, combattono nell’ambito immediato della natura?
Ma stiamo all’argomento nostro.
Il comunismo critico non si è rifiutato mai, né si rifiuta, di accogliere in sé tutta la molteplice e ricca suggestione ideologica, etica, psicologica e pedagogica, che può venirgli dalla conoscenza e dallo studio di quante mai forme furono di comunismo e di socialismo, da Falea di Calcedonia a Cabet[25]. Anzi gli è precisamente con lo studio e per la conoscenza di tali forme, che si sviluppa e si fissa la coscienza del distacco del socialismo scientifico da tutto il resto. E chi in tale studio vorrà rifiutarsi di riconoscere, ad esempio, che Tommaso Moro fu un animo eroico e uno scrittore insigne del socialismo? E chi vorrà non rendere nel proprio animo un tributo di straordinaria ammirazione a Roberto Owen, il quale primo acquisì all’etica del comunismo questo principio indiscutibile: che il carattere e la morale degli uomini sono il necessario resultato delle condizioni in cui essi vivono, e delle circostanze in cui si trovano e si sviluppano? E inoltre i comunisti critici si credono in dovere, nel ripensare alla storia, di pigliar partito per tutti gli oppressi, quale che fosse la sorte loro; – e fu invero sempre quella di rimanere oppressi, o di aprir le vie, dopo breve ed efimero successo, a nuovo dominio di nuovi oppressori!
Ma c’è un punto in cui i comunisti critici si distinguono nettamente da tutte le altre forme e maniere di comunismo e di socialismo antico, moderno, o contemporaneo: e questo punto è di capitale importanza.
Essi non possono ammettere, che le passate ideologie rimanessero senza effetto, e che i passati tentativi del proletariato fossero sempre superati e vinti, per un puro accidente della storia, o per un capriccio, per così dire, delle circostanze. Tutte quelle ideologie, per quanto riflettessero, infatti, il sentimento implicito o diretto delle antitesi sociali, ossia delle reali lotte di classe, con alta coscienza della giustizia e con profonda devozione a un forte ideale, rivelan tutte però l’ignoranza delle cause vere e della natura effettiva delle antitesi, contro le quali si levavano con atto rapido di ribellione spesso eroica. Di qui il carattere di utopia! E così noi ci rendiamo parimenti conto del fatto, che le condizioni di oppressione di altri tempi, per quanto più barbare e crudeli, non dessero luogo a quella accumulazione di energia, a quella continuità di resistenza e di opera, che si trovano, si avverano e si svolgono nel proletariato dei tempi nostri. È il cambiamento della società nella sua struttura economica, è la formazione del proletariato nuovo nell’ambito della grande industria e dello stato moderno, è l’apparire di questo proletariato su la scena politica: – sono le cose nuove, in somma, che hanno ingenerato il bisogno di idee nuove. E per ciò il comunismo critico non moralizza, non predice, non annunzia, né predica, né utopizza: – ha già la cosa in mano, e nella cosa stessa ha messo la sua morale e il suo idealismo.
Per tale nuova orientazione, che ai sentimentali par dura, perché troppo vera, veristica ed effettuale, noi siamo in grado di rifarci regressivamente su la storia del proletariato, e degli altri oppressi da altri metodi di oppressione, che questo precedettero. E ne vediamo le varie fasi; e ci rendiamo conto dell’insuccesso del cartismo; e poi più indietro di quello della cospirazione degli Eguali; e risaliamo ancora più in là alle varie sommosse e resistenze e guerre, come fu quella famosa dei contadini di Germania, e poi più in su alla jacquerie, e ai Ciompi, e a Fra Dolcino. E in tutti questi fatti e avvenimenti scorgiamo forme e fenomeni correlativi al divenire della borghesia, a misura che essa dilacera, sconvolge, vince e sfascia il sistema feudale. Lo stesso possiamo fare per le lotte di classe del mondo antico; ma solo in parte, e con minor chiarezza. Questa storia del proletariato e delle altre classi di oppressi, e delle vicende delle loro rivolte, ci è già guida sufficiente per intendere come e perché fossero premature, o immature, le ideologie del comunismo di altri tempi.
La borghesia, se non è giunta ancora e da per tutto al termine della sua evoluzione, è giunta di certo in alcuni paesi quasi all’apice di questa. Subordina, nelle nazioni più progredite, le varie e multiformi maniere di produzione di altri tempi, sia per diretto o sia per indiretto, all’azione ed alla legge del capitale. E così, o semplifica, o tende a semplificare le varie lotte di classe, che per la loro molteplicità in altri tempi si elisero, in questa sola tra il capitale, che ogni prodotto del lavoro umano indispensabile alla vita converte in merce, e la massa proletarizzata, che offre a mercede la sua forza di lavoro, diventata anch’essa semplice merce. Il segreto della storia si è semplificato. Siamo alla prosa. E come questa presente, ossia la modernissima lotta di classe è la semplificazione di tutte le altre, così il comunismo del Manifesto semplificò in rigidi e generali enunciati teorici la multiforme suggestione ideologica, etica, psicologica e pedagogica delle altre forme di comunismo, non negandole, ma elevandole di grado. Siamo alla prosa; ed anche il comunismo diventa prosa: ossia è scienza. Per ciò il Manifesto non ha retorica di proteste, né reca piati. Non lamenta il pauperismo per eliminarlo. Non spande lagrime su niente. Le lagrime delle cose si sono già rizzate in piedi, da sé, come forza spontaneamente rivendicatrice. L’etica e l’idealismo consistono oramai in ciò: mettere il pensiero scientifico in servizio del proletariato, Se questa etica non pare morale abbastanza ai sentimentali, che sono il più delle volte isterici e fatui, vadano a chiedere l’altruismo al gran pontefice Spencer. Ne darà loro la sciatta, e insipida, e inconcludente definizione: e di ciò si appaghino.
Ma, dunque, si tratta di estendere alla spiegazione di tutta la storia il solo fattore economico?
Fattori storici! Ma questa è espressione da empiristi della ricerca, o da astratti analizzatori, o da ideologi che ripetono Herder. La società è un complesso, ovvero un organismo, come dicon quelli che volentieri adoperano così ambigua immagine, e si perdon poi ad almanaccare sul valore e su l’uso analogico di tale espressione. Questo complesso si è formato ed ha cambiato più volte. Quale la spiegazione di tale mutamento?
Già molto prima che Feuerbach desse il colpo di grazia alla spiegazione teologica della storia (l’uomo ha fatto la religione, e non la religione l’uomo!), il vecchio Balzac l’avea volta in satira, facendo degli uomini le marionette di Dio. E non avea già Vico ritrovato, che la Provvidenza non opera ab extra nella storia, ma anzi opera come quella persuasione, che gli uomini hanno della esistenza sua? E lo stesso Vico, già un secolo avanti al Morgan, non avea ridotto la storia tutta ad un processo, che l’uomo compie da sé come per una successiva esperimentazione, che è ritrovamento della lingua, delle religioni, dei costumi e del diritto? Non era parso a Lessing, che la storia fosse una educazione del genere umano? Non avea Gian Giacomo già visto, che le idee nascono dai bisogni? Non toccò quasi da vicino Saint-Simon, quando non fantasticava di epoche organiche ed inorganiche, la genesi reale del terzo stato: e le sue idee, tradotte in prosa, non dettero in Agostino Thierry, un vero innovatore delle ricerche critiche sul passato?
Nel primo cinquantennio di questo secolo, e specie nel periodo dal 1830-50, le lotte di classe, che gli storici antichi e quelli della Italia della Rinascenza avean così vivamente descritte, per quanto ne desse loro occasione di esperienza l’angusto ambito delle repubbliche di città, eran cresciute e s’erano ingrandite di qua e di là dalla Manica in proporzione e in evidenza sempre maggiori. Nate nell’ambito della grande industria, illustrate dal ricordo e dallo studio della Grande Rivoluzione, diventavano esse intuitivamente istruttive, perché, con maggiore o con minore chiarezza e consapevolezza, trovavano la loro attuale e suggestiva espressione nei programmi dei partiti politici: p. e., libero scambio, o dazii sul grano in Inghilterra, e così via. La concezione della storia si cambiava in Francia a vista d’occhi, così nell’ala destra come nell’ala sinistra dei partiti letterarii, da Guizot a Louis Blanc, e fino al tenue e modesto Cabet. La sociologia era il bisogno del tempo, e, se cercò invano la sua espressione teoretica in Comte, scolastico ritardatario, trovò di certo l’artista in Balzac, che fu il vero rinvenitore della psicologia delle classi. Riporre nelle classi e nei loro attriti il subietto reale della storia, e il moto di questa nel moto di quelle, ecco ciò che si andava cercando e scovrendo: e di ciò bisognava fissare in termini la precisa teoria.
L’uomo ha fatto la sua storia, non per metaforica evoluzione, né per correr su la linea di un presegnato progresso. L’ha fatta, creandone a se stesso le condizioni; cioè, formando a se stesso, mediante il lavoro, un ambiente artificiale, e sviluppando successivamente le attitudini tecniche, e accumulando e trasformando i prodotti della operosità sua, per entro a tale ambiente. Noi di storia ne abbiamo una sola: né quella reale, che è effettivamente accaduta, possiamo noi confrontare con un’altra meramente possibile. Dove trovare le leggi di tale formazione e sviluppo? Le antichissime formazioni non ci son chiare alla prima. Ma questa società borghese, come nata di recente, e non giunta ancora a pieno sviluppo nemmeno in ogni parte di Europa, serba in sé le tracce embriogenetiche della sua origine e del suo processo, e le mette in piena evidenza nei paesi in cui sorge appena sotto ai nostri occhi, p. e., nel Giappone. Come società che trasforma tutti i prodotti del lavoro umano in merci, mediante il capitale, come società che suppone il proletariato, o lo crea, e che ha in sé l’inquietezza, la turbolenza, la instabilità delle continue innovazioni, essa è nata in tempi certi, con modi assegnabili e chiari, per quanto varii. Di fatti, nei diversi paesi ha modi differenti di sviluppo: dove, p. es., comincia prima che altrove, come in Italia., e poi si arresta; e dove, come in Inghilterra, procede costantemente per tre secoli di economica espropriazione delle precedenti forme di produzione, o della vecchia proprietà, come dicesi nella lingua dei giuristi. In un paese essa si fa a grado a grado, combinandosi con le forze preesistenti, e di quelle subisce l’influsso per adattamento, come fu il caso della Germania, ed ecco che in altro paese rompe l’involucro e le resistenze in modo violento, come accadde in Francia, dove la Grande Rivoluzione rappresenta il caso più intensivo e vertiginoso di azione storica che si conosca, ed è perciò la più grande scuola di sociologia.
In brevi e magistrali tratti, come ho già notato, cotesta formazione della società moderna, ossia borghese, fu tipicamente rifatta nel Manifesto; dove n’è dato il generale profilo anatomico, negli aspetti successivi di corporazione, commercio, manifattura e grande industria, aggiuntavi la indicazione degli organi ed apparati derivati e complessi, che sono il diritto, le costituzioni politiche e così via. Ed ecco che gli elementi primi della teoria per ispiegare la storia col principio delle lotte di classe ci eran già implicitamente.
Questa medesima società borghese, che rivoluzionò tutte le precedenti forme di produzione, avea fatto luce a se stessa e al suo processo, creando la dottrina della sua struttura, ossia la Economia. Essa difatti non è nata e non si è svolta nella incoscienza che fu propria delle società primitive; ma anzi alla luce meridiana del mondo moderno, dalla Rinascenza in qua.
La Economia, come tutti sanno, nacque frammentaria in origine nella prima epoca della borghesia, che fu del commercio e delle grandi scoverte geografiche; ossia nella prima fase del mercantilismo, e poi nella seconda di esso. E nacque, per rispondere dapprima a speciali questioni: – è legittimo l’interesse?; conviene agli stati e alle nazioni di accumular danaro?; e così di seguito. Crebbe poi, estendendosi a più complessi aspetti del problema della ricchezza, e si sviluppò nella transizione dal mercantilismo alla manifattura, e da ultimo più rapidamente e più risolutamente nella transizione da questa alla creazione della grande industria. Fu l’anima intellettuale della borghesia che conquistava la società. Era già, come disciplina, quasi condotta a termine nei suoi principali lineamenti alla vigilia della Grande Rivoluzione; e fu segnacolo alla ribellione contro le vecchie forme del feudo, della corporazione, del privilegio, delle limitazioni al lavoro e così via: cioè fu segnacolo di libertà. Perché, di fatti, il diritto di natura, che si venne sviluppando dai precursori di Grozio fino a Rousseau, a Kant e alla costituzione del ’93, non fu se non il duplicato e il complemento ideologico della Economia; tanto è che, spesso, e cosa e complemento si confondono in uno nella mente e nei postulati degli scrittori, come è il caso tipico dei fisiocratici. Come dottrina sceverò, distinse, analizzò gli elementi e le forme del processo della produzione, circolazione e distribuzione, riducendo il tutto in categorie: danaro, danaro-capitale, interesse, profitto, rendita della terra, salario, e così di seguito. Corse sicura, con costante incremento di analisi, e più spiccatamente da Petty a Ricardo. Padrona essa sola del campo, incontrò rare obiezioni[26]. Lavorò su due presupposti, che poco o punto si dette pensiero di difendere, tanto parevano evidenti: e, cioè, che l’ordine sociale che illustrava fosse l’ordine naturale; e che la proprietà privata dei mezzi di produzione fosse una cosa sola con la libertà umana: il che faceva del salariato, e della inferiorità dei salariati, condizioni d’essere indispensabili. In altre parole, non vide la condizionalità storica delle forme che dichiarava e spiegava. Le stesse antitesi che incontrò per via, nei tentativi di una conseguente sistematica più volte provata e mai riuscita, cercò di eliminarle logicamente; come è il caso di Ricardo nel tentativo di combattere la non meritata rendita della terra.
In principio del secolo scoppiano violente le crisi, e quei primi movimenti operai, che hanno la loro origine immediata e diretta nell’acuta disoccupazione. L’illusione dell’ordine naturale è rovesciata! La ricchezza ha generato la miseria! La grande industria, alterando tutti i rapporti della vita, ha aumentato i vizii, le malattie, la soggezione: essa, in somma, è causa di degenerazione! Il progresso ha generato il regresso! Come fare, perché il progresso non generi altro che progresso; e cioè prosperità, salute, sicurezza, educazione e sviluppo intellettuale egualmente per tutti? In questa domanda è tutto Owen; che ebbe di comune con Fourier e con Saint-Simon questo carattere: del non richiamarsi oramai più all’abnegazione o alla religione, e del volere risolvere e superare le antitesi sociali, senza diminuzione della energia tecnica ed industriale dell’uomo, anzi con l’incremento di essa. Owen diventò comunista per cotesta via; ed è il primo che sia divenuto tale entro all’ambito e per l’esperienza della grande industria moderna. L’antitesi pare dapprima sia tutta riposta nella contraddizione tra il modo della distribuzione e il modo della produzione. Questa antitesi bisogna dunque vincerla in una società, che produca collettivamente. Owen diventò utopista. Questa società perfetta bisogna sperimentalmente avviarla; e lui ci si mise con eroica costanza, con abnegazione impareggiabile, con matematica precisione di particolari argomentati ed escogitati.
Posta cotesta immediata antitesi tra produzione e distribuzione, si seguirono in Inghilterra, da Thompson a Bray, molti scrittori di un socialismo che non può dirsi strettamente utopistico, ma deve dirsi unilaterale, perché mirante a correggere i rivelati e denunciati vizii della società con uno o più rimedii[27]. Di fatti, la prima tappa che si faccia da chiunque si metta per la prima volta su la via del socialismo, gli è di mettere in contraddizione la produzione con la distribuzione. E poi nascono spontanee queste ingenue domande: perché non abolire il pauperismo; non eliminare la disoccupazione; non toglier di mezzo l’intermedio della moneta; non favorire lo scambio diretto dei prodotti in ragione del lavoro che contengono; non dare al lavoratore l’intero prodotto del suo lavoro?, e simili. Queste domande risolvono le cose dure, tenaci e resistenti della vita reale in tanti ragionamenti, e mirano a combattere il sistema capitalistico come fosse un meccanismo, cui si tolgano o si aggiungano, pezzi, ruote ed ingranaggi.
Con tutte coteste tendenze la ruppero recisamente i comunisti critici. Essi furono i successori e continuatori della Economia classica[28]. Questa è la dottrina della struttura della presente società. Ora non è dato a nessuno di combattere cotesta struttura praticamente, e rivoluzionariamente, senza rendersi innanzi tutto conto esatto degli elementi, e forme e rapporti suoi, approfondendo appunto la dottrina che la illustra. Queste forme, e elementi, e rapporti si generarono, sì, in date condizioni storiche; ma ora sono, e sono resistenti, e connessi, e correlativi fra loro, e perciò costituiscono sistema e necessità. Come passar sopra a tale sistema con un atto di negazione logica, e come eliminarlo coi ragionamenti? Eliminare il pauperismo? Ma se è condizione necessaria del capitalismo! – Dare all’operaio l’intero frutto del suo lavoro? Ma dove se ne andrebbe il profitto del capitale? – E dove e come il danaro speso in merci potrebbe crescere di un tanto, se fra tutte le merci che incontra, e con le quali si scambia, non ce ne fosse appunto una, che produce a chi la compra più di quel che gli costi; e se questa merce non fosse appunto la forza-lavoro presa a salario? Il sistema economico non è una fila o una sequela di astratti ragionamenti; ma è anzi un connesso ed un complesso di fatti, in cui si genera una complicata tessitura di rapporti. Pretendere che questo sistema di fatti, che la classe dominatrice si è venuto costituendo a gran fatica, attraverso i secoli, con la violenza, con l’astuzia, con l’ingegno, con la scienza, ceda le armi, ripieghi, o si attenui, per far posto ai reclami dei poveri, o ai ragionamenti dei loro avvocati, gli è cosa folle. Come chiedere l’abolizione della miseria, senza rovesciare tutto il resto? Chiedere a questa società, che essa muti anzi rovesci il suo diritto, che è la sua difesa, gli è chiederle l’assurdo. Chiedere a questo stato, che esso cessi dall’essere lo scudo e anzi il baluardo di questa società e di questo diritto, è volere l’illogico[29]. Cotesto socialismo unilaterale, che, senza essere strettamente utopistico, parte dal preconcetto che la storia ammetta la errata-corrige senza rivoluzione, ossia senza fondamentale mutazione nella struttura elementare e generale della società stessa, o è una ingenuità, o è un imbarazzo. La sua incoerenza con le rigide leggi del processo delle cose si faceva chiara appunto in Proudhon; che, o riproduttore inconsapevole, o diretto ricopiatore di alcuni dei socialisti unilaterali inglesi, voleva intendere, fermare o mutare la storia su la punta di una definizione, o con l’arma di un sillogismo.
I comunisti critici riconobbero il diritto della storia di fare il suo cammino. La fase borghese è superabile, sì, e sarà superata. Ma, finché dura, ha le sue leggi. La relatività di queste sta nel fatto, che esse si formarono e si svilupparono in determinate condizioni; ma relatività non vuol dire semplice opposto di necessità, ossia fugacità, mera apparenza, o anzi bolla di sapone. Possono sparire e spariranno, per il fatto stesso del mutarsi della società. Ma non cedono all’arbitrio soggettivo, che annunci una correzione, proclami una riforma, o formuli un progetto. Il comunismo sta dalla parte del proletariato, perché in questo solo consiste la forza rivoluzionaria, che rompe, infrange, sommuove e dissolve la presente forma sociale, e pone dentro di questa via via nuove condizioni; anzi, per essere più esatti, col fatto stesso del suo moto dimostra, che le condizioni nuove vi si creano, e fissano, e svolgono fin da ora di già.
La teoria della lotta di classe era trovata. Si conosceva da due capi: nelle origini della borghesia, il cui processo intrinseco era già reso chiaro dalla scienza dell’economia; e in questa apparizione del nuovo proletariato, condizione ed effetto al tempo stesso della nuova forma di produzione. La relatività delle leggi economiche era scoverta; ma al tempo stesso era riconfermata la loro relativa necessità. E in ciò è tutto il metodo e la ragione della nuova concezione materialistica della storia. Errano quelli che, chiamandola interpretazione economica della storia, credono di intendere e di fare intender tutto. Quest’altra designazione qui si conviene meglio a certi tentativi analitici[30], che, pigliando a parte, di qua i dati delle forme e categorie economiche, e di là p. e. il diritto, la legislazione, la politica, il costume, studiano poi i vicendevoli influssi dei varii lati della vita così astrattamente e così soggettivamente distinti. Tutt’altro è il fatto nostro. Qui siamo nella concezione organica della storia. Qui è la totalità e la unità della vita sociale che si ha innanzi alla mente. Qui è la economia stessa (intendo dire dell’ordinamento di fatto e non della scienza intorno ad esso) che vien risoluta nel flusso di un processo, per apparir poi in tanti stadii morfologici, in ciascun dei quali fa da relativa sostruzione del resto, che le è corrispettivo e congruo. Non si tratta, in somma, di estendere il cosiddetto fattore economico, astrattamente isolato, a tutto il resto, come favoleggiano gli obiettatori; ma si tratta invece e innanzi tutto di concepire storicamente la economia, e di spiegare il resto delle mutazioni storiche per le mutazioni sue. E in ciò è la risposta a tutte le critiche, che si levano da tutti i campi della dotta ignoranza, o della ignoranza male addottrinata, non escluso quello di quei socialisti, che siano immaturi, o sentimentali, o isterici. E in tale risposta è anche chiarito, perché Marx scrivesse, nel Capitale, non il primo libro del comunismo critico, ma l’ultimo grande libro intorno alla economia borghese.
Il Manifesto fu scritto quando la orientazione storica non andava ancora più in là del mondo classico, delle antichità germaniche appena dichiarate, e della tradizione biblica da poco tempo cominciata a ridurre alle condizioni prosaiche di ogni altra storia profana. Altra è ora la orientazione nostra, perché si risale alla preistoria ariana, e alle antichissime formazioni dell’Egitto, e a quella della Mesopotamia, che precedono ogni ricordo di tradizioni semitiche. E poi si risale più indietro, nella linea della così detta preistoria, ossia della storia non scritta. La geniale esplorazione e combinazione del Morgan ci ha dato l’intima conoscenza della società antica ossia prepolitica, e la chiave per intendere come da quella sian poi sorte le formazioni posteriori, che hanno i loro indici nella monogamia, nello sviluppo della famiglia paterna, nell’apparire della proprietà, dapprima gentilizia, poscia familiare e infine individuale, e nel successivo fissarsi delle alleanze delle genti, nelle quali poi si origina lo stato. E tutto ciò è illustrato, così dalla conoscenza del processo della tecnica nella scoverta e nell’uso dei mezzi ed istrumenti del lavoro, come dall’intendimento dell’azione che quel processo esercitò sul complesso sociale, spingendolo su certe vie, e facendogli percorrere certi stadii. Tali scoverte e combinazioni sono ancora capaci di molte correzioni, specie per la varia maniera specifica come può essersi avverato in diverse parti del mondo il passaggio dalla barbarie alla civiltà. Sta però ora indiscutibile il fatto: che noi abbiamo già chiare sott’occhi le generali tracce embriogenetiche dello sviluppo umano, dal comunismo primitivo a quelle complesse formazioni, che, come p. e. lo stato di Atene o di Roma con costituzione di cittadini per classi di censo, rappresentavano fino a poco fa nella tradizione scritta le colonne d’Ercole della ricerca. Le classi, che il Manifesto presupponeva, furono oramai risolute nel loro processo di formazione; e già in questo si riconosce lo schema generale di ragioni e cause economiche peculiari e proprie, ossia così fatte, che non ripetono le categorie della scienza economica di questa nostra epoca borghese. Il sogno di Fourier, d’inquadrare l’epoca dei civilizzati nella serie di un lungo e vasto processo, s’è avverato. Fu scientificamente risoluto il problema della origine della disuguaglianza fra gli uomini, che Gian Giacomo avea tentato con argomenti di geniale dialettica, e con pochi dati di fatto.
In due punti, per noi estremi, ci è chiaro il processo umano. Nelle origini della borghesia, tanto recenti e tanto illustrate dalla scienza dell’economia; e nella antica formazione della società a classi, nel passaggio dalla barbarie superiore alla civiltà (ossia all’epoca dello stato), secondo le denominazioni del Morgan. Ciò che sta di mezzo è quello che finora trattarono cronisti e storici propriamente detti, e poi giuristi, teologi e filosofi. Pervadere ed investire tutto cotesto campo di conoscenze con la nuova concezione storica, non è cosa facile. Né conviene darsi fretta, schematizzando. Innanzi tutto conviene di fissare per quanto possibile la relativa economica di ciascuna epoca[31], per ispiegarsi specificamente le classi che in quella si svilupparono; non astraendo da dati ipotetici od incerti, e non generalizzando le nostre condizioni per estenderle a quelle di ogni tempo. A ciò occorrono falangi di addottrinati. Così, ad esempio, è unilaterale ciò che nel Manifesto è detto su la primissima origine della borghesia, come nata dai servi del Medioevo, via via incorporati nelle città. Quel modo d’origine fu proprio della Germania, e di altri paesi che ne riproducono il processo. Non risponde al caso dell’Italia, della Francia meridionale e della Spagna, che furon poi i paesi nei quali cominciò appunto la prima storia della borghesia, ossia della civiltà moderna. In questa prima fase sono le premesse di tutta la società capitalistica, come Marx avvertì in una nota al primo volume del Capitale[32]. Questa prima fase, che raggiunse la sua forma perfetta nei Comuni italiani, è la preistoria di quella accumulazione capitalistica, che Marx studiò con tanta evidenza di particolari nella serie chiara e compiuta della evoluzione dell’Inghilterra. Ma di ciò basta.
I proletarii non possono mirare che all’avvenire. Ai socialisti scientifici preme innanzi tutto il presente, come quello in cui spontaneamente si sviluppano e maturano le condizioni dell’avvenire. La conoscenza del passato giova ed interessa praticamente, solo in quanto essa può dar luce e orientazione critica a spiegarsi il presente. Per ora basta che i comunisti critici, già cinquant’anni fa, abbiano escogitato e ritrovato gli elementi primissimi della nuova e definitiva filosofia della storia. A breve andare tale intendimento s’imporrà per la provata impossibilità di pensare il contrario: e la scoverta parrà l’uovo di Colombo. E forse prima che una schiera di dotti usi ed applichi tale concezione estesamente, plasmandola, cioè, nel racconto continuativo di tutta la storia, i successi del proletariato saranno tali, che l’epoca borghese parrà a tutti superabile, perché prossima ad essere superata. Intendere è superare (Hegel).
Quando il Manifesto, già cinquanta anni fa, elevava i proletarii, da compatiti miseri, a predestinati sotterratori della borghesia, alla immaginazione degli scrittori di esso, che mal dissimulavano l’idealismo della loro intellettuale passione nella gravità dello stile, assai angusto doveva apparire il perimetro del presagito cimitero. Il perimetro probabile, per figura di fantasia, non abbracciava allora se non la Francia e l’Inghilterra, e avrebbe appena lambito gli estremi confini di altri paesi, come ad esempio della Germania. Ora cotesto perimetro ci appare immenso, per l’estendersi rapido e colossale della forma della produzione borghese, che allarga, generalizza e moltiplica, per contraccolpo, il movimento del proletariato, e fa vastissima la scena su la quale spazia l’aspettativa del comunismo. Il cimitero s’ingrandisce a perdita di vista. Più forze di produzione il mago va evocando, e più forze di ribellione contro di sé esso suscita e prepara.
A quanti furono comunisti ideologici, religiosi ed utopistici, o a dirittura profetici od apocalittici, parve sempre in passato, che il regno della giustizia, della eguaglianza e della felicità dovesse avere per teatro il mondo intero. Per ora la conquista del mondo la fa l’epoca dei civilizzati; cioè la società, che si regge su le antitesi delle classi, e su la dominazione di classe, nella forma della produzione borghese (il Giappone insegni!). La coesistenza delle due nazioni in uno e medesimo stato, che fu già precisata dal divino Platone, si perpetua. L’acquisizione della Terra al comunismo non è cosa del domani. Ma più larghi si fanno i confini del mondo borghese, più popoli vi entrano, abbandonando e sorpassando le forme inferiori di produzione, ed ecco che più precise e sicure divengono le aspettazioni del comunismo: soprattutto perché decrescono, nel campo e nella gara della concorrenza, i deviatori della conquista e della colonizzazione. La Internazionale dei proletarii, che era appena embrionale nella Lega dei comunisti di cinquanta anni fa, diventata oramai interoceanica, dice ed afferma intuitivamente ogni primo di Maggio, che i proletari di tutto il mondo sono realmente e operosamente uniti. I prossimi o futuri sotterratori della borghesia, e i loro nipoti e pronipoti, ricorderanno in perpetuo la data del Manifesto dei comunisti.
Roma, 7 aprile 1895
1. Questo mio scritto non è un rifacimento del Manifesto, come se volessi adattarlo alle presenti condizioni; né io ne do qui l’analisi o il commento. Scrivo, come dice il titolo, soltanto in memoria.
2. Intendo dire di quella che ironicamente è chiamata nel Manifesto: del socialismo vero, ossia tedesco. Quel paragrafo che è inintelligibile a chi non sia pratico della filosofia tedesca di allora, specie in certe sue forme di acuta degenerazione, fu opportunamente omesso nella traduzione spagnola.
3. Da parecchi anni – e sono già otto – nei corsi universitari che intitolo, o genesi del socialismo moderno, o storia generale del socialismo, o della interpretazione materialistica della storia, ho avuto agio e tempo d’impossessarmi di tale letteratura, e di ridurla ad una certa evidenza prospettica e sistematica. Cosa per se stessa difficile, ma soprattutto in Italia, dove non è tradizione di scuole socialistiche, e dove la vita del partito è così nuova, da non dare per sé esempio istruttivo di formazione e di processo. Ma questo saggio non è la riproduzione di alcuna delle mie lezioni. Le lezioni non sono i libri che servono a farle; né, pubblicando delle lezioni, si fanno per davvero dei libri, nel senso esplicito e pieno della parola.
4. Bisogna insistere sulla espressione di democratica socializzazione dei mezzi di produzione, perché l’altra di proprietà collettiva,oltre a contenere un certo errore teoretico, in quanto che scambia l’esponente giuridico col fatto reale economico, nella mente poi di molti si confonde con l’incremento dei monopoli, con la crescente stratificazione dei servizi pubblici, e con tutte le altre fantasmagorie del sempre rinascente socialismo di stato, il cui segreto è di aumentare in mano alla classe degli oppressori i mezzi economici della oppressione.
5. Pagine 23 in 8° nella edizione originale, London, febbraio 1848, che io devo alla impareggiabile cortesia dell’Engels. Dico qui di passaggio, che ho vinto la tentazione di aggiungere a questo scritto delle note bibliografiche, o di letteratura, o di rinvio, o di citazioni, perché, a mettermi su cotesta via, ne sarebbe uscito un saggio di erudizione, o a dirittura un libro, anziché un opuscolo. Ma il lettore vorrà credermi in parola, che non v’è allusione, accenno, o sottinteso in queste pagine, che non si riferisca a fonti e fatti, attinenti al soggetto, e anzi alla totalità delle fonti e dei fatti.
6. Gli Umrisse zu einer Kritik der Nationaloekonomie apparvero nei “Deutsch-Französische Jahrbücher", Paris 1844, a pp. 86-114; e il libro col titolo: Die Lage der arbeitenden Klasse in England apparve in prima edizione a Lipsia nel 1845.
7. Fiorirono in questi ultimi anni molti giuristi, i quali cercarono nelle correzioni al Codice Civile i mezzi pratici per elevare la condizione del proletariato. Ma perché non chiedono al papa che si faccia capo della lega dei liberi pensatori? - Almeno più degli altri è il caso di quello scrittore italiano, che, occupatosi di recente della lotta di classe, chiede che, accanto al codice che garentisce i diritti del capitale, ne sorga un altro a garenzia dei diritti del lavoro!
8. Tale sviluppo è il Capitale di Marx, che io non mi perito di chiamare per tale rispetto una filosofia della storia.
9. Non sono alieno dal riconoscere con Anton Merger, che Saint-Simon non fu veramente utopista, come furono in forma spiccata, tipica e classica, Fourier e Owen.
10. Devo al Partei-Archiv di Berlino d’aver avuto per dei mesi a mia disposizione un esemplare completo dell’irreperibile giornale.
11. Misère de la philosophie par Karl Marx, Paris et Bruxelles 1847.
12. Dico opuscolo, riferendomi alla forma in cui fu ridotto lo scritto, a scopo di propaganda, nel 1884. In origine furono articoli della “Neue Rheinische Zeitung", aprile del 1849, che riproducevano delle conferenze tenute al “Circolo operaio tedesco di Bruxelles" nel 1847.
13. Capitolo secondo del Manifesto.
14. Zur Kritik der politischen Oekonomie, Berlin 1859, pp. IV-VI della prefazione.
15. Quegli articoli apparsi nella "Neue Rheinische Zeitung", Politisch-Oekonomische Revue, Hamburg 1850, furono di recente riprodotti dall’Engels (Berlin 1895) in opuscolo preceduto da una sua prefazione. Il titolo dell’opuscolo è precisamente: Le lotte di classe in Francia nel 1848-50.
16. Questo scritto di Marx apparve a New York nel 1852 in una rivista. Fu riprodotto poscia più volte in Germania. Ora può leggersi anche in francese: Lille 1891, ed. Delory.
17. Engels tratta a fondo nella prefazione al citato opuscolo, e altrove, dello sviluppo obiettivo della nuova tattica rivoluzionaria.
18. Malon dava a questa parola un altro significato: avvertenza al lettore! E poi, del resto: ne sutor ultra crepidam.
19. La storia delle Trades-Unions insegni; tanto più in quanto oscura agli occhi di molti la necessaria evoluzione del socialismo.
20. Nello scrivere la prima volta queste parole intendevo di alludere ai socialisti francesi principalmente. Ma la recente discussione del programma agrario proposto alla democrazia sociale di Germania conferma le origini di fato delle difficoltà da me indicate. (Nota alla 2° ediz., ottobre 1895).
21. Diverso fu il caso della Germania. Ivi, di dopo il 1830, il socialismo venuto di fuori si diffuse come corrente letteraria, e subì le alterazioni filosofiche di cui Grün fu il rappresentante tipico. Ma già prima che apparisse la nuova dottrina, il socialismo proletario avea raggiunto nella persona, nella propaganda e negli scritti del Weitling una forma di notevole e caratteristica originalità. Come Marx diceva nel “Vorwärts" (Parigi) del 1844, era quello il gigante in culla.
22. Ciò molti chiamano marxismo. Il marxismo è, e rimane dottrina. Né da una dottrina piglian sostanza e nome i partiti. “Moi je ne suis pas marxiste" diceva - indovinate - proprio Marx in persona!
23. Questi stabilì pel primo i rapporti tra la Lega e Marx, e trattò per la redazione del Manifesto. Morì poi nella insurrezione del 1849 allo scontro del Murg.
24. Nella prefazione al terzo volume del Capitale di Marx, Hamburg 1894, pp. XIX-XX. La data del 1845 si riferisce principalmente al libro: Die heilige Familie, Frankfurt 1845, che scrissero in collaborazione Marx ed Engels. Quel libro occorre innanzi tutto di leggere, se si vuole intendere la originazione teorica del materialismo storico.
25. Mi fermo a questo nome, perché Cabet fu contemporaneo appunto del Manifesto. O dovrei forse scendere alle forme sportive di Bellamy e di Hertzka?
26. Come è, p.e., il caso di Mably rispetto a Mercier de la Rivière, compendiatore del fisiocratismo; per tacere di Godwin, Hall e di altri.
27. Son quelli che parve anni fa ad Anton Merger li avesse scoverti lui, come autori del socialismo scientifico, e come autori poi plagiati!
28. Perciò i critici alla Wieser e simili propongono di abbandonare la teoria del valore di Ricardo, perché quella mena al socialismo.
29. Nasceva allora, specie in Prussia, la illusione di un monarcato sociale, che passando sopra all’epoca liberale, armonicamente risolvesse la così detta questione sociale. Questa fisima si riprodusse poi in seguito in infinite varietà di socialismo cattedratico, e di stato. Alle varie forme di utopismo ideologico e religioso se n’è aggiunta così una nuova: l’utopia burocratica e fiscale; ossia l’utopia dei cretini.
30. Per es. Rogers.
31. Chi avrebbe pensato pochi anni fa alla scoverta ed all’autentica interpretazione di un antico diritto babilonese?
32. Nota 189 a p. 682 della quarta ediz. Tedesca. Corrisponde a p. 315 della trad. francese.