[Indice dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza]
La matematica pura e la fisica pura non avrebbero avuto bisogno, per la loro sicurezza e certezza, di una deduzione quale noi l’abbiamo per entrambe stabilita nelle pagine precedenti: perchè la prima si fonda sulla propria evidenza; la seconda poi, sebbene rampolli dalle sorgenti pure dell’intelletto, si fonda tuttavia sull'esperienza e sulla sua costante conferma: essa non può respingere quest’ultima testimonianza e farne senza, perchè con tutta la sua certezza non può mai, come filosofia, pareggiare in questo la matematica139. Entrambe le scienze non abbisognavano adunque della detta ricerca per se stesse, ma per un’altra scienza, e cioè per la metafisica.
La metafisica, oltre che con concetti empirici, che trovano sempre la loro applicazione nell’esperienza, ha da fare ancora con concetti puri della ragione, che non possono mai essere dati in nessuna esperienza possibile, quindi con concetti, la cui oggettiva realtà (e cioè che non siano solo semplici nostre immaginazioni) e con affermazioni, la cui verità o falsità non possono venir confermate o scoperte per via di nessuna esperienza: e questa parte della metafisica è per soprappiù appunto quella che ne costituisce il fine essenziale, quella rispetto alla quale il resto è soltanto mezzo; quindi è che questa scienza ha bisogno di una tal deduzione per se stessa. La terza questione che ci siamo ora proposti concerne quindi il cardine, il punto caratteristico della metafisica e cioè la facoltà che ha la ragione di occuparsi, per così dire, solo con se stessa e, meditando sopra i suoi propri concetti, di derivarne delle pretese conoscenze oggettive, senza aver bisogno, per ciò, dell’intermediario dell’esperienza, anzi senza poter sperare di poter giungere, per mezzo di questa, a tali conoscenze*1.
Senza risolvere questo problema la ragione non potrà mai soddisfare se stessa. L’uso empirico, al quale la ragione limita l’intelletto puro, [328] non esaurisce la sua destinazione. Ogni singola esperienza è solo una parte di tutta la sfera dell’esperienza: la totalità assoluta di ogni esperienza possibile non è in se stessa un’esperienza e tuttavia è un problema necessario per la ragione: la quale, anche solo per rappresentarsela, ha bisogno di tutt’altri concetti che non i concetti intellettivi puri, il cui uso è sempre immanente, cioè si riferisce all’esperienza in quanto può essere data, mentre i concetti della ragione vanno alla totalità, all’unità collettiva di ogni esperienza possibile e così superano ogni esperienza data, diventano trascendenti140.
Come pertanto l’intelletto costituisce l’esperienza per mezzo delle categorie, così la ragione ha in sè la sorgente delle idee, col qual vocabolo io intendo quei concetti necessari, il cui oggetto non può tuttavia esser dato in alcun’esperienza. Queste sono fondate nella natura della ragione così come le categorie in quella dell’intelletto e se le prime implicano in sè un principio d’apparenza che può facilmente illudere, quest’apparenza, pur essendo inevitabile, può benissimo venir contenuta in modo da non indurre in illusione.
Poiché ogni illusione sta in ciò che il fondamento soggettivo del giudizio viene posto come obbiettivo, così una autoconoscenza della ragione pura nel suo uso trascendente (soprasensibile) è l’unico rimedio preventivo contro le aberrazioni in cui cade la ragione quando fraintende il compito suo e riferisce, levandosi nel trascendente, all’oggetto in sè ciò che concerne solo il suo proprio soggetto e la guida dello stesso in ogni applicazione immanente141.
La distinzione delle idee, cioè dei concetti razionali puri, dalle categorie o concetti intellettivi puri come conoscenze di natura, origine ed applicazione affatto diversa, è un elemento così importante per la costituzione d’una scienza la quale deve contenere il sistema di tutte queste conoscenze a priori, che senza una tale separazione [329] la metafisica è assolutamente impossibile o al più è un tentativo disordinato e maldestro, senza conoscenza dei materiali che si trattano e della loro attitudine a questa od a quella applicazione, di mettere insieme un castello di carta. Se la critica della ragion pura non fosse anche riuscita ad altro che a metter bene in evidenza questa distinzione, essa avrebbe con ciò contribuito a chiarire il sistema dei nostri concetti ed a guidare la ricerca nel campo della metafisica assai più che tutti i vani sforzi di risolvere i problemi trascendenti della ragion pura, ai quali si è sobbarcata in ogni tempo la speculazione, senza pur sospettare che si trovava in un campo affatto diverso da quello dell’intelletto e che i concetti dell’intelletto e della ragione, che essa metteva indistintamente in una sola fila, erano ben lungi dall’essere della stessa natura.
Tutte le conoscenze pure dell’intelletto hanno questo di proprio che i relativi concetti possono venir dati e i relativi principi confermati nell’esperienza: per contro le conoscenze trascendenti della ragione sono tali, che nè le relative idee possono essere date nell’esperienza, nè i relativi principi possono venir da questa confermati o confutati; quindi l’errore che vi si può insinuare non può essere scoperto altrimenti che dalla ragion pura medesima, il che però è sempre difficile, perchè questa ragione appunto diventa naturalmente, per via delle idee, dialettica142 e questa inevitabile illusione non può venir contenuta nei suoi limiti da alcuna ricerca obbiettiva e dogmatica circa gli oggetti, ma solo da un’indagine subbiettiva sulla ragione stessa come sorgente delle idee.
Io ho sempre avuto soprattutto di mira nella “Critica„ non solo di distinguere accuratamente le varie specie di conoscenza, ma anche di derivare possibilmente tutti i concetti appartenenti a ciascuna di esse dalla loro sorgente comune, affinchè non soltanto dal conoscere la loro origine io fossi condotto a determinarne con sicurezza l’uso, ma potessi anche godere dell’inapprezzabile vantaggio, nemmeno sospettato finora, di essere guidato a priori, cioè partendo da principii, alla completa enumerazione, classificazione e specificazione dei concetti. Senza di ciò [330] nella metafisica tutto si riduce ad una povera rapsodia, nella quale mai non si sa se si possiede tutto quello che si deve possedere o se e dove manca qualche cosa. Certo di questo vantaggio può godere solo la filosofia pura: ma esso ne costituisce anche uno dei caratteri più essenziali.
Poichè io aveva trovato l’origine delle categorie nelle quattro funzioni logiche, alle quali si riducono tutti i giudizi dell’intelletto, era del tutto naturale ch’io ricercassi l’origine delle idee nelle tre funzioni del raziocinio; perchè dal momento che ci sono dati questi concetti razionali puri (idee trascendentali), la loro origine non poteva venir ricercata altrove — a meno di volerli ritenere per innati — che in quella medesima attività della ragione, la quale, in quanto concerne la pura forma, costituisce il momento logico dei raziocini, in quanto si rappresenta i giudizi intellettivi come determinati a priori in riguardo a questa o quell’altra forma a priori, costituisce i concetti trascendentali della ragion pura144.
La distinzione dei raziocini secondo la forma dà necessariamente origine alla divisione loro in raziocini categorici, ipotetici, disgiuntivi. I concetti della ragione fondati su questa triplice attività della ragione contengono quindi in primo luogo l’idea del soggetto assoluto (sostanziale), in secondo luogo l’idea della serie assoluta delle condizioni, in terzo luogo la determinazione di tutti i concetti nell’idea d’una totalità assoluta del possibile*2. La prima idea è psicologica, la seconda cosmologica, la terza teologica; e poiché tutte e tre danno origine ad una dialettica, ma ciascuna in un modo suo, così ha avuto origine la tripartizione della Dialettica della ragion pura nella trattazione del Paralogismo, dell’Antinomia e dell’Ideale della ragion pura; la qual derivazione ci rende sicuri che tutte le pretese della ragion pura sono state qui fedelmente e completamente rappresentate, senza che alcuna ne manchi, dal momento che la facoltà stessa della ragione, dalla quale esse tutte traggono l'origine loro, è stata col nostro metodo completamente esaurita.
Degno di nota in questa trattazione è in generale ancora questo, che le idee della ragione non ci sono di alcuna utilità, come le categorie, per l’applicazione dell’intelletto alla costituzione dell’esperienza, anzi sono a questo riguardo assolutamente superflue, se pure non contrarie e repugnanti alle massime che reggono l’esplicazione razionale della natura; sebbene certo esse ci siano sotto un altro rispetto, che dobbiamo ancora specificare, necessarie. Che l’anima sia una sostanza semplice o no, ci è indifferente per l’esplicazione dei fenomeni psichici; perchè noi non possiamo per alcuna esperienza possibile fare del concetto di essere semplice un concetto sensibile, cioè rappresentabile e comprensibile in concreto; quindi esso ci è affatto inutile in riguardo ad ogni sperata conoscenza della causa dei fenomeni e non può servire in nessun modo come principio d’esplicazione di ciò che l’esperienza interna o l’esterna ci presenta. Così pure le idee cosmologiche di un principio del mondo o d’una eternità del mondo (a parte ante) non ci possono in alcun modo servire a derivare da esse una spiegazione d’un fenomeno qualunque del mondo. Infine noi dobbiamo, secondo una giusta massima della filosofia naturale, astenerci da ogni esplicazione del corso delle cose che venga tratta dalla volontà d’un essere supremo, perchè questo non è più filosofia naturale, ma una confessione che siamo giunti ai limiti del nostro sapere. Queste idee hanno pertanto una destinazione ed un’applicazione affatto diversa dalle categorie, per virtù delle quali e dei principi su di esse fondati è primamente resa possibile l’esperienza stessa. Tuttavia, se ogni intento nostro non fosse ad altro rivolto che alla semplice conoscenza naturale così come ci può esser data nell'esperienza, tutta questa nostra faticosa Analitica dell’intelletto sarebbe anch’essa del tutto inutile: perchè la ragione compie l’opera sua così nella matematica come nella fisica sicuramente e dirittamente anche senza tutta questa sottile deduzione: quindi la nostra critica dell’intelletto deve avere con le idee della ragion pura comune un fine che è posto al di là dell’uso empirico dell’intelletto. Ma non abbiamo noi detto sopra che ogni uso trascendente dell’intelletto è impossibile, senza oggetto e senza significato? Vi deve quindi pur essere tra la natura dell’intelletto e quella della ragione un qualche accordo: la ragione deve contribuire alla perfezione dell’intelletto e non venire soltanto a confonderlo.
La soluzione di questa difficoltà è la seguente: la ragione pura non mira con le sue idee ad oggetti particolari che trascendono il campo [332] dell'esperienza, ma esprime solo l’esigenza della totalità in rispetto all’uso dell’intelletto nella concatenazione complessiva dell’esperienza. Ma questa totalità può essere solo una totalità di principi, non di intuizioni e di oggetti. Tuttavia, per rappresentarci in modo determinato questa totalità, la ragione se la pensa come la conoscenza d’un oggetto la cui conoscenza è perfettamente determinata in rapporto a quelle regole; il quale oggetto è però solo un’idea, che serve ad avvicinare più che sia possibile la conoscenza intellettiva a quella totalità perfetta che l’idea esprime.
Noi abbiamo mostrato sopra, ai §§ 33, 34, che la purezza delle categorie da ogni mescolanza di elementi sensibili concorre a traviare la ragione e la induce ad estendere le applicazioni sue, al di là di ogni esperienza, alle cose in sè, sebbene le categorie, non trovando per sè alcuna intuizione che dia loro un valore ed un senso in concreto, come pure funzioni logiche, possono bensì rappresentare una cosa genericamente, ma non possono da sè sole dare alcun concetto determinato d’una qualsiasi cosa. Questi oggetti iperbolici sono quelli che vengono detti noumena od esseri intelligibili puri (meglio esseri di ragione), come p. es. una sostanza, ma che è pensata come non persistente nel tempo, una causa, ma che non ha agito nel tempo, ecc.; essi vengono rivestiti di predicati, che dovrebbero servire solo a rendere possibile la connessione regolare dell’esperienza e nel medesimo tempo si toglie loro tutte le condizioni dell'intuizione, sotto cui solo è possibile l’esperienza; per il che quei concetti perdono alla lor volta ogni significato.
Non vi sarebbe però pericolo che l’intelletto si inducesse da sè, senz’esservi costretto da leggi estranee, a spaziare così capricciosamente al di là dei suoi confini nel regno dei puri esseri di ragione. Ma quando la ragione, che non può mai essere soddisfatta da alcun uso empirico delle leggi intellettive, perchè sempre ancora condizionato, esige il completamento di questa catena di condizioni, l’intelletto viene allora tratto fuori dal suo campo147 o per rappresentarsi degli oggetti di esperienza in una serie così remota che nessuna esperienza più può giungervi [333], o meglio (a compire la serie) per cercare affatto fuori di essa degli oggetti noumenici, ai quali esso possa riattaccare la detta catena, e potere così, indipendente alfine da tutte le condizioni empiriche, dare alla concatenazione di queste l’aspetto d’una totalità perfetta. Questi oggetti sono le idee trascendentali che, per quanto siano destinate, secondo il vero, ma occulto fine che la natura ha assegnato alla nostra ragione, non ad introdurre dei concetti trascendenti, ma a concorrere all’illimitato ampliamento delle applicazioni empiriche, tuttavia per un’inevitabile illusione attraggono l’intelletto verso la sua applicazione trascendente, la quale, sebbene illusoria, non può essere tenuta in freno dal semplice proposito di rimanere entro i limiti dell’esperienza, ma può esserlo, con molta fatica, solo per mezzo d’un ammaestramento critico.
Già da lungo tempo è stato osservato che in tutte le sostanze il vero e proprio soggetto, ciò che rimane, tolti gli accidenti (come predicato), quindi il vero elemento sostanziale, ci è ignoto, e sopra questa limitazione del conoscere nostro si sono sparsi molti lamenti. A questo riguardo bisogna tuttavia notare che non si dovrebbe muovere lamento perchè l'intelletto nostro non conosce, cioè non può da sè determinare l’elemento sostanziale delle cose, ma ben piuttosto perchè esso aspira a conoscere questo elemento, che è una pura idea, così determinatamente come un oggetto dato. La ragione pura esige che noi ad ogni predicato di una cosa dobbiamo cercare il relativo soggetto, e questo, perchè alla sua volta è necessariamente di nuovo solo predicato, il suo soggetto e così all’infinito (o almeno fin dove il pensiero arriva). Ma di qui segue che nessuno dei soggetti, ai quali possiamo arrivare, può essere tenuto come un soggetto ultimo e che l’elemento sostanziale vero non potrà mai essere afferrato dal nostro intelletto, per quanto profondamente esso penetri, anche se riuscisse a scoprire tutto ciò che vi è di secreto nella natura; perchè la natura specifica del nostro intelletto consiste appunto nel pensare tutto discursivamente, cioè per concetti, quindi per puri predicati, ai quali mancherà pur sempre il soggetto assoluto. Quindi tutte le proprietà reali, per le quali noi conosciamo i corpi, sono sempre puri accidenti; anche [334] l’impenetrabilità, che dobbiamo sempre rappresentarci come l’azione d’una forza, per la quale ci manca il soggetto.
Ora sembra che noi abbiamo nella coscienza di noi stessi, nel soggetto pensante, questo elemento sostanziale, datoci per un’intuizione immediata; perchè tutti i predicati del senso interno si riferiscono all’io come soggetto e questo non può più ulteriormente essere pensato come predicato d’un altro soggetto. Sembra quindi che qui la totalità nel riferimento dei concetti dati, come predicati, ad un soggetto, non sia solo un’idea, ma che l’oggetto corrispondente, cioè il soggetto assoluto, ci sia dato nell’esperienza. Ma questa è un’illusione. Perchè l'io non è un concetto*3, ma solo il nome che designa l’oggetto del senso interno in quanto noi non possiamo più conoscerlo per via di alcun predicato; quindi non può più essere predicato d’un’altra cosa, ma non è d’altra parte nemmeno un concetto determinato d’un soggetto assoluto; esso esprime solo, come in tutti gli altri casi, il rapporto dei fenomeni interni all’ignoto soggetto degli stessi. Tuttavia quest’idea (la quale certo serve, come principio regolativo, ad eliminare radicalmente tutte le esplicazioni materialistiche dei fenomeni interni dell’anima nostra) dà origine, per un’illusione del tutto naturale, ad un’argomentazione molto speciosa, che da questa pretesa conoscenza dell’elemento sostanziale del nostro essere pensante conclude in rapporto alla sua natura, in quanto la conoscenza di questa è assolutamente al di là dell’esperienza nel suo complesso.
Si chiami pure ora questo io pensante (l’anima), come l’ultimo soggetto del pensiero, che non può più essere ulteriormente rappresentato come predicato d’un’altra cosa, col nome di sostanza; questo concetto rimarrebbe tuttavia vuoto ed inconcludente, se non si potesse dimostrare che ad esso appartiene il carattere della persistenza, come ciò che solo rende fecondo nell’esperienza il concetto di sostanza.
[335] Ma la persistenza non può mai essere derivata dal concetto d’una sostanza come cosa in sè, bensì solo venir dimostrata come necessaria alla validità dell’esperienza. Questo è stato sufficientemente messo in evidenza nel trattare della prima Analogia dell’esperienza (Critica, p. 182); e se alcuno non vuole stare a questa prova, faccia da sè il tentativo e veda se gli riesce di provare, parlando del concetto di un soggetto, che non è più il predicato di alcun’altra cosa, che la sua esistenza è qualche cosa di assolutamente persistente e che non può nascere nè perire, nè per virtù propria, nè per alcun’ultra causa naturale. Simili proposizioni sintetiche a priori non possono mai venir provate in se stesse, ma sempre solo in rapporto alle cose come oggetti d’una esperienza possibile.
Quando pertanto dal concetto dell’anima come sostanza si vuole concludere alla persistenza della stessa, questo può farsi solo in vista d’una possibile esperienza, ma non può valere dell’anima come d’una cosa in sè ed al di là di ogni possibile esperienza. Ora la condizione di ogni nostra possibile esperienza è la vita; quindi si può concludere solo alla persistenza dell’anima durante la vita, perchè la morte dell’uomo è la fine di ogni esperienza intorno all’anima come oggetto di esperienza, fino a quando non sia dimostrato il contrario, ciò che è appunto in questione. Quindi si può dimostrare soltanto la persistenza dell’anima durante la vita dell’uomo (dimostrazione della quale si farà senza), ma non dopo la morte (ciò che veramente importa), ed invero per la ragione generale che il concetto di sostanza deve essere considerato come necessariamente connesso col concetto di persistenza solo in virtù d’un principio dell’esperienza possibile ed in vista della costituzione di quest’ultima*4.
Che qualche cosa di reale corrisponda anzi debba corrispondere fuori di noi alle nostre rappresentazioni esterne può essere dimostrato egualmente non in rapporto alle cose in sè, ma in vista dell’esperienza. Il che è come dire che ciò che si può dimostrare è l’esistenza empirica, l’esistenza d’una realtà fenomenica nello spazio fuori di noi: con oggetti altri da quelli che appartengono ad una esperienza possibile noi non abbiamo nulla da fare appunto perchè essi non ci possono essere dati in nessun’esperienza e quindi per noi non sono nulla. Empiricamente fuori di me esiste quello che viene intuito nello spazio: e poiché questo, insieme a tutti i fenomeni che esso contiene, fa parte delle rappresentazioni, il cui collegamento secondo le leggi dell’esperienza ne prova l’obbiettiva realtà, allo stesso modo che il collegamento dei fenomeni del senso interno prova la realtà dell’anima mia (come oggetto del senso interno), così io per mezzo dell'esperienza esterna sono altrettanto certo della realtà dei corpi come fenomeni esterni nello spazio quanto per mezzo dell’esperienza interna lo sono dell’esistenza della mia anima nel tempo; la quale anima certamente è conosciuta da me solo come oggetto del senso interno per mezzo dei fenomeni che costituiscono gli stati interni, mentre l’essenza sua in se stessa, che sta a fondamento di questi fenomeni, mi resta ignota. L’idealismo cartesiano riflette quindi solo la distinzione dell’esperienza esterna dal sogno150 [337] e della regolarità, che è criterio di verità per la prima, dal disordine e dal carattere illusorio del secondo. Esso presuppone in entrambi lo spazio e il tempo come condizioni dell’esistenza degli oggetti e chiede solo se nello spazio si trovino realmente quegli oggetti dei sensi esterni che noi vi poniamo nello stato di veglia come realmente esiste nel tempo l’oggetto del senso interno, l’anima; ossia chiede soltanto se l’esperienza si possa per sicuri criterii distinguere dall’illusione. Ora questo dubbio si può facilmente levare e noi lo leviamo effettivamente sempre nella vita quotidiana in quanto esaminiamo il collegamento dei fenomeni secondo le leggi generali dell’esperienza nell’uno e nell’altro caso e non possiamo più dubitare, quando la rappresentazione delle cose esterne armonizza con esse perfettamente, che esse non costituiscano una verace esperienza. L’idealismo materiale, finché si considerano i fenomeni come fenomeni solo in rapporto al loro collegamento nell’esperienza, si può quindi confutare molto facilmente ed è un’esperienza altrettanto sicura l’esistenza dei corpi fuori di noi (nello spazio) quanto la mia stessa esistenza (nel tempo) secondo la rappresentazione del senso interno: perchè il concetto “fuori di noi„ significa solo l’esistenza nello spazio. Ma poiché nella proposizione “io sono„ la parola “io„ non significa solo l’oggetto dell’intuizione interna (nel tempo), ma anche il soggetto della coscienza, come la parola “corpo„ significa non solo l’oggetto dell’intuizione esterna, ma anche la cosa in sé che sta a fondamento di tale parvenza: così la questione se i corpi (come fenomeni del senso esterno) esistano fuori del mio pensiero come corpi, può essere negata senza esitazione; il che non accade diversamente del resto con l’altra questione se io stesso come fenomeno del senso interno (l’anima della psicologia empirica) esista nel tempo anche fuori della facoltà rappresentativa, chè anche questa deve essere parimenti negata. Tutto è in tal modo, quando le parole e le questioni siano bene specificate, ben certo e preciso. L’idealismo formale (detto da me altre volte trascendentale) toglie realmente l’idealismo materiale o cartesiano. Perchè se lo spazio non è che una forma della mia sensibilità, esso è come rappresentazione in me altrettanto reale quanto io stesso e la questione è solo di decidere circa la realtà empirica dei fenomeni in esso contenuti. E se esso non lo è, ma e lo spazio e i fenomeni in esso compresi sono qualche cosa di esistente fuori di noi, allora nessun criterio dell’esperienza ci potrà dimostrare la realtà al di là della nostra percezione, di questi oggetti esteriori a noi.
Questo prodotto della ragion pura nel suo uso trascendente è la più mirabile tra le sue manifestazioni: e fra tutte è quella che più vigorosamente concorre a destare la filosofia dal suo sonno dogmatico ed a determinarla a quella grave intrapresa che è la critica della ragione.
Io chiamo questa idea col nome di “cosmologica„ per il fatto che essa toglie il suo oggetto sempre solo nel mondo sensibile, e non assume concetti che non abbiano corrispondenza in un oggetto sensibile; e perciò e sotto questo rispetto immanente e non trascendente, quindi non è ancora, fin qui almeno, una vera idea: laddove il pensare l’anima come una sostanza semplice è già tanto quanto pensare un oggetto (l’essere semplice), che non può essere dato nella rappresentazione sensibile. Tuttavia l’idea cosmologica estende il collegamento del condizionato alla sua condizione (sia esso matematico o dinamico) tanto che l’esperienza non può mai tenervi dietro e quindi è sempre, sotto questo rispetto, una vera idea, il cui oggetto non può mai essere adeguatamente dato in nessuna esperienza.
Cominciamo per notare come qui si riveli in modo chiaro ed innegabile il vantaggio di avere sistematicamente dedotta la tavola delle categorie: tanto che se anche non ve ne fossero altre prove, questa sola basterebbe a mostrare quanto essa sia indispensabile nel sistema della ragion pura. Di queste idee trascendenti ve ne sono quattro, nè più nè meno quante le classi delle categorie: ed in ciascuna di esse la rispettiva idea non fa che postulare l’assoluta totalità delle condizioni a cui si può risalire da un dato condizionato. Ed in corrispondenza a queste quattro idee cosmologiche vi sono precisamente quattro specie di affermazioni della ragion pura, le quali rivelano da sè il loro carattere dialettico in ciò che a ciascuna di esse se ne contrappone, secondo principi egualmente plausibili della ragion pura, un’altra ad essa contraddittoria: contraddizione che nessuna sottigliezza metafisica può togliere e che costringe il filosofo a rivolgere il suo esame alle sorgenti prime della ragion pura [339]. Quest’antinomia, che non è capricciosamente inventata, ma è fondata sulla natura stessa della ragione umana e perciò è inevitabile e non potrà mai essere tolta, contiene le quattro seguenti tesi con le loro antitesi.
1.
Tesi.
Il mondo ha un principio (un limite) secondo il tempo e secondo lo spazio.
Antitesi.
Il mondo è infinito secondo il tempo e secondo lo spazio.
2.
Tesi.
Tutto nel mondo è composto di elementi semplici.
Antitesi.
Non vi è nulla di semplice, tutto è composto.
3.
Tesi.
Vi è nel mondo cause agenti secondo libertà.
Antitesi.
Non vi è libertà, tutto è natura.
4.
Tesi.
Nella serie delle cause mondane vi è un essere necessario.
Antitesi.
Nella detta serie non vi è nulla di necessario, tutto è accidentale.
Qui ci incontriamo nel più strano caso della ragione umana, che non ha esempio in nessun'altra applicazione della stessa. Quando noi, come accade nel pensiero comune, pensiamo i fenomeni del mondo sensibile come cose in sè, quando noi poniamo i principi del loro collegamento come principi valevoli non per l’esperienza sola, ma universalmente per le cose in sè, come [340] fa il pensiero comunemente, anzi inevitabilmente senza la nostra critica, vediamo allora erompere una contraddizione prima non sospettata; la quale non può mai venir eliminata per le solite vie dommatiche, perchè tanto la tesi quanto l’antitesi possono venire dimostrate con prove chiare, evidenti, irrefutabili — della validità di queste prove son pronto a rispondere —, onde la ragione viene a travarsi in dissenso con sè medesima: uno stato che rallegra il filosofo scettico, ma che dà seriamente a pensare al filosofo critico.
Nella metafisica è possibile mettere innanzi le affermazioni più cervellotiche senza temere mai di essere convinto di falso. Perchè basta che noi non ci mettiamo in contraddizione con noi stessi, ciò che è perfettamente possibile realizzare in un sistema di proposizioni sintetiche, siano pure arbitrariamente inventate; se i concetti, che noi colleghiamo, sono semplici idee, che non possono venir date (con tutto il loro contenuto) nell’esperienza, non vi è pericolo che noi possiamo mai venir confutati dall’esperienza. Come potremmo noi infatti decidere con l’esperienza se il mondo sia dall’eternità od abbia avuto un principio? Se la materia sia divisibile all’infinito o consista di parti semplici? Concetti di tal genere non possono venir dati da alcuna esperienza, anche dalla più comprensiva; la falsità della tesi affermativa o della negativa non può quindi aver in essa la sua pietra di paragone.
In un solo caso potrebbe la ragione contro la volontà sua mettere in luce la sua secreta dialettica, che essa dà per sapere dogmatico: e sarebbe quando fondasse una sua affermazione sopra un principio universalmente riconosciuto e poi da un altro principio egualmente legittimo deducesse, con la più rigorosa correttezza di ragionamento, una tesi direttamente opposta. Ora questo è appunto il caso presente. Noi abbiamo quattro idee, prodotti naturali della ragione, dalle quali derivano quattro proposizioni da una parte, quattro proposizioni opposte dall’altra, tutte dedotte con logico rigore da principi universalmente ammessi: così viene in luce quell’illusione dialettica della ragion pura, in rapporto all’uso dei detti principi, che rimarrebbe altrimenti in eterno nascosta.
Qui abbiamo pertanto un saggio decisivo che deve necessariamente mettere in luce un elemento di falsità celato nelle presupposizioni [341] della ragione*5. Due proposizioni contraddittorie possono essere entrambe false in un solo caso; e cioè quando il concetto su cui si fondano sia esso stesso contraddittorio: le due proposizioni, p. es., “un circolo quadrato è rotondo„ e “un circolo quadrato non è rotondo„ sono appunto in questo caso. Che, per quel che riguarda la prima, è falso che il detto circolo sia rotondo, poiché è quadrato; ma è anche falso che non sia rotondo, che sia una figura angolare, perchè è un circolo. La caratteristica logica dell’impossibilità logica di un concetto risiede precisamente in ciò che, per la posizione sua, si avrebbero due proposizioni contraddittorie entrambe false152; onde, poiché non è possibile tra di esse un terzo intermedio, il concetto dimostra di non avere in realtà un contenuto pensabile.
Le due prime antinomie, che io dico matematiche, perchè risultano dall’addizione o divisione dell’omogeneo, hanno infatti un simile concetto contraddittorio a fondamento; donde si spiega come accada che in entrambe tanto la tesi quanto l’antitesi siano false.
Quando io parlo di oggetti nel tempo e nello spazio, non parlo delle cose in sè, perchè io di queste non so nulla, ma delle cose fenomeniche, vale a dire dell’esperienza, che è un modo particolare di conoscere gli oggetti, il solo che sia dato all’uomo. Di ciò che io penso nello spazio o nel tempo non posso pertanto dire che esista in sè nello spazio o nel tempo anche senza questo mio pensiero, perchè allora mi contraddirei; il tempo e lo spazio con tutti i fenomeni in essi compresi non sono infatti qualche cosa di esistente in sè, indipendentemente dalia mia [342] rappresentazione e sarebbe un’evidente contraddizione il dire che una pura modalità della rappresentazione esista anche indipendentemente dalla rappresentazione. Gli oggetti dei sensi esistono dunque solo nell’esperienza; raccordare ad essi un’esistenza propria, indipendente, fuori o prima dell’esperienza, è come pensare che l’esperienza possa essere reale anche senza o prima dell’esperienza.
Ora quando io mi pongo la questione della grandezza del mondo nel tempo o nello spazio, non vi è in me nessun concetto che mi autorizzi ad affermare che esso sia finito piuttosto che infinito. Nessuna delle due ipotesi può essere verificata nell’esperienza, poiché nè dello spazio infinito o d’un passato infinito, nè d’una limitazione del mondo da parte d’uno spazio vuoto o d’un passato vuoto è possibile esperienza alcuna: queste sono idee. Quindi la grandezza del mondo, sia essa determinata nell’uno o nell’altro senso, dovrebbe essere qualche cosa di esistente in sè, indipendentemente da ogni esperienza. Ma questo contraddice al concetto di un mondo sensibile, che è solo un complesso di fenomeni, la cui esistenza e il cui collegamento hanno luogo soltanto nella rappresentazione, cioè nell’esperienza; poiché esso non è la cosa in sè, ma semplicemente un modo di rappresentarsi la cosa in sè. Di qui segue che, essendo il concetto d’un mondo sensibile per sè esistente contraddittorio in sè stesso, la soluzione del problema della sua grandezza sarà sempre falsa, venga essa tentata in senso affermativo o negativo.
Lo stesso si dica della seconda antinomia che concerne la divisibilità delle cose fenomeniche. Perchè queste sono pure rappresentazioni e le parti esistono solo nella rappresentazione delle parti stesse, nella divisione effettiva, cioè in un’esperienza possibile nella quale esse siano date; onde la divisione giunge solo fin dove giunge l’esperienza. Assumere che un fenomeno, p. es., un corpo, consti già per sè, anteriormente ad ogni esperienza, di parti, mentre a queste può giungere solo una possibile esperienza, è tanto come attribuire ad un puro fenomeno che può esistere solo nell’esperienza un’esistenza propria, anteriore all’esperienza; o come dire che esistono delle semplici rappresentazioni prima che sorgano nella nostra facoltà rappresentativa; ciò che contraddice a sè e perciò anche ad ogni soluzione del male posto problema, sia che con esse si affermi che i corpi risultano in sè da un numero infinito di parti o da un numero finito di parti semplici.
Nella prima classe delle antinomie (le antinomie matematiche) la falsità del presupposto consisteva in ciò che veniva rappresentato come conciliabile in un concetto un contenuto contraddittorio (e cioè un fenomeno come cosa in sè). Nella seconda classe delle antinomie (le antinomie dinamiche) la falsità consiste nel porre come contraddittorio ciò che invece è conciliabile; quindi, mentre nel primo caso entrambe le affermazioni opposte erano false, qui invece le due affermazioni, che per puro errore erano state considerate come opposte, possono essere entrambe vere.
Il collegamento matematico presuppone invero l’omogeneità degli elementi collegati (nel concetto della grandezza), il collegamento dinamico non lo esige. Se si tratta della grandezza dell’esteso, tutte le parti debbono essere omogenee fra di sè e col tutto; invece nel collegamento della causa e dell’effetto può riscontrarsi l’omogeneità, ma non è necessario che ciò avvenga: almeno, il concetto della causalità (il quale consiste nel derivare da qualche cosa qualche cosa di affatto distinto da esso) non lo esige.
Finchè gli oggetti del mondo sensibile vengono presi per cose in sè e le sopra addotte leggi naturali per leggi delle cose in sè, la contraddizione è inevitabile. Così pure, fino a che il soggetto della libertà è rappresentato come puro fenomeno accanto agli altri oggetti, la contraddizione è egualmente inevitabile: perchè allora si affermerebbe e si negherebbe la stessa cosa dello stesso oggetto e nello stesso rapporto. Ma se la necessità naturale è riferita solo ai fenomeni e la libertà solo alle cose in sè, non vi è alcuna contraddizione nel porre o nel concedere ad un tempo ambo le forme di causalità, per quanto difficile od impossibile possa essere il comprendere la natura della causalità libera155.
Nel fenomeno ogni effetto è un evento, qualche cosa che avviene nel tempo: ad esso deve, secondo la legge universale di natura, antecedere una determinazione dell’attività causale della sua causa, ossia uno stato della stessa, al quale esso succede secondo una legge costante. Ma questa determinazione della causa alla produzione è pur essa qualche cosa che avviene, un evento; la causa deve aver cominciato ad agire; perchè altrimenti non si potrebbe pensare come essa costituisca con l’effetto una successione [344] nel tempo. L’effetto esisterebbe in tal caso dall’eternità, come l’attività della causa. Quindi nella realtà fenomenica la determinazione della causa ad agire deve aver avuto un inizio e perciò essere, al pari del suo effetto, un evento, che deve alla sua volta avere una causa e cosi via; la necessità naturale è quindi la legge alla quale obbediscono le cause agenti. Se deve invece ammettersi la libertà come proprietà di certe cause dei fenomeni, essa deve, in rapporto ai fenomeni come eventi, essere la facoltà di iniziare da sè (sponte) la serie dei propri effetti, senza cioè che l’attività della causa debba avere un inizio e senza che essa abbisogni d’un’altra causa che determini questo iniziamento. Ma allora la causa non deve, in riguardo alla sua causalità, essere nei suoi stati sottomessa a determinazioni di tempo, non deve essere un fenomeno, deve essere una cosa in sè e soltanto i suoi effetti sono a ritenersi come fenomeni6. Se è possibile pensare (senza contraddizione) una tale influenza degli esseri intelligibili sui fenomeni, tutti i collegamenti causali del mondo sensibile conservano la loro necessità, senza che perciò si debba negare l’esistenza di cause libere, che, pur essendo a fondamento dei fenomeni, non sono esse stesse fenomeni. La necessità naturale e la libertà possono quindi venir attribuite senza contraddizione alla stessa cosa, ma sotto un diverso aspetto, la prima alla cosa come fenomeno, la seconda alla cosa come cosa in sè.
Noi abbiamo in noi una facoltà la quale non sta soltanto in rapporto coi moventi subbiettivi156 che costituiscono le cause naturali dei suoi atti [365] — sotto il qual rispetto essa è la facoltà d’un essere fenomenico —, ma anche con moventi obbiettivi, che sono semplici idee: tale determinazione si esprime nel dovere. Questa facoltà è la ragione; un essere (l’uomo), considerato come soggetto della ragione in quanto obbiettivamente determinabile, non può essere considerato come un essere fenomenico; tale proprietà è la proprietà d’una cosa in sè e la possibilità sua, come cioè il dovere, che pure è qualche cosa di non ancora avvenuto, ne determini l'attività e possa essere la causa di atti, il cui effetto si traduce in fenomeni del mondo sensibile, rimane per noi incomprensibile. La causalità della ragione, in riguardo agli effetti prodotti nel mondo sensibile, quando tale causalità si considera come determinata da moventi obbiettivi, ossia da idee, è libertà. Perchè la sua azione non dipende allora da moventi subbiettivi, quindi nemmeno da condizioni di tempo, quindi nemmeno dalla legge naturale che serve a dare a queste ultime una determinazione; i moventi obbiettivi della ragione determinano le azioni secondo una norma generale, secondo principi, senza influenza delle circostanze di tempo o di luogo.
Il caso che io qui adduco vale solo a chiarire, come esempio, e non appartiene necessariamente alla presente questione, la quale deve essere decisa per una pura deduzione concettuale, senza riguardo alle proprietà degli esseri, che noi troviamo nella realtà.
Io posso pertanto dire senza contraddizione: tutte le azioni degli esseri razionali, in quanto esse sono fenomeni (ossia appartengono ad una possibile esperienza) obbediscono alla necessità naturale: ma le stesse azioni, considerate unicamente in riguardo al soggetto razionale ed alla sua facoltà di agire secondo la pura ragione, sono libere. Perchè che cosa è che costituisce la necessità naturale? Semplicemente questo, che ogni evento nel mondo sensibile è determinato secondo leggi costanti, vale a dire è riferito ad un altro fenomeno come alla sua causa; ma ciò non tocca in alcun modo la cosa in sè che sta a fondamento del detto evento, nè la sua causalità. Ora io dico: la legge naturale resta, sia che il soggetto razionale causi dei mutamenti nel mondo sensibile, determinato dalla pura ragione ed agisca così come causa libera, sia che ciò non avvenga. Perchè, se ciò avviene, l’azione si produce secondo massime, il cui effetto nel mondo fenomenico sarà sempre conforme a leggi costanti; se [346] non avviene, ossia se l’azione non è conforme ai principi della ragione, essa è soggetta alle leggi empiriche del senso e così in ambo i casi gli effetti vengono concatenati secondo leggi costanti; ora noi non possiamo esigere di più per la necessità naturale, anzi questo è tutto ciò che noi di essa sappiamo. Ma nel primo caso la ragione è la causa di queste leggi naturali ed è quindi libera, nel secondo gli effetti avvengono secondo le pure leggi naturali del senso, perchè la ragione non esercita su di essi alcuna influenza: non perciò tuttavia la ragione viene determinata dal senso (ciò che è impossibile) ed è quindi anche in questo caso libera. La libertà non turba quindi la legge di natura nei fenomeni, come alla sua volta questa non nuoce in alcun modo alla libertà dell’uso pratico della ragione, che ha i moventi delle sue determinazioni nell’ordine delle cose in sè.
A questo modo viene salvata la libertà pratica, cioè la facoltà della ragione di agire determinata da moventi obbiettivi, senza che ciò offenda menomamente la legge della causalità naturale in l'apporto agli effetti sensibili di questa attività. E questo servirà anche a chiarire ciò che dovevamo dire in riguardo alla libertà trascendentale ed alla sua conciliazione con la necessità naturale (nello stesso soggetto, ma non dal medesimo punto di vista). Che, per venir ora alla libertà trascendentale, ogni inizio dell’attività d’un essere, determinato da moventi obbiettivi, è sempre, in riguardo a questi moventi, un primo iniziamento, per quanto la stessa azione nell’ordine dei fenomeni sia solo un inizio subordinato, al quale ha dovuto antecedere un dato stato della causa, il quale è poi determinato alla sua volta da un altro antecedente; cosicché è possibile pensare (senza cadere in contraddizione con le leggi naturali) negli esseri razionali o negli esseri in genere, in quanto la loro attività causale è determinata nell’ordine delle cose in sè, una facoltà di iniziare da sè una serie di stati. Poiché il rapporto dell’azione con i moventi obbiettivi della ragione non è un rapporto di tempo; qui ciò che determina l’attività della causa, non precede nel tempo l’azione, non essendo tali moventi obbiettivi costituiti da un’azione degli oggetti sul senso, da cause dell’ordine fenomenico, bensì dall’azione di cause appartenenti alle cose in sè, le quali non cadono sotto i rapporti di tempo. Così l’azione può venir considerata, in riguardo alla causalità della ragione, come un primo iniziamento, e tuttavia nel medesimo tempo [347], in riguardo alla serie dei fenomeni, come un inizio subordinato ed essere detta, senza contraddizione, libera nel primo senso, causalmente determinata nel secondo.
Circa la quarta antinomia157, essa è tolta in modo analogo a quello che ci ha servito ad appianare il dissidio della ragione nella terza. Perchè quando si distingua la causa nel fenomeno dalla causa dei fenomeni, in quanto questa può venir pensata come cosa in sè, possono ben sussistere insieme ambo le proposizioni, che non vi sia in nessuna parte una causa del mondo sensibile (causa secondo le leggi della causalità empirica), la cui esistenza sia assolutamente necessaria e d’altra parte che questo mondo sia tuttavia collegato con un essere necessario come con la sua causa (causa in un altro senso e secondo un’altra legge); l’inconciliabilità di queste due proposizioni riposa soltanto sull’errore di estendere ciò che vale dei semplici fenomeni alle cose in sè e di confondere in genere gli uni e le altre in un unico concetto.
Con questo si chiude l’esposizione e la risoluzione completa di quell’antinomia, nella quale la ragione si avvolge quando applica i suoi principi al mondo sensibile. Anche la sola esposizione costituirebbe già per sè un merito considerevole rispetto alla conoscenza della ragione umana, quando pure la risoluzione di questa contraddizione non dovesse totalmente soddisfare il lettore, che è chiamato qui a sormontare un’illusione naturale, rivelatasi a lui da poco tempo come tale e da lui considerata fino ad ora come verità. Perchè una conseguenza almeno di tutto questo è inevitabile: e cioè che il lettore vedendo l’impossibilità di uscire da questo dissidio della ragione con sè stessa159 fino a quando si prendono gli oggetti sensibili per cose in sè e non per quello che sono in realtà, per semplici fenomeni, si troverà così costretto (per venirne in chiaro) ad affrontare ancor una volta la deduzione di tutte le nostre conoscenze a priori ed a riprendere in esame quella che io ne ho dato. Di più io per ora non pretendo: chè solo quando egli meditando questo punto si sia a sufficienza approfondito in riguardo alla natura della ragion pura, gli potranno essere famigliari i concetti per mezzo dei quali soltanto è possibile [348] la risoluzione del dissidio della ragione; senza di che io non posso attendermi anche dal più attento lettore un pieno consenso.
La terza idea trascendentale, che dà materia alla più importante applicazione della ragione, ma che nel suo svolgimento puramente teoretico dà origine a speculazioni trascendenti e perciò dialettiche, è l’ideale della ragion pura. Poiché la ragione qui non comincia dall’esperienza, come nell’idea psicologica e cosmologica, per illudersi quindi di risalire, mediante un potenziamento delle condizioni, alla totalità assoluta della loro serie, ma comincia da sé senz’altro e partendo da puri concetti, da ciò che dovrebbe costituire la totalità assoluta d’una cosa in genere e così per mezzo dell’idea d’un essere perfettissimo, discende alla determinazione della possibilità e quindi anche della realtà di tutte le altre cose; onde la pura presupposizione (cioè l’idea) d’un essere che, sebbene non dato nella serie empirica, viene tuttavia pensato in pro dell’esperienza affine di renderne concepibile il collegamento, è più facile a distinguersi dal concetto intellettivo, che non nei casi precedenti. Perciò l’illusione dialettica, per la quale noi delle condizioni subbiettive del pensiero facciamo tante condizioni obbiettive delle cose stesse e trasformiamo in un dogma un’ipotesi necessaria per la soddisfazione della nostra ragione, era qui più facile a scoprirsi; quindi io ho null’altro a dire circa le pretese della teologia trascendentale, essendo ciò che io ne ho detto nella Critica chiaro, evidente e decisivo.
Gli oggetti che ci sono dati per via di esperienza sono per noi sotto più d’un rapporto alcunché d’incomprensibile e molte questioni a cui [349] ci conduce il concetto scientifico della natura, quando vengano spinte ad un certo limite — sempre però nel senso che lo spirito scientifico esige — non hanno assolutamente risposta: p. es., la questione circa l’origine dell’attrazione reciproca dei corpi. Ma quando noi abbandoniamo del tutto la natura, o nel procedere al suo collegamento trascendiamo ogni esperienza possibile e ci sprofondiamo quindi nel regno delle pure idee, allora non possiamo più dire che l'oggetto ci riesca incomprensibile e che la natura delle cose ci proponga dei problemi insolubili: perchè noi non abbiamo più a fare allora con la natura o in genere con oggetti appartenenti al dato, ma solo con concetti che hanno la origine loro nella nostra ragione e con puri esseri di ragione, in riguardo ai quali tutti i problemi derivanti dai concetti di questi esseri debbono potersi risolvere: potendo e dovendo la ragione dare pienamente conto a sé medesima dei suoi propri procedimenti7. Poiché le idee psicologiche, cosmologiche e teologiche altro non sono che concetti puri della ragione, i quali non possono essere dati in alcuna esperienza, così i problemi, che la ragione ci propone intorno ad esse, non ci sono imposti dagli oggetti, ma da semplici massime della ragione nella sua aspirazione al suo completo soddisfacimento e debbono tutti ricevere un’adeguata risposta: la quale può anche consistere nel mostrare come le dette idee sono principi diretti ad armonizzare, completare ed unificare le nostre conoscenze intellettive e così valgono solo dell’esperienza, ma dell’esperienza come totalità. Sebbene una totalità assoluta dell’esperienza sia impossibile, soltanto l’idea d’una totalità della conoscenza unificata secondo principi vale a conferire all’esperienza una particolare forma d’unità, vale a dire l’unità d’un sistema, senza della quale la nostra conoscenza resta qualche cosa di frammentario e non può servire al [350] supremo fine163 (che è semplicemente il sistema di tutti i fini): e per questo io intendo qui non solo il fine pratico, ma anche il fine supremo dell’uso speculativo della ragione.
Le idee trascendentali esprimono così la destinazione propria della ragione che è di essere il principio dell’unità sistematica dell’attività intellettiva. Ma quando si considera questa unità soggettiva del conoscere come se appartenesse all’oggetto medesimo della conoscenza, quando di unità puramente regolativa se ne fa un'unità costitutiva e si viene a credere di potere per mezzo di queste idee estendere la propria conoscenza al di là di ogni esperienza possibile e così nel campo del trascendente, mentre quest’unità serve soltanto a rendere l’esperienza in se stessa più completa che sia possibile e cioè a non limitarne il progresso con ciò che non può appartenere all’esperienza: si fraintende allora del tutto il compito vero e proprio della ragione e dei suoi principi e si va incontro ad una dialettica, la quale sconvolge l’uso empirico della ragione ed introduce in essa un insanabile dissidio.
Dopo le prove luminose da noi date sopra, sarebbe ridicolo sperare di potere conoscere, intorno ad un oggetto qualunque, più di quello che ce ne possa dire l’esperienza o pretendere di poter avere anche la minima conoscenza intorno alla costituzione intima e propria d’un qualunque oggetto che sappiamo non essere un oggetto di possibile esperienza: come mai infatti vorremmo determinare la natura in sè di questo oggetto dal momento che lo spazio, il tempo e tutti i concetti intellettivi, a maggior ragione poi i concetti derivati dall’intuizione empirica, ossia dalla percezione, nel mondo sensibile, non hanno, nè possono avere altro uso che di rendere possibile un’esperienza: e dal momento che, se noi lasciamo da parte questa condizione dell’applicazione dei concetti intellettivi puri, essi non possono più assolutamente avere alcuna applicazione obbiettiva e perdono ogni senso?
Ma d’altra parte sarebbe un’assurdità anche più grande il negare l’esistenza di cose in sè od il pretendere che la nostra esperienza [351] sia l’unico modo possibile di conoscere le cose, e così che la nostra intuizione temporale e spaziale sia l’unica forma possibile di intuizione, che il nostro intelletto discursivo sia il prototipo di ogni intelletto possibile e che i principi della possibilità dell’esperienza debbano essere considerati come condizioni in genere dell’esistenza di cose in sè.
I nostri principi che limitano l’uso della ragione solo all’esperienza possibile potrebbero allora diventare principi trascendenti, e porre i limiti della nostra ragione come limiti della possibilità delle cose stesse, come ne dànno esempio i Dialoghi di Hume, se una critica accurata non vigilasse sopra i limiti della nostra ragione anche in riguardo al suo uso empirico e non mettesse un limite alle sue pretensioni. Lo scetticismo165 è sorto originariamente dalla metafisica e dalle sue aberrazioni dialettiche. Da principio esso ben potè solo in favore dell’uso empirico della ragione condannare come nullo e vano tutto ciò che lo sorpassa; poco per volta però, quando si venne in chiaro che gli stessi principi applicati nell’esperienza sono pure quelli che insensibilmente e in apparenza con lo stesso diritto conducono al di là dell’esperienza, si incominciò a dubitare anche dei principi fondamentali dell’esperienza stessa. Questo non portò certo un gran pregiudizio, chè l’intelletto normale non manca di far valere, in questo campo, i suoi diritti: ma ne sorse tuttavia una certa confusione nella scienza, non potendosi più determinare fin dove e perchè fino là soltanto, e non oltre, la ragione sia attendibile: a questa confusione potrà rimediare soltanto una determinazione formale dei limiti dell’uso della ragione, logicamente dedotta da principi, la quale renda impossibile per l’avvenire ogni ricaduta.
Vero è che noi non possiamo, al di là di ogni esperienza possibile, farci un concetto determinato di ciò che siano le cose in sè. Noi non possiamo tuttavia fare a meno di risalire ad esse col pensiero, perchè l’esperienza non soddisfa mai pienamente la ragione: essa ci rinvia sempre nella soluzione dei problemi ad un termine più lontano e non ci dà mai una risposta che ci soddisfi completamente, come ognuno può abbastanza chiaramente vedere dalla dialettica della ragion pura, che appunto in questo ha soggettivamente la sua ragion d’essere. Chi può adattarsi, relativamente alla natura dell’anima, a giungere ad una chiara coscienza del soggetto e nel tempo stesso alla convinzione che i suoi fenomeni non sono materialisticamente esplicabili [352], senza chiedersi ancora che cosa sia propriamente l’anima, e, se nessun concetto empirico vi si adegua, assumere in ogni caso a questo solo fine un concetto della ragione (il concetto d’un essere semplice ed immateriale), pur sapendo di non poterne dimostrare la realtà oggettiva? Chi può, in tutte le questioni cosmologiche della durata e della grandezza del mondo, della libertà e della necessità, tenersi pago alle pure conoscenze empiriche, dal momento che, in qualunque senso la prendiamo, ogni risposta fondata sui principi empirici solleva sempre una nuova questione, la quale esige alla sua volta un’altra risposta dello stesso genere, mettendo così chiaramente in luce l’impotenza di ogni esplicazione fisica a soddisfare la ragione? Infine chi non vede, dato il carattere contingente e dipendente di tutto ciò che è possibile pensare e concepire secondo i principi empirici, l’impossibilità di arrestarvisi e la necessità di cercare, nonostante tutti i divieti di perdersi nelle idee trascendenti, il riposo definitivo del pensiero, al di là di tutti i concetti che l’esperienza può giustificare, nel concetto d’un essere la cui possibilità, trattandosi d’un puro essere di ragione, non può essere nè dimostrata nè confutata, ma senza del quale la nostra ragione rimarrebbe eternamente insoddisfatta?
Un limite166 (negli esseri estesi) presuppone sempre uno spazio che è al di là d’una certa superficie determinata e la include in sè; il confine non ha bisogno di questo, ma è una pura negazione che affetta una grandezza, in quanto essa non è una totalità assoluta e perfetta. Ora la nostra ragione vede in certo modo intorno a sè uno spazio per la conoscenza delle cose in sè, sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia puramente limitata ai fenomeni.
Finchè la conoscenza razionale è omogenea, essa non conosce limiti. Nella matematica e nella scienza naturale, la ragione umana riconosce dei confini, ma non un limite, cioè riconosce che vi è fuori di essa qualche cosa che essa non raggiungerà mai, ma non che essa nel suo progresso interiore potrebbe giungere ad un punto nel quale sarebbe perfetta. L’estensione delle conoscenze nella matematica e la possibilità di sempre nuove scoperte va all’infinito: così pure la scoperta di nuove proprietà, di nuove forze e di nuove leggi fisiche per l’aggiungersi di esperienze ad esperienze e la loro unificazione per opera della ragione. Certo anche qui bisogna pur riconoscere dei confini: perchè la matematica si riferisce [353] solo ai fenomeni e ciò che non può essere oggetto d’un’intuizione sensibile, come i concetti della metafisica e della morale, giace del tutto fuori della sua sfera; essa non può mai pervenire a questi oggetti, ma non sente anche il bisogno d’occuparsene. Nessun progresso continuato può avvicinarla a queste scienze, non vi è, per così dire, nessun punto, nessuna linea di contatto. La scienza naturale non ci scoprirà mai l’intimo essere delle cose, ciò che non è fenomeno e tuttavia serve all’esplicazione suprema dei fenomeni; ma essa non ne ha anche bisogno per le sue esplicazioni fisiche: anzi se qualcosa di simile le venisse offerto per altra via (p. es., l’influenza di esseri immateriali), essa dovrebbe respingerlo e non inserirlo nella catena delle sue esplicazioni, le quali devono sempre essere fondate soltanto su ciò che può appartenere, come oggetto dei sensi, all’esperienza e può venir connesso secondo leggi empiriche con le nostre percezioni reali.
La metafisica invece nei tentativi dialettici della ragione (che non sono intrapresi arbitrariamente o per capriccio, ma hanno la loro ragion d’essere nella natura stessa della ragione) ci conduce a dei veri limiti: e le idee trascendentali, appunto perciò che non si può fare di esse a meno, mentre pure noi non possiamo mai realizzarle in concreto, servono a indicarci non solo i limiti dell’uso della ragion pura, ma anche il modo di determinarli: e questo è il vero fine e l’utilità di questa disposizione naturale della ragione che ha generato la metafisica, come il suo figlio prediletto: generazione che, come in ogni altra circostanza, non è dovuta al capriccio del caso, ma ad un germe originario, preformato saggiamente in vista di altissimi fini. Poiché la metafisica è forse più di ogni altra scienza già predisposta, nei suoi tratti principali, nell’essere nostro e non può assolutamente venir considerata come il prodotto d’un’elezione arbitraria o come un’estensione accidentale nel progresso delle esperienze.
La ragione non trova per sè soddisfazione alcuna nell’applicazione di tutti i suoi concetti e principi intellettivi, che le servono per l’uso empirico e quindi nella sfera del mondo sensibile; chè il ripetersi indefinito delle stesse questioni le toglie ogni speranza di pervenire ad una soluzione definitiva delle stesse. Le idee trascendentali, che questa soluzione appunto si propongono, costituiscono precisamente i problemi [354] della ragione. Ora essa vede chiaramente che a tale soluzione non può servire affatto il mondo sensibile; e che quindi tanto meno vi possono servire tutti quei concetti che servono soltanto all’esplicazione del sensibile: lo spazio, il tempo e tutti i concetti intellettivi puri. Il mondo sensibile non è che una catena di fenomeni collegati secondo leggi generali, non ha quindi alcuna consistenza propria, non è propriamente una cosa in sè e si riferisce necessariamente a un qualche cosa che contiene il fondamento di questi fenomeni, ad esseri che debbono venir riconosciuti non come fenomeni, ma come cose in sè. Soltanto in una conoscenza di questo genere la ragione può sperare di vedere soddisfatta una volta la sua aspirazione perenne ad innalzarsi dal condizionato alle sue condizioni.
Superiormente (§ 33, 34) noi abbiamo indicato i confini della ragione in riguardo ad ogni conoscenza di puri esseri intelligibili; ora che le idee trascendentali ci costringono a venire fino ad essi e ci hanno in certo modo condotti fino là dove lo spazio pieno (dell’esperienza) è a contatto col vuoto167 (di cui nulla possiamo sapere, coi noumeni), noi possiamo anche determinare i limiti della ragione: chè ogni limite implica qualche cosa di positivo (p. es., la superficie è il limite del corpo spaziale e tuttavia pur essa uno spazio, la linea è uno spazio che limita la superficie, il punto è il limite della linea e pur tuttavia sempre un luogo nello spazio), laddove il confine implica una pura negazione. I confini che noi abbiamo segnalato nei paragrafi anzidetti non possono più bastare dal momento che abbiamo trovato che vi è al di là di essi qualche cosa (per quanto non possiamo conoscere mai che cosa sia in sè). Perchè allora sorge la domanda: come si comporta la nostra ragione in questo collegamento di ciò che conosciamo con ciò che non conosciamo e non conosceremo mai? Qui abbiamo un reale collegamento del noto con l’assolutamente ignoto (e che sarà sempre ancora tale); ora il concetto di questo collegamento deve, anche se con questo l’ignoto non diventasse menomamente più noto (il che non è a sperare), venir determinato e chiarito.
Noi dobbiamo adunque pensare un essere immateriale, un mondo intelligibile ed un essere supremo (tutti puri noumeni), perchè la ragione soltanto in essi come cose in sè trova quella soddisfazione definitiva che non può mai sperar di trovare nella semplice derivazione dei fenomeni dai loro [355] principi fenomenici e perchè realmente i fenomeni si riferiscono a qualche cosa di diverso da essi (e perciò di assolutamente eterogeneo), in quanto i fenomeni presuppongono sempre una cosa in sè e ad essa ci rinviano, sia poi che la medesima possa o non possa venir meglio conosciuta.
Ma poichè questi esseri intelligibili noi non possiamo assolutamente conoscerli in modo determinato, cioè così come sono in sè e tuttavia dobbiamo assumerne l’esistenza in rapporto col mondo sensibile e con questo collegarli per via della ragione, noi potremo almeno pensare questo collegamento per mezzo di concetti che esprimano il loro rapporto col mondo sensibile. Perchè se noi pensiamo l’essere intelligibile solo per mezzo di concetti intellettivi puri, noi pensiamo in realtà niente di determinato, quindi il nostro concetto è senza significato; se lo pensiamo per mezzo di proprietàderivate dal mondo sensibile, allora non è più un intelligibile, ma è pensato come uno dei fenomeni e prende il suo posto nel mondo sensibile. Vediamone un esempio nel concetto dell’essere supremo168.
Il concetto che il deismo si fa di Dio è un concetto assolutamente puro della ragione, che però rappresenta solo un essere implicante la totalità delle realtà senza poterne determinare nessuna in particolare; perchè in tal caso dovrebbe trarre il suo esempio dal mondo sensibile ed avrebbe a fare allora sempre solo con un oggetto dei sensi, non con qualche cosa di essenzialmente diverso, che non può cadere affatto sotto i sensi. Poniamo infatti che io gli attribuisca l’intelletto: io non ho concetto alcuno d’un intelletto altro dal mio, da un intelletto cioè che deve accogliere le intuizioni del senso per occuparsi a ridurle sotto unità generali conforme alle leggi dell’unità della coscienza. Ma allora gli elementi del mio concetto sarebbero ancor sempre elementi fenomenici: mentre appunto dall’insufficienza del fenomeno io sono stato costretto a passare al di là di esso, al concetto d’un essere che non dipende affatto dai fenomeni e che non ha per condizione delle sue determinazioni alcunché di fenomenico. E se io separo l’intelletto dal senso per avere un intelletto puro, non mi resta allora che la pura forma del pensiero senza intuizioni: la quale non mi dà niente di determinato, non è un oggetto che io possa conoscere in concreto. Io dovrei così in via definitiva pensarmi un altro intelletto, un intelletto che intuisca gli oggetti, mentre io non posso farmi di questo il menomo concetto, in quanto l’intelletto umano è discursivo e conosce solo per mezzo di concetti [356] generali. E lo stesso mi accade quando io attribuisco all’essere supremo una volontà. Perchè io ho il concetto di volontà solo in quanto io lo astraggo dalla mia interna esperienza: ma esso presuppone la dipendenza della soddisfazione mia da oggetti della cui esistenza ho bisogno e così la sensibilità: ciò che assolutamente contraddice al concetto puro dell’essere supremo.
Le obbiezioni di Hume contro il deismo sono deboli e colpiscono sempre soltanto le prove, non mai le tesi stesse del deismo. Ma in riguardo al teismo, il quale dovrebbe risultare da una determinazione più precisa del nostro concetto dell’essere supremo, che il deismo pone come trascendente, esse sono fortissime e, secondo che questa determinazione avviene, in certi casi (realmente in tutti i casi ordinari), inconfutabili. Hume insiste sempre su questo punto che per il puro concetto d’un essere primo, al quale si attribuiscono solo dei predicati ontologici (eternità, onnipresenza, onnipotenza), noi non possiamo pensare niente di determinato: per questo si debbono aggiungere delle proprietà che possano costituire un concetto in concreto. Non basta dire che esso è una causa, ma bisogna dire come è costituita questa sua causalità, per es., che è una causalità per via di intelletto e volontà; ed allora è dato appiglio ai suoi attacchi che si volgono contro la tesi stessa del teismo, mentre prima egli aveva abbattuto soltanto le argomentazioni del deismo, ciò che non ha nessuna conseguenza pericolosa. I suoi argomenti veramente pericolosi si riferiscono tutti all’antropomorfismo che egli ritiene essere inseparabile dal teismo ed essere la causa della sua intima contraddizione; se si abbandona l’antropomorfismo, cade, secondo Hume, anche il teismo e non ci resta che un vago deismo che non ci serve a nulla e non può costituire il fondamento della religione e della morale. Se questa inseparabilità del teismo e dell’antropomorfismo fosse vera, le prove dell’esistenza d’un essere supremo potrebbero essere quello che vogliono e potrebbero anche essere ammesse come vere; ma il concetto di questo essere supremo non potrebbe mai venire da noi determinato senza avvolgerci in un mare di contraddizioni.
Quando noi connettiamo il precetto di evitare tutti i giudizi trascendenti della ragion pura con il precetto — che apparentemente vi contraddice — di risalire fino ai concetti che giacciono al di là dell’uso immanente (empirico) della ragione, noi ci avvediamo che ambedue possono coesistere, ma appunto solo rimanendo sulla linea limite dell’uso legittimo della ragione, perchè questa linea appartiene egualmente al campo [357] dell’esperienza come a quello della realtà intelligibile; ed apprendiamo allora per questo mezzo come quelle così eccelse idee servano puramente a determinare il limite della ragione umana, affinchè da una parte non si pensi solo ad estendere indefinitamente la conoscenza empirica, come se al nostro intelletto non restasse altro compito che di conoscere il mondo empiricamente dato, e d’altra parte non si pensi tuttavia di voler trascendere i limiti dell’esperienza e di giudicare delle cose che sono al di là di essa come cose in sè.
Ora noi ci manteniamo su questa linea limite quando limitiamo il nostro giudizio al rapporto che può avere il mondo empirico con un essere il cui concetto giace al di là di tutte le conoscenze delle quali noi possiamo essere capaci nel mondo. Perchè allora noi non applichiamo all’Essere supremo in sè stesso nessuna delle proprietà per mezzo delle quali pensiamo gli oggetti empirici ed evitiamo così l'antropomorfismo dogmatico: ma noi le riferiamo tuttavia al rapporto di questo Essere col mondo e ci permettiamo così un antropomorfismo simbolico, che in realtà concerne solo il linguaggio, non l’oggetto stesso.
Quando io dico: noi siamo costretti a concepire il mondo come se fosse l’opera d’una Mente e d’una Volontà suprema, io non dico in realtà altro che questo: nello stesso rapporto in cui un orologio, una nave, un reggimento sta coll’artefice, col costruttore, col comandante, sta il mondo sensibile (o tutto ciò che è a fondamento di questo complesso di fenomeni) con l’Essere ignoto, che io conosco così per questo mezzo non secondo ciò che è in sè, ma secondo ciò che è per me, cioè in rapporto al mondo del quale io sono una parte.
Una tal conoscenza è la conoscenza per analogia: la quale parola non esprime, come generalmente si intende, una somiglianza imperfetta di due cose, ma una somiglianza perfetta di due rapporti fra cose del tutto dissimili8. Per mezzo [358] di questa analogia ci rimane pur sempre un concetto per noi abbastanza determinato dell’Essere supremo anche se abbiamo lasciato da parte tutto ciò che poteva servire a determinarlo assolutamente ed in sè stesso: perchè noi lo determiniamo in rispetto al mondo, quindi a noi, e più non ci occorre. Le obbiezioni che Hume muove a coloro che vogliono determinare questo concetto assolutamente e ne traggono i materiali da sè e dal mondo, non ci colpiscono: e nemmeno può egli opporci che, eliminato l’antropomorfismo oggettivo dal concetto dell’Essere supremo, non ci rimanga più nulla.
Chè quando solo inizialmente ci si conceda (come fa anche Hume nella persona di Filone contro Cleante nei suoi Dialogi) come un’ipotesi necessaria il concetto deistico dell’Essere primo, nel quale concetto questo è pensato per via di puri predicati ontologici, della sostanza, della causa, eco. (ciò che si deve fare, perchè senza di ciò la ragione, rimandata sempre nel mondo sensibile da condizioni ad altre condizioni che sono alla lor volta condizionate, non può avere alcuna soddisfazione; e si può a buon diritto fare senza cadere nell’antropomorfismo, che riferisce ad un essere affatto distinto dal mondo sensibile predicati tratti da questo, in quanto quei predicati ontologici sono semplici categorie, le quali non ci dànno alcun concetto determinato, ma per questo appunto non ci dànno concetti limitati dalle condizioni della sensibilità): nulla ci può impedire di predicare di questo essere una causalità per mezzo della ragione in rapporto al mondo e così di passare al teismo, pur senza essere costretti ad attribuirgli questa ragione in se stesso come una proprietà a lui inerente. Perchè, in riguardo al primo punto, l’unica via possibile di spingere al suo più alto grado l’applicazione della ragione [359] ad ogni possibile esperienza nel mondo sensibile, estendendola in modo eguale a tutti i fenomeni, si è di assumere come principio di tutti i collegamenti fenomenici una ragione suprema: un tale principio deve riuscire in via generale vantaggioso alla ragione, senza esserle di impedimento nel suo uso empirico. In riguardo poi al secondo punto la ragione non è riferita così come proprietà all’Essere primo in se stesso, ma solo al rapporto suo col mondo sensibile e così viene evitato l’antropomorfismo. Perchè noi consideriamo qui l’Essere supremo solo come la causa della razionalità che troviamo dappertutto nel mondo e se attribuiamo ad esso la ragione, in quanto esso è il fondamento di questa razionalità del mondo, lo facciamo solo in senso analogico, in quanto questa espressione indica il rapporto in cui deve stare col mondo la Causa suprema, a noi ignota, per determinare in esso tutto secondo la più perfetta razionalità. Con questo noi evitiamo di servirci dell’attributo della ragione per pensare Dio, ma riusciamo per mezzo di esso a pensare il mondo come dobbiamo pensarlo se vogliamo sottoporlo alla più alta unificazione razionale sotto un unico principio. Noi confessiamo per questa via che l’Essere supremo è per noi nell’intimo essere suo imperscrutabile ed impossibile ad essere pensato in forma determinata e siamo così trattenuti dal fare un uso trascendente dei concetti che noi abbiamo della ragione come d’una causa agente (per mezzo della volontà) e dal determinare la natura divina per mezzo di attributi che sono pur sempre derivati dalla natura umana, perdendoci così in superstizioni più o meno grossolane; e d’altra parte siamo trattenuti dal soffocare la considerazione fisica delle cose sotto il peso di esplicazioni iperfisiche fondate sul riferimento a Dio dei concetti nostri della ragione umana e così dal distogliere la scienza dal suo vero compito che è di studiare con la ragione la natura per se stessa, non di pretendere di derivarne i fenomeni da una ragione suprema. L’espressione più adatta ai nostri brevi concetti è questa: noi pensiamo il mondo come se esso dipenda e per l’esistenza e per la sua determinazione interna da una ragione suprema; col che noi riconosciamo la struttura che gli è propria, senza perciò voler pretendere di determinare quella della sua causa in se stessa; e d’altro lato poniamo il fondamento di questa struttura (la razionalità del mondo) nel rapporto della Causa suprema col mondo [360], non trovando in questo un’esplicazione sufficiente della razionalità sua9.
In tal guisa si dileguano le difficoltà, che sembrano opporsi al teismo, coll’associare al principio di Hume e cioè di non estendere dogmaticamente l’uso della ragione al di là del campo di ogni esperienza possibile — un altro principio da lui interamente negletto — e cioè di non considerare il campo dell'esperienza possibile come qualche cosa che agli occhi della nostra ragione si limiti da sè stesso. La critica della ragione segna qui la vera via di mezzo tra il dogmatismo combattuto da Hume e lo scetticismo da lui propugnato: una via di mezzo che non è come le altre vie di mezzo170, le quali si determinano quasi meccanicamente, prendendo un poco da una parte e un poco dall’altra e finiscono per servire a ben poco, ma può venir tracciata esattamente partendo da principi.
Io mi sono servito in principio di questa osservazione dell’immagine sensibile del limite per fissare i confini della ragione in riguardo all’uso che le è assegnato. Il mondo sensibile contiene puri fenomeni, che non sono cose in sè; e l’intelletto, appunto perchè riconosce gli oggetti dell’esperienza per semplici fenomeni, deve al di là di essi assumere un mondo di noumeni. Ambo questi mondi sono abbracciati dalla ragione: or come procede essa a delimitare l’uso dell’intelletto in riguardo ad entrambi i campi? L’esperienza, la quale contiene tutto ciò che appartiene al mondo sensibile, non si limita da sè; essa giunge solo sempre da un condizionato ad un altro condizionato. Ciò che deve limitarla non può che. giacere fuori di essa e questo è il mondo dei puri esseri intelligibili. Ma questo, se si tratta della determinazione della natura [361] degli esseri intelligibili, è uno spazio vacuo e pertanto, in rispetto alla pretesa di avere dei concetti dogmaticamente determinati, dobbiamo riconoscere di non poter trascendere il campo dell’esperienza possibile. Poiché tuttavia un limite è esso stesso qualche cosa di positivo che appartiene tanto a ciò, che vi è compreso, quanto allo spazio che circonda una data totalità, è pure una conoscenza positiva quella per la quale la ragione si estende fino a questo limite: in guisa tuttavia da non essere tentata di oltrepassarlo, perchè al di là essa trova uno spazio vuoto, nel quale può bene pensare delle forme astratte di cose, ma non delle cose concrete. La limitazione del campo dell’esperienza per via di qualche cosa, che rimane sotto ogni altro rispetto ignoto, è pure una conoscenza che rimane alla ragione da questo punto di vista; per la quale essa non rimane chiusa entro il campo del sensibile e nemmeno può vagare fuori di esso, ma, come si conviene alla conoscenza d’un limite, si restringe al rapporto di ciò che è fuori con ciò che è dentro il limite stesso.
La teologia naturale è costituita da uno di questi concetti posti sul limite della ragione umana, in quanto essa si vede costretta a levare il suo sguardo all’idea d’un essere supremo (e nel rapporto pratico anche a quella d’un mondo intelligibile), non per determinare alcunché in riguardo di questi puri esseri intelligibili e quindi fuori del mondo sensibile, ma solo per dirigere il proprio uso nell’àmbito del sensibile secondo la più perfetta unità possibile (così teoretica, come pratica); al qual fine essa pensa il mondo sensibile come dipendente da una Ragione autonoma, che è causa di tutti i rapporti d’unità che sono nel mondo, non inventandosi niente affatto da sè questo essere, ma, poiché vi deve necessariamente essere fuori del mondo sensibile qualche cosa che solo l’intelletto puro può pensare, determinandolo secondo tale rapporto, certo però in via puramente analogica.
In tal guisa172 rimane intatto il nostro principio sovraesposto, che è il risultato di tutta la Critica e cioè: “che la ragione con tutti i suoi principii a priori non può mai apprenderci altro che oggetti d’un’esperienza possibile ed anche di questi non può apprenderci più di quello che è dato nell’esperienza„; ma questa restrizione non toglie che essa possa condurci fino al limite obbiettivo dell’esperienza e cioè fino al suo rapporto con qualche cosa che non è più oggetto dell’esperienza, ma tuttavia è il fondamento supremo di ogni esperienza, senza tuttavia apprenderci qualche cosa di questo essere in sè stesso, ma solo considerandolo in rapporto all’applicazione più perfetta [362] e più alta della ragione stessa nel campo dell’esperienza possibile. Questo è tutto il frutto che si può qui ragionevolmente desiderare e del quale vi è ragione di essere contenti.
Così noi abbiamo ampiamente messo in luce le origini soggettive della metafisica, considerata in ciò che propriamente costituisce il fine essenziale delle elucubrazioni sue, mostrando come realmente essa sorga per una disposizione naturale della ragione umana. Ma poiché abbiamo trovato ancora che questo uso puramente naturale di tale disposizione della nostra ragione, quando nessuna disciplina della stessa — possibile solo per via d’una critica scientifica — la frena e la rattiene nei suoi confini, implica la nostra ragione in una rete di ragionamenti dialettici trascendenti, in parte soltanto apparenti, in parte anche contraddicentisi a vicenda, e che questa metafisica sofisticante è inutile, anzi funesta al progresso della conoscenza naturale, rimane pur sempre alla indagine nostra un compito degno e cioè di ricercare per qual fine la natura abbia nella nostra ragione predisposto questa tendenza alla costituzione di concetti trascendenti: perchè tutto ciò che nella natura esiste deve pure essere stato originariamente predisposto a qualche fine utile.
Una tale ricerca è in fatto molto scabrosa; ed ancora debbo confessare che ciò che io qui ne posso dire è semplice congettura, come tutto quello che si riferisce ai fini supremi della natura; ma anche il congetturare può in questo caso esser lecito, perchè la questione non riflette il valore obbiettivo dei giudizi metafisici, bensì solo la disposizione naturale alla metafisica, quindi appartiene non al sistema della metafisica, ma all’antropologia.
Quando io considero tutte le idee trascendentali, il cui complesso costituisce il vero e proprio compito della ragion pura naturale, dal quale essa è tratta ad abbandonare il semplice studio della natura, a trascendere ogni possibile esperienza ed a costituire in questo suo sforzo quella cosa che (sia essa vero sapere o sofìsticheria) dicesi metafisica, io credo di vedere che questa disposizione naturale miri a liberare la nostra ragione dai vincoli dell’esperienza e dai confini della semplice scienza della natura in modo che essa veda almeno dinanzi a se aperto un campo che contiene soltanto oggetti per l’intelletto puro, trascendenti ogni facoltà sensibile: non con l’intenzione invero che noi ci occupiamo speculativamente di essi (perchè noi non troviamo ivi terreno [363] sul quale possiamo prender piede), ma perchè i principi pratici, se non trovassero dinanzi a sè un tale campo aperto per le loro aspettazioni e speranze, non potrebbero conquistarsi quella universalità di cui la ragione sotto l’aspetto morale ha assolutamente bisogno.
Io trovo infatti che l’idea psicologica per quanto poco essa mi apprenda della pura essenza dell’anima umana, in quanto trascende tutti i concetti empirici, mi mostra almeno con bastante chiarezza l’insufficienza di questi ultimi e mi ritrae così dal materialismo come da una concezione che non serve in alcun modo all’esplicazione della natura e di più è funesta alla ragione sotto l’aspetto pratico. Così le idee cosmologiche per l'evidente impotenza di qualsiasi presente o futura conoscenza naturale a soddisfare le legittime esigenze della ragione, giovano a ritrarci dal naturalismo che vorrebbe porre la natura come qualche cosa che sta da sè e basta a se stessa. Infine poiché ogni necessità naturale nel mondo sensibile è sempre condizionata in quanto presuppone sempre la dipendenza delle cose da altre cose e la necessità incondizionata può solo venir cercata nell’unità d’una causa distinta dal mondo sensibile ed ancora la causalità della stessa, quando fosse puramente natura, non ci spiegherebbe mai resistenza dell’accidentale come suo effetto: così la ragione si libera per mezzo dell’idea teologica dal fatalismo, sia esso pensato come cieca necessità naturale nella connessione della natura senza alcun primo principio o come necessità nell’attività di un primo principio, e conduce così al concetto d’una causalità per la libertà e quindi d’un’intelligenza suprema. Così le idee trascendentali servono, se non a darci delle cognizioni positive, a distruggere le temerarie affermazioni del materialismo, del naturalismo e del fatalismo, così funeste alla ragione, e per questa via aprono alle idee morali un libero campo al di là di quello della speculazione: questa è, mi sembra, la spiegazione che può darsi della disposizione naturale dello spirito umano alla metafisica.
L’utile pratico che può avere una disciplina puramente speculativa giace al di là dei limiti di questa disciplina, può quindi essere considerato solo come uno scolio e, al pari di tutti gli scolli, non appartiene, come parte, alla disciplina stessa. Pur tuttavia questo rapporto sta ancora sempre dentro i confini della filosofia, specialmente di quella che attinge alle pure sorgenti della ragione, dove l’uso speculativo della ragione nella metafisica deve necessariamente unificarsi con il suo uso pratico [364] nella morale. Quindi l’inevitabile dialettica della ragion pura nella metafisica, considerata come disposizion naturale, deve essere esplicata non solo come un’illusione da dissiparsi, ma anche come un apparato naturale del quale si deve ricercare, ove sia possibile, il fine: per quanto quest’impresa sia come un sovrappiù, che non si può più propriamente pretendere a buon diritto dalla metafisica.
Come un secondo scolio174, ma più affine al contenuto vero e proprio della metafisica, si potrebbe considerare la soluzione delle questioni che vanno nella Critica da p. 647 a p. 668. Ivi sono messi in luce alcuni principii della ragione che determinano a priori l’ordine naturale o meglio l’intelletto, il quale di quest’ordine ricerca le leggi per via dell’esperienza. Essi sembrano essere costitutivi e normativi in rapporto all’esperienza, mentre pure derivano dalla ragione pura, che non può venir considerata, al pari dell’intelletto, come un principio dell’esperienza possibile. Se ora questa concordanza provenga da ciò che, come la natura175 non inerisce ai fenomeni od alla loro sorgente (la sensibilità) in sè, ma sorge solo dal rapporto di questi ultimi con l’intelletto, così l’unità completa e definitiva della elaborazione intellettiva in vista d’una totalità dell’esperienza possibile (in un sistema) venga all’intelletto solo dal suo rapporto con la ragione e così anche l’esperienza stia mediatamente sotto la legislazione della ragione: io lo lascio considerare a coloro che vorranno ricercare la natura della ragione, oltre che nella sua applicazione alla metafisica, anche nella costituzione di principi generali diretti ad unificare sistematicamente la conoscenza naturale; perchè io ho accennato a tale questione nella mia Critica, come ad una questione importante ma non ho cercato di risolverla10.
[365] E così termino la risoluzione analitica del problema fondamentale da me posto “Come è possibile la metafisica in generale?„: risoluzione alla quale siam giunti partendo dai prodotti reali di quest’attività per risalire ai fondamenti della sua possibilità.
*1. Dato che si possa dire che una scienza è reale, almeno nell’idea di tutti gli uomini, in quanto è fuori di dubbio che i problemi i quali vi conducono sono proposti a ciascuno dalla natura della ragione umana, onde sorgono inevitabilmente in ogni tempo molti, sebbene difettosi tentativi in riguardo ad essi, si dovrà anche dire che la metafisica è soggettivamente (ed invero necessariamente) reale; ed allora è giustificata la nostra domanda: come essa è (oggettivamente) possibile? ↩
*2145. Nel giudizio disgiuntivo noi consideriamo distintamente tutte le possibilità in relazione ad un dato concetto. Il principio ontologico della determinazione universale d’una cosa in genere (di ogni cosa deve potersi predicare o l’uno o l’altro di tutti i possibili predicati opposti), che è anche il principio di tutti i giudizi disgiuntivi, pone come fondamento la totalità di tutte le possibilità, nella quale deve essere determinabile la possibilità di ogni cosa in genere. Questo serva di breve chiarimento alla nostra proposizione che l’atto della ragione nei raziocinii disgiuntivi è, rispetto alla forma, una cosa sola con quello per cui essa genera l’idea di una totalità di ogni realtà, che contiene in sè ciò che vi è di positivo in tutti i predicati opposti.↩
*3. Se la rappresentazione dell’appercezione, l’io, fosse un concetto, per mezzo del quale si pensasse un qualche cosa, esso potrebbe venir usato anche come predicato di altre cose o conterrebbe in sè simili predicati. Ora esso non è niente più che un senso di esistere senza il minimo concetto ed è semplice rappresentazione di ciò con cui ogni pensiero deve essere messo in rapporto (relatione accidentis).↩
*4. È in verità molto strano che i metafisici sian sempre passati via così tranquillamente sul principio della persistenza delle sostanze, senza tentarne mai una prova; senza dubbio perchè appena cominciavano a trattare del concetto di sostanza, si vedevano abbandonati da ogni mezzo di prova. Il senso comune, il quale ben comprendeva che senza questo presupposto non è possibile alcun collegamento delle percezioni in un'esperienza, supplì a questa mancanza con un postulato: poiché dall’esperienza stessa non poteva in nessun modo derivare questo principio, sia perchè essa non può seguire tanto le sostanze in tutte le loro trasformazioni e dissoluzioni da poter ritrovare la materia sempre intatta, sia perchè il detto principio implica una necessità, che è sempre la caratteristica d’un principio a priori. Ora i metafìsici applicarono fiduciosamente questo principio al concetto dell’anima pensata come sostanza e conclusero ad una necessaria persistenza della stessa dopo la morte dell’uomo (sopratutto in quanto la semplicità di questa sostanza, che veniva argomentata dalla indivisibilità della coscienza, la assicurava contro la fine per dissoluzione). Se avessero trovato la sorgente vera di questo principio — ciò che esigeva ricerche molto più profonde di quello che essi avessero in animo d’intraprendere —, avrebbero veduto che quella legge della persistenza delle sostanze ha luogo soltanto in vista della costituzione dell’esperienza e si applica solo alle cose in quanto debbono essere conosciute e collegate con altre nell’esperienza; e che quindi non può valere delle stesse anche indipendentemente da ogni possibile esperienza e così nemmeno dell’anima dopo la morte. ↩
*5. Io desidero quindi che il lettore critico si occupi sopratutto di questa antinomia, perchè la natura stessa sembra averla stabilita per sconcertare la ragione nelle sue temerarie pretese e costringerla all’esame di se stessa. Io mi obbligo a garantire ogni prova che ho dato sia della tesi, sia dell’antitesi e così a mostrare la certezza dell’inevitabile antinomia della ragione. Una volta che il lettore sia tratto da questo strano fenomeno a risalire all’esame delle presupposizioni che vi stanno a fondamento, egli si sentirà costretto a ricercare con me più profondamente i primi fondamenti di ogni conoscenza della ragion pura. ↩
*6. L’idea della libertà ha luogo soltanto nel rapporto dell’intelligibile come causa col fenomeno come effetto. Quindi non possiamo attribuire libertà alla materia in riguardo all’attività sua incessante con la quale essa riempie il suo spazio, sebbene quest’attività muova da un principio interiore. Tanto meno possiamo trovare un concetto di libertà che si convenga ai puri esseri intelligibili, per esempio a Dio, in quanto la sua azione è immanente. Poiché l’azione sua, sebbene indipendente da cause determinanti esterne, è tuttavia determinata nella sua eterna ragione, cioè nella natura divina. Solo quando per un’azione deve iniziarsi qualche cosa, quindi deve ritrovarsi l’effetto nella serie del tempo e così nel mondo sensibile (p. es. l’inizio del mondo), si leva la questione se la causalità della causa abbia dovuto anch’essa cominciare, o se la causa possa originare un effetto senza che la sua causalità abbia un inizio. Nel primo caso il concetto della causalità è un concetto di necessità naturale, nel secondo di libertà. Di qui può vedere il lettore che io col definire la libertà come la facoltà di iniziare da sè un evento, ho colpito precisamente quel concetto che è il problema dalla metafisica. ↩
*7162. Il signor Platner nei suoi Aforismi dice quindi acutamente (§ 728, 729): “Se la ragione è criterio, non deve esser possibile alcun concetto che sia incomprensibile alla ragione umana. — Nel reale solo ha luogo l’incomprensibilità. Qui essa nasce dall’insufficienza delle idee acquisite„. È quindi paradossale solo in apparenza — che anzi del resto è naturale — il dire che molto ci è incomprensibile nella natura (p. es. la facoltà della generazione), ma che quando noi saliamo più in alto e andiamo anzi al di là della natura, tutto ridiviene comprensibile; perchè allora noi abbandoniamo del tutto gli oggetti che ci possono essere dati e ci occupiamo solo con idee, nelle quali noi possiamo comprendere benissimo la legge, che per esse la ragione prescrive all’intelletto nella sua applicazione nell’esperienza, perchè essa è il suo prodotto stesso.↩
*8. Così vi è un’analogia fra i rapporti giuridici delle azioni umane ed i rapporti meccanici tra le forze motrici: io non posso fare alcunché verso un altro senza dargli il diritto di fare, nelle stesse condizioni, lo stesso verso di me: appunto come nessun corpo può agire con la sua forza motrice su di un altro senza essere con ciò causa che l’altro gli opponga una reazione in misura uguale. Qui il diritto e la forza motrice sono cose dissimili, ma nel loro rapporto vi è una somiglianza perfetta. Per mezzo di una simile analogia io posso quindi rendere il concetto del rapporto tra cose che mi sono assolutamente ignote. P. es. come si rapporta la cura pel benessere dei figli = A all’amore dei genitori = B, così il benessere del genere umano = C a quell’essere ignoto in Dio =X che noi diciamo amore; non perchè esso abbia la minima somiglianza con alcuna inclinazione umana; ma perchè noi possiamo porre il rapporto di esso col mondo come simile a quello che vi è tra determinate cose nel mondo. Il concetto espresso dal rapporto è qui una semplice categoria e cioè il concetto della causa, che non ha nulla di sensibile. ↩
*9. Io dirò: la causalità della causa suprema è in rapporto al mondo ciò che è la ragione umana in rapporto alle opere dell’arte. Con questo la natura della causa suprema mi rimane ignota: io paragono solo la sua azione a me nota (l’ordine del mondo) e la sua razionalità con le azioni a me egualmente note della ragione umana e perciò appello la causa suprema ragione, senza tuttavia attribuirle come proprietà ciò che io nell’uomo intendo sotto questo nome od alcunché d’altro a me noto. ↩
*10. È stato mio costante proposito nella Critica di non negligere nulla di ciò che potesse portare a perfezione la ricerca della natura della ragion pura, per quanto profondamente ciò si trovasse nascosto. Sta poi nell’arbitrio di ciascuno il decidere fin dove debba spingere le sue ricerche, una volta che gli è stato mostrato quali siano le ricerche ancora da farsi: che tanto può giustamente attendersi da colui che si è proposto il compito di misurare questo intiero campo per lasciarlo poi da coltivare e da ripartire a loro piacere ad altri. A quelle appartengono anche i due scolli, che per la loro aridità difficilmente attrarranno i dilettanti e quindi sono stati qui posti solo per i conoscitori. ↩
138) § 40-42. La terza questione “Come è possibile la metafisica?„ si pone in condizioni differenti dalle due prime. La matematica e la fisica pura non avevano bisogno di giustificazione: la prima per la sua evidenza, la seconda perchè ha la sua verificazione e conferma nell’esperienza (cfr. Kr. r. Vern., 467). La metafisica invece è costituita nella sua parte essenziale da giudizi sintetici a priori, che si riferiscono alla totalità assoluta dell’esperienza e quindi trascendono qualunque esperienza data. Come l’intelletto è la facoltà delle categorie, così la ragione è la facoltà delle idee, col qual vocabolo Kant intende quei concetti che la ragione forma necessariamente a priori, ma che non possono trovare la loro applicazione in alcuna esperienza, perchè si riferiscono alla totalità assoluta dell'esperienza stessa. E da questa impossibilità d’una verificazione delle idee della ragione per mezzo dell’esperienza nascono appunto quelle incertezze e quelle contraddizioni della metafisica, che ci hanno mosso a porre la questione presente. Quindi noi non possiamo più qui partire dalla metafisica come fatto di indiscusso valore per indagare circa i principii che la rendono possibile, ma dobbiamo applicare qui quanto abbiamo appreso nelle due sezioni precedenti intorno alla funzione dell'a priori. Ora noi abbiamo veduto che questo a priori ha, sia rispetto al senso, sia rispetto all’intelletto, una pura funzione formale; che una conoscenza oggettiva non è possibile, senza che ad esso si aggiunga il dato sensibile, la materia fornita dall’intuizione sensibile. Perciò questo possiamo fin d’ora premettere: che le idee della ragione, le quali trascendono ogni esperienza e non si applicano, come forme, all’intuizione sensibile, non possono costituire conoscenze oggettive. I paragrafi che seguono hanno per fine di mostrare che la ragione, quando attribuisce illusoriamente alle sue idee un valore obbiettivo, diventa dialettica, cioè si mette in contraddizione con sè stessa: e in secondo luogo, poiché la posizione del problema della totalità assoluta dell’esperienza non è un capriccio, ma un’indeclinabile esigenza dello spirito umano, di ricercare quali siano il senso e la funzione delle idee, per mezzo delle quali la ragione tenta di risolverlo. ↩
139) [p. 101,9]. La fisica pura è una cosa sola con la metafisica immanente, con la filosofia pura della natura: si veda la nota 47. Ora, come filosofia, la fisica pura non può gareggiare in evidenza con la matematica, perchè questa è fondata sopra intuizioni, essa invece su concetti.↩
140) [p. 102,16]. Qui Kant espone in breve il processo che conduce la ragione alle idee. L’intelletto per mezzo dei suoi principii concatena, abbiamo veduto, il complesso dei dati sensibili in un sistema di valore obbiettivo, in un mondo di oggetti. Ma questo sistema non è mai qualche cosa di definitivo e di autonomo: sotto tutti i rapporti ogni elemento della realtà dipende sempre da altri elementi, ai quali ci rinvia come a condizioni necessarie della sua esistenza: un esteso ci rinvia ad un’estensione più comprensiva, una causa ad altre cause antecedenti e così via. Quindi l’opera dell’intelletto si presenta all’uomo come qualche cosa di eternamente imperfetto, limitato, parziale: ciò che dolorosamente contrasta con l’esigenza, che egli porta con sè, di giungere a qualche cosa di definitivo e di assoluto. Qui interviene la ragione: che è un’attività per la quale lo spirito, invece di collegare laboriosamente elementi con elementi per mezzo dei principii intellettivi, opera (o si sforza di operare) a priori, per una specie di potenziamento della virtù intellettiva, la sintesi definitiva di tutti gli elementi reali e possibili in un’unità che tutti li comprenda come principio dal quale possono venir derivati. Queste unità che sono “concetti necessarii„, ma che appunto in quanto vogliono essere la sintesi della totalità dell’esperienza “non possono mai avere il loro oggetto dato nell’esperienza„ sono le idee della ragione. Più essendo le forme intellettive, in virtù delle quali è possibile un’unificazione del molteplice secondo una progressione indefinita, si aprono naturalmente alla ragione altrettante vie per procedere a questa sintesi assoluta: l’ideale suo è però di giungere ad un’idea suprema, che sia il principio unico, nel quale è contenuta tutta la realtà. Le antiche filosofie dogmatiche non sono che tentativi diversi di realizzare questo sogno della ragione: sogno destinato a rimanere perpetuamente un sogno, appunto perchè la ragione, sforzandosi di operare la sintesi della totalità assoluta dell’esperienza, abbandona per questo medesimo il campo dell’esperienza, nel quale soltanto è possibile all’uomo la conoscenza. ↩
141) [p. 103,2]. Qui Kant accenna a quella che nella Critica (348 ss.) è detta la funzione regolativa della ragione. Sebbene Kant sembri restringere talora a questa sola funzione il compito della ragione, questa ha veramente (come si vedrà meglio in sèguito) una duplice azione. In primo luogo (e questo è il punto più importante) essa stabilisce il vero carattere del mondo dell’esperienza e il suo vero rapporto con l’inconoscibile realtà trascendente; in questo modo c’insegna a non porre la realtà fenomenica come qualche cosa di assoluto (naturalismo) od a cercarne il fondamento assoluto in qualche cosa che in fondo appartiene o dovrebbe appartenere pur sempre al mondo fenomenico (dommatismo). In secondo luogo esercita un’azione regolativa sull’intelletto, Io ammaestra, appunto in quanto gli tiene dinanzi la distinzione fra le due realtà, ad esercitare l’attività sua, che si esplica nella concatenazione dell’esperienza, in un progresso senza fine, respingendo ogni indebito ricorso a fattori o ad esplicazioni trascendenti. In questo modo è “la guida dello stesso in ogni applicazione immanente„. Si cfr. il § 44; Grundl., 452; Kr. r. Vern., 436 ss.; Diss., § 9.↩
142) [p. 103,33]. La dialettica è per Kant la logica dell’apparenza, la sofistica: dialettico tanto vale quindi quanto sofistico, illusorio (cfr. Log., 18). La tendenza naturale della ragione a dare un valore obbiettivo alle sue idee è una “naturale ed inevitabile dialettica della ragion pura„ (Kr. r. V., 237). La seconda parte della logica trascendentale nella Critica della Ragion pura è stata da Kant chiamata dialettica in quanto è la critica dell’illusione dialettica della ragione (ib., 81).↩
143) § 43. Kant si richiama qui alla necessità di dedurre sistematicamente anche la tavola delle idee della ragione. Cfr. i §§ 26, 39. Come sono state dedotte le categorie dalle forme del giudizio, così qui si deducono le idee dalle forme del raziocinio. — La spontaneità dello spirito, l’attività sua unificatrice si esplica secondo Kant nell’intelletto e nella ragione. L’intelletto è, come Kant si esprime in una delle sue definizioni, la facoltà delle regole, la facoltà di generalizzare, di creare dalle rappresentazioni singole concetti e giudizi. Nella sua funzione formale, empirica, l’intelletto applica semplicemente le proprie leggi agli oggetti empirici per ordinarli formalmente; di questa sua funzione si occupa quella parte della logica che tratta del concetto e del giudizio. Ma questa funzione formale, empirica è possibile solo in quanto l’intelletto contiene in sè dei principii di unificazione a priori, la cui applicazione al materiale del senso è ciò che ha dato origine agli oggetti medesimi; la logica dell’Analitica trascendentale tratta di questa funzione reale, trascendentale dell’intelletto ed isola le forme pure d’unità che si compendiano nelle dodici categorie. Sulla distinzione della logica reale e della logica trascendentale cfr. Diss., § 5, 23; Kr. r. Vern., 74 ss., 237 ss. — La ragione invece è la facoltà dei principii, la facoltà di ridurre la molteplicità delle conoscenze sotto un piccolo numero di principii, dai quali esse si possono logicamente dedurre, in una parola la facoltà di sistematizzare. Anch’esso ha una funzione puramente formale — che consiste nell’ordinare sistematicamente i concetti empirici posseduti, scegliendo nel loro seno quelli che possono essere posti come principii e subordinando loro gli altri, in modo che questi possano venirne derivati secondo le leggi del raziocinio. Ma questa funzione formale non è che l’applicazione a campi ristretti dell’esperienza d’un attività che considerata in sè, astrattamente dal materiale empirico, riesce alla posizione di principii puri, deriva dal proprio seno un certo numero di principii a priori, ai quali dovrebbe subordinarsi tutta l’esperienza. — Ora come dalla considerazione dell’uso formale dell’intelletto, dalle forme logiche del giudizio empirico abbiamo derivato le corrispondenti forme pure di unità, così è naturale che noi ricerchiamo le unità pure della ragione nelle forme sue di unificazione formale del dato empirico, nei diversi modi onde essa subordina a principii i concetti e i giudizi dell’esperienza — cioè nelle forme del raziocinio. Nei Prolegomeni però Kant non si estende oltre su questa derivazione, che del resto non è se non un ravvicinamento artificioso e si limita a porre in corrispondenza del raziocinio categorico — nel cui principio (maggiore) si ha il riferimento d’un predicato ad un soggetto — il processo della ragione, per cui essa si eleva all’idea del soggetto ultimo e definitivo, del soggetto assoluto; in corrispondenza del raziocinio ipotetico — nel cui principio si ha il riferimento d’un condizionato ad una condizione — il processo, per cui la ragione si eleva all’idea della totalità delle condizioni, dell’essere incondizionato; e infine in corrispondenza del raziocinio disgiuntivo — nel cui principio si ha il riferimento d’una molteplicità di concetti parziali alla loro totalità — il processo per cui la ragione si eleva all’idea della totalità assoluta dell’essere. Tre sono quindi le idee della ragione: l’idea psicologica (l'anima), l’idea cosmologica (la libertà), l’idea teologica (Dio). Là dove Kant parla di idee psicologiche, cosmologiche eco. (Proleg., 331, 333, 338, 349; Kr. d. r. V., 283, 289, ecc.) intende i concetti derivati, per opera della psicologia razionale, della cosmologia ecc., dalle tre idee fondamentali. ↩
144) [p. 104,27]. “L’intelletto costituisce per la ragione un oggetto a quel modo che la sensibilità per l’intelletto. Rendere sistematica l’unità di tutti i possibili atti empirici dell’intelletto è compito della ragione, come l’intelletto collega per mezzo di concetti il molteplice dei fenomeni e lo reca sotto leggi empiriche a (Kr. r. Vern., 439). Ora poiché “le idee trascendentali non sono che categorie estese fino all’incondizionato„ (Kr. r. Vern., 283), è facile comprendere che cosa intenda Kant col dire che la ragione si rappresenta i giudizi intellettivi come determinati a priori in riguardo a questa o quell’altra forma a priori. ↩
145) [p. 105 nota]. Qui Kant esplica l’origine dell’idea teologica; si veda il § 55 e la nota. Nel raziocinio disgiuntivo l’atto caratteristico della ragione sta nella posizione del giudizio disgiuntivo che serve da maggiore, nella costituzione d’un concetto che riunisce in sè un certo numero di possibilità positive. Ciò che guida a priori la ragione nella costituzione di queste unità collettive è il principio della comunione di tutti gli esseri, il principio che in ultimo tutti gli esseri debbono costituire una totalità unica, della quale dovrebbero predicarsi, come altrettanti membri della disgiunzione, in un interminabile giudizio disgiuntivo tutte le realtà positive. Nelle sue applicazioni finite questo principio dà origine al “principio ontologico della determinazione d’una cosa in genere„ e cioè che di ogni soggetto devono potersi predicare, positivamente o negativamente tutti i predicati possibili. Per esso infatti anche il soggetto più limitato è posto in un certo rapporto di comunione (sia pure per via di esclusione) con tutta la realtà: per esso ogni essere dimostra di non essere che una limitazione o determinazione della totalità della realtà. Il progresso della ragione si esplica, sotto questo rispetto, nella costituzione di unità sempre più comprensive, che riuniscono in sè un numero sempre maggiore di membri positivi della disgiunzione: il limite estremo è l’idea della totalità assoluta delle possibilità positive, della omnitudo realitatis, dalle cui limitazioni interiori derivano tutte le totalità finite. La quale però, come le altre idee, non è una realtà obbiettiva, ma la semplice estensione formale alla totalità, d’un principio costitutivo di tutte le esperienze finite. ↩
146) § 44-45. In questi due paragrafi Kant tratteggia un poco più diffusamente la data soluzione: mostra quale sia la funzione della ragione e delle idee e come solo per un traviamento della ragione si venga a fare delle idee altrettante rappresentazioni di oggetti trascendenti. — Le idee non servono per nulla alla costituzione dell’esperienza — anzi possono talora incepparla; quando cioè vengono obbiettivate in esseri trascendenti, coi quali si limita arbitrariamente l’esperienza stessa. Esse esprimono solo l’esigenza della totalità: sotto questo riguardo ci rappresentano la realtà data nell’esperienza come limitata nell’essere suo per la dipendenza sua da qualche cosa di assoluto, dalla totalità dell’esperienza che, appunto come tale, sta rispetto ad ogni esperienza data come un fondamento trascendente; come illimitata, nella sua particolare sfera, quanto al possibile ampliamento delle conoscenze empiriche (v. nota 141). Ma è ben evidente che le idee possono rappresentare la totalità assoluta dell’esperienza, solo per mezzo dei principii formali che la costituiscono, per mezzo di un potenziamento delle categorie, che viene a stringere in una totalità assoluta — ma solo dal punto di vista dei suoi costituenti formali — tutta l’esperienza possibile; non possono invece rappresentarcela per mezzo del contenuto intuitivo che si svolge in una serie indefinita. La ragione viene così a stabilire per mezzo delle categorie un rapporto fra il mondo dell’esperienza ed una realtà trascendente che n’è il fondamento: quel medesimo rapporto che collega tra loro i fenomeni vien fatto servire a collegare ogni esperienza data, la totalità empirica, con il fondamento trascendente delle stesse, con la totalità assoluta: solo in questo caso si ha, come nella proporzione matematica, un singolare rapporto, che ci rinvia ad un termine ignoto, anzi inconoscibile. Ora nulla vieta che la ragione pensi questo termine che è “solo una totalità di principii„, come un oggetto, una x, determinata soltanto da quei principii formali, da quelle “regole„ che fondano il rapporto: purché tenga presente che si tratta solo d’un’“idea„, la quale serve a farci riconoscere la vera natura dell’esperienza nostra e la via che dobbiamo seguire nella sua progressiva estensione. Ma pur troppo la ragione nostra sedotta dalla purezza delle categorie e dalla necessità che accompagna la conoscenza a priori s’illude che nel rapporto dell’esperienza con la totalità assoluta le categorie ci diano anche la conoscenza obbiettiva di quest’ultima: così le idee vengono trasformate in concetti trascendenti, vengono tratte a rappresentare oggetti intelligibili puri (l’anima, Dio, ecc.), i quali sono semplici “totalità di principii„, sono unità potenziate di elementi formali e tuttavia vengono erette in realtà obbiettive: onde tutte le contraddizioni del preteso sapere metafisico. Si cfr. Kr. d. pr. V., 107. ↩
147) [p. 107, 26]. I due modi coi quali la ragione si sforza di giungere alla totalità assoluta: o col trasformare la serie indefinita dell’esperienza in una serie infinita data o con lo stabilire un qualche essere assoluto che inizia la catena dei fenomeni. E nell’idea cosmologica che la ragione si serve simultaneamente di questi due processi, dando così origine alle antinomie.↩
148) §§ 46-48. Nei §§ 46-48 Kant tratta dell’idea psicologica. Nel primo dei tre processi della ragione (corrispondente al raziocinio categorico) la funzione vera e propria della ragione consiste nel conoscere un giudizio particolare per mezzo d’un principio (la maggiore), nel quale il soggetto rappresenta quel fondamento sostanziale rispetto a cui il soggetto della conclusione è predicabile come determinazione particolare: il progresso della conoscenza razionale sta nell’elevarsi da principio a principio in modo che la generalità raggiunta nel principio inferiore (p. es. tutti gli uomini sono mortali) diventi nel principio superiore un semplice modo, una determinazione d’una generalità più alta (p. es. tutti gli animali sono mortali): il culmine di questo progresso sarebbe raggiunto quando si fosse pervenuti ad una generalità che non potesse più essere la determinazione di alcun’altra. Questa sarebbe veramente il soggetto sostanziale ultimo delle cose, che non potrebbe più venir considerato come semplice qualità o modo d’un essere più comprensivo e più profondo. Ora il nostro intelletto non può da sè pervenire a questo soggetto ultimo, perchè la natura sua sta nel conoscere discursivamente, per concetti: ed il concetto, anche se sia concetto individuale, si differenzia dall’intuizione in quanto è sempre qualche cosa di astratto o di composto da elementi astratti, quindi qualche cosa che è sempre solo un predicato. Anche l’“essere per esempio, è sempre ancora una predicazione esteriore di un qualche cosa, la cui intima e viva natura sfugge al nostro intelletto. Di qui il tentativo della ragione: la quale, sforzandosi di considerare sotto questo rapporto l’esperienza come un’assoluta totalità, pone a priori, in virtù del principio di sostanza, un principio sostanziale assoluto, del quale tutto il resto, che è empiricamente dato, non dovrebbe essere che determinazione, modo, predicato. In che consiste ora questo principio sostanziale assoluto? Realmente esso non rappresenta che l’esigenza formale del principio di sostanza applicato all’esperienza nella sua totalità: e poiché ciò che collega per mezzo di detto principio gli elementi dell’esperienza è in fondo l’attività unificatrice pura dello spirito, l'appercezione pura, con questa giustamente la ragione identifica il suo principio sostanziale assoluto. Ma anche sotto questa forma esso non è niente di obbiettivo. È vero che l'io dell’appercezione pura non è un concetto, ossia non è predicabile di altro soggetto, perchè non può cessare di essere soggetto senza cessare di essere; ma d’altra parte non ha alcun contenuto obbiettivo, è il semplice potenziamento d’una forma, anzi il principio formale stesso colto nella sua unità immediata e vivente. Quindi rispetto al nostro conoscere, questo concetto dell’io puro come solo soggetto sostanziale ha il valore d’un’idea; esso ci rinvia, come al fondamento sostanziale delle cose, a quello che è il fondamento della nostra vita interiore: ma nel tempo stesso ci avverte che questo fondamento trascende l’esperienza sia esteriore, sia interiore e non deve essere identificato con nessuno degli oggetti che ne fanno parte.
Se non che la ragione, cedendo alla naturale illusione che le è congenita, fa di quest’idea un oggetto e crede anzi di poter costituire sopra di essa un’intera scienza, la psicologia razionale: applicando ad essa le categorie, si sforza di dimostrare a priori che l’anima è un essere immortale, semplice, etc., dando origine a quelle argomentazioni sofistiche che Kant chiama paralogismi della ragion pura. Ora Kant mostra che quando la ragione applica all’io dell’appercezione pura le categorie (ciò che è perfettamente possibile in quanto esso è il fondamento delle categorie) non si ha in realtà nessuna conoscenza; quando si ha qualche conoscenza, ciò è perchè subreptiziamente ed illegittimamente si è fatto appello ad elementi derivanti dall’intuizione. Nei §§ 47-48 Kant ne fa specialmente l’applicazione alla stessa categoria della sostanza, che sta, come abbiamo veduto, a fondamento dell’idea dell’anima. Noi abbiamo dinanzi a noi delle sostanze concrete solo nel campo dell’intuizione sensibile esterna, la quale ci offre degli elementi persistenti per rispetto agli altri; ciò che rende possibile all’intelletto l’applicazione del suo concetto di sostanza. Quindi non basta avere dinanzi a noi il concetto puro della sostanza, per credere di avere la conoscenza d’una realtà sostanziale oggettiva e di poterne dedurre che la sostanza deve essere persistente etc. L’uso obbiettivo del concetto di sostanza e l’applicazione dei principii che ne discendono sono possibili solo nella loro applicazione al dato dell’intuizione sensibile; vale a dire essi dicono solo che, perchè il dato dell’intuizione sensibile si trasformi in esperienza obbiettiva, è necessario che esso si subordini alla categoria della sostanza e che la sostanza sia pensata come persistente etc. Onde non solo la categoria della sostanza con i relativi principii non ha applicazione obbiettiva nel campo dell’esperienza interiore, dove non vi è alcun elemento persistente (Kr. r. V., A, 238 ss.), ma se anche vi potesse avere applicazione, l’avrebbe soltanto per l'anima come fenomeno e non come cosa in sè: ci direbbe quindi che finchè dura quella parvenza fenomenica che è la nostra vita interna, l’anima nostra è una sostanza persistente, ma nulla ci direbbe sulla sua persistenza al di là della morte, in sè ed indipendentemente dalla sua manifestazione fenomenica. ↩
149) § 49. La psicologia razionale costituisce un sistema di principii a priori intorno all’anima affermando: 1° la sua sostanzialità, per il fatto che essa è il soggetto assoluto del pensiero; 2° la sua semplicità; 3° la sua identità; costante (personalità); 4° la sua distinzione da tutti gli altri oggetti, come solo oggetto del quale abbiamo diretta conoscenza. Il § 39 riflette questo quarto paralogismo, per il quale si cfr. Kr. r. V., A 230 ss. Se nella conoscenza del nostro io noi abbiamo realmente la conoscenza d’un oggetto, le nostre rappresentazioni delle cose sono affezioni di questo oggetto; resistenza delle cose e solo indotta da queste affezioni, perciò è qualche cosa di problematico che deve essere giustificato. Allo stesso modo cioè che si crede di potere stabilire, per virtù dell’appercezione pura, l’esistenza d’una cosa in sè, l’anima, e di poterne determinare col pensiero puro le proprietà, si deve poi riconoscere negli oggetti coi quali il nostro io è in rapporto altrettante cose in sè, le quali si rispecchiano nell’anima per mezzo delle rappresentazioni; ed allora sorge per la filosofia il compito di giustificare il passaggio da queste rappresentazioni agli oggetti rappresentati, alle cose in sè: compito spesso tentato, non mai risolto. Questo insolubile problema che ha dato origine da una parte a tante vane dimostrazioni, dall’altra agli errori dell’idealismo (empirico), il quale pone le cose come rappresentazioni contenute in un io sostanziale, ha la sua radice appunto nella posizione d’un io sostanziale. Invece noi consideriamo il nostro io come quello che realmente è, come una realtà fenomenica e il nostro io puro come un’idea, la quale ci rinvia al fondamento assoluto di questa (e di ogni altra) realtà, senza tuttavia farcelo obbiettivamente conoscere, allora anche gli oggetti esterni possono essere presi per quel che veramente sono, per fenomeni che hanno la loro obbiettività non in un’esistenza assoluta che sarebbe per noi non verificabile, ma in un ordine interiore, per cui l’intelletto organizza l’esperienza, sceverandone ciò che con quello è inconciliabile, come sogno, apparenza, errore. — Come si vede, Kant vuole qui mostrare come da quella specie di realismo interiore, che è l’essenza dello spiritualismo metafisico, sia inseparabile il realismo esteriore; le difficoltà e gli errori, a cui questo conduce lo spirito, sono una conseguenza della sofistica posizione d’un assoluto interiore. Intanto egli coglie da ciò occasione per ribadire ancora una volta la differenza tra l’idealismo empirico, che, o crede di dover giustificare l’esistenza degli oggetti esterni — considerati come cose in sè —, o, riconoscendone l’impossibilità, asserisce non esservi che rappresentazioni ed esistere una sola cosa in sè, l’anima — e l’idealismo formale, che considera e realtà interna e realtà esterna come qualche cosa di fenomenico e pone l’obbiettività non in una corrispondenza impossibile dei fenomeni con qualche cosa al di là di essi, ma in un ordine interiore dei fenomeni. ↩
150) [p. 112,5.]. Qui Kant vuol dire: il dubbio cartesiano, quando si consideri l’anima come una cosa in sè, che è in rapporto con altre cose in sè, gli oggetti esterni, conduce ad un problema insolubile; quando invece si consideri e l’anima e gli oggetti come realtà empiriche, come fenomeni, riesce soltanto a chiedere se vi sia un criterio sicuro di distinzione fra l’illusione e la realtà obbiettiva (fenomenica): e di questo non possiamo dubitare, perchè l’applicazione di questo criterio è presupposta continuamente dalla nostra vita ed anzi dall’atto stesso del pensiero che dubita. — Apparentemente Kant sembra perciò opporre una diga all’idealismo: in realtà lo giustifica e lo fonda. Cartesio col suo dubbio effettivamente chiedeva: al di là di queste mie rappresentazioni immediatamente date vi sono delle cose in sè, la cui esistenza giustifichi il mondo della rappresentazione? Kant dà a questa domanda una risposta assai più radicale di quella di Cartesio. Certo anch’egli riconosce che vi è una realtà in sè, alla quale tutta l’esperienza ci rinvia; ma essa non sta alla rappresentazione come l’originale ad una copia, essa è una realtà trascendente, che non può essere oggetto di conoscenza e perciò di comparazione. Però, se anche la conoscenza sua ci è negata, per virtù sua si estrinseca nel mondo della rappresentazione un’attività organizzatrice ed ordinatrice, che distingue in esso una verità (relativa), un’esistenza obbiettiva (fenomenica) dall’errore e dal sogno: perciò non siamo abbandonati del tutto all’arbitrio subbiettivo ed all’illusione. Per questo lato solo Kant ha un certo diritto di presentarsi come oppositore dell'idealismo, in quanto la realtà obbiettiva non è secondo lui indotta, ma immediatamente data: però occorre ricordare che questa realtà obbiettiva non è il mondo delle cose in sè, del quale realmente si domandava Cartesio, ma la stessa rappresentazione, in quanto implica in sè la possibilità d’un ordine universalmente valido. ↩
151) §§ 50-52 b. Nei §§ 50-52 b Kant tratta delle idee cosmologiche in generale. Esse corrispondono, come si è veduto, a quel processo formale della ragione, che dicesi raziocinio ipotetico; per mezzo di esse la ragione, insoddisfatta del passaggio indefinito da condizionato a condizione, che l’intelletto ripete continuamente nella concatenazione dell’esperienza per mezzo della categoria della causa, si sforza di elevarsi d’un tratto alla condizione assoluta, vale a dire, ad un qualche cosa che comprenda in sè tutta la serie delle condizioni empiriche e sia quindi alla sua volta incondizionato. Nel § 50 Kant dà ragione del nome; queste idee diconsi cosmologiche, perchè in esse la ragione non identifica senz’altro l’idea della totalità assoluta con un principio trascendente — come avviene nella idea psicologica dove la sostanza prima è identificata con l’anima, col soggetto puro, — ma ricerca la totalità nell’estensione indefinita della serie empirica; il che però non toglie che essa, quando pure non finisce per postulare un inizio assoluto, non assuma questa serie come una serie infinita, quale nessuna esperienza può dare, quindi sempre come qualche cosa di trascendente. Con questa particolarità dell’idea cosmologica si connette un altro punto, sul quale Kant insiste con speciale compiacenza. Ogni idea non è che una “totalità di principii„, una categoria estesa fino all’incondizionato, quindi un ente di ragione senza valore obbiettivo. La ragione non può farne un oggetto senza attribuirle un contenuto: ma questo contenuto, di origine necessariamente empirica, deve pure in qualche modo adeguarsi — insolubile problema — al carattere dell’idea, che è di trascendere ogni limitazione empirica. L’oggetto trascendente, l’idea obbiettivata dalla ragione è quindi un essere d’una natura ambigua e in fondo contradditoria; esso confonde in sè il trascendente e l’empirico senza riuscire a conciliarli. E secondo che si accentua o l’esigenza empirica (del contenuto) o l’esigenza trascendente (della forma) l’idea può ricevere, rimanendo sempre fisso il concetto suo fondamentale della totalità assoluta, un duplice aspetto: si può, per esempio, pensare la causa assoluta come la totalità della successione indefinita delle cause empiriche o come una causa prima trascendente. Nell’idea psicologica, identificato il principio sostanziale assoluto con un principio trascendente, l’anima, era stata necessariamente accentuata l’esigenza trascendente, formale; la critica del paralogismo trascendentale consiste perciò essenzialmente nel mostrare che il concetto dell’anima è una vuota astrazione. Nell’idea cosmologica invece, appunto per ciò che si è detto della sua natura, è possibile far prevalere l’uno o l’altro dei due punti di vista: essa può venir pensata come una successione infinita o come un’unità assoluta, che in sè concentra la totalità di questa successione. L’uno e l’altro punto di vista può essere tradotto in una rigorosa dimostrazione: quando si parte dall’idea cosmologica — pensata come una totalità obbiettiva dell’esperienza — e si accentua l’aspetto empirico, si può dimostrare, fondandoci sull’esigenza indeclinabile dell’intelletto, di dare a questa totalità obbiettiva un contenuto reale per mezzo d’una concatenazione indefinita del dato, che essa consiste in una serie infinita; se si accentua l’aspetto trascendente, si può dimostrare, fondandoci sull’esigenza egualmente indeclinabile della ragione, di pervenire ad una totalità assoluta, che essa consiste in un’unità trascendente che limita l’esperienza. Questa “secreta dialettica della ragione„, che conduce così a delle antinomie insolubili, ha la sua radice nel concetto contraddittorio di “totalità obbiettiva„, nell’obbiettivazione dell’idea: essa è, secondo Kant, “il fatto più strano della ragione umana„, quello che meglio mette in luce le contraddizioni della metafisica dogmatica e che più energicamente eccita il filosofo “a rivolgere il suo esame alle sorgenti prime della ragion pura„. — Conforme al suo piano sistematico, dall’applicazione di una categoria per ciascuna delle quattro classi all’idea cosmologica, Kant deriva quattro idee subordinate e conseguentemente quattro antinomie, vale a dire quattro coppie di affermazioni contraddittorie, nelle quali la tesi rappresenta il punto di vista “dogmàtico„ (trascendente), e risponde all’esigenza della ragione, l’antitesi rappresenta il punto di vista empirico e risponde all’esigenza dell’intelletto. ↩
152) [p. 117,7]. Per il principio exclusi medii inter duo contradictoria A è B o non è B: non v’è alternativa intermedia possibile. Ora se l'una e l’altra proposizione sono false, non resta nulla che si possa affermare: il concetto, dal quale apparentemente si è potuto dedurre le due contraddittorie, non ha in realtà nessun contenuto pensabile. ↩
153) § 52 c. Nel § 52 c Kant considera particolarmente le prime due antinomie e mostra come esse procedano da un concetto contraddittorio. Le prime due classi di categorie sono le categorie matematiche: esse operano la sintesi dell’omogeneo, cioè compongono dagli elementi spaziali e temporali del senso quel sistema armonico di rapporti e di sintesi spaziali e temporali, che è l’ordine matematico delle cose. Quindi esse sono sempre inseparabili dalle forme dello spazio e del tempo ed anche la totalità costituita secondo esse nella idea cosmologica non può fare da esse astrazione. Le due prime idee cosmologiche adunano quindi in sè inevitabilmente due elementi contraddittori: da un lato debbono essere totalità trascendenti ogni esperienza e perciò cose in sè; dall’altro implicano le forme fenomeniche dello spazio e del tempo. Non è perciò meraviglia che quanto se ne deduce rigorosamente sotto il primo aspetto (tesi) contraddica a ciò che se ne deduce con altrettanto rigore sotto il secondo aspetto (antitesi). Questa contraddizione distrugge quindi la sintesi operata dalla ragione nell'idea di un assoluto spaziale e temporale e conferma la conclusione alla quale eravamo giunti nelle prime due parti: che la realtà temporale e spaziale a noi data nell’esperienza è solo una realtà fenomenica, una costruzione del soggetto, non una realtà assoluta. Come tale essa non è nè finita, nè infinita in atto; è una sintesi che può essere estesa indefinitamente, ma che non può sperare mai di raggiungere in questo suo progresso indefinito un’infinità positiva, una perfezione assoluta, perchè questo ripugna alla natura sua intrinseca di essere fenomenico e cioè non compiutamente reale. Cfr. Kr. pr. Vern., 104; la soluzione è già preformata in Diss., § 27-28.↩
154) § 53. Nel § 53 Kant tratta delle altre due antinomie. Le due ultime classi di categorie sono le categorie dinamiche: esse stringono gli elementi dell’esperienza in una rete di rapporti più propriamente logici, superiori alle forme dello spazio e del tempo; quindi le totalità, che esse costituiscono, possono almeno, come sintesi formali, essere pensate indipendentemente da ogni contenuto empirico. Più chiaramente potremmo dire: le prime due idee cosmologiche sono pseudo-idee; noi possiamo sforzarci di pensarle come totalità assolute, limitando arbitrariamente il campo indefinito delle sintesi empiriche con dei limiti assoluti; ma se vogliamo poi veramente isolarle dal contenuto empirico e pensarle come totalità formali pure, non lo possiamo: perciò esse non adempiono a quello che è il vero ufficio dell’idea, di contrapporre (sia pure soltanto nella sua delineazione formale, senza valore di conoscenza obbiettiva) una realtà assoluta e trascendente al mondo indefinitamente esteso dell’esperienza. Le ultime due idee sono invece vere idee: contraddittorie finché aduniamo in esse, per obbiettivarle, le due note contraddittorie di costituire una totalità assoluta, trascendente e di essere obbiettive cioè (per noi) costituite da elementi della realtà empirica, cessano di esserlo non appena dissipata l’illusione obbiettivatrice, le consideriamo unicamente come sintesi formali della ragione. Allora l’antitesi riacquista il suo valore: essa esprime semplicemente l’esigenza intellettiva della concatenazione indefinita dell’esperienza, libera da ogni preoccupazione di intervento da parte di fattori trascendenti e non aspira più a costituire per mezzo di essa un assoluto, un’unità in sè esistente. La tesi d’altra parte esprime sempre l’esigenza di questa totalità trascendente; ma rinuncia ad obbiettivarla, a trovarla nell’esperienza e riconosce in essa una pura sintesi formale destinata ad illuminarci sul carattere fenomenico del mondo empirico, un concetto-limite dell’esperienza. ↩
155) [p. 119,30]. La risoluzione della terza antinomia dà qui modo a Kant di estendersi sul problema della libertà. In questa antinomia l’opposizione è, tra la totalità assoluta delle condizioni causali, la causa assoluta non più dipendente da cause anteriori e perciò libera e la concatenazione necessaria indefinita delle singole cause, tra la libertà della causa assoluta e la necessità delle cause empiriche. Ma una volta ammessa una causa assoluta libera come fondamento di tutte le serie causali empiriche, niente vieta di ammettere un’analoga spontaneità nelle singole sostanze in sè, come fondamento di singole serie causali empiriche (Kr. r. Vern., 310-312): così Kant riconduce il problema della terza antinomia al problema umano della libertà e della determinazione causale. — Ora applicando a questo problema la distinzione sopra accennata nella soluzione della terza antinomia, si vede come si possano conciliare nell’individuo la necessità e la libertà. La serie causale delle azioni, come serie fenomenica, è necessaria; ma essa pende nella sua totalità da una causa noumenica libera: l’atto libero (che non è nel tempo e non è una serie) si esplica fenomenicamente, per noi, in una serie concatenata di azioni necessarie. Però questa causa libera è per noi soltanto un’idea, un concettolimite, che ci avverte di non considerare la serie empirica dei nostri atti come una cosa in sè e la sua necessaria concatenazione come una necessità assoluta: essa non è in fondo niente più che una negazione, poiché per quanto noi veniamo con essa ad affermare che tutta la serie causale procede da una spontaneità assoluta, questa rimane per noi un concetto vuoto, una forma alla quale non possiamo, teoreticamente, dare alcun contenuto pensabile. Questa è la libertà trascendentale. — Quindi nell’esperienza non troviamo la libertà; la nostra vita interiore è tutta causalmente concatenata e non ci offre in nessun punto un inizio assoluto. Tuttavia vi è almeno un punto nel quale, senza interrompere la concatenazione empirica, viene alla luce nella stessa coscienza empirica questa attività del fondamento trascendente dell’essere nostro; e questo è la coscienza del dovere. Il dovere esprime una specie di necessità che non ricorre nella natura: noi non possiamo chiedere che cosa deve accadere nella natura, ma solo che cosa accade; anzi nel dovere la ragione dichiara come necessarie azioni che forse non avranno luogo mai. Nell’azione compiuta per dovere si rivela quindi un nuovo ordine delle cose altro dall’ordine fenomenico: se da una parte essa si riattacca ai suoi moventi subbiettivi, alle impressioni sensibili, che ne sono la causa nell’ordine naturale, d’altro lato essa ci fa risalire ad una causa agente indipendentemente dalle condizioni di tempo e di luogo, si rivela in noi come la determinazione di qualche cosa che è al di là dell’ordine fenomenico, che non ci rinvia come le cause fenomeniche ad un’altra causa e che esprime il suo imperio nella legge morale. Questa causa non è naturalmente causa nel senso empirico, non antecede nel tempo l’azione, non si contrappone ad essa come qualche cosa che provoca il sorgere di qualche cosa di distinto da sè, ma è causa nel senso in cui il noumeno può essere causa del fenomeno, nel senso cioè che essa è la realtà vera dell’azione, è quella spontaneità in sè esistente, che si traduce per noi nella successione fenomenica della impressione causa e dell’azione effetto. In quanto abbiamo coscienza della determinazione della nostra azione da parte di questa volontà autonoma (che è una cosa sola con la legge), noi siamo liberi; questa è la libertà pratica, la cui realtà positiva ci è attestata dalla coscienza morale (non dall’esperienza interiore, dall’esame empirico dei fatti singoli della nostra vita interiore) ed è giustificata e fondata teoreticamente dall’idea della libertà, dal concetto della libertà trascendentale. Quindi il soggetto umano aduna in sè la necessità e la libertà; in quanto opera non secondo la legge morale è puro essere sensibile e svolge la sua azione causalmente concatenata come avviene in tutto il mondo sensibile; in quanto opera secondo la legge morale, la sua coscienza partecipa della realtà noumenica e, pur svolgendosi l’azione esteriore e fenomenica sempre secondo le leggi della realtà fenomenica, sente questa elevazione dell’essere suo come vita nella libertà. Ciò che rimane per noi sempre “incomprensibile„ è la causalità dell’intelligibile nel sensibile, il perchè accanto alla realtà intelligibile si svolga la realtà sensibile. Si cfr. Kr. pr. V., 48-50, 94-103, 114; Grundl., 452 ss.↩
156) [p. 121, 4]. Moventi subbiettivi sono gli impulsi sensibili, moventi obbiettivi i moventi che valgono per ogni essere razionale (Grundleg., 427). “I principii pratici... sono subbiettivi quando la condizione è dal soggetto riconosciuta valida solo per il suo volere; sono oggettivi o leggi pratiche, quando quella viene riconosciuta come valida per la volontà di tutti gli esseri razionali„ (Kr. pr. V., 19). I moventi obbiettivi non sono quindi mai impressioni sensibili, ma idee pratiche (Kr. r. V., 246-7, 255), ideali della ragione pratica. L’azione loro è superiore al tempo ed a tutte le distinzioni subbiettive: essi valgono sempre e per tutti. L’agire umano è perciò determinato da essi “secondo principii„, ossia non come da un’azione di oggetti sul senso (che avviene nel tempo ed è subbiettiva), ma come da una legge universale sempre uguale che precede l’azione nell’ordine metafisico, non nell’ordine sensibile del tempo. Ed ogni azione da essi determinata rappresenta un cominciamento assoluto, in quanto appunto è la rivelazione, nella vita empirica, d’un’attività che non si esplica nel tempo, nè è subordinata all’ordine causale; il che non toglie che la corrispondente manifestazione fenomenica sia solo un inizio subordinato all’antecedente attività d’una causa fenomenica.↩
157) [p. 123, 8]. La quarta antinomia non è che un corollario della terza. Nella serie empirica niente è necessario, vi è una concatenazione indefinita di condizionati e di condizioni alla lor volta condizionate; ma tutta questa serie ci rinvia ad una “causa dei fenomeni„ non più condizionata, epperò assolutamente necessaria: solo, questo essere assolutamente necessario è una semplice idea della ragione.↩
158) § 54. Il § 54 aggiunge, come conclusione, alcune brevi riflessioni. Dall’esame della matematica pura e della fisica pura noi avevamo concluso al carattere fenomenico dell’esperienza ed alla natura semplicemente formale del sapere puro: abbiamo quindi applicato queste conclusioni, in principio di questa Parte, alla pretesa della metafisica di possedere un sapere puro obbiettivo. L’esame delle idee della ragione (che sono come i principii e la sorgente di tutto il preteso sapere metafisico) conferma, con l’esposizione delle contraddizioni e dei processi sofistici della metafisica, l’impossibilità d’un sapere puro obbiettivo, d’una scienza dell’intelligibile: questa conferma costituisce come la controprova del risultato ottenuto delle prime due Parti.↩
159) [p. 123, 32]. Questo dissidio della ragione con sè stessa è il malinteso medesimo del quale Kant parla in fine del § 53 e del § 56 e consiste essenzialmente nel confondere in un concetto solo fenomeno e cosa in sè; è il vizio fondamentale della metafisica, di cui Proleg., 379. A mettere in luce questo errore fondamentale, che pone la ragione in contrasto con sè stessa (le antinomie sono l’espressione appunto di questo dissidio), è dedicata tutta la dialettica trascendentale. Ben s’intende che l’espressione “dissidio della ragione con sè stessa„ non deve essere inteso in senso rigoroso; si veda a questo proposito la prima parte del § 60. Il dissidio ha veramente origine da una applicazione impropria della esigenza suprema della ragione; l’uomo, nella sua aspirazione confusa verso l’unità trascendente, identifica questo trascendente con la totalità del sensibile ed erige così una costruzione razionale, nella quale si trovano elementi repugnanti alla natura della ragione.↩
160) § 55. Nel § 55 Kant tratta brevemente dell’idea teologica, ossia dell’“ideale della ragion pura„. Essa corrisponde al terzo dei processi della ragione, al raziocinio disgiuntivo: in questo la ragione si eleva ad una totalità che comprende i concetti ad esso subordinati nel giudizio disgiuntivo; nel processo trascendentale corrispondente la ragione si eleva all’idea della totalità assoluta, dalla cui divisione si hanno le limitazioni e negazioni che determinano gli esseri singoli. Si v. la nota a pag. 105. Kant chiama questa idea “ideale della ragion pura„ perchè per il concetto suo medesimo di omnitudo realitatis si pone come idea e realtà ad un tempo, come realizzazione della perfezione dell’idea in un essere concreto. Dissert., § 9. “Il massimo della perfezione„ dicesi oggi “ideale„, da Platone “idea„. Esso è il principio di tutto ciò che contiene sotto di sè il concetto generale di perfezione: poiché i gradi inferiori possono solo venir determinati per mezzo di una limitazione del massimo. Dio poi, mentre è, come ideale della perfezione, il principio del conoscere, rappresenta anche, come realmente esistente, il principio del divenire di ogni perfezione„. Anche in questo caso la ragione ha il suo punto di partenza nell’esperienza; l’idea dell’assoluta totalità dell’essere ha la sua origine nell’estensione d’una pura legge formale dell’esperienza alla totalità assoluta di questa (Kr. r. V., 385 ss.). Anche in questo caso la ragione, una volta giunta a costituire l’idea di questa totalità, s’illude di possedere una realtà obbiettiva; l’idea della totalità assoluta, che, in sè puramente formale, dovrebbe semplicemente avere rispetto alla totalità empirica la stessa funzione regolativa dell’idea cosmologica e psicologica, viene pensata come una realtà obbiettiva trascendente, un essere in sè: si ha così l’idea di Dio, d’un essere semplice e perfetto che in sè potenzia tutta la realtà e che per via di limitazioni interiori, determinate dal suo intelletto infinito, dà origine a tutte le cose. — Di più la ragione crede che, come questo essere perfetto non può avere in altro il fondamento dell’essere suo, così anche l’idea che noi ne abbiamo debba fedelmente rispecchiare questa sua aseità e portare in sè la giustificazione della propria verità obbiettiva. Perciò nella teologia speculativa (che è la pseudo-scienza corrispondente) la ragione “comincia da sè senz’altro„, prende il suo punto di partenza (con l’argomento ontologico) nell’idea di Dio per dedurne poscia la realtà di tutte le altre cose. Per la critica di questo e degli altri sofismi della speculazione teologica Kant ci rinvia qui alla sezione corrispondente della Critica della ragion pura. ↩
161) § 56. Nel § 56 Kant riassume le sue conclusioni intorno alla ragione ed alle idee. La funzione dei principii formali della ragione, delle idee, non ha nulla di misterioso; com’è naturale del resto, trattandosi di procedimenti interiori della ragione, dei quali questa deve poter dare conto a sè stessa. Essa consiste nel dare unità sistematica al nostro sapere intellettivo. Per questo mezzo la ragione dirige il sapere intellettivo nel suo indefinito progresso e nello stesso tempo lo abbraccia d’un colpo nella sua totalità e quindi nella limitazione della sua natura. Così essa rende possibile il conseguimento del fine teoretico supremo, che è di illuminare l’uomo intorno al carattere ed ai limiti del proprio sapere, di indirizzare la sua conoscenza verso il campo fecondo dell’esperienza e di preparare il terreno al libero svolgimento della volontà buona, che sola ha il privilegio di trascendere la realtà empirica e di avvicinare l’uomo al suo vero, ultimo fine. La ragione erra invece quando crede di avere nelle idee una sorgente di conoscenze obbiettive circa la realtà trascendente, un sapere metafisico dogmatico.↩
162) [p. 125, nota]. Ernesto Platner, professore di medicina e di filosofia a Lipsia (1744-1818), uno degli ultimi e dei più notevoli rappresentanti della filosofia eclettica; i suoi “Aforismi filosofici„ (1766-82) contengono nella terza edizione (1793-1800) accenni e riferimenti polemici alla dottrina kantiana, che non sono senza valore.↩
163) [p. 126, 11]. Il fine umano supremo è il sistema dei fini obbiettivi di tutti gli esseri razionali. “Gli esseri razionali stanno tutti sotto la legge che ciascuno di essi debba trattare sè e tutti gli altri sempre anche come fini in sè, non mai come semplici mezzi. Di qui nasce un collegamento sistematico degli esseri razionali per mezzo di leggi obbiettive comuni, cioè un regno, il quale, poiché queste leggi hanno di mira il rapporto di questi esseri fra loro come fini e mezzi, può dirsi un regno dei fini — che certo è sempre solo un ideale„ (Grundl., 433). Questo è il “regno della grazia„ di Leibniz (Kr. r. Vern., 527), il “sistema di tutti i fini„. ↩
164) § 57. Nei §§ 57-59 Kant precisa quanto ha sopra sommariamente accennato intorno alla funzione più importante della ragione, quella che potremo dire la funzione metafisica: e cioè la posizione dell’esperienza come semplice sapere fenomenico dipendente da una realtà trascendente inaccessibile al conoscere nostro. — Dopo quanto si è dimostrato, dice Kant nella prima parte del § 57, è assurdo credere che noi conosciamo qualche cosa di altro che i fenomeni. Ma non bisogna nemmeno andare con il fenomenismo a credere che i fenomeni soli esistano: chè allora si farebbe dei fenomeni qualche cosa di assoluto. Kant cita a questo proposito l’esempio dello Hume, i cui Dialogi sulla religion naturale erano apparsi nel 1781 in una traduz. tedesca; Kant, che ne aveva avuto conoscenza nel settembre dello stesso anno da una traduzione dell'Hamann rimasta inedita, coglie qui l’occasione di contrapporsi a lui in più d’un punto (cfr. Proleg., ed. B. Erdmann, 1878, VI, Anni.; H. W eber, Hamann und Kant, 1904, 64). Facendo della realtà fenomenica un mondo di fenomeni per sè esistenti, si perverte totalmente il senso dei principii fondamentali dell’esperienza, in quanto da condizioni della nostra esperienza delle cose diventano condizioni dell’esistenza delle cose stesse. L’empirismo conduce naturalmente allo scetticismo: e questo fa perdere del tutto il retto senso del carattere fenomenico della realtà. La critica della ragione invece dà al concetto di fenomeno il vero suo valore, in quanto riconosce che il mondo fenomenico, appunto perchè tale, deve avere in un mondo di cose in sè il suo fondamento. A questo mondo delle cose in sè ci rinvia continuamente la ragione, che nessuna esperienza data può soddisfare.↩
165) [p. 128,2]. L’empirismo conduce inevitabilmente allo scetticismo. Cfr. Kr. pr. Vern., 13-14, 52.↩
166) [p. 129, 11]. Nella seconda parte del § 57 Kant mostra che noi abbiamo conoscenza di questo mondo in sè solo come di un limite dell’esperienza. Egli distingue il limite, che termina una superfìcie e ci rinvia al di là, dal confine che la termina assolutamente senza esigere dal pensiero un collegamento con l’al di là. Le scienze hanno dei confini, sia in quanto hanno sempre una estensione limitata (le conoscenze che costituiscono una scienza sussistono da sè indipendentemente dai futuri progressi di questa), sia in quanto anche nel loro illimitato progresso considerano i fenomeni da un dato punto di vista e non sentono il bisogno di valicare i loro confini per mettersi dal punto di vista d’un’altra scienza. La metafisica invece (per metafisica intendendo il processo naturale della ragione, che ci conduce alle idee trascendentali) ci conduce innanzi a dei veri limiti dell’esperienza: non solo essa ci fa riconoscere l’esperienza come ristretta in certi confini, ma ancora che al di là di questi vi è qualche cosa, anche se questo ci sia e debba restare sempre assolutamente ignoto. Quindi essa ci fa conoscere questo al di là almeno come limitante l’esperienza; noi non possiamo conoscerlo e descriverlo così come è in sè, ma possiamo conoscerlo e descriverlo nella sua azione limitatrice dell’esperienza. Ma come potrà aver luogo questa conoscenza e non contraddirà essa al principio tante volte affermato dell’inconoscibilità del noumeno? Noi non possiamo pensarlo con le pure categorie e le pure idee perchè non hanno un contenuto obbiettivo; non con dei concetti d’origine empirica perchè allora non sarebbe più un intelligibile; con che cosa adunque? La soluzione a questa difficoltà è data a Kant dalla conoscenza analogica o simbolica (cfr. Diss., § 10); noi dobbiamo pensare la cosa in sè per mezzo delle categorie che ci hanno ad essa condotti, ma considerandole nella loro applicazione empirica (per potere pensare qualche cosa di concreto) e trasferendo il collegamento, che esse esprimono, al rapporto fra la realtà empirica e la realtà in sè. ↩
167) [131,5]. Il mondo intelligibile è per noi (teoreticamente) uno spazio vuoto; cfr. Proleg., § 59; Kr. r. Vern., 211, 214.↩
168) [p. 132, 4]. Nell’ultima parte del § 57 Kant comincia a chiarire questo punto con un esempio, prendendo in esame il concetto di Dio. Il deismo sta pago a pensare Dio con i puri concetti della ragione: ma allora essa si trova dinanzi ad un’astrazione senza contenuto; e non appena vuole concretare quest’astrazione attribuendo a Dio un contenuto reale, obbiettivamente pensabile, p. es., l'intelletto o la volontà, gli attribuisce qualche cosa di empirico e cade così in gravi contraddizioni. Il teismo ordinario (teismo antropomorfico) invece costituisce il concetto di Dio con elementi empirici: onde tutti gli assurdi e le contraddizioni della teologia speculativa tradizionale. Quindi ha ragione Hume di obbiettare al deismo che le sue dimostrazioni non sono valide (la dimostrazione della necessità dell’idea di Dio può avvenire solo per mezzo della critica trascendentale) e più ancora che il suo concetto di Dio è vuoto; ha ragione di opporre al teismo (antropomorfico) tutti gli assurdi che nascono dal pensare l’intelligibile con elementi empirici. Non sarà dunque possibile avere un concetto di Dio? Questo è possibile “rimanendo sulla linea limite ossia rinunciando a voler sapere che cosa è questo Essere in sè stesso e limitandoci al rapporto suo col mondo, pensandolo simbolicamente per mezzo di proprietà che, riferite al suo essere in sè, non possono certo venirgli attribuite, ma che possono esprimere, nel riguardo nostro, il rapporto nel quale egli si trova con noi e la realtà nostra. Si cfr. Kr. d. pr. V., 137-139. ↩
169) § 58. Nel § 58 Kant difende il suo concetto della conoscenza simbolica, la quale ci permette di fondare un teismo razionale, per nulla antropomorfico; nella nota egli ne dà un’esplicazione chiarissima. Il concetto fondamentale è questo: noi possiamo pensare il noumeno per mezzo delle categorie, dando a queste un contenuto empirico, ma ricordando che questo è tale, perchè rappresenta, per così dire, la faccia empirica del rapporto del noumeno con il mondo fenomenico. Così è quindi che poniamo una causa prima per le esigenze della nostra ragione: e poi la pensiamo come ragione, non per attribuirle in sè stessa la ragione, bensì per esprimere il rapporto in cui essa si trova col mondo sensibile; noi vogliamo solo con ciò esprimere che l’ignota causa prima è tale che per essa il mondo è un tutto razionale. Così noi ottemperiamo alle esigenze della ragione col porre un concetto nel quale essa definitivamente s’acquieta; nello stesso tempo evitiamo di cadere negli errori della metafisica tradizionale, che dà un valore assoluto (non puramente simbolico) alle nostre determinazioni dell'essere divino e vi fonda sopra le sue speculazioni; ed anche la scienza empirica ne è favorita in quanto siamo trattenuti dal mescolare considerazioni ed esplicazioni iperfisiche all’esplicazione scientifica della realtà. ↩
170) [p. 137,8]. Queste altre vie di mezzo alludono ai tentativi eclettici di conciliazione fra il dogmatismo e Γempirismo, che caratterizzano l’ultima fase della filosofia wolfiana e che si riattaccano da una parte a Wolff, dall’altra a Locke. Kant designa altrove questo indirizzo col nome di “moderatismo„ (Verkündigung des nahen Abschlusses eines Traktats etc., ed. Vorl., 32) e, nella Critica della ragion pratica, di “Coalitionssystem„ (Kr. pr. V., 24).↩
171) § 59. Nel § 59 Kant ripete e chiarisce il suo concetto della conoscenza delle cose in sè come d’un limite dell’esperienza. La ragione non si estende fuori del limite dell’esperienza, ma si estende fino al limite e come tale lo apprende; in questo sta una conoscenza positiva, se non dell’intelligibile, del suo rapporto con noi. Il concetto di Dio, per esempio, è un tale concetto limite: con esso noi non determiniamo nulla circa l’essere suo in sè, ma determiniamo in rapporto a questo essere la realtà nostra, pensandola nel miglior modo a noi possibile come procedente da una ragione suprema: il che giova alla perfezione (teoretica e pratica) della nostra esistenza empirica e concorre ad avvicinare l’uomo al suo fine supremo che non è la conoscenza, ma la vita nell’intelligibile. ↩
172) [p. 138, 22]. In questo capoverso Kant riassume il duplice risultato positivo della Critica, per il quale cfr. la nota 141. “Kant vuole costruire due cose: 1° una teoria positiva della conoscenza, ossia una teoria razionalistica della scienza; 2° una metafisica positiva, cioè una concezione del mondo idealistica. Quanto al primo punto egli vuole mostrare che la scienza della natura è possibile come scienza reale, cioè come sistema di proposizioni universali e necessarie: egli vuole mettere l’applicazione della matematica alla scienza al sicuro da tutti gli attacchi della sofistica empirico-scettica col fondarla sulle basi sicure del possesso originario dell’intelligenza nelle forme e funzioni ad essa immanenti... Quanto al secondo, egli vuole assicurare definitivamente la metafisica idealistica da ogni dubbio, il che non avviene certo senza la demolizione dell’edifizio malfatto e malsicuro, che egli trova in sua vece e cioè dell’antica metafisica dommatica. Ma l’intenzione sua in questa demolizione non è di abbattere il mondo soprasensibile, bensì di confermare definitivamente la nostra fede in esso e nella nostra affinità con esso. Ciò che Kant dice nella prefazione alla seconda edizione: “io ho dovuto annullare il (preteso) sapere per far posto alla fede„ è veramente la sua ultima e più profonda convinzione: finché dura il sottilizzare della ragione in questo campo, dura anche il dubbio e la fede non può affermarsi: quando cesserà la pretesa di dimostrare resistenza di Dio e dell’immortalità dell’ànima, allora la certezza morale della loro verità e realtà si consoliderà definitivamente„ (Paulsen, Kant4, 126-7). Certo non mancano i passi, nei quali Kant accentua più il primo risultato e dà quindi alla sua Critica un aspetto empirico-positivo e la polemica contro Leibniz e Wolff viene in evidenza più spesso che quella contro Locke e Hume: “Ma egli viveva in Germania e leggeva tutti gli anni sulla metafisica di Baumgarten: ed è nella natura delle cose che la polemica si volga più contro gli avversari vicini che contro i lontani, per far meglio risaltare la differenza„. ↩
173) § 60. Nella prima parte del § 60 Kant risolve, a modo di corollario, una questione appartenente non più propriamente alla critica della conoscenza, ma piuttosto alla psicologia della conoscenza (all'antropologia) e cioè: perchè mai la ragione abbandona così spesso il suo vero compito per abbandonarsi alle fantastiche speculazioni trascendenti? La spiegazione, dice Kant, è probabilmente questa: che anche le speculazioni trascendenti servono provvisoriamente ad elevare l’umanità al disopra del puro naturalismo ed a dare un fondamento iniziale alla moralità, che ha bisogno di avere almeno aperto dinanzi a sè il regno del trascendente. Esse sono per sè errate, ma valgono almeno a tenere indietro le concezioni materialistiche, naturalistiche, fatalistiche, le quali sono teoreticamente insufficienti e praticamente funeste. ↩
174) [p. 141,10]. Nella 2ª parte accenna ad una questione del tutto accessoria, che non ha qui importanza. Nell’appendice alla Dialettica trascendentale (Kr. r. Vern., 426-442) Kant mostra che l’intelletto è guidato nella sua organizzazione dell’esperienza da principii (i principii dell’omogeneità, della specificazione, della continuità delle forme), che derivano dalla ragione: questa ha quindi, oltre alla sua funzione metafisica, che ci fa abbracciare la realtà empirica come una totalità per trascenderla, anche una funzione immanente, relativa all’esperienza e cioè un’azione organizzatrice e sistematrice per la perfezione dell’esperienza stessa? Tale è la questione che qui Kant dice di aver lasciato insoluta. ↩
175) [p. 141,19]. Per il senso della parola “natura„ v. il § 14 e ss.↩
Indice dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza
Ultima modifica 2021.07