I sindacati contro la rivoluzione

Grandizo Munis


Milano, 1960
Trascritto per il MIA da Hectòr Ternàz



Non può esistere alcuna contraddizione tra l'aspetto economico e quello politico di una concezione rivoluzionaria, anche immaginando tra i due aspetti la più netta demarcazione organica e funzionale. La stessa asserzione è valida anche per una qualsiasi concezione reazionaria. Così l'attuale compenetrazione, l'accordo e la collaborazione tra i sindacati -organi economici- e i partiti politici -organi ideologici- ci dà la chiave per comprendere gli uni e gli altri, sotto ogni punto di vista. Questo enunciato deriva da un vecchio principio inalterabile, più che sperimentato dalla ragione e verificato dall'umanità nel corso di un'esperienza millenaria: ogni idea o azione politica risulta da un substrato economico su cui poi svolge un ruolo nello stesso tempo direttivo e repressivo. Nel corso di questo lavoro esamineremo sotto diversi aspetti, la compenetrazione del politico e dell'economico, e giudicheremo i sindacati mettendo in scena i loro attuali ispiratori.

Come ha dimostrato Benjamin Péret [nel suo lavoro omonimo del 1952], i sindacati sono nati come organismi di difesa della classe operaia, per affrontare condizioni di lavoro subumane, presentandosi, nell’epoca della grande industria, come il proseguimento delle antiche confraternite e corporazioni. Ad un primo sguardo le loro aspirazioni si pongono più in basso ancora di quelle del riformismo. Quest'ultimo, sfoderando analisi ideologiche ed economiche, pretende di dimostrare che, attraverso la democrazia capitalista, sarà possibile giungere al socialismo con un'evoluzione legale, e senza che ci sia bisogno di atti rivoluzionari. Per i sindacati non si è mai trattato né di evoluzione né di rivoluzione, ancor meno di socialismo. Il loro desiderio non va oltre l'ottenimento, per i lavoratori sfruttati, di condizioni meno intollerabili e meno umilianti, ma anche, la storia ce lo ha mostrato, più redditizie per il capitale. Malgrado questa tara, i primi sindacati erano degli organismi, se non rivoluzionari, almeno dallo spirito operaio e dalla composizione sana in confronto alla corruzione e al falso carattere di classe di quelli di adesso.

Alla fine del secolo scorso e all'inizio di questo apparve il sindacalismo cosiddetto rivoluzionario, eclettismo di circostanza, che ha razzolato contemporaneamente nella concezione marxista, nel preteso apoliticismo anarchico e nella routine rivendicativa dei vecchi sindacati. Non c'è alcun paradosso nel fatto che il periodo di più grande influenza e di più forte spinta di un tale sindacalismo coincida con quello del pieno rigoglio riformista.

Sorel e Bernstein, oltre ad essere contemporanei avevano più elementi in comune che manifeste inconciliabilità. Mentre il primo offriva col sindacalismo la panacea ai problemi del divenire storico, l'altro, e tutta la sua tendenza con lui, vedeva nel parlamentarismo e nelle esigenze stesse dell'accumulazione capitalistica il felice meccanismo di un'evoluzione sicura e armoniosa verso la società socialista. In realtà, sindacalismo rivoluzionario e riformismo erano uniti dagli stessi lacci alla formidabile spinta economica della borghesia. Era la fase in cui questa raggiunse lo zenith delle sue possibilità civilizzatrici, consentendo il massimo di libertà e di illusioni a coloro che, senza allontanarsi minimamente dal suo complesso ideologico-economico, gesticolavano a sinistra. Per questa ragione, il fallimento del 1914 trascinò con sé i sindacalisti e i riformisti. La C.N.T. spagnola non fa eccezione, anche se la neutralità militare del suo Paese gli risparmiò le frasi e gli atteggiamenti capitolardi della C.G.T. francese. Il suo fallimento particolare, come vedremo in seguito, si verificò al momento della rivoluzione proletaria, nel 1936-39.

La forza numerica e il peso sociale dei sindacati crebbero senza pause a partire dal 1914, e se, in qualche Paese, come la Francia, la prima è diminuita considerevolmente nel corso degli ultimi anni, il secondo continua ad aumentare.

Si è detto che il disastro del 1914 è stato indispensabile affinché i sindacati raggiungessero il loro pieno fulgore. Questo è comprensibile poiché fino a quel momento il capitalismo li temeva come una forza distruttrice, e non aveva avuto occasione di essere testimone -salvo forse in Inghilterra- della collaborazione che essi potevano fornirgli. Ma dalla fine della Prima guerra mondiale, numerose esperienze di controllo "operaio" nelle fabbriche sorpresero i capitalisti per i loro soddisfacenti effetti. Queste attenuavano la lotta dei lavoratori contro il capitale, facilitando le operazioni di produzione e oltre tutto facendo aumentare il rendimento. Il sindacato si propose, non solo come difensore della patria -questa entità specificamente capitalista- ma come collaboratori efficaci del meccanismo stesso di sfruttamento. Questo fece la loro fortuna e gli dischiuse orizzonti ancora insospettati. Tuttavia, fu a partire dagli anni 1936-37, anni che per molte ragioni hanno un posto molto importante nella storia del movimento operaio mondiale, che i sindacati presero il loro orientamento definitivo. Essi misero in evidenza le attitudini grazie alle quali sono diventati uno dei più solidi pilastri dell'attuale società.

A venti anni di distanza la rivoluzione russa e la rivoluzione spagnola furono la prima e l'ultima esplosione di una stessa offensiva del proletariato mondiale contro il capitalismo, offensiva contrassegnata da incessanti assalti in molti altri Paesi. Nel frattempo, la burocrazia staliniana completava il suo capitalismo di Stato, e al momento in cui la rivoluzione spagnola era in pieno svolgimento si sbarazzò a colpi di pistola e di calunnia di tutti i comunisti autentici. Questa distruzione modificò in modo decisivo tutti i fattori organici della lotta di classe e viziò tutti i fattori ideologici. Da molto tempo l'ingerenza russa nel movimento operaio mondiale era negativa; in Spagna il partito di Mosca, trascinato dalle sue proprie necessità di conservazione, si dimostrò la principale forza di polizia controrivoluzionaria. Nel luglio 1936 si sforzò -fortunatamente invano- di impedire il sollevamento del proletariato che mise in ginocchio l’esercito nazionale su gran parte del territorio. Nel maggio 1937, questo stesso partito mitragliò il proletariato, sollevatosi questa volta contro la sua politica reazionaria, lo sconfisse, lo disarmò e schiacciò la rivoluzione. Ciò che non era riuscito ai militari nel luglio 1936, fu compiuto dieci mesi dopo dallo stalinismo.

Per la prima volta Mosca agì, fuori del suo territorio, direttamente come forza controrivoluzionaria. Fino ad oggi non si sono ben valutate -ci vuole molto- le ampie conseguenze reazionarie di questo avvenimento. Lì hanno origine tutti i fatti di importanza mondiale che seguirono, dal patto Hitler-Stalin e la Seconda "grande guerra" fino alla politica di "coesistenza pacifica" e le rivolte come quelle della Germania orientale, di Polonia e d'Ungheria, che non hanno raggiunto il livello del proletariato spagnolo del 1937, ma tutt'al più quello dell'insurrezione di luglio, con, al posto dei militari franchisti, l'esercito e la polizia stalinisti. Imre Nagy e i suoi furono per l'Ungheria quello che fronte popolare fu per la Spagna nel 1936: il sottoprodotto di una sollevazione rivoluzionaria, non l'anima della rivoluzione.

È significativo che sia a partire dal '36 che i sindacati, rivelando tutte le loro caratteristiche ancora latenti, si manifestano incontestabilmente come organi ausiliari del capitale. Che in questo sviluppo, sia lo stalinismo ad accaparrarsi la maggiore influenza sindacale, salvo le eccezioni rappresentate dalle Trade-Unions inglesi e americane, è ovvio. L'empirismo economico del capitalismo trova nell'empirismo controrivoluzionario russo un'espressione politica superiore, che insieme lo ispira e lo completa; l'uno e l'altro si fondono e confondono alla perfezione quando le circostanze giuste lo permettono. Ora ormai, queste circostanze esistono, sotto una forma più o meno definita, che altro non è che la forma del capitalismo nella sua fase attuale, considerando ogni Paese, anche retrospettivamente, non come un caso isolato, ma come inserito nel sistema mondiale.

Prendiamo ad esempio in primo luogo la zona occidentale che si vanta della sua democrazia, e più concretamente, del suo diritto di sciopero. In realtà, è concessa tale libertà non ai lavoratori ma ai rappresentanti che la legge gli riconosce: i sindacati. Ogni sciopero indetto dai lavoratori stessi produce un incontro fra Stato e sindacati per spezzarlo, a volte per arrivare direttamente alla disfatta degli operai, a volte per condurli all'arbitrato legale. Dopo che lo sciopero rivoluzionario francese del 1936 fu spezzato dagli uomini di Mosca (Thorez: "bisogna saper interrompere uno sciopero") e da quelli della S.F.I.O. uniti (Gabinetto Blum e polizia diretta da "socialisti") quasi tutti i Paesi hanno visto scioperi condotti alla sconfitta dai sindacati perché contravvenivano alle loro regole economiche e politiche. Così lo sciopero è stato, di fatto e di diritto, confiscato dal sindacato. Ma non è tutto. Al di là del fatto sempre eccezionale dello sciopero, nei rapporti quotidiani fra capitale e lavoro -che sono la fucina della lotta di classe- i sindacati appaiono, non solo come ammortizzatori tra i due campi, ma come messaggeri del primo presso il secondo e come agenti dell'adeguamento del secondo alle esigenze del primo. Tutte le manifestazioni naturali della lotta del lavoro contro il capitale, una volta controllate dal sindacato, si ritorcono contro il lavoratore a profitto del capitale.

Basta ricordare alcuni fatti perché l'argomentazione sia incontestabile. I comitati di fabbrica, così come i delegati di reparto, di laboratorio, di professione non sono l'espressione della liberà volontà dei lavoratori, quali che siano, nei vari Paesi, le modalità della loro elezione. Essi sono una rappresentazione dei sindacati, al margine dei quali i lavoratori non hanno il diritto di eleggere nessuno: anche i famosi "shop-stewards" britannici avevano bisogno dell'assenso delle Trade-Unions. Nella maggior parte dei Paesi, la legge ha stabilito che i sindacati da lei riconosciuti rappresentano la classe operaia. Questa non ha quindi più il diritto di farsi rappresentare da chi vuole, e ancor meno di creare degli organi differenti dal sindacato, per condurre le sue lotte e all'occorrenza per trattare con il padronato o lo Stato. Diritti della classe operaia e diritti sindacali sono manifestamente due cose in contraddizione. Da qui l'opposizione tra i lavoratori e i comitati di fabbrica o i delegati di reparto, opposizione spesso latente che si trasforma in scontro acuto quando si presenta un conflitto di una certa ampiezza con il padrone e in shock diretto se la lotta si estende. Nel corso degli ultimi venti anni, tutti gli scioperi degni di questo nome hanno dovuto essere dichiarati contro la volontà dei sindacati e scavalcandone i rappresentanti nelle fabbriche; i lavoratori hanno dovuto eleggere da sé dei comitati di sciopero. Tuttavia ogni volta che questi comitati di sciopero eletti dagli operai o le assemblee di fabbrica si sono lasciati influenzare dai dirigenti sindacali, il capitale ha avuto la meglio.

I contratti collettivi di lavoro avevano come scopo quello di limitare l'arbitrio padronale nei molti ambiti in cui può essere esercitato: condizioni e orario di lavoro, intensità dello sfruttamento (produttività oraria), gamma dei salari per categoria (gerarchizzazione), assunzioni e licenziamenti, libertà politica, diritto di parola e d'assemblea nelle fabbriche, regolamenti interni alle fabbriche, etc. I contratti collettivi sono diventati, nelle mani dei sindacati ai quali la legge riconosce il monopolio della contrattazione e della firma, un formidabile strumento di assoggettamento del proletariato al capitale in generale e ai sindacati in particolare, al punto che i sindacati sono divenuti, ora, parzialmente o totalmente custodi dello sfruttamento. Licenziamenti ed assunzioni sono il più delle volte lasciati alla mercé del capitale, salvo nei casi di sindacalizzazione obbligatoria (closed shop), che lungi dal garantire il lavoro agli operai, concede ai sindacati la prerogativa di assegnarlo, coercizione economica reazionaria al più alto grado. Esamineremo questo aspetto in seguito, parlando dei sindacati nella zona orientale. I contratti di lavoro sanzionano e incoraggiano la divisione della classe operaia in gruppi gerarchizzati che le differenze salariali e i pregiudizi legati alla categoria e alla funzione tecnica dei lavoratori oppongono gli uni agli altri. I sindacati hanno una premura tutta istintiva per la gerarchizzazione del proletariato, senza la quale questo formerebbe un blocco compatto di fronte al capitale. Quella di smembrare il proletariato con la gerarchizzazione, e di allontanarlo così dal suo solo interesse supremo, è una necessità assoluta sia per il sindacato che per il capitale. Per un secolo il movimento operaio si è battuto contro la gerarchizzazione, ed era riuscito a stigmatizzarla in gran parte come pregiudizio, restringendone le basi materiali. Nel corso degli ultimi decenni i sindacati e i loro ispiratori politici sono riusciti a ristabilire largamente il pregiudizio e a moltiplicare le categorie. La maggior parte dei lavoratori, anche i più sfavoriti, considerano oggi come naturale e "giusta" la gerarchizzazione. Infine, se l'idea del contratto collettivo era di mettere un freno all'arbitrio del capitale in attesa di sopprimerlo, oggi esso costituisce una regolamentazione quasi perfetta delle esigenze di funzionamento del sistema. Contrattando e firmando i contratti collettivi, i sindacati si comportano come se fossero parte integrante della schiera di chi monopolizza i mezzi di produzione. Negli Stati Uniti e in altri Paesi, molti sindacati sono importanti azionisti delle aziende che sfruttano i loro iscritti, e questo, lungi dal prefigurare una società socialista, li trasforma in beneficiari dello sfruttamento nel pieno senso economico e ideologico del termine. E laddove non partecipano all'elaborazione dei piani di sfruttamento reclamano per sé questo onore.

I luoghi di lavoro, le grandi fabbriche in particolare, arene della lotta di classe, permetterebbero agli operai più rivoluzionari un'attività ideologica e pratica permanente e di vasta portata. Ma questa attività, sono ancora i sindacati a renderla impossibile. Molto spesso i contratti collettivi stabiliscono che l'attività politica e la diffusione di propaganda all'interno della fabbrica sono crimini, per non parlare delle discussioni e delle riunioni indispensabili ad ogni azione operaia. È da molto tempo che i sindacati si sono ingraziati la direzione padronale ogni volta che si è trattato di licenziare degli operai rivoluzionari. Adesso questa è diventata una clausola scritta nero su bianco nei contratti collettivi, oppure subdolamente ammessa, dal momento che è inserita in tutti i regolamenti padronali delle fabbriche. I sindacati e i loro ispiratori politici s'incaricano essi stessi del lavoro poliziesco contro i diffusori di propaganda rivoluzionaria, e in caso di bastonarli. In Italia, i leaders sindacali stalinisti hanno accordato agli industriali il diritto di respingere, senza preavviso ne' indennizzo, gli operai colpevoli di diffusione di propaganda o di agitazione [un operaio che leggeva dentro la fabbrica l'Unità, organo del partito stalinista, è stato congedato senza formalità, con l'approvazione dei capi stalinisti, che hanno controfirmato questa clausola]. In Francia la maggior parte dei regolamenti di fabbrica consentono altrettanto, e il divieto di pensare va così lontano che anche gli operai più ribelli hanno paura di esprimersi e lasciano correre. La situazione non è migliore in Germania, in Inghilterra, o negli Stati Uniti, non più che in Russia o in Spagna. Così, grazie all'azione convergente del capitale e delle centrali sindacali, la classe operaia si trova ridotta alla clandestinità, anche nei luoghi di lavoro, lì dove la si sfrutta e dove lascia la sua pelle.

È indispensabile che il proletariato recuperi la sua libertà politica, e ciò è impossibile senza gettare a mare l'attuale legalità sindacal-padronale. La libertà integrale degli uomini in quello che riguarda l'esercizio del loro lavoro contiene in germe la futura democrazia rivoluzionaria e il comunismo. Il comunismo, precisamente, poiché quelli che oggi si dicono comunisti non lo sono affatto, e per rifiuto più che legittimo verso questi ultimi, quelli che lo sono realmente evitano spesso di rivendicarne il nome.

Dal punto di vista strettamente economico la situazione della classe operaia non è mai stata peggiore. Tutto quello che si dice in senso contrario è solo strombazzamento. La giornata di otto ore, che avrebbe dovuto essere rimpiazzata da molto tempo da quella di quattro o cinque ore al massimo non esiste ancora che sulla carta. In molti Paesi, il rifiuto di fare ore supplementari è causa immediata di licenziamento, e ovunque, l'introduzione del cosiddetto "salario di base" (di norma in Russia), deliberatamente misero, dei premi e bonus per la produttività, etc, non solo costringono il lavoratore ad accettare "di sua spontanea volontà" giornate dalle dieci alle dodici ore, ma aboliscono di fatto il salario giornaliero o orario, imponendo di nuovo l'ignobile lavoro a cottimo. Dalla sua origine il movimento operaio si è sforzato di farla finita con questa forma di sfruttamento, la più vecchia di tutte, che sfianca il lavoratore nel fisico e lo abbrutisce intellettualmente. Era riuscito a farlo sparire in quasi tutta Europa. Neanche vent'anni fa la maggior parte degli operai considerava disonorevole accettare qualsiasi lavoro a cottimo. Oggi questo lavoro è nuovamente la regola, più per la furberia dei sindacati che per imposizione del capitale; in verità in questo caso abbiamo una prova della loro grande affinità.

Nell'aspetto più profondo dello sfruttamento, quello della produttività per operaio e all'ora, il proletariato si vede intrappolato in una situazione terrificante. La produzione che gli si richiede ogni giorno cresce prodigiosamente. Prima le innovazioni tecnologiche, che sottraggono all'operaio ogni intervento creativo nel suo lavoro, misurano i suoi movimenti al secondo e lo trasformano in un "meccanismo servile" vivente assoggettato agli stessi ritmi dei meccanismi metallici; poi il cronometraggio, tagliola atroce e ripugnante che costringe gli uomini a lavorare sempre di più con lo stesso utensile e durante la stessa unità di tempo; in terzo luogo la disciplina di ogni stabilimento che infierisce sulla più piccola sospensione del lavoro, che sia per accendersi una sigaretta come per defecare; la durezza della produzione per ogni uomo in queste condizioni è enorme, come, nella stessa proporzione, la sua spossatezza fisica e psichica.

Affrontare questo problema, significa mettere il dito nella piaga della società attuale e dei sindacati che ne fanno parte, e non c'è nessun modo di risolverlo senza sconvolgere l'attuale rapporto tra gli strumenti del lavoro e il lavoro salariato, tra produzione e distribuzione, in breve senza giungere alla rivoluzione. Ma per affrontarlo come si deve, è necessario vedere prima quello che i sindacati rappresentano in Russia, prototipo la cui imitazione è divenuta obbligatoria in tutti i suoi domini orientali, e anche oltre.

Tutto ciò che si è detto sull'opera reazionaria dei sindacati e sul deterioramento della condizione proletaria in Occidente è ancora più valido per la realtà russa. Da quando, sotto l'egida di Stalin, il capitalismo di Stato si è installato in Russia, tutto il vecchio mondo borghese ha dovuto prendere lezioni di sfruttamento. Anche di repressione poliziesca, ma qui ci si limita a parlare delle relazioni tra capitale e lavoro e del ruolo dei sindacati. Così dunque, se i sindacati in generale, ovunque e da molto tempo, costituiscono una forza complementare del capitale in seno alla classe operaia, la controrivoluzione staliniana, dandogli una più forte spinta in questo senso, e mostrandogli un esempio da far invidia, rivela loro il proprio destino intrinseco. Quasi tutte le misure che dopo il 1936 hanno aggravato lo sfruttamento del proletariato in Occidente e la sua condizione oggettiva sono state modellate nella Russia staliniana.

Soppressione completa delle libertà politiche e di riunione, dentro e fuori la fabbrica; ore supplementari imposte dalla direzione o dall'insignificante salario di base (di norma) corrisposto per la giornata normale, multe e misure disciplinari a discrezione del padronato che detta i regolamenti di fabbrica, cronometraggi e controlli asfissianti, lavoro a cottimo, gerarchizzazione del proletariato per salario e per "qualifica" tecnica, contratti collettivi a solo profitto del capitale, aumento continuo della produttività a scapito dei produttori, divieto di sciopero, di fatto o di diritto; in breve, tutto ciò che in Occidente trasforma le centrali sindacali in istituzioni sempre più negative, ha ricevuto un forte impulso dalla Russia degli anni '30, ed è stato fonte d'ispirazione per il capitale e per i sindacati di tutto il mondo. Ancora oggi tutti i modi per rafforzare lo sfruttamento si rifanno a quell'esempio, tranne forse la Cina.

È noto, ai pochi che sono al corrente della situazione in Russia, che là la diseguaglianza economica tra privilegiati e sfruttati è più grande che ovunque altrove, nella stessa misura in cui è più grande tra le diverse categorie di lavoratori. La diseguaglianza tra privilegiati e sfruttati, allo stesso tempo causa ed effetto del capitalismo, non ci interessa qui che in rapporto all'evoluzione e all'avvenire dei sindacati. È sufficiente per il momento notare che questa diseguaglianza pone in Russia, come in tutti gli altri Paesi, la necessità dell'espropriazione del capitale da parte dei lavoratori, che è impossibile senza che un'insurrezione distrugga sino alle fondamenta l'attuale dispositivo governativo compresi partito ufficiale e legislazione. La burocrazia staliniana, meglio di qualsiasi borghesia, ha saputo intensificare lo sfruttamento accelerando il ritmo di lavoro e introducendo nel proletariato il maggior numero possibile di categorie. È il modo tradizionale del capitalismo per "stimolare" la produzione, come quello di sostituire all'interesse storico omogeneo del proletariato una molteplicità di interessi eterogenei immediati, che sono altrettanti ceppi per un'azione rivoluzionaria comune. Una volta di più, i "natchalniki" [termine dispregiativo con cui vengono chiamati dal popolo i padroni attuali] sindacali e politici russi, hanno avuto la meglio su quelli del mondo occidentale [durante la luna di miele delle relazioni americano-russe, verso la fine della guerra, alcuni capi dei monopoli yankees (tra gli altri Johnston, allora presidente della Camera di Commercio), invitati a Mosca per visitare le sue imprese industriali, inneggiavano ai metodi di sfruttamento "sovietici" che gli operai americani, si lamentavano, impedivano loro di applicare]. In Russia, gli operai capi-squadra traggono profitto dallo sfruttamento dei propri compagni di lavoro: gli stakhanovisti percepiscono un premio proporzionale al superamento della "norma" ed al numero degli operai della loro squadra. Essi vedono la loro paga aumentata grazie allo sfruttamento dei semplici lavoratori, e sono così spinti a intensificarlo. Gli stakhanovisti sono dunque convertiti in nemici dei loro compagni di lavoro ancora più nettamente dei capi-reparto d'Occidente a retribuzione fissa. Nulla di sorprendente in quanto in Russia tutto è stato rovesciato. Una volta che la controrivoluzione si è sostituita alla rivoluzione, una dittatura capitalista che si dice demagogicamente proletaria presenta -in realtà impone- come socialisti i più luridi costumi e princìpi del capitalismo tradizionale.

La Legge del Lavoro, approvata nel 1939, decreta:

"La caratteristica della dinamica dei salari nei Paesi capitalisti, è il livellamento dei salari tra gli operai specializzati e quelli non-specializzati. Nella remunerazione del lavoro, il livellamento piccolo-borghese è il peggior nemico del socialismo. Sono ormai molti anni che il marxismo-leninismo lotta senza tregua contro il livellamento."

Molti anni, in effetti, in cui si è tentato l'inganno di presentare lo sviluppo industriale mediante il lavoro salariato come la fedele espressione del pensiero marxista, che si prefigge al contrario come obiettivo l'abolizione del lavoro salariato e il livellamento economico della società, la soddisfazione illimitata di tutti i bisogni individuali, eguaglianza e libertà supreme, indispensabili per ogni rigoglio personale o collettivo. Se non si aspira a questo, nulla di rivoluzionario può farsi nell'attuale tornante storico.

Nei vecchi Paesi capitalisti le differenze salariali in seno al proletariato sono un dato di fatto, stabilito dalla compravendita diretta tra capitale e lavoro. In Russia hanno acquisito il valore di un principio, di una legge costituzionale, e di conseguenza combatterle è un crimine perseguito dalla giustizia. Il rapporto tradizionale tra capitale e lavoro, che la borghesia non ha mai saputo spiegare in quanto relazione sociale, tra uomo e uomo, ma solo col sotterfugio del "sacro diritto di proprietà" -sacro diritto che in realtà gli si rivolge contro se si considera come proprietà, non i mezzi di produzione o gli strumenti di lavoro, ma tutto ciò che è necessario al consumo materiale e al pieno sviluppo psichico di ciascuno, questo rapporto si è trasformato, in Russia, in rapporto naturale e definitivo tra differenti capacità. Così, alle classi o categorie sociali delimitate di fatto dalla ricchezza si sostituiscono delle classi delimitate di diritto dalla loro capacità di produzione e dalle loro speciali funzioni. La delimitazione di fatto tramite la ricchezza acquisisce importanza invece di perderla. Peggio ancora, si mira ad una giustificazione biologica dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Segnaliamo ancora che i contratti di lavoro imposti dai sindacati russi hanno per oggetto principale quello di mettere la classe operaia, anche giuridicamente, alla mercé del capitale, "garantendo il raggiungimento o il superamento del piano di produzione di Stato in ogni stabilimento" [Trud, organo dei sindacati russi, 19 febbraio 1947, citato da Salomon M. Schwarz: Labor in the Soviet Union, Londra, 1953, pag. 230.]. si tratta di strappare alla manodopera tassi di produzione sempre più elevati:

"(...) La clausola principale degli obblighi contrattati deve essere di chiedere di più ad ogni operaio. Senza un rafforzamento della disciplina di lavoro, senza una lotta energica contro i trasgressori della disciplina di Stato e di lavoro -imbroglioni, fannulloni- non si può avere un reale raggiungimento degli obblighi stabiliti nei contratti collettivi [La rivoluzione del 1917 delinea la scomparsa del lavoro salariato e del capitale. Tanto che un critico riformista, Zagorsky, definì l'economia del primo periodo come "un'enorme impresa di beneficenza". A partire dalla NEP (Nuova Politica Economica), comincia nettamente un movimento contrario che prende il carattere di capitalismo di Stato grazie alla controrivoluzione staliniana. Precedentemente i contratti erano individuali, anche se non erano per iscritto. La sistematizzazione dei contratti collettivi avviene parallelamente a quella di un capitalismo di Stato che si vuole stabile e definitivo.]."

La parola contratto è una marchiatura a fuoco per la classe operaia. Collettivo o individuale, verbale o scritto, "libero" o imposto, il contratto di lavoro è lo scarabocchio legale della sua condizione di classe schiava salariata del capitale, secondo le parole di Karl Marx. Quanto basta per mettere alla berlina la soperchieria dei nuovi sfruttatori russi. Né capitale né salariato possono esistere in un'economia socialista, e di conseguenza il contratto di lavoro, ovvero le condizioni di vendita della forza lavoro, non può avere luogo, semplicemente per l’avvenuta sparizione delle parti contraenti. I mezzi di produzione cessano di essere capitale e la forza lavoro umana cessa di essere merce in vendita. Uniti in una sola entità economica e sociale, questi mezzi diventano liberi da ogni obbligo contrattuale come ogni individuo verso di essi. Il contratto di lavoro russo, per la sua sola esistenza, si inscrive tra i legami sociali caratteristici del capitalismo. Ma sotto le sue "innovazioni", particolarmente per quanto riguarda il ruolo spudorato di sorveglianti che vi recitano i sindacati, traspare il lugubre profilo di una società decadente in cui i despoti sembrano essere più adatti di chiunque altro a soffocare il proletariato.

Effettivamente, questi contratti, la cui principale clausola è di strappare all'operaio la più alta produzione possibile, sono elaborati dai sindacati e dopo la formalità dell'approvazione governativa, è a loro che spetta l'obbligo di stimolare il servilismo con la promessa di una paga migliore, di minacciare, o di denunciare alla vendetta delle leggi gli uomini indocili al compimento degli imperativi dello sfruttamento. La lotta o la semplice resistenza per lavorare meno e guadagnare di più ("Il diritto alla pigrizia"!) che il movimento rivoluzionario mondiale ha sempre considerato come un merito del lavoratore e una esigenza del progresso storico, il governo russo la stigmatizza con disprezzo e la punisce come un crimine, sempre attraverso il sindacato.

I sindacati appaiono dunque agli occhi del proletariato russo, come gli organi direttamente responsabili del suo sfruttamento e dei servizi caratteristici della controrivoluzione. Esiste una tale quantità di documenti comprovanti in tal senso, che ci si potrebbero riempire molti volumi. È impossibile enumerarli qui. Una delle più grandi debolezze del movimento rivoluzionario mondiale, forse la causa della sua attuale esiguità, è di non essersi levato contro questa ignominia. In questo opuscolo è più che sufficiente ricordare qualche altro fatto dal contenuto e dalla portata non meno reazionari: le leggi che impediscono ai lavoratori di cambiare padrone senza l'autorizzazione del padrone stesso -attualmente inesistenti in tutti i vecchi Paesi capitalistici-, che istituiscono un salario direttamente proporzionale alla produzione di ogni operaio (lavoro a cottimo), per non parlare dei premi di servilismo politico; leggi che puniscono con multe, sospensioni temporanee del lavoro, licenziamenti o condanne ai lavori forzati i ritardi, le assenze o altre infrazioni alla "disciplina"; che trasformano in qualcosa di onorevole e di remunerativo tutto ciò che il pensiero rivoluzionario considera come infame; insomma tutte le leggi, che sono la morsa che stritola il proletariato come in nessun altro posto, appaiono nel mondo russo come l'opera dei sindacati. Questa legislazione è da loro contemporaneamente proposta ed applicata. Per soprammercato, i campi di lavoro forzato -di rieducazione, secondo il gesuitismo ufficiale- tomba di migliaia di operai, specie se rivoluzionari, procedimento deliberatamente scelto per abbassare il salario medio e poter parlare allo stesso tempo di assenza di disoccupazione, sono altrettante "istituzioni" create su iniziativa dei sindacati, che si spartiscono i benefici con lo Stato e il suo strumento essenziale: la polizia.

Ne possiamo arguire che i sindacati, come tutti sanno, non agiscono in tal modo di loro propria iniziativa. La loro squalifica agli occhi dei salariati non è per questo meno completa. L'esperienza mondiale indica che preesiste nella loro struttura organica e nella loro funzione in rapporto alla classe operaia qualcosa di propizio alla loro trasformazione negli ingranaggi più centralizzati e più assoluti del capitalismo. Certamente i sindacati russi obbediscono ciecamente agli ordini del governo, non ne sono che il vile strumento, ma i loro capi si integrano nelle più alte gerarchie del Partito e dello Stato, divenendo così, nello stesso tempo, comproprietari del capitale anonimo e dirigenti "operai". Mai un sindacato padronale ha sognato un assoggettamento così totale dei lavoratori.

In Russia la funzione sindacale, attualmente, si confonde interamente con la funzione sfruttatrice del capitale. Il sindacato è insieme padrone, controllore e poliziotto. In ogni fabbrica rappresenta, in triumvirato con il direttore e i tecnici -tutti distinti membri del sindacato e della cellula "comunista"- la stessa cosa che i consigli confidenziali hitleriani (Vertrausenrat). Se non bastasse, la fusione completa del capitale e del Partito-Stato cancella fino all'ultima traccia di autonomia sindacale e di azione rivendicativa. Per i lavoratori russi questa è una nozione che non c'è bisogno di imparare, perché ne patiscono duramente le conseguenze da molti anni.

C'è nella traiettoria della società russa una netta rottura tra la fase sovietica e la fase sindacale. I Soviet erano gli organismi rappresentativi dei lavoratori, esecutori del loro mandato e della rivoluzione; i sindacati invece sono degli organismi d'irreggimentazione, esecutori degli ordini della controrivoluzione. I Soviet dovettero essere paralizzati e infine sciolti, allorché i sindacati guadagnarono gradualmente in importanza ed in prerogative nella misura in cui la burocrazia rivelava la sua natura controrivoluzionaria. Il proletariato fu respinto e imbavagliato a tal punto che oggi in nessun luogo il suo assoggettamento e così assoluto come in Russia. Certamente, non sono i sindacati isolatamente che hanno ispirato la controrivoluzione. Questa è il risultato di un insieme di interessi e di idee borghesi, scorie dell'epoca zarista in seno alla rivoluzione, essendo la sua base principale l'alta burocrazia amministrativa, politica e tecnica, il cui numero e i cui privilegi sono mostruosamente cresciuti. Ma attorno alla burocrazia, i sindacati -o se si preferisce la loro direzione- costituiscono un settore inseparabile da questa categoria di capitalisti statali onnipossenti che dirigono l'immensa società anonima falsamente chiamata Unione Sovietica.

La compenetrazione dei sindacati e della controrivoluzione russa non è stata imposta da quest’ultima e non è dovuta al caso. Essa risultò dal compiersi spontaneo, del tutto meccanico, delle loro nature intrinseche, avesse dovuto pure il governo assassinare o "purgare" alcuni leaders sindacali insieme ai vecchi dirigenti rivoluzionari. Esso colpì in loro, non le funzioni sindacali, ma il loro atteggiamento comunista, reale o potenziale. In quanto organismi, e per la loro conformazione stessa i sindacati si adattarono perfettamente alle specifiche esigenze ed alla routine controrivoluzionaria. Per rendersene chiaramente conto è sufficiente osservare da vicino la nozione stessa di sindacato.

Il sindacato è inconcepibile senza l'esistenza generalizzata del lavoro salariato che, a sua volta, presuppone quella del capitale. Finché questo è incarnato da proprietari individuali impegnati nella concorrenza commerciale e rappresentato al governo tramite persone o partiti, i sindacati sono tutt'al più in grado di mercanteggiare certe condizioni di sfruttamento dei lavoratori. Essi hanno dunque come funzione quella di regolamentare la vendita della forza lavoro, funzione che è indispensabile nel moderno ordine capitalistico. Da ciò la loro attuale importanza, ovunque, in quanto strutture complementari della società, se non dello Stato stesso. Ma la stessa funzione che permetteva una volta ai sindacati di esprimere il massimo operaismo, è anche il confine che segnala i loro limiti e il loro destino reazionario. La loro esistenza come corpi costituiti dipende interamente dal binomio capitale-lavoro. Essi sarebbero immediatamente annichiliti dalla sua soppressione; per contro, propendono per l’affiancamento del capitale senza distruggere questo binomio e divenendo, al contrario, sempre più indispensabili al suo mantenimento. Da ciò deriva che, più è gigantesca ed anonima la concentrazione del capitale, più i sindacati vi si aggregano e considerano il loro ruolo come direttamente determinato dall’interesse “nazionale”. A tal punto che anche i leaders stalinisti occidentali, questi commessi dell’imperialismo russo, si premurano di presentare la loro politica sindacale come un fattore di salute nazionale. Non mentono, perché il loro solo avvenire è quello di essere l’ultimo bastione del capitalismo statizzato.

Così, tutti i sindacati senza eccezione stanno passando dalla fase di “libero” gioco tra offerta e domanda di forza lavoro –tra operai e borghesi- alla fase di irreggimentazione dell’offerta da parte della domanda, ovvero degli operai da parte del capitale monopolista o statale. Per via diretta o indiretta i sindacati partecipano fin da adesso, nella maggior parte dei casi, dei benefici capitalistici o ne preannusano l’opportunità [Le eccezioni che evidentemente esistono non infirmano quanto è stato appena detto. Va notato tuttavia che queste eccezioni non hanno luogo nei Paesi arretrati ma in quelli della vecchia Europa. Nei Paesi arretrati dove i sindacati sono, o sembrano, nuovi, essi accettano volentieri d’essere corrotti dai borghesi o dallo Stato. Spesso, i sindacati di uno stesso mestiere si abbandonano ad una concorrenza senza vergogna per offrire al padrone la “loro” manodopera a minor prezzo.]. in Russia, questa evoluzione si è compiuta alla stessa velocità della metamorfosi controrivoluzionaria di tutto il Paese. La legge concede ai sindacati mano libera sulla classe operaia, senza che rimanga ai lavoratori, né individualmente né collettivamente, la minima possibilità di discutere, accettare o rifiutare le clausole del proprio sfruttamento. Tutte le condizioni di lavoro –e inoltre ciò che ogni operaio deve pensare- sono dettate dai sindacati direttamente, a nome del capitale. Come sempre, l‘economico e il politico si compenetrano e hanno finito per fondersi nel più duro degli assolutismi.

Gli esempi di un sindacalismo di classe che qualcuno potrebbe fare sono tutti dovuti all’influenza dei rivoluzionari e si situano in un’epoca (conclusasi con la rivoluzione spagnola) che permetteva un certo agio alla lotta di classe circoscritto nel capitalismo. Ma i rivoluzionari che si ostinano, oggi, a cercare di trarre dai sindacati un qualsiasi vantaggio per la trasformazione socialista, si condannano pesantemente all’inefficacia o a qualcosa di peggio: il tradimento. Le antiche lotte del sindacalismo francese, spagnolo, italiano, etc., furono interamente opera delle correnti rivoluzionarie, chiaramente marxiste o anarchiche. La C.N.T. spagnola non sarebbe stata nulla senza la F.A.I. (Federaciòn Anarquista Iberica), ed è la F.A.I. stessa che ebbe la responsabilità dell’alleanza reazionaria con lo stalinismo durante la guerra civile. L’anno 1936 segna il fallimento del sindacalismo spagnolo, in tutto paragonabile a quello della C.G.T. francese nel 1914. Non solo si sottomise sostanzialmente allo stalinismo (sottomissione sempre presentata come politica di salute nazionale), ma stabilì, con la centrale riformista U.G.T., un’alleanza che comportava, in termini abbastanza espliciti, il capitalismo di Stato. La C.N.T non si risolleverà mai da una simile caduta. Ogni raggruppamento rivoluzionario nato dal suo seno dovrà guardare ad altri orizzonti.

L’esperienza delle collettività in Spagna non deve al sindacalismo che i propri difetti. Fu un movimento innescato dall’impulso rivoluzionario dei militanti e delle masse al più alto grado di radicalizzazione; i sindacati si ritrovarono posti davanti al fatto compiuto. Altrettanto si può dire del sollevamento contro i militari del 19 luglio 1936 e della magnifica insurrezione del maggio 1937. Quando, dopo l’azione rivoluzionaria, i sindacati intervengono, controllano, amministrano, la rotta è invertita; l’attività del proletariato in generale e dei rivoluzionari in particolare rincula, è il preludio della disfatta. A questo riguardo, bisogna ricordare, in Francia, l’esperienza ancora fresca dello sciopero di Nantes, nel 1956. Opera di qualche militante rivoluzionario nei sindacati locali, fu consegnato al nemico dai sindacati nazionali. Centinaia sono gli esempi simili sparpagliati in tutti i Paesi del mondo.

I tentativi di dare ai sindacati un contenuto rivoluzionario facendo un’ opposizione interna, o anche creando dei nuovi sindacati, sono votati alla sconfitta. Queste “tattiche” non servono che a sopire lo spirito rivoluzionario di coloro che le applicano, se non a trasformarli in breve in burocrati. Il sindacato reca in sé le molteplici e potenti forze coercitive e deformanti della società capitalista, che agiscono subdolamente sugli uomini, trasformando o distruggendo i migliori con un incessante lavoro di erosione. I sindacati sono tanto poco modificabili in senso rivoluzionario quanto la società capitalista stessa. Esattamente come questa, essi utilizzano gli uomini per i loro fini specifici, ma gli uomini non saranno mai in grado di adeguarli alla finalità rivoluzionaria; dovranno farli saltare.

Questa impresa di modifica si dimostra chimerica anche solo dal punto di vista pratico. Nella maggioranza dei Paesi, i lavoratori non entrano più nei sindacati. Che vi si ficchino dentro, volontariamente o costretti per legge, essi non li guardano con minor sospetto e repulsione. Nei Paesi di più grande esperienza, i lavoratori non ricorrono al sindacato che se vedono violati apertamente i diritti che gli garantisce la legge capitalista. Formalità fastidiosa ma necessaria, come quella di rivolgersi alla polizia in caso di furto. Essi sanno che, contro le leggi capitaliste, è vano appellarsi ai sindacati, perché questi ne sono l’emanazione. Da ciò la caduta degli iscritti al sindacato in molti casi e in tutti i casi la diserzione delle assemblee da parte della maggioranza dei lavoratori. I sindacati, che hanno una vita burocratica e legale propria, non hanno bisogno della classe operaia che come docile massa di manovra e, precisamente, con lo scopo di inserirsi come istituzione legittima nella società in cui viviamo. Sindacati e masse proletarie hanno una vita quotidiana e degli interessi completamente differenti ed ogni lavoro “tattico” interno, anche mosso dalle intenzioni più pure, intralcerà l’attività e la vita proprie degli sfruttati, distruggendo il loro slancio combattivo e sbarrando loro il cammino della rivoluzione.

La posizione di Lenin e di Trotsky sul lavoro rivoluzionario nei sindacati è nei fatti fuori dalla realtà attuale. Essa presupponeva esplicitamente che il proletariato, inesperto, non organizzato precedentemente, si unisse, pieno di illusioni politiche, nei sindacati, dove la libertà di parola avrebbe permesso ai rivoluzionari di esprimersi, di smascherare la direzione opportunista e di allargare la loro influenza [E’ quello che si può leggere, esposto nel dettaglio, nel noto libro di Lenin : L’estremismo malattia, infantile del comunismo. Rinvio all’edizione spagnola della Biblioteca Nueva, pp. 11 e seguenti, Madrid (edizione non datata, 1930 circa)]. Oltre alle illusioni delle masse sulle organizzazioni pseudo-rivoluzionarie, una premessa-chiave della tattica leninista era la natura ideologica, riformista, di queste organizzazioni stesse, all’epoca molto interessate a ottenere dal capitalismo delle concessioni democratiche in quanto ala sinistra di una società non ancora compiuta. Queste condizioni sono oggi scomparse e coloro che continuano a regolare la propria attività seguendole si agitano inutilmente. Il proletariato ha fatto cinquanta volte l’esperienza dei sindacati e dei partiti che li dominano e questi sono cambiati in senso innegabilmente reazionario. Comportarsi nei loro confronti come se si trattasse di organizzazioni ancora riformiste o opportuniste non è che una sciocca espressione dell’opportunismo attuale.

Il fondamento più solido di una critica rivoluzionaria dei sindacati, qui difesa, è un fattore non contingente né tattico ma di principio e di strategia, che non era stato preso in considerazione da Lenin e Trotsky, senza dubbio perché non si è delineato chiaramente che negli ultimi decenni. Si tratta dell’assimilazione dei sindacati e dei loro ispiratori politici da parte del mondo del capitale, non più in qualità d’ala democratica borghese, ma come supporto della società dello sfruttamento e delle sue nuove esigenze controrivoluzionarie. La polemica sui sindacati tra Lenin, Trotsky e Tomsky, prima che la sinistra ombra della polizia staliniana devastasse il pensiero rivoluzionario, trova la sua soluzione, attraverso la lunga prova dell’esperienza, nelle conclusioni di questo opuscolo.

Ci sono ancora dei rivoluzionari che si rifiutano di vedere il problema e mormorano come un credo: “Poiché esistono ancora tutte le condizioni che hanno generato le organizzazioni sindacali non vediamo come, ai nostri giorni, si possa negare la loro funzionalità.” Allo stesso tempo, rinviano la sparizione dei sindacati al momento della scomparsa “dei caratteri specifici della società borghese”, sarebbe a dire una volta appianata “la separazione dei produttori dagli strumenti di produzione” [La corrente italiana di Bordiga di cui combattiamo qui gli argomenti (Il programma Comunista, 26 maggio 1960) difende il conservatorismo tattico sindacale dalla prospettiva più rivoluzionaria. Ma in questo stesso errore cadono, con un’inclinazione opportunista, molti gruppi d’origine trotskista o anarchica, per non dire tutti. Gli stessi che si vantano di essere contro i sindacati, come Socialisme ou Barbarie, praticano nei fatti la vecchia routine.]. Si tratta di un sotterfugio sentenzioso piuttosto che di un argomento. Ciò che possiamo riconoscergli di vero si ritorce, dopo un’attenta analisi, contro la tattica della modificazione rivoluzionaria dei sindacati. Infatti, se si intendono, come condizioni che hanno generato i sindacati, l’acquisto, da parte dei possessori dei mezzi di lavoro, della forza umana creatrice di ricchezza o, in modo più generico, i rapporti caratteristici della società capitalista, allora si riconosce implicitamente che i sindacati formano un insieme organico con queste stesse condizioni e che essi sussistono con esse e per esse. Ammesso ciò, attribuire ai sindacati una funzionalità utile alla rivoluzione è altrettanto impensabile che attribuirla alla Borsa valori. Sempre di valori si tratta, anche nei sindacati, almeno sul piano del commercio e della messa sotto contratto del lavoro salariato, che hanno d’altronde più d’una relazione con la quotazione dei valori finanziari. Di più, a queste condizioni di funzionamento dei sindacati che, con ogni evidenza, ancora sussistono, occorre aggiungerne altre più dirette e più strettamente delimitate nel tempo. Si tratta della fase ascendente del capitalismo, in cui la libera concorrenza, compresa quella del mercato del lavoro, dava agli operai i più ampi benefici compatibili con il sistema. Regolamentare ed amministrare questi benefici, ecco quale fu la principale ragion d’essere dei sindacati. Ora, di conserva con lo strutturarsi del sistema capitalistico in grandi trusts mondiali e nel capitalismo di Stato, i sindacati che esso nutre iniziano naturalmente a svolgere un ruolo reazionario, poiché essi non possono conservare la loro funzione senza adattarsi alle condizioni di un mercato ormai non più libero, ma controllato, dispotico, o se si preferisce malthusiano, dal momento che impedisce il potenziale sviluppo dell’economia e dell’uomo.

Così, le condizioni che hanno permesso, in senso stretto, la nascita dei sindacati, non esistono più, sono morte insieme a ciò che giustificava l’esistenza del capitalismo come forma sociale storicamente progressiva. Sono i rivoluzionari, sfortunatamente, che ritardano a riconoscere i fatti e a trarne le conseguenze.

Il ragionamento de Il Programma Comunista, che è la migliore giustificazione teorica per tutte le tendenze abbarbicate ad un sindacalismo d’opposizione o rivoluzionario, anarchismo compreso, è tuttavia erroneo dall’inizio alla fine. Ed è altamente pericoloso, soprattutto in caso di rivoluzione vittoriosa. La scappatoia che consiste nel rimettere la sparizione dei sindacati alla cancellazione delle ultime vestigia del capitalismo, ovvero al realizzarsi del comunismo, darebbe a questi organismi, durante la fase di transizione post-rivoluzionaria, un monopolio sul proletariato dalle conseguenze necessariamente nocive. Lungi dall’avvicinare la società al comunismo, ciò costituirà un ostacolo in più, e non dei minori, che favorirà, proprio come in Russia, il capitalismo di Stato. L’analisi di Bordiga associa la sparizione dei sindacati a quella della violenza nella società, cioè dello Stato. Ora il deperimento dello Stato e di ogni violenza sociale non può essere che il frutto della precedente sparizione dello sfruttamento, del lavoro salariato per essere precisi, che è esattamente ciò con cui i sindacati sono in contraddizione d’interessi e di principi.

Un secolo fa, Karl Marx rimproverò ai sindacati di limitare le loro rivendicazioni a questioni di paga, ore di lavoro, etc., ignorando il problema dell’abolizione del lavoro salariato, chiave della soppressione del capitalismo. Marx sarebbe oggi tacciato come piccolo-borghese egalitario dalla gente di Mosca, e come ultra-sinistro confuso da quelli che aspirano a riformare il sindacato. Ed egli non vide questa abolizione come lontana, molto posteriore alla rivoluzione, ma come concomitante ad essa, o persino come sua causa. Infine, egli credeva che nella sua epoca, i Paesi industrializzati disponessero di mezzi materiali più che sufficienti per farvi fronte. Noi, i rivoluzionari, siamo in grado oggi di aggiungere che i sindacati interferiscono con qualsiasi rivoluzione sociale, perché sono divenuti un ingranaggio indispensabile allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il loro ruolo nell’economia attuale è paragonabile a quello delle corporazioni dell’epoca manifatturiera. Con questa differenza però: mentre le corporazioni si dimostrarono inadatte alla grande industria, i sindacati si adattano perfettamente alla forma più assoluta di capitalismo, la forma statale. Essi periranno con la vittoria della rivoluzione, più esattamente la loro sparizione sarà la condizione di questa vittoria, altrimenti si gonfieranno in un gigantesco apparato coercitivo complementare dello Stato-padrone. In ciò sta la più grande minaccia controrivoluzionaria della nostra epoca. Se l’umanità non si dimostrasse capace di affrontarla, nel mondo staliniano altrettanto che in Occidente, cadrebbe nella più inquietante delle ere.

Tutti i lavoratori devono decidere dei problemi economici che pone la marcia della società verso il comunismo, senza bisogno di una qualsiasi affiliazione. Nessun organismo può essere identificato con la società né investito dei suoi attributi, che si tratti di un sindacato o di un partito. Si può concepire, tra i fondamenti materiali della rivoluzione, l’esistenza di diverse correnti ideologiche in competizione leale per ottenere la maggioranza delle adesioni. La possibilità d’intervento diretto di tutti negli affari sociali non potrebbe essere meglio garantita. Per contro, la gestione sindacale dell’economia si rivela necessariamente antidemocratica e soffocante, perché esclude i non-affiliati e, nei fatti, si impone a tutti. Certamente, le ideologie possono degenerare o tradire, ma è solo con il fiorire delle idee rivoluzionarie che l’uomo conquisterà la propria libertà.

Anche le rivendicazioni immediate che il proletariato si pone attualmente sfuggono ad ogni formulazione dei sindacati. Infatti di fronte allo sfruttamento intensificato dalla tecnologia, alle ore supplementari, al lavoro a cottimo, al cronometraggio, etc., è indispensabile rivendicare una riduzione della giornata lavorativa a cinque o sei ore al massimo, senza riduzione del salario medio precedente, gratifiche comprese. E, su questa base, è urgente reclamare un orario di lavoro in diminuzione costante, che segua una scala decrescente proporzionale al progresso tecnico. È questo il modo di fare fronte alle massacranti giornate di lavoro attuali e di prefigurare una riorganizzazione del lavoro socialmente necessario, tramite la soppressione dell’immane lavoro parassitario attuale, nell’industria come nella burocrazia governativa ed amministrativa.

Complemento indispensabile di questa rivendicazione è il rifiuto di realizzare ogni accrescimento della produzione, che procede dal perfezionamento del macchinario o dall’accelerazione dei ritmi di lavoro, se la classe operaia non ne beneficia integralmente, perché essa rappresenta gli interessi della società intera considerata nel suo processo civilizzatore. Rivendicazione di immensa portata, non solo contro il capitalismo e la sua minaccia di guerra, ma come regola ordinatrice della futura rivoluzione vittoriosa. Dietro ad essa, la necessità di sradicare il sistema attuale viene da sé.

E, politicamente, si dovrebbe innanzitutto imporre la piena libertà nei luoghi di lavoro. Rigettare ogni regolamento interno che non sia stabilito da delegati democraticamente eletti e in seguito approvato in assemblea generale. Per ogni problema o conflitto, dei comitati eletti al di fuori del sindacato in ogni reparto e revocabili in ogni istante. Gli accordi con la direzione devono avere l’approvazione degli stessi interessati, e non quella del sindacato o di più sindacati coalizzati, anche se pretendono di rappresentare la maggioranza. Infine, il legame tra i molteplici comitati operai permetterebbe di rivendicare in quanto obiettivo immediatamente realizzabile, la gestione operaia della produzione e della distribuzione su scala nazionale e internazionale.

Uno studio circostanziato di tutti i problemi immediati che l’attuale situazione mondiale pone alla classe operaia non sarebbe meglio accetto.

I tre ordini di problemi menzionati, che riassumono tutti gli altri, dimostrano ampiamente il conservatorismo reazionario dei sindacati e l’impossibilità, per i lavoratori, di fare un solo passo avanti senza scontrarsi con essi. Se non si sbarazzerà di loro, il proletariato non si tirerà fuori dal suo marasma attuale e non avrà più alcuna prospettiva rivoluzionaria.

L’avvenire dei sindacati è innegabilmente legato a quello del capitalismo, non a quello della rivoluzione. La loro attitudine ad adattarsi al divenire reazionario della società è stato ampiamente ignorato, anche dai rivoluzionari più chiaroveggenti. Occorre tuttavia fare un’eccezione per un teorico quasi sconosciuto, Daniel de Leòn, il cui pensiero su questo argomento si è rivelato profetico. Dal 1905, Daniel de Leòn vide che sindacati e partiti operai ufficiali celavano delle gravi minacce controrivoluzionarie. L’opuscolo in cui espose sinteticamente le sue idee merita la riflessione di ogni rivoluzionario [Two pages from roman history.I.-Plebs leaders and Labor leaders.II.-The warning of the Grachi. New York, 1946.].

De Leòn non è una “mezza cartuccia” dell’analisi. I suoi giudizi sono delle eccellenti sintesi storiche e, nei suoi accenti, risuona la passione rivoluzionaria. Sulla base dell’esperienza mondiale, in particolare quella delle Trade-Unions britanniche e americane, con i loro rispettivi leaders laburisti, egli predisse che la vittoria di queste organizzazioni avrebbe senza dubbio ucciso la rivoluzione sociale:

“I leaders operai attuali rappresentano una posizione mascherata, un nodo strategico e una forza che sostiene il capitalismo, e la loro vera natura non può evitare di produrre una disastrosa demoralizzazione nella classe operaia.”

De Leòn paragona i leaders operai e le loro organizzazioni ai tribuni della plebe di Roma. Proprio come questi utilizzarono perfidamente la plebe per accedere al rango e ai diritti dei patrizi, senza mai concedere alle masse espropriate altro che delle briciole, i leaders operai moderni e le loro organizzazioni si servono del proletariato per consolidare le loro posizioni economiche e politiche nel sistema di sfruttamento capitalistico:

“Alla stessa maniera dei tribuni della plebe, i leaders operai sono uomini “pratici”, cosa di cui si vantano; essi non si nutrono di “visioni”, non “cercano la fine dell’arcobaleno”…”

“Alla stessa maniera dei tribuni della plebe, i leaders operai non vedono alternativa al sistema sociale esistente”, -e, come loro,- “aspirano ad alimentare la fiamma che divora la classe operaia.”

“Proprio come i tribuni della plebe di Roma e se non li si affronta (…) i leaders operai ridurranno certamente a zero tutte le possibilità di salvezza di quest’epoca: essi faranno rinculare “azioni di grande portata e vigore”, fino a fargli perdere persino il nome di azioni.”

La calzante comparazione tra i tribuni della plebe romana e i nostri grandi burocrati sindacali e politici acquisisce tutto il suo valore quando si vede il ruolo svolto in tutta la storia romana dal cosiddetto partito della plebe. Apparso all’epoca dei Tarquini, in contrasto apparentemente insanabile con la classe dei patrizi che dominava la società, acquisisce importanza ed eleva le sue posizioni durante la Repubblica. Ciò non avvenne affatto a beneficio della vera plebe, della massa povera libera o schiava, ma dei privilegiati, che la rappresentavano formalmente e non rientravano nella categoria plebea che per gli arcaismi delle leggi. Cesare e Augusto, i fondatori dell’Impero, hanno costantemente fatto ricorso al sotterfugio di dirsi originari o partigiani della plebe. La loro vittoria, punto culminante del partito dei tribuni della plebe, distrusse per sempre le possibilità di rivoluzione a Roma. Gli usurpatori plebei perlopiù rimpiazzarono la vecchia classe patrizia e non aprirono la strada ad un tipo superiore di società limitandosi a prolungare la decadenza del mondo antico, alla quale hanno presieduto nella sua ultima tappa.

Malgrado le grandi differenze strutturali e ideologiche tra la civiltà greco-romana e la civiltà capitalista, l’analogia tra il ruolo dei tribuni della plebe e quello, ai giorni nostri, dei leaders operai è molto stretta. Che si definiscano apolitici, comunisti o socialisti, questi hanno sostituito, -intimamente e per interesse- alla principale contraddizione del capitalismo, che non può scomparire se non annientandolo, un’altra contraddizione inessenziale, che fa parte delle necessità di funzionamento del capitalismo, e la cui “soluzione” rende questi leader indispensabili, escluso ogni intervento rivoluzionario dei lavoratori.

La borghesia e il proletariato sono l’aspetto umano, l’immagine antropomorfica della contraddizione sociale tra capitale e lavoro salariato. Questa contraddizione è irrisolvibile se non attraverso l’abolizione del capitale, atto che deve abolire, simultaneamente, il lavoro salariato stesso. Qui termina il capitalismo e inizia la rivoluzione socialista: percepiamo l’orizzonte infinito di una nuova civiltà.

Lo spirito dei leaders cosiddetti operai, come la natura delle loro organizzazioni, sono assolutamente incompatibili con la soluzione di questa contraddizione. Essi non considerano né si sforzano di risolvere che una contraddizione secondaria, interna agli interessi dello sfruttamento, quella dell’”anarchia” dei capitali individuali, con le sue crisi cicliche che chiedono un piano di produzione ordinato e una severa regolamentazione della manodopera, disoccupazione compresa. Così concordano gli interessi dei leaders “operai” e quelli del grande capitale che reclama ogni giorno più regolazione economica, più concentrazione. Per dirla altrimenti, ciò che percepiscono e vogliono superare, sono le difficoltà che il sistema incontra sul cammino del monopolio unico, non certo quelle che il sistema oppone alla marcia dell’umanità verso il comunismo. Detto questo, nella concentrazione dei mezzi di produzione in un solo monopolio di Stato, il fattore lavoro –da cui dipendono consumo, libertà, cultura, vita intera di tutti gli uomini- appare come un elemento altrettanto subordinato alle esigenze del piano che il minerale ferroso, il cuoio e ogni altra materia prima. La soppressione della borghesia non implica in nessun modo quella del capitale, non più di quella del proletariato. Il capitale è una funzione economica, non il suo proprietario; spersonalizzandosi, facendosi pura funzione anonima, esso completa la sua oppressione sull’uomo e gli sbarra la strada grazie a nuove forze controrivoluzionarie. Così la rappresentazione puramente antropomorfizzata della contraddizione tra capitale e salario (borghesia-proletariato) rende ai leaders politici e sindacali il servizio di presentare la soppressione del capitale privato come la soppressione del capitale in generale, e la loro gestione economico-politica come la soluzione delle contraddizioni sociali. Essi sanno, per l’esperienza della controrivoluzione staliniana, e in gran parte per quella delle Trade-Unions yankees e britanniche, che, più la concentrazione del capitale sarà completa, più la quota di benefici che intascheranno sarà alta.

L’aspetto più minaccioso di questa tendenza dei leaders “operai” viene dal fatto che essa coincide interamente con la legge della concentrazione del capitale e con lo svilupparsi delle coercizioni materiali e ideologiche che ne conseguono. Malgrado tutto essi non sono veramente pericolosi che per la passività del proletariato, che non riesce a scuotere i rivoluzionari attaccati a tattiche e idee superate. Incatenati a vecchie formule, sono colpiti da sterilità. Ma basta alzare lo sguardo per realizzare che la necessità umana di una trasformazione totale si scontra contemporaneamente contro il capitalismo e i leaders “operai”, e che questo scontro apre un campo infinito all’azione rivoluzionaria. L’umanità non ha nessun bisogno di piani tecnocratici di produzione per la produzione, piani che non possono essere che di sfruttamento e di guerra. La crisi che attraversa la civiltà non troverà soluzione prima che tutta la produzione sia orientata, senza compravendita, al consumo. Bisogna che tutti gli individui, per la loro semplice esistenza, siano in grado di disporre liberamente dei beni materiali e spirituali. Il commercio degli uni e degli altri produce l’insoddisfazione dell’immensa maggioranza, l’impossibilità del rigoglio degli individui e la venalità della cultura. Solo la soppressione dei proprietari individuali o dei trust comporterà inevitabilmente quella del proletariato, ovvero della classe che consuma e vive solo in proporzione al suo salario. È dunque il nodo del “lavoro salariato” che occorre sciogliere; così sparirebbero necessariamente la funzione economica del capitale e gli sfruttatori, che siano borghesi o burocrati di qualunque specie. Qualsiasi piano di produzione dovrà allora essere stabilito sulla base dei bisogni non mercantili del consumo umano, con tutto ciò che ne consegue sul piano della libertà politica e culturale. Il vero aspetto antropomorfico del problema è la soppressione del lavoro salariato, che darà all’uomo la possibilità di dominare il proprio destino. Rimpiazzando la borghesia, di cui hanno preso il posto, i leaders sindacali ci ripropongono l’antropomorfismo fallace delle religioni, il piano di produzione prende il posto di Dio, padre e giudice degli uomini, gli alti burocrati politici, sindacali e tecnici recitano il ruolo dei grandi sacerdoti.

Che i rivoluzionari caccino dalle fabbriche e dalle organizzazioni professionali i rappresentanti dei sindacati, e i Thorez, i Nenni, i Reuther di tutti i Paesi, il Vaticano nascosto dietro i sindacati cristiani, si vedranno paralizzati; la classe operaia avrà recuperato la sua libertà d’azione e di pensiero, e si troverà rapidamente in grado di sconvolgere da cima a fondo la società. Essa prenderà allora lo slancio necessario per strappare l’umanità dal pantano in cui arranca.

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Ultima modifica 15/06/2013