Antonio Gramsci 1924
Pubblicato per la prima volta ne "Lo Stato operaio", 29 maggio 1924
Trascritto per Internet da Antonio Maggio - Primo Maggio.
Ho constatato che lo stato d’animo dei compagni si esprime soprattutto contro il cosiddetto "centro" del partito e trovo strano che in seno al Partito comunista abbia ancora tanto valore una questione di nomenclatura. E’ necessario studiare i problemi da un punto di vista più serio e più concreto.
Il compagno Bordiga afferma di non avere neppure tentato di costituire una vera e propria frazione in seno al partito. Ma è indiscutibile che da quando un compagno che ha una personalità come quella del Bordiga si tiene in disparte senza più partecipare attivamente al lavoro del partito, questo solo fatto è sufficiente a creare nei compagni uno stato d’animo di frazione. Di questo fatto bisogna tenere conto per giudicare il nostro atteggiamento nel presente dibattito.
Noi non dobbiamo del resto faticare molto per trovare quali sono le nostre origini. Nel 1919-20 esistevano in Italia tre tendenze che si sono poi riunite nel Partito comunista: quella che era rappresentata dall’ "Ordine Nuovo" di Torino, quella astensionista ed una terza infine, che solo ora tende a chiarificarsi e che riuniva tutti quei compagni che sono entrati nel partito colla scissione di Livorno pur non appartenendo a nessuna delle due tendenze a cui ho accennato in precedenza. Noi della tendenza dell’ "Ordine Nuovo" abbiamo sempre ritenuto necessario, anche prima della costituzione del partito, appoggiarci alla sinistra anziché alla destra. Un diverso contegno ritenevamo avrebbe portato alla valorizzazione di tendenze da cui ci sentiamo molto lontani. A questo proposito rammento che a Torino, immediatamente prima e dopo lo sciopero generale dell’aprile 1920, siamo venuti a una rottura con il gruppo di cui il compagno Tasca era l’esponente e, vedendo il pericolo opportunistico della destra, abbiamo preferito allearci con gli astensionisti e in un certo momento anzi lasciare nelle loro mani tutta la dirigenza della Sezione.
Secondo molti compagni l’occupazione delle fabbriche rappresentò il punto massimo dello sviluppo rivoluzionario del proletariato italiano. Per noi con quell’avvenimento si iniziava il periodo della decadenza del movimento operaio. Ebbene, considerando allora quali forze del movimento socialista fossero le più capaci ad arginare la sconfitta noi fummo ancora una volta colla sinistra. E pensammo che senza gli astensionisti il Partito comunista non si potesse costituire. Anche attualmente noi manteniamo questo punto di vista, ma non possiamo, d’altra parte nasconderci gli errori che la sinistra ha compiuto.
E’ bene, a questo proposito, che si ricordi che il voto sulle tesi di Roma ebbe carattere puramente di massima e consultivo e che quelle tesi avrebbero dovuto essere ripresentate al partito - con qualche modificazione, eventualmente - dopo il IV Congresso della III Internazionale. Purtroppo questo non è potuto avvenire a causa dell’aggravarsi della situazione generale.
Ma oggi la situazione non è più uguale a quella esistente nel 1921 e nel 1922. Vi è un inizio di ripresa del movimento operaio. Quale svolgimento avrà essa? E’ certo che essa non potrà non subire le influenze dell’esperienza che tutte le classi e tutti i partiti politici hanno compiuto negli ultimi anni. Questa esperienza ha fatto assumere ad ogni gruppo una sua fisionomia. Nel 1919 e nel 1920 tutta la popolazione lavoratrice - dagli impiegati del Nord e della capitale ai contadini del Mezzogiorno - seguiva, magari inconsciamente, il movimento generale del proletariato industriale. Oggi la situazione è mutata, e solo attraverso ad un lungo e lento lavoro di riorganizzazione politica il proletariato potrà tornare ad essere fattore dominante della situazione. Noi riteniamo che questo lavoro non può essere svolto mantenendosi sulle direttive che il compagno Bordiga vorrebbe mantenere al partito.
La recente affermazione elettorale del nostro partito ha certamente un grande valore, ma è indiscutibile che manca al nostro movimento l’adesione della maggioranza del proletariato.
BORDIGA - L’avremmo se non avessimo mutato la nostra tattica nei confronti del Partito socialista! Del resto noi non abbiamo fretta.
GRAMSCI - Noi invece abbiamo fretta! Vi sono delle situazioni in cui il "non aver fretta" provoca la disfatta. Nel 1920, ad esempio, bisognava aver fretta. Io mi ricordo che nel luglio di quell’anno mi recai al Convegno astensionista di Firenze a proporre la creazione e la costituzione di una frazione comunista nazionale. Il compagno Bordiga anche allora "non ebbe fretta" e respinse la nostra proposta, in modo che l’occupazione delle fabbriche avvenne senza che esistesse in Italia una frazione comunista organizzata capace di lanciare una parola d’ordine nazionale alle masse che seguivano il Partito socialista. Anche il fattore "tempo" ha importanza. Talvolta esso ha anzi un’importanza capitale.
Ho l’impressione che i compagni i quali fino ad ora hanno espresso il loro pensiero abbiano dimenticato quale è il problema fondamentale che oggi si pone al nostro partito: quello dei rapporti coll’Internazionale comunista. L’atteggiamento del compagno Bordiga può anche, in un certo senso, essere utile, ma il suo errore consiste nel non rendersi conto della necessità per il partito di aver risolto il problema dei rapporti coll’Internazionale.
L’atteggiamento di Bordiga non può del resto avere altra conseguenza se non quella di far sorgere un gruppo di elementi eterogenei, i quali possono trovare un motivo di unità e di consistenza nel fatto di dichiararsi "per l’Internazionale". Questa conseguenza che già si è avuta a deplorare una volta, sta a provare quanto l’atteggiamento di Bordiga sia in sé sbagliato. Ad esso è da attribuire l’origine della "minoranza". Nei confronti dei compagni della minoranza la situazione è oggi in parte modificata in seguito alla dichiarazione avvenuta in mezzo ad essi, ma non tutte le divergenze sono scomparse. Sul programma politico attuale la minoranza afferma che non esiste alcun disaccordo; in realtà io ricordo che a Mosca, ad esempio, il compagno Tasca si è opposto alla formula dello spostamento dei sindacati nella fabbrica. Oggi questo problema è uno dei più importanti che si presentino al nostro partito.
Esso si pone in questi termini: come il Partito comunista - centro effettivo dell’avanguardia rivoluzionaria - deve guidare le lotte sindacali della classe operaia? Creare le cellule di officina, sta bene: ma che lavoro queste debbono svolgere? Noi siamo convinti che scomparse, se non formalmente almeno come funzione, le commissioni interne, gli operai si rivolgeranno alle cellule comuniste non solo per le questioni di carattere politico ma anche per la loro difesa sindacale, e che è perciò necessario che i compagni si trovino preparati a compiere anche questo lavoro. Occorrerà che questi problemi siano ampiamente esaminati e approfonditi, tanto più perché ci troviamo a un punto decisivo della storia del movimento operaio italiano. I compagni della sinistra protestano la loro disciplina all’Internazionale. Noi diciamo loro: "Non basta dichiarare di essere disciplinati. Bisogna mettersi sul piano di lavoro indicato dall’Internazionale". Se l’Internazionale ha fatto finora - per ragioni a tutti note - delle concessioni ciò non può continuare nell’avvenire poiché porterebbe alla disgregazione dell’Internazionale stessa. (...)
Non tutti i lavoratori possono comprendere tutto lo sviluppo della rivoluzione. Oggi ad esempio i lavoratori italiani del Mezzogiorno sono senza dubbio rivoluzionari, eppure continuano a giurare per Di Cesarò e per De Nicola. Noi dobbiamo tener conto di questi stati d’animo e cercare i mezzi per vincerli. Se i comunisti vanno tra i contadini del Mezzogiorno a parlare del loro programma non sono compresi. Se uno di noi andasse al mio paese a parlare di "lotta contro i capitalisti" si sentirebbe dire che i "capitalisti" non esistono in Sardegna... Eppure anche queste masse debbono essere conquistate.
Noi abbiamo la possibilità; date le condizioni stesse create dal fascismo, di iniziare nel Mezzogiorno un movimento antireazionario di masse. Ma bisogna conquistare queste masse e questo si fa soltanto partecipando alle lotte che esse conducono per conquiste e rivendicazioni parziali. Queste sono le nostre idee sui problemi dell’ora. Ripeto che i compagni non devono fare una questione di nomenclatura: nel 1919 Buozzi rimproverava a noi di fare - attraverso i Consigli di fabbrica - un’opera troppo riformista. Noi ridemmo allora, e i fatti hanno dimostrato chi era riformista e chi era rivoluzionario. Si pongano, i compagni, delle questioni concrete e rammentino che in questo momento la più importante questione è quella dei rapporti del partito nostro con l’Internazionale comunista.