Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Antonio Maggio, agosto 2001
Capitolo sedicesimo
Il declino relativo dell'imperialismo U.S.A.
L'Europa maggior pericolo per la supremazia U.S.A.
I nodi storici dell'imperialismo europeo
I diversi ritmi di sviluppo della C.E.E.
Alla ribalta della politica internazionale sta nuovamente per apparire il problema del rapporto tra Stati Uniti ed Europa. Diciamo alla ribalta perché, in realtà, questo rapporto non ha mai cessato di essere di primaria importanza. Comunque, la linea europea della amministrazione Carter dovrà dimostrare alcune riconferme ed alcune variazioni.
E' importante, di conseguenza, ricostruire il quadro oggettivo dei rapporti di forza economica quale è andato evolvendo ed emergendo in quest'ultimo anno tra gli Stati Uniti e gli Stati della CEE.
Caratteristica dell'imperialismo è la concentrazione. Un'analisi su quel risultato della concentrazione costituito dalle maggiori imprese industriali sarà utile per vedere su quali mutamenti dei rapporti economici si potranno determinare i mutamenti dei rapporti politici.
Il grado di concentrazione è, d'altra parte, un segno della concorrenza imperialistica. Difatti questa si fa ogni giorno più acuta. Lo sviluppo caotico e ineguale del capitalismo modifica, anche se parzialmente, in continuazione gli equilibri precari che via via si stabiliscono tra i vari paesi. Quelli economicamente più forti spingono per una politica internazionale libero scambista che togliendo ogni freno alla crescita economica, apra nuovi mercati e nuovi fonti di profitto. Al contrario, nei paesi più deboli sorgono tendenze protezionistiche tese a frenare la perdita di posizioni di mercato. Ma, nonostante tutti i tentativi di erigere barriere protettive a difesa del mercato nazionale i legami di scambio fra gli Stati si fanno sempre più stretti fondendosi in un unico sistema imperialistico unitario. L'aumento delle interdipendenze dei fattori accresce le variabili in gioco rendendo la situazione internazionale più complessa. L'analisi strategica richiede, quindi, una puntualizzazione sulle tendenze di fondo.
Il declino relativo dell'imperialismo U.S.A.
In un mondo che per lo sviluppo dei mezzi di comunicazione e di scambio rimpicciolisce a vista d'occhio, l'aumento delle dimensioni dell'impresa industriale, commerciale o finanziaria accresce la dipendenza diretta della politica dall'economia. Se ciò è valido in generale, lo è in particolare per la politica estera che ha la sua origine negli interessi di quelle imprese che per le loro dimensioni agiscono in prevalenza sul mercato mondiale.
A tal fine è utile un esame delle prime 400 imprese industriali mondiali le quali per il loro peso hanno una influenza determinante sulla politica internazionale.
Le società U.S.A. nel 1969 controllavano il 63,9% delle vendite totali con 359 miliardi di dollari su 561.
Nel 1975 la quota U.S.A. era scesa al 52% con 703 miliardi di dollari su 1.340.
Malgrado il suo notevole sviluppo derivato dalla industrializzazione degli Stati federati del Sud e dalla continua espansione verso l'Ovest che gli ha permesso di combinare uno sviluppo intensivo del capitalismo con la continuazione dello sviluppo estensivo, l'imperialismo U.S.A. ha visto ridursi la quota di mercato mondiale di 11,9 punti in solo sei anni. Ciò significa che il ritmo di espansione degli imperialismi concorrenti è stato superiore.
Su questa base oggettiva si sono delineate nella politica estera americana, dalla presidenza Nixon del 1968, tendenze a riaffermare il "bipolarismo", con la priorità del rapporto USA-URSS, e tendenze al multipolarismo, con l'inserimento del Giappone. della Cina e dell'Europa.
La linea Kissinger ha rappresentato la continuità del bipolarismo, corretto nel settore asiatico da una dinamica di "bilancia di potenza" con l'inserimento della Cina, ma, soprattutto, del Giappone il, quale è riuscito ad occupare spazi aperti dalla dinamica stessa.
L'imperialismo russo per la sua debolezza derivata dalla bassa produttività industriale e agricola, non si è avvantaggiato del relativo indebolimento statunitense. La Cina, dato il suo basso grado di industrializzazione. non può svolgere, a breve e medio periodo, un ruolo politico-militare autonomo nei rapporti internazionali in movimento. I due poli che, nei rapporti relativi con l'imperialismo statunitense in declino, si sono rafforzati sono il Giappone e la CEE, in specie la Germania.
Ciò ha determinato nella politica estera americana, l'emergere di correnti che privilegiano il multipolarismo o che, per lo meno, vogliono combinarlo in forma diversa da quella kissingeriana di tipo "bipolare ".
L'Europa maggior pericolo per la supremazia U.S.A.
La CEE, per la sua concentrazione di forze produttive, per la sua forza demografica, per la sua storia che rende solidi i suoi apparati statali è l'unica regione che nel medio periodo sia in grado di mettere in discussione l'egemonia americana sul mercato mondiale. Il Giappone, pur avendo aumentato la sua forza in modo considerevole, lo potrebbe solo dopo aver completato il processo di industrializzazione di tutta l'area dell'Estremo Oriente: si pone quindi in concorrenza agli U.S.A. ma non ancora in alternativa.
Se negli ultimi sei anni la quota relativa delle maggiori società statunitensi è calata di 11,9 punti quella delle società C.E.E. è aumentata di 6,4 punti passando dal 23,6% al 30%. Nonostante la crisi energetica che ha visto in posizione di svantaggio gli Stati europei per scarsità nel loro territorio del petrolio, e nonostante l'aumento del prezzo delle materie prime e dei prodotti agricoli che è andato a favore degli Stati Uniti, il rapporto relativo tra U.S.A. e C.E.E. si è modificato di 18,3 punti a vantaggio della C.E.E. L'industria europea dimostra quindi capacità espansive notevoli, aspetto che risalta maggiormente nel rapporto tra settori.
Rapporto tra le vendite delle società industriali USA e CEE comprese tra le prime 400 mondiali |
_ |
1969 |
1975 |
Variazione |
Veicoli a motore |
3,49 |
1,71 |
1,78 |
Siderurgia |
1,64 |
0,93 |
0,71 |
Chimica |
1,46 |
1,09 |
0,37 |
Elettrotecnica ed elettronica |
2,39 |
1,19 |
1,20 |
Petrolchimica |
3,14 |
2,00 |
1,14 |
Totale |
2,70 |
1,74 |
0,96 |
Il vantaggio USA, come si vede, è andato declinando passando da 2,7 volte a 1,7.
Nella chimica e nella siderurgia le società europee sono ormai quasi in parità con quelle degli Stati Uniti. Se, da un lato, la siderurgia è destinata ad essere trasferita con la crisi di ristrutturazione in parte nei paesi a medio sviluppo capitalistico non così è per la chimica, che rimane sempre uno dei settori di punta del capitalismo industriale. Nell'elettrotecnica e nell'elettronica (escluso i calcolatori) le società europee sono più indietro, ma nel periodo 1969/1976 hanno notevolmente ridotto le distanze. Se procederanno nel futuro con i ritmi del passato si può ritenere che tra non molto ci sarà la parità.
Punti deboli dell'Europa rimangono la petrolchimica e l'aerospaziale (qui non riportata perché sui dati delle società europee non compare la voce aerospaziale, dato che non è ancora un settore sviluppato e autonomo dagli altri).
Nel complesso: se nel 1969 la forza imperialistica U.S.A. era del 170% superiore a quella C.E.E., questa distanza si è ridotta al 74% nel 1975.
I nodi storici dell'imperialismo europeo
Mentre l'Europa economica marciava a forti ritmi nella corsa al raggiungimento di quella statunitense, l'Europa politica entrava in una profonda crisi.
Ciò che può sembrare un paradosso è in realtà il risultato dello stesso forte sviluppo economico che impone alla borghesia europea di risolvere il nodo della sua unificazione politica come condizione per un ulteriore balzo in avanti nella conquista del mercato mondiale.
Infatti all'interno degli Stati Uniti, fra uno Stato federato e l'altro, non esiste alcun vincolo di ordine giuridico alla libera circolazione delle merci della forza-lavoro e del capitale, per cui le imprese possono sviluppare al massimo le economie di scala agendo su un più vasto mercato. Questo permette loro di avere una notevole capacità di espansione sul mercato mondiale. Lo stesso non può dirsi per le imprese capitalistiche europee che nel loro sviluppo trovano intralci di ogni genere creati dagli Stati Nazionali ormai non più fattori di sviluppo delle forze produttive ma di freno. Alla unificazione tariffaria e alla libera circolazione delle merci e della forza-lavoro all'interno della Comunità Economica Europea, definita nel trattato di Roma del 1958 e raggiunta negli anni successivi, non è seguita l'unificazione monetaria e finanziaria, condizione per la formazione senza freni di imprese integrate a livello europeo. Il capitalismo per svilupparsi deve essere libero da ogni vincolo di ordine sovrastrutturale. Questa libertà negli anni della rivoluzione industriale gli fu garantita dalla formazione degli Stati Nazionali che hanno unificato i mercati. Oggi in Europa le dimensioni dei mercati nazionali non sono più sufficienti (la prima e la seconda guerra lo hanno dimostrato ampiamente), per cui l'unità politica europea diviene l'obiettivo strategico prioritario dei gruppi imperialistici che agiscono. In questa regione del mondo. Ma a queste esigenze si oppongono le frazioni borghesi meno concentrate e più legate ai mercati locali (commercio, edilizia e alcuni settori della agricoltura) e quelle espresse dai settori industriali a bassa composizione organica e a bassa produttività (tessili e abbigliamento).
E' naturale che l'imperialismo americano utilizzi queste contraddizioni.
Scadenza importante della unità politica europea sarà l'elezione del Parlamento europeo del 1978, trampolino di lancio per una unificazione del diritto commerciale, industriale e finanziario necessario alla libera circolazione dei capitali e delle imprese.
Dalla realizzazione di questo obiettivo dipenderanno in gran parte anche i futuri rapporti tra imperialismo europeo e imperialismo americano. Non a caso, proprio su queste scadenze, si aprono aspre lotte politiche in Francia e Gran Bretagna. Il 1977 sarà decisivo per alcuni aspetti.
I diversi ritmi di sviluppo della C.E.E.
Nel complesso la CEE si è rafforzata rispetto agli U.S.A. ma ciò è avvenuto con una dinamica interna molto differenziata. Facendo 100 il totale delle vendite delle società industriali europee che rientrano nelle prime 400 mondiali, i rispettivi pesi specifici si sono modificati come indicato nella tabella.
Ai due poli estremi troviamo il Regno Unito e la Germania. L'imperialismo inglese nonostante il peso che gli deriva ancora dalla sua storia (primo paese in cui è avvenuta la rivoluzione industriale e primo paese imperialistico nel senso leninista del termine) è in un declino irreversibile iniziato agli inizi del secolo. Il suo declino è molto più grave di quello dell'imperialismo statunitense il quale frena questa tendenza industrializzando nuove regioni, come il Sud e l'Ovest. Ciò per il Regno Unito non è possibile data la limitatezza di territorio e di popolazione. Nei tempi lunghi può svolgere ancora un ruolo mondiale solo all'interno dell'Europa. E' in questo prospettiva, già indicata da Churchill, che nel dopoguerra si sono mosse alcune correnti del conservatori. Ma i legami finanziari con l'imperialismo americano da una parte e le posizioni protezionistiche della maggioranza dei laburisti e dei sindacati dall'altra, rendono travagliato il processo di integrazione dell'Inghilterra all'Europa, ed inaspriscono inevitabilmente la lotta politica delle varie frazioni borghesi.
_ |
1969 |
1975 |
Variazione |
RFT |
24,5 |
29,0 |
+4,5 |
Francia |
16,2 |
19,1 |
+2,9 |
Italia |
7,5 |
6,4 |
-1,1 |
Regno_Unito |
39,0 |
31,5 |
-7,5 |
Olanda |
10,8 |
11,8 |
+1,0 |
Belgio |
1,6 |
2,2 |
+0,6 |
CEE |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
Al polo opposto si situa la Germania, motore dello sviluppo europeo, che aumentando di anno in anno la sua forza diventa necessariamente il centro gravitazionale della unificazione europea. Insieme all'Olanda, che per il suo alto grado di integrazione con la Germania può essere considerata economicamente come un suo Stato federato, tipo Renana o Baden Wurttemberg, la R.F.T. passa dal 35,3% del 1969 al 40,8% superando il R. U.
Divisa in tre Stati alla fine della seconda guerra mondiale e ricondotta ad un ruolo di potenza di secondo ordine sotto la tutela dei Quattro grandi (U.S.A., U.R.S.S., Francia e G.B.) a trent'anni di distanza si ripropone nuovamente come prima potenza europea a cui gli altri Stati volenti o nolenti devono rifarsi. Il "modello Germania" che i dirigenti politici dei governi europei digeriscono a mala voglia è il punto di riferimento per tutta la borghesia imperialistica europea. Fra i due Poli RFT e RU, anche se con rapporti di forza diversi si collocano la Francia e l'Italia, che conducono una politica pendolare sia verso gli U.S.A. (Italia) sia verso il Regno Unito (Francia) cercando il loro spazio di azione
E' in questo contesto che si pone il futuro dei rapporti interni alla CEE e dei rapporti esterni con l'imperialismo americano. E' questa la realtà oggettiva che è presente all'analisi strategica del partito leninista nel prossimo futuro.
("Lotta Comunista" n.75, nov. 1976)
Nuove carte nella politica internazionale
La politica internazionale ha, in generale, una dinamica più rapida, più complessa, più inedita di quella interna. Anche se i rapporti di forza tra i singoli Stati sono, sulla lunga distanza, regolati da tendenze economiche profonde per cui le effettive modificazioni e svolte si possono misurare solo per cinquantenni o addirittura per secoli, il campo delle relazioni internazionali vede in continuazione una serie di cambiamenti e di novità Ciò fa sì che gli accadimenti di politica internazionale si snodino con regolare novità. L'ascesa o la decadenza di uno Stato capitalista si possono osservare nell'ampio arco storico di parecchi cicli economici, indipendentemente dalla sua politica estera. Questa, invece, deve essere seguita giorno per giorno perché se, ad esempio, la decadenza dell'imperialismo inglese è un processo in corso da quasi un secolo che nessun atto politico può arrestare la politica estera che lo Stato inglese svilupperà, o sarà costretto a sviluppare, è un fenomeno da analizzare poiché non è ancora dato ed è ancora tutto da svolgersi.
Certamente, il processo di decadenza rimane come elemento costante di riferimento alla politica estera dello Stato inglese ma ciò non la può spiegare perché questa sarà poi condizionata da tutto quello che avviene nel mondo.
Lo sviluppo ineguale del capitalismo provoca all'interno di ogni singolo Stato modificazioni nei rapporti tra le classi e le frazioni di classe. Da questa base oggettiva si sviluppano i movimenti politici che cambiano gli assetti interni e le istituzioni in ogni singolo Stato. Questa dinamica politica, determinata dallo sviluppo economico e sociale, ha però, in generale, effetti più lenti e meno incidenti di quanto avvenga quando tutti questi processi si sommano a livello internazionale.
Il campo internazionale dei rapporti reciproci tra tutte le forze economiche e sociali registra in modo specifico tutti i movimenti che avvengono all'interno di ogni singolo Stato. Li amplifica e, soprattutto, li combina
La politica internazionale viene ad avere, così, una dinamica particolare.
Un esame di ciò che è avvenuto lo scorso anno ed un preventivo sui problemi che si pongono per l'immediato futuro possono dimostrarlo.
Il settimanale americano "Time" ha definito Carter "l'uomo del 1976", "Le Monde" ha risposto che il 1976 è stato invece "l'anno Hua Kuo Feng" e che occorre attendere il 19 77 come "anno Carter".
Indipendentemente dalla diversità di giudizio, il fatto che il più potente Stato nel mondo e quello più popolato si contendano il primato dell'uomo dell'anno è significativo per quello che Carter e Hua Kuo Feng rappresentano
Negli Stati Uniti sta ormai chiaramente emergendo una linea di politica estera tendente a rettificare il rapporto con l'URSS. In Cina si è rafforzata una linea che vuole portare avanti l'industrializzazione rafforzando i legami con il mercato mondiale. Nei due Stati sono venuti, così, a maturazione processi in corso da parecchi anni e che assumono forme politiche diverse. La loro più stretta interdipendenza dà un colpo di acceleratore alla politica internazionale. Il processo di industrializzazione cinese è in corso da più di due decenni e ha provocato fasi alterne ed acute di lotta politica. Il suo esito e di estrema importanza perché è destinato a mutare i rapporti di forza tra gli Stati nel mondo. Il ritmo di sviluppo della Cina è decisivo nel determinare il sistema degli Stati. Un ritmo rapido porta rapidamente ad una modificazione di questo sistema degli Stati, determinando nuovi schieramenti e, soprattutto, l'instabilità degli schieramenti stessi. Viceversa, un ritmo lento rafforza una maggiore stabilità del sistema degli Stati. La lotta politica incessante che da più di venti anni investe lo Stato cinese è, quindi, un elemento importante nella determinazione della politica estera delle maggiori potenze imperialistiche, dagli USA all'URSS, dal Giappone alla Germania. Non è un caso che un episodio di quella lotta abbia assunto in tutto il mondo una risonanza enorme e sia stato rivestito di significati ideologici deformanti. La "rivoluzione culturale" è stata, proprio per questo, la più colossale montatura ideologica, la più massiccia mistificazione propagandistica che si sia avuta negli ultimi decenni e non tanto perché la lotta politica in Cina si sia rivestita di quei panni, dato che ogni lotta politica in ogni Stato assume la forma di lotta ideologica, quanto perché, per i loro particolari interessi, tutte le potenze imperialistiche l'hanno presentata ed avallata in quei termini, cioè hanno amplificato la tesi dei dirigenti cinesi per i quali in Cina si combatteva una lotta culturale. Come era inevitabile, i reali problemi dello sviluppo cinese dovevano infine emergere ed essere affrontati per tali dalla politica delle potenze imperialistiche.
Finito il dibattito sulla "rivoluzione culturale" si è aperto negli Stati Uniti un dibattito più concreto sulla opportunità o meno di fornire armi sofisticate alla Cina. Il maggiore sostenitore del rifornimento militare alla Cina, James Schlesinger, capo del Pentagono destituito da Ford che appoggiò, nel contrasto, la linea Kissinger, era in visita nella regione proibita del Sinkiang mentre moriva Mao Tse Tung. Nel lutto generale prosegui il viaggio e fu accolto con tutti gli onori. James Schlesinger passò, poi, ad appoggiare Carter che lo sostenne sin all'ultimo come suo candidato alla Difesa contro il candidato dei "liberals" e dei sindacati, Paul Warmke, sino a che fu raggiunto il compromesso su Harold Brown. Carter ha infine imposto Schlesinger all'Energia con il proposito di chiedere al Congresso il rango di ministro a questa carica.
Il riarmo della Cina e una variante della linea Carter di rettifica del rapporto con l 'URSS, della cosiddetta distensione. Riteniamo che sia una carta estrema, che con molta probabilità non sarà usata e che ha più il carattere di minaccia che un disegno preciso. Il fatto, però, che il suo aperto sostenitore sia uno dei massimi dirigenti della Amministrazione Carter è significativo. Nel mazzo di Carter c'è anche la carta Schlesinger. Questo lo sanno a Pechino come a Mosca, ma lo sanno anche a Tokyo. Se l'URSS non vuole una Cina armata dagli Stati Uniti tanto meno la vuole il Giappone.
E qui ritorniamo al problema della industrializzazione cinese. L'ipotetico rifornimento militare americano è proprio un esempio di come la politica internazionale assume una dinamica più rapida e complessa di quella interna. L'apparato militare cinese riflette il grado di industrializzazione della Cina ed è nettamente inferiore alla potenza sovietica. Prima che la Cina possa avere una forza militare che si bilanci con quella sovietica stanziata sul lato asiatico devono passare parecchi anni. Quanti? La risposta, ancora una volta, è nel ritmo, nella velocità di sviluppo industriale.
Introdurre, da parte americana, un salto tecnologico ed una quantità di miliardi di dollari in questo processo di sviluppo significa provocare uno squilibrio di portata incalcolabile. Intanto, significa indebolire l'URSS di colpo e in misura estrema. Per riequilibrare il lato asiatico l'URSS dovrebbe sguarnire il lato europeo con il risultato di permettere una espansione inarrestabile della Germania Federale nell'Europa Orientale.
L'assetto attuale dell'Europa ne uscirebbe sconvolto.
In secondo luogo, significa indebolire il peso del Giappone in Asia e, di riflesso, in Medio Oriente, in Europa e nell'America Latina. Naturalmente il Giappone non rimarrebbe, in quel caso, fermo e si avvicinerebbe all'URSS. Anche l'assetto attuale dell'Asia ne uscirebbe, perciò, mutato profondamente.
Le nostre sono solo supposizioni, ma il fatto che si possano fare queste supposizioni per il semplice motivo che l'eventualità delle armi alla Cina è entrata ormai tra le scelte della politica estera USA dice tutto.
Anche questa è una regolare novità della politica internazionale del prossimo futuro.
("Lotta Comunista" n.77, nov. 1977)
I rapporti molteplici dell'imperialismo USA
La politica estera di ogni Stato riflette i mutamenti interni ed i mutamenti del rapporto di forza tra gli Stati; oltre ad esprimere questi mutamenti oggettivi, essa tende ad adattarvi tutta la sua azione complessiva ed a utilizzarli per migliorare le sue posizioni o per conservare condizioni preesistenti.
Proprio perché l'insieme delle politiche estere dei singoli Stati costituisce un terreno esteso di applicazione di azioni politiche si può dire che esso rappresenti il campo ideale di analisi materialistica.
Su di un terreno così esteso come quello delle relazioni internazionali risulta nitido l'aspetto fondamentale costituito dal rapporto di forza, che per noi marxisti è essenzialmente forza economica poiché la forza politica, diplomatica e militare è proporzionale, in ultima istanza, alla forza economica. Del resto, il fatto che, anche ufficialmente, gran parte delle relazioni internazionali, da quelle bilaterali ai vertici dei capi di Stato, siano occupate dalle questioni commerciali ci conforta nella nostra radicata convinzione.
Il maggiore centro dell'imperialismo ha espresso nell'ultimo anno una linea estera, la cosiddetta linea Carter, di superamento della linea Kissinger teorizzante il congelamento dell'equilibrio USA-URSS. La nuova linea riflette il dato oggettivo per il quale gli ultimi quattro anni vedono un miglioramento della posizione americana in confronto a quella russa. La nostra valutazione è che dalla crisi petrolifera e di ristrutturazione ne siano usciti meglio gli Stati Uniti che l'URSS. Era, quindi, inevitabile che ne avrebbero approfittato giocando maggiormente sulle contraddizioni interne alla sfera d'influenza sovietica ed utilizzando di più la dinamica delle giovani potenze che stanno sorgendo nelle diverse aree in sviluppo.
Il "movimentismo" di Brzezinski contrapposto all'immobilismo di Kissinger, in realtà, non rappresenta altro, poiché quello di Kissinger non è stato un immobilismo in assoluto così come non lo è il movimentismo di Brzezinski. Anche se è troppo presto per verificare di quanto la linea Carter abbia modificato il rapporto USA - URSS, possiamo riconfermare quanto già detto: non è in questo esclusivo rapporto che possono essere individuate le tendenze mondiali in corso.
I rapporti sono molteplici e vedere solo il rapporto USA-URSS è deformante. Ormai le tendenze mondiali dispiegate offrono abbondante materiale a riprova.
La distensione non ha progredito, sono aumentati i punti caldi nel mondo, continua la corsa al riarmo. C'è chi tenta di spiegare questo risultato come effetto della linea Carter la quale, nell'intento di ridimensionare l'imperialismo russo esasperando le sue contraddizioni, finisce con irrigidirlo. La versione cinese, invece, lo ritiene come il prodotto naturale della rivalità tra le due superpotenze alleate a spese del "secondo" e del "terzo mondo".
La nostra interpretazione è ben diversa e lo è perché non assume il rapporto USA- URSS ad esclusiva chiave interpretativa così come non assume tale rapporto ad esclusiva spiegazione della linea Carter.
Gli Stati Uniti vogliono modificare il rapporto non solo con l'Unione sovietica ma anche con la Germania Federale e con il Giappone; ma con queste due ultime potenze il rapporto è, a differenza che con l'Unione Sovietica, tendenzialmente peggiorativo. Nel complesso, la Germania ed il Giappone sono usciti dalla crisi meglio che gli Stati Uniti. L'aspro combattimento monetario in corso, che come minimo è già costato una trentina di miliardi di dollari, è sostanzialmente una lotta difensiva americana. I compromessi momentanei non potranno cancellare, alla lunga, il reale recupero tedesco e giapponese. Se l'indebolimento del dollaro, che favorisce il settore protezionistico americano, nei confronti del marco e dello yen rende meno competitive le merci tedesche e giapponesi favorisce, nello stesso tempo, la esportazione di capitali da parte di Bonn e di Tokyo, esportazione accentuatasi negli ultimi anni e proprio in concorrenza con Washington. Tra un paio d'anni ne vedremo i risultati.
Non l'URSS ma la Germania sta ridiventando il perno centrale dei rapporti internazionali in Europa. E' uscita rafforzata dal confronto con l'URSS e l'Europa Orientale, tramite l'Ostpolitik, e dal confronto con la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia. Di conseguenza ha aumentato la sua presenza finanziaria, economica e politica nell'intera Europa, oltre che estenderla negli altri continenti. E' diventata la metropoli imperialistica che porta avanti una linea liberistica di importazione di beni di consumo e di esportazione di beni di produzione e di capitale più favorevole ai giovani capitalismi, comunque più favorevole di quanto possa esserlo quella delle altre metropoli. Potendo disporre della mobilità della forza-lavoro straniera è la metropoli che più avanti ha portato la ristrutturazione del suo apparato produttivo aumentando la produzione di macchinari da esportare e riducendo la produzione di beni di consumo.
Ciò ha provocato una accentuazione delle divisioni nelle frazioni borghesi in Francia sul problema del rapporto con la Repubblica Federale Tedesca e sulla "force de frappe". Gli schieramenti elettorali degli anni precedenti sono saltati all'aria e si è verificata una rottura nell'alleanza opportunista tra il PCF e il PS, sostenuto da "Le Monde". La linea Barre rappresenta il tentativo di una soluzione intermedia che si appoggia agli Stati Uniti ma che non si scontra con l'attuale linea tedesca di un equilibrio con gli USA, tendenzialmente favorevole alla Germania. La linea Barre-Giscard del "liberismo organizzato" può essere vista come un semiprotezionismo contrattato con la RFT e gli USA, benevolmente accettato da questi perché contrasta il "liberismo" non organizzato dei tedeschi. Su posizioni protezionistiche, invece, si schierano i gollisti e il PCF. Se la Germania diventa il perno centrale dell'Europa. il Giappone si pone sempre più al cuore dell'epicentro asiatico, ossia della zona fondamentale delle relazioni e degli equilibri mondiali, la zona dove avvengono ed avverranno gli spostamenti più dirompenti e decisivi.
A prescindere dalle piccole potenze, in Asia, si confrontano e si scontrano cinque grandi e medie potenze: in ordine di forza "asiatica", Giappone, Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina ed India. Salvo il legame USA-Giappone, legame molto precario, nessuna di queste potenze è legata da una alleanza. L'Asia è il regno del multipolarismo e, possiamo aggiungere, del pendolarismo.
é come se in Europa non esistessero le alleanze NA TO e Patto di Varsavia e vi fosse solo una alleanza bilaterale e circoscritta tra USA e RFT. Inevitabilmente gli equilibri sarebbero precari e mobilissimi come lo sono in Asia.
Se si tengono presenti tutti questi rapporti molteplici delle potenze imperialistiche si possono inquadrare meglio i punti caldi dove le centrali imperialistiche operano sui contrasti delle piccole potenze locali e delle medie potenze emergenti.
Il Medio Oriente e il Corno d'Africa ne sono l'esempio più evidente. Questi punti caldi non possono essere spiegati solo con il rapporto USA- URSS o, volendolo allargare, con il contrasto NATO-Patto di Varsavia. Solo i rapporti differenziati tra le metropoli imperialistiche e la completa libertà di azione delle potenze operanti nell'epicentro asiatico possono spiegare la dinamica nei punti caldi. Nel calderone Medio Oriente e nel Corno d'Africa esse rovesciano la loro parziale autonomia e creano schieramenti mobili di alleanze, che ricordano quello che nell'800 e nel primo '900 avvenne in Europa. Se ciò si ripetesse per altri scacchieri del mondo si entrerebbe in un periodo di schieramenti mondiali instabili e soggetti a svolte repentine, preludio, come in altre occasioni storiche, di guerra generalizzata mondiale e non più localizzata, ossia guerra mondiale.
I conflitti interimperialistici, oggi condotti in varie forme, troverebbero inevitabilmente il punto di coagulo sul piano militare globale.
Non riteniamo che, per ora, vi siano le condizioni generali per ciò, dato che gli interessi comuni tra le potenze occidentali e il Giappone sono prevalenti e sono determinati dalle possibilità offerte dallo sviluppo capitalistico nelle nuove aree. Di conseguenza questa prevalenza di interessi comuni crea un equilibrio militare troppo favorevole allo schieramento USA-CEE-Giappone e troppo sfavorevole allo schieramento russo; un equilibrio, o per meglio dire, uno squilibrio che impedisce uno scontro militare con l'URSS.
Solo una nuova alleanza contratta dall'URSS con un'altra grande potenza potrebbe alterare questa situazione e decretare la fine degli attuali schieramenti. Solo il futuro dell'Asia potrà rispondere a questa ipotesi.
("Lotta Comunista" n.89, nov. 1978)
Rafforzamento tedesco e riflessi francesiIl recente vertice franco-tedesco ha delineato l'inizio di un anno che vedrà accrescere il ruolo della Germania Federale come perno dei rapporti europei. In primavera le elezioni francesi e in estate il summit economico di Bonn riproporranno inevitabilmente e con vigore questo ruolo che, per calcolo politico, o per carenza analitica, la pubblicistica italiana tende a non considerare.
Anche in riferimento a queste scadenze, la lotta politica in Francia, con l'ampio rimescolamento delle carte che ha registrato nell'ultimo trimestre, riesce sempre più con difficoltà a nascondere che i problemi interni dibattuti hanno un riferimento costante alle modifiche intervenute o in corso tra l'imperialismo francese e l'imperialismo tedesco. Il rafforzamento della Germania costringerà a tracciare ancor più chiaramente i contorni internazionali dei problemi francesi.
Apparentemente il rapporto tra Germania e Francia, rapporto decisivo per l'equilibrio del sistema degli Stati in Europa, sembra un rapporto tra pari potenze. In realtà è un rapporto tra una forza ed una debolezza. Tra il PNL tedesco e quello francese vi è uno scarto di 1,3 volte a 1 a favore della Germania. Perché, malgrado lo scarto non sia molto ampio, il rapporto di forza è così favorevole alla Germania? Perché, se il rapporto economico è di 1,3 a 1, il rapporto industriale è ben più distanziato sia in quantità che in qualità. Esso è di 1,7 a 1 a favore della Germania, ossia la capacità produttiva industriale tedesca è del 70% superiore a quella francese. Questo in quantità. Vediamo in qualità. Negli ultimi sette anni, il peso industriale tedesco è passato dal 12,5% all'11,8% della produzione industriale OCSE, mentre il peso francese è passato dal 7,4% al 7,3%, cioè è riuscito a conservarsi. La Francia avrebbe dovuto migliorare il rapporto reciproco ed invece lo ha peggiorato. Perché? Perché non è riuscita a ristrutturarsi come la Germania.
Già nel 1970 la struttura industriale tra i due metropoli presentava notevoli differenze. La trasformazione dei metalli rappresentava il 38% della produzione industriale tedesca, contro il 20% di quella francese, e le lavorazioni dei tessili solo il 7%, contro il 10%. In questi ultimi anni la differenza è aumentata. La Francia è costretta al protezionismo, la Germania al liberismo; ed il contrasto esplode in seno alla CEE in occasione del rinnovo dell'accordo Multifibre.
La Germania esprime, di conseguenza, una potenza di esportazione che dà, nuovamente, un rapporto di 1,7 a 1 a sfavore della Francia. Il risultato lo vediamo nella bilancia commerciale del 1977: la Germania, malgrado un incremento industriale di solo il 2,5%, ha un attivo di 17,9 miliardi di dollari, la Francia, con un più sostenuto 3,5%, registra ancora un passivo di 2,4 miliardi di dollari, secondo la recente stima di "Le Monde"). Altri lo stimano minore.
La Francia, come l'Italia, è costretta ad espandere la produzione industriale e l'esportazione per non decadere. Non a caso il padronato francese, come quello italiano, è espansionista mentre quello tedesco è deflazionista. Il dibattito sulle locomotive trainanti riflette, da questo punto di vista, un aspetto decisivo del rapporto tra la metropoli francese e quella tedesca. La locomotiva tedesca, anche a passo ridotto, guadagna terreno sul vagone francese poiché ha ruote industriali e stantuffi finanziari più solidi.
Anche il mito "terzomondista" dell'imperialismo francese viene, così, progressivamente logorato. Non solo la Francia fornisce circa un terzo in meno di quanto versa la Germania, di cosiddetti aiuti ai paesi in via di sviluppo, ma addirittura si batte per erigere barriere protezionistiche sui manufatti provenienti da quei paesi.
Ancora più netta si delinea, di fronte all'incalzare dei fatti, la divaricazione tra le ideologie e le strategie imperialistiche verso le aree in sviluppo capitalistico tra la metropoli francese e quella tedesca.
Venti anni fa noi individuammo, sottolineando più di Bordiga la tendenza ed i ritmi, nella Germania che stava creando il MEC l'embrione di un terzo blocco tra gli USA e l'URSS. Il blocco CEE, in realtà, è ancora un processo politico dall'incerto esito, ma la Germania agisce in quanto reale motore propulsivo soprattutto verso le zone a giovane capitalismo. Doveva venire proprio da questo suo ruolo oggettivo la conferma alle nostre tesi sulla diffusione del capitalismo a scala mondiale.
Nel discorso, del settembre scorso all'Assemblea dell'ONU, del ministro degli Esteri Censher troviamo espresse in termini chiarissimi, e tanto espliciti da non essere riportati dalla grande stampa italiana sempre intenta a cucinare manipolazioni, le linee di tendenza dell'imperialismo tedesco.
Sette punti possono riassumere questa strategia:
1) "Per recuperare un incremento duraturo i paesi industriali hanno bisogno anche di forze motrici che escano da uno sviluppo accelerato". In altri termini: le metropoli imperialistiche, per conservare un ritmo duraturo, hanno bisogno di un ritmo accelerato dei giovani capitalismi.
2) "L'ordinamento economico mondiale" deve basarsi su un "incremento proporzionalmente più forte nei paesi in fase di sviluppo" e su un "incremento stabile nei paesi industriali".
E' qui riconosciuto che il sistema economico mondiale, il sistema dell'imperialismo unitario, per conservare l'equilibrio e per non cadere in una crisi, deve basarsi su di un incremento proporzionalmente più forte dei giovani capitalismi, cioè sull'ineguale sviluppo del capitalismo.
Intellettuali di tutte le risme si soddisfano con i libri sulla presunta crisi del marxismo che si scrivono addosso. Noi, più modestamente, segnaliamo l'autorevole conferma della marxistica legge dell'ineguale sviluppo che viene da uno che di capitalismo se ne intende! Difatti, se non il cervello degli opportunisti ma il muscolo produttivo dei giovani capitalismi avesse un ritmo più lento ed omogeneo alle metropoli in queste vi sarebbe crisi.
3) "Dobbiamo lasciare aperti e continuare ad aprire i mercati dei paesi industriali alle esportazioni di prodotti finiti dei paesi in fase di sviluppo".
Questa è la tesi: l'equilibrio di ineguale sviluppo del capitalismo mondiale è possibile solo con il liberismo di importazione di manufatti dei paesi in sviluppo. L'interscambio industriale è il settore più dinamico del commercio internazionale. Perciò, per consentire il forte ritmo dei giovani capitalismi, deve essere lasciato libero. Altrimenti cala il ritmo dei paesi in sviluppo e ciò porta le metropoli alla depressione.
4) "Libero scambio ed una trasformazione strutturale su scala mondiale, al posto di dirigismo e di protezionismo, sono le condizioni irrinunciabili del progresso".
L'importazione di manufatti provoca una nuova divisione internazionale del lavoro ed una ristrutturazione mondiale dell'apparato produttivo. Protezionismo all'interno e dirigismo nel commercio internazionale sono strumenti che le metropoli possono usare per arrestare la ristrutturazione e per combattere i rivali. Ma ciò arresta lo sviluppo mondiale e provoca crisi nelle metropoli stesse.
5) La Germania difende la libertà di commercio anche se ciò provoca ristrutturazioni per la sua economia. Essa è al primo posto mondiale nell'importazione procapite di prodotti finiti e semifiniti dai paesi in sviluppo.
Infatti, la Germania si rafforza in questo processo mondiale perché, importando manufatti a basso livello tecnologico, sposta la sua produzione industriale su un più alto livello tecnologico.
6) Occorre "aumentare il trasferimento di risorse nei paesi in fase di sviluppo".
La ristrutturazione comporta esportazione di capitali nelle industrie dei paesi in sviluppo. Nel 1977 questo export di capitali è stato di 77 miliardi di dollari. Ciò ha contribuito al forte ritmo dei giovani capitalismi.
7) Questo processo mondiale indebolisce l'imperialismo russo. L'OCDE assorbe i tre quarti delle esportazioni dei paesi in sviluppo, il COMECON solo il 4%. Perciò non beneficia dello sviluppo mondiale.
Con questa strategia, determinata da una situazione oggettiva, che abbiamo sintetizzato nella sua essenza, l'imperialismo tedesco si trova avvantaggiato verso i giovani capitalismi nei confronti dei suoi concorrenti. Di ciò si discute e si discuterà nelle capitali europee.
("Lotta Comunista" n.90, nov. 1978)
Scosse asiatiche sugli equilibri mondiali
Consuntivi economici dell'anno passato e previsioni dell'anno iniziato si intrecciano nel commento a livello internazionale. Il naturale poiché da una serie di risultati dipendono anche le potenzialità di quelli futuri ed, infine, dagli uni e dagli altri dipendono i rapporti tra gli Stati imperialistici.
L'andamento dell'economia è quindi essenziale per comprendere il ciclo mondiale nei suoi aspetti strutturali e nei suoi aspetti politici.
" Le Monde ", nel suo consueto bilancio, tira alcune conclusioni interessanti, che andranno ovviamente confrontate con altre fonti. Il 1978 avrebbe segnato, per la produzione industriale dell'OCDE, un ritmo del 4%, che è leggermente accelerato in confronto al 3,7% del 1977 e che è vicino al ritmo del 4,2% del periodo 1965-1975. La produzione dei sette maggiori paesi (USA, Giappone, Germania Federale, Canada, Francia, Gran Bretagna, Italia) avrebbe, con un tasso di incremento del 4,5%, superato addirittura il tasso medio del periodo 1965-1975 riguardante i paesi stessi. Ciò permette al Group du Rond Point, su " Le Figaro ", di prevedere per il 1979 tre condizioni più favorevoli per una ripresa mondiale che superi il 1973. A prescindere dalle valutazioni espansive, molto diffuse nelle fonti francesi e tedesche, si può ritenere che la ripresa nelle metropoli abbia superato la crisi energetica e che, di fatto, non si debba più parlare di ripresa ma di ciclo ascensivo entrato nel quarto anno di durata. Eventuali, anche poco probabili, ricadute nel 1979 segnerebbero, caso mai, un altro ciclo e non più il punto basso del 1975.
La ristrutturazione dell'apparato produttivo mondiale è ormai in piena attuazione anche se, come era prevedibile, fa emergere punti di crisi in alcuni settori, quali il siderurgico, dove la sovrapproduzione delle metropoli s'intreccia con la creazione di impianti nelle zone in sviluppo. Del resto un processo mondiale di ristrutturazione, come è avvenuto già in altri periodi, abbraccia un arco di tempo che supera il decennio e, sotto certi aspetti, si può dire non sia mai concluso se, come dice Marx, il modo capitalistico di produzione rivoluziona continuamente le forze produttive. Per quanto riguarda, invece, il punto critico di tale processo, quello che noi abbiamo definito come crisi di ristrutturazione, esso ha scadenze temporali e modalità finite per le quali si può dire che se non è superato si determina sul mercato mondiale una vera e propria crisi di accumulazione con tutte le caratteristiche e le conseguenze ad essa inerenti.
Per quanto si possa sofisticare sui caratteri della crisi e sulle sue conseguenze sociali rimane sempre un dato fondamentale da verificare ed è quello della accumulazione o riproduzione allargata del capitale.
Tenendo presente questo dato oggettivo è da qui che si deve partire per analizzare il ciclo mondiale. La diffusione del capitalismo nei paesi in via di sviluppo lo caratterizza in generale. La ristrutturazione a livelli differenziati che porta al rafforzamento di alcune metropoli e all'indebolimento di altre, trova sullo sviluppo del mercato mondiale la possibilità di mantenere il ritmo della produzione industriale.
Ed è su questi ritmi, e in particolare su quelli americano, giapponese e tedesco, che la politica internazionale scandisce i suoi tempi e le sue contorsioni.
Secondo un modello OCDE, citato da L. Izzo, il meccanismo internazionale di trasmissione delle variazioni di domanda darebbe i seguenti risultati: per ogni variazione di un punto del PNL o PIL negli Stati Uniti si ha come effetto 0,39 punti in Francia, 0,40 in Italia, 0,37 nel Regno Unito e 0,47 nell'Europa continentale. Espansione o recessione statunitense si ripercuotono in quella misura. Per ogni variazione di un punto nella Germania occidentale gli effetti sono, invece, di 0,48 punti in Francia, 0,46 in Italia, 0,27 nel Regno Unito e 0,56 nell'Europa continentale. Come si vede il ritmo tedesco ha un effetto in Francia e in Italia più forte di quello statunitense il quale, a sua volta, si ripercuote maggiormente sul Regno Unito.
Tempo fa venne lanciata la teoria delle tre locomotive dalla quale emergeva che quella americana tirava mentre quella tedesca frenava. Con la teoria dell'azione concertata quella delle tre locomotive cadde in disuso. Il modello tedesco si impose perchè il basso ritmo ha frenato l'inflazione in Germania proprio quando negli Stati Uniti è risalita al tasso dell'8-10%. La svalutazione del dollaro di circa un decimo nei confronti del marco nel corso di un anno, ha messo in risalto il collegamento tra i ritmi di sviluppo e le bilance dei pagamenti ed ha scatenato una battaglia monetaria vinta dalla Germania, la quale è, però, lontana dall'aver vinto la guerra economica di lunga durata. Comunque, con la costituzione dello SME, un atto è chiuso.
Il modello tedesco viene posto in prima fila e, questa volta, con ritmo sostenuto e bassa inflazione. Solo il 1979 potrà dire se la metropoli tedesca riuscirà dove non è riuscita quella americana. Senz'altro i suoi effetti peseranno di più sull'Europa continentale e sulla Francia e sull'Italia che finiranno con il collegarsi ancor più all'area tedesca. Sotto questo aspetto, la metropoli statunitense ha già perso alcuni colpi come potere d'attrazione su quella francese e su quella italiana. Secondo il francese Jean Denizet proprio come risultato di una accelerazione in Europa e di un rallentamento in America il ritmo si eguaglierà attorno al 4 o 5 per cento da una parte e l'altra dell'Atlantico.
Non a caso vengono indicate le coste dell'Atlantico. Al vertice di Guadalupa, tra la prima, la quarta, la quinta e la sesta potenza mondiale, e dove la Germania ha sanzionato con il suo ingresso nel direttorio il suo rafforzamento pluridecennale e la sua vittoria del 1978, il problema di fondo era costituito dalle coste del Pacifico. Non a caso, ancora, la terza potenza mondiale, la potenza puramente asiatica, il Giappone non ha partecipato al vertice.
L'Asia è stata al centro delle divergenze. Quello che noi abbiamo definito l'epicentro asiatico comincia a pesare enormemente sull'Europa. In Asia il movimento tra le potenze, movimento non imbrigliato da alleanze condizionanti, sta determinando scossoni, guerre tipo quelle indocinesi, alleanze di fatto e contingenti che si ripercuotono inevitabilmente in Europa. Le coste del Pacifico sono lambite dal mare agitato dell'Asia tanto che in Europa, in particolare in Germania e in Francia, l'interrogativo riguarda le ondate di rimessa.
Alcune correnti politiche sostengono che deve essere appoggiata, economicamente e militarmente, la Cina per stringere a tenaglia la Russia. Ma sono in minoranza, specie da quando la carta cinese viene giocata dal Giappone e dagli Stati Uniti e da quando la Russia ha dimostrato di avere la possibilità di giocare, a sua volta, sul tavolo del Sud Est asiatico.
Abbiamo, in altre occasioni, sostenuto che la Russia anche se indebolita relativamente, ha forza sufficiente per non essere stretta in una morsa. Inevitabilmente può riversarsi sulle contraddizioni regionali. Al limite, se i contrasti tra USA, Giappone e CEE dovessero accentuarsi, può giocare la carta esplosiva dell'Oceano Indiano. Sarebbe il limite della rottura perché l'Oceano Indiano è una zona, per il rifornimento energetico, vitale per il Giappone il quale interverrebbe direttamente complicando ulteriormente la situazione. La maggioranza delle correnti dell'imperialismo europeo paventa una tale complicazione, così come paventa un irrigidimento russo nell'Europa orientale che restringerebbe gli spazi commerciali e finanziari, specie nella Germania orientale, acquisiti dall'Ostpolitik. Essa tende a frenare l'uso della carta cinese da parte degli Stati Uniti ma non può far granché per frenarlo da parte del Giappone.
La questione è, però, un po' più complessa di quanto lo sia la già complicata discussione. Lo è tanto quanto lo è ogni equilibrio di potenze in un sistema di Stati. Esso non può essere alterato senza che una reazione di imprevedibili conseguenze si determini in ogni punto del sistema. Ogni equilibrio di potenze è, in fondo, il risultato dello sviluppo di mille forze economiche operanti sul lungo periodo. L'iniziativa politica degli Stati parte da questo dato di fatto e si muove dentro di esso. Ma
quando lo sviluppo economico si accelera, come è avvenuto e sta avvenendo nel bacino del Pacifico, si giunge ad un punto di accumulo in cui il precedente equilibrio viene rapidamente scosso ed alterato. Ciò è in corso in Asia ed ha ripercussioni nelle altre parti del mondo, dove i mutamenti sono più lenti e nel complesso si manifestano con semplici movimenti.
Lo sviluppo del Giappone lo ha spinto in una espansione imperialistica in Asia e sul vasto mercato cinese. L'alleanza militare con gli Stati Uniti è, per sua natura, così fluida da non poter condizionare in alcun modo il Giappone. Infatti dovrebbe proteggere il Giappone da un attacco russo che non vi può essere perché la Russia non ha la forza di attaccare il Giappone. Potrebbe avere possibilità se la Russia avesse alleata la Cina, ma non esistendo tale possibilità l'alleanza nippo-americana, nata per legare le mani al Giappone, è poco più di un pezzo di carta perché le mani non gliele lega. Il gioco multipolare giocato per tanti anni in Asia dagli Stati Uniti oggi è in mano anche al Giappone. Se il Giappone gioca la carta cinese anche gli Stati Uniti devono giocarla.
Il 1978 è stato effettivamente l'anno chiave perché tutte queste tendenze sono emerse chiaramente. Al trattato cino-giapponese, vero e proprio atto di svolta, ha corrisposto di contrappeso la creazione dello SME, ossia il tentativo di un raggruppamento europeo attorno all'alleanza franco-tedesca. Gli Stati Uniti cercano di giocare sui due tavoli, anche perché sui due tavoli, quello dell'Atlantico e quello del Pacifico, si trovano le direttrici di espansione economica e a circa un terzo è valutata la presenza giapponese nell'economia californiana.
Alcuni parlano di un blocco del Pacifico in atto, con perno sul Giappone e con contorno cinese e terzomondista. Altri invitano gli USA ad un blocco Atlantico. Il ritmo tedesco potrà dare fiato a queste speranze, anche per risospingere verso l'Asia l'orso russo. Ma le steppe, i deserti, le pianure e gli oceani dell'imperialismo a ben altre forze danno fiato.
("Lotta Comunista" n.101, gen. 1979)
I conflitti nell'epicentro asiatico:La guerra cino-vietnamita ha dimostrato ulteriormente, rapidamente ed ampiamente che l'Asia è l'epicentro delle tensioni provocate dalla competizione tra le potenze imperialistiche e dall'ascesa dei giovani capitalismi.
Vecchie e nuove potenze si confrontano in questo epicentro, tutte ne sono coinvolte, tutte sono costrette a prendere posizione.
Linee di politica internazionale, che solo l'analisi marxista è riuscita da tempo ad individuare e decifrare, sono costrette a rivelarsi allo stato puro. Ideologie, come quelle di mascherare come socialiste società capitalistiche-statali, che nel loro verbalismo riescono a riprodursi per anni, di colpo sono smantellate dai fatti.
Le guerre, continuazione della politica con altri mezzi come insegna Clausewitz, costringono a prendere posizione, a lasciare finalmente il can nell'aia, a buttare giù la maschera. Le cannonate mostrano tutta la vacuità dei dottori sottili e le furberie sono spazzate via dai carri armati. Non è più tempo di travestimenti, è tempo di divise.
Così il PCI che alla sera si addormenta travestito da Arlecchino con le toppe della "unità nella diversità", al mattino si sveglia con la divisa del caporale russo lustrato a nuovo.
Così gli "atlantici" Giscard e Schmidt approfittano dell'occasione per attaccare la linea statunitense della "carta cinese", dimostrando nei fatti e in parole chiare che l'imperialismo europeo, come da anni andiamo analizzando, è tutto meno che una semplice colonia americana.
Si potrebbe continuare citando partiti e correnti politiche, vecchi e nuovi Stati, dal Giappone all'India, si potrebbe persino perdere il tempo per vedere come si è rimescolato il mazzo delle carte dei propagandisti della "rivoluzione culturale cinese" e della "guerriglia" vietnamita.
Ma piuttosto che sporcarsi le scarpe con tanta immondizia è meglio proseguire sulla lunga e pulita strada maestra del marxismo.
Ne "Lo sviluppo del capitalismo in Russia", pubblicato nel 1899, Lenin tratta, nel capitolo riguardante la formazione del mercato interno, il "significato delle regioni periferiche". Il titolo del paragrafo "Mercato interno o mercato estero?" è già significativo di come venga impostato il problema della espansione del mercato interno. Dice Lenin che le grandi fabbriche "che si sviluppavano con grande rapidità, non potevano più accontentarsi delle precedenti dimensioni del mercato, e cominciarono a cercarsi un mercato più lontano tra la nuova popolazione che colonizzava la Nuova Russia, l'Oltrevolga sud-orientale, il Caucaso settentrionale, poi la Siberia, ecc.".
"Così, sorge naturalmente una domanda: ma dov'è la linea di confine tra il mercato interno e il mercato estero? Prendere il confine politico dello Stato sarebbe una soluzione troppo meccanica; e sarebbe poi una soluzione? Se l'Asia centrale è mercato interno e la Persia mercato estero, come considerare Kiva e Buchara? Se la Siberia è mercato interno e la Cina mercato estero, come considerare la Manciuria? Simili questioni non hanno grande importanza. L'importante è che il capitalismo non può esistere e svilupparsi senza estendere continuamente la sfera del suo dominio, senza colonizzare nuovi paesi e trascinare vecchi paesi non capitalistici nel turbine dell'economia mondiale. E questa particolarità del capitalismo si è manifestata e continua a manifestarsi con grandissima forza nella Russia posteriore alla riforma" .
Per Lenin, anzi, la Russia "in conseguenza dell'abbondanza di terre libere ed accessibili alla colonizzazione nelle sue regioni periferiche, si trova in condizioni particolarmente vantaggiose rispetto ad altri paesi capitalistici".
Il processo di formazione del mercato presenta lo sviluppo del capitalismo in profondità e lo sviluppo in estensione.
La contraddizione in Russia, precisa Lenin, è duplice: lo sviluppo in profondità viene ritardato dallo sviluppo in estensione nelle regioni periferiche e, nello stesso tempo, lo sviluppo complessivo viene rallentato poichè, se non avesse la possibilità di estendersi, il capitalismo russo dovrebbe rapidamente spianare la via nell'agricoltura.
Però "tale rallentamento dello sviluppo del capitalismo equivale a preparare un suo sviluppo ancora maggiore e più ampio nel prossimo futuro".
In queste tesi del 1889 di Lenin vi è già la strategia del 1905 e del 1917.
L'espansione del capitalismo russo nell'area asiatica, analizzato da Lenin, può essere considerato, nel quadro complessivo dell'economia mondiale, come uno sviluppo continentale che marcia per "linee interne" secondo una direttrice euroasiatica.
Le ondate rivoluzionarie del 1905 e del 1917 nella Russia europea non possono che imprimerle un ritmo più rapido poichè sotto l'aspetto economico, esse rappresentano uno sviluppo in profondità del capitalismo, come giustamente Lenin ha sempre sostenuto contro chi pensava di edificare una economia socialista nazionale senza l'apporto della rivoluzione proletaria nell'Occidente industrializzato. Nella strategia di Lenin la rivolta dell'India e della Cina è uno strumento per strangolare le metropoli imperialistiche occidentali e non un surrogato alla mancata rivoluzione europea.
Come dimostrammo alcuni anni fa, in uno studio sulla sua concezione della rivoluzione cinese, Lenin è un grande stratega marxista non perchè traccia la via della rivoluzione proletaria ma perchè la poggia su di una solida base di analisi scientifica dello sviluppo del capitalismo mondiale e, in particolare, in Asia.
La strategia di Lenin non è fallita perchè è mancata la rivoluzione proletaria internazionale. Questa era solo un aspetto della strategia ossia il tentativo di cogliere in Russia la rottura dell'anello più debole della catena imperialistica per accelerare un processo mondiale di maturazione delle contraddizioni in occidente ed in Oriente. Restringere la strategia di Lenin ad una sola contraddizione è farne una caricatura e non riescirne a vedere la dimensione mondiale. Dallo studio dell'imperialismo Lenin ricava la strategia per l'Occidente, per l'Oriente per l'area di congiunzione costituita dall'impero russo euro-asiatico.
Il problema di fondo oggi, per noi, è di vedere come la rivoluzione nell'area di congiunzione, impedita a divenire proletaria e internazionale nell'Occidente, ha dato una spinta all'estensione del capitalismo in Oriente e ha accumulato in quel continente le contraddizioni che vanno esplodendo.
L'Oriente, da un secolo, è investito da un processo di espansione capitalistica che marcia per "linee esterne" e che si irradia dal bacino del Pacifico, come Marx previde studiando la California e come Lenin riconsidera, a distanza di cinquant'anni, affrontando il ruolo della guerra russo-giapponese che provoca la crisi rivoluzionaria del 1905 in Russia.
Le due spinte di espansione del capitalismo, quella "interna" e quella "esterna", hanno posto l'Asia, dall'inizio del secolo, nella estrema instabilità degli equilibri e da allora le guerre si sono succedute alle guerre e le rivoluzioni democratico-borghesi per la formazione di nuovi Stati hanno contrassegnato tutto questo periodo. E' una epoca che dura da decenni ed altri decenni durerà. Il giudizio di Lenin, che ispirò le migliori pagine di Trotsky, secondo il quale il mondo era entrato in una epoca di guerre e di rivoluzioni, trova in Asia la più clamorosa conferma e riempie di ridicolo e di disprezzo ogni sostenitore della "distensione" e della "coesistenza pacifica", ossia ogni sostenitore della democrazia imperialistica.
Anche se ci limitiamo al periodo che va dal 1945 ad oggi e se consideriamo solo i conflitti maggiori, registriamo in Asia, in poco più di trent'anni dalla fine della seconda guerra mondiale imperialistica, ben quattordici guerre con circa sette milioni e mezzo di morti!
Sono pochi gli anni in Asia che non hanno vista una guerra e dei grandi Stati presenti solo il Giappone, sconfitto e indebolito, non è intervenuto direttamente.
E' come se in Europa, salvo la Germania, tutti gli Stati fossero scesi in guerra nello stesso periodo.
Già questi dati sommari ci danno l'idea di come nell'area asiatica le molteplici tendenze dello sviluppo capitalistico e la violenza della concorrenza imperialistica hanno incontrato i loro appuntamenti storici.
Lo sviluppo analizzato da Lenin porterà all'accumulo di contraddizioni che sfoceranno nella Rivoluzione di Ottobre, ossia ad uno sviluppo in profondità con il capitalismo di Stato diretto dalla dittatura proletaria in funzione di un atteso processo rivoluzionario in Occidente. Mancando questo, lo sviluppo del capitalismo in estensione non poteva di certo arrestarsi, anzi, si sarebbe accelerato con l'intensa industrializzazione spinta dal capitalismo statale a sovrastruttura staliniana. Sotto questo aspetto, il periodo staliniano della industrializzazione forzata, anche se discutibile nei suoi effettivi risultati, può essere visto come una spinta del capitalismo in estensione nell'area asiatica. L'analisi dei piani quinquennali, che già altre volte abbiano fatta, dimostra, appunto, lo scontro tra le tendenze alla industrializzazione sul lato occidentale dell'URSS (sviluppo in profondità) e le tendenze alla industrializzazione sul lato orientale (sviluppo in estensione).
Comunque, lo sviluppo sul lato asiatico non si arresta ma, anzi, prosegue nell'arco di un cinquantennio.
Esso ingloba, oltre alla Siberia, l'estremo Oriente sovietico e la Mongolia; se la Manciuria non diventa un "mercato interno " dell'URSS è perchè il Giappone, polo importante della "linea esterna" dello sviluppo capitalistico in Asia, ha più forza imperialistica per impedirlo e per annettersela.
Contro l'acquisizione della Manciuria da parte dell'imperialismo giapponese più che l'imperialismo russo, impotente, si muoverà l'imperialismo statunitense, l'altro polo concorrente della "linea esterna" dello sviluppo capitalistico in Asia irradiatosi dal bacino del Pacifico.
Soggetta a tutte queste spinte, che si esercitano addirittura sul suo vecchio territorio imperiale, la Cina, entrata nella fase di sviluppo capitalistico differenziato nelle sue regioni, è trascinata in un ciclo di guerre imperialiste e di guerre civili che culminerà nel 1949.
L'unificazione della Cina confermava uno dei punti della strategia leninista del 1917: il balzo capitalistico in Asia.
L'unificazione politica della Cina, garanzia di una unificazione statale estesa alla Manciuria, veniva così a costituire un presupposto per il futuro accentuarsi degli squilibri in Asia. Conclusa la guerra imperialistica del Pacifico, con la sconfitta del Giappone, si era aperto un periodo di supremazia statunitense in Asia non scalfita dalla avanzata russa nell'area che vedeva ormai un "vuoto di potenza" riempito dall'imperialismo vincitore. Se vi fu un periodo nel quale l'URSS poteva divenire una consistente potenza asiatica questo fu negli anni '50, ma l'URSS non ebbe la forza economica necessaria per cogliere una occasione unica.
Passato il periodo, inevitabilmente sarebbe riemerso il Giappone trascinando tutta una serie di giovani capitalismi e sarebbe emersa la Cina riunificata. La questione avrebbe riguardato più gli Stati Uniti che l'URSS poichè erano i primi a dover cedere terreno, come è avvenuto in Indocina, e non la seconda che di terreno non ne aveva acquistato ed era stata costretta a cercare di mantenere quello che già aveva.
L'espansione in Asia era stata, in definitiva, quella americana e non quella russa. Era prevalsa la "linea esterna" su quella "interna".
Anche la guerra di Corea non segnava una inversione di tendenza.
Occorre attendere sino agli anni '60, con la ripresa del Giappone, la guerra di Indocina, lo sviluppo dell'area asiatica, per registrarla.
Il ritmo di industrializzazione diventa impetuoso, uno dei più alti del mondo e segue il "modello giapponese". La Cina ne è sconvolta di nuovo. Le varie frazioni, anche regionali, del suo capitalismo si dilaniano in una lotta tra un modello autonomo di accumulazione ed un modella giapponese, che ora prevale. L'apertura del mercato cinese ai grandi gruppi internazionali, ossia una addizione alla accumulazione interna, svolge inevitabilmente gli equilibri interni e gli equilibri esterni nel sistema degli Stati.
Inevitabile che la rottura degli equilibri venga regolata con un nuovo ciclo di guerre.
La prima guerra cino-vietnamita rientra nel quadro generale delle lotte tra le grandi potenze imperialistiche. C'è, di certo, la tendenza alla unificazione indocinese ad opera del Vietnam, tendenza resa necessaria per la creazione di un mercato sufficientemente ampio per impedire la stagnazione e che, come tale, rappresenta un progresso per l'allargamento delle forze produttive e di un moderno proletariato indocinese.
Ma questa tendenza, oltre ad esprimersi politicamente nella creazione di uno Stato indocinese, si inserisce nella politica internazionale e nel sistema di Stati del Sud-est asiatico e dell'Asia in generale.
Dati gli attuali squilibri essa non può sfuggire al gioco delle alleanze internazionali e, difatti, in poco tempo si collega in alleanza all'imperialismo russo e, in questo rapporto, viene manovrata in funzione anticinese.
La formazione di un grande Stato indocinese, ad opera del Vietnam, può essere in prospettiva un fattore di sviluppo delle forze produttive nel Sud-est asiatico ed un acceleratore della crisi asiatica, ma intanto nell'immediato non può essere un fatto che si inserisce senza provocare uno scontro militare. La Cina cerca di impedire la formazione di uno Stato indocinese alleato alla URSS. Le altre potenze giocano, in vario modo, su questa questione che diventa un nodo inestricabile.
La questione dell'unificazione indocinese, pedina ormai della lotta interimperialistica, passa in secondo piano con la guerra cino-vietnamita così come le quattro guerre mediorientali hanno fatto passare in secondo piano la questione ebraica e la questione palestinese.
Vedere solo la questione secondaria significa trascurare la questione fondamentale costituita dalla lotta interimperialistica per la ripartizione delle sfere di influenza e delle alleanze, significa quindi parteggiare ed essere interventisti.
La posizione internazionalista di fronte a guerre di questo tipo, strettamente collegate alle manovre imperialistiche, ha un luminoso precedente nell'atteggiamento di Lenin di fronte alle guerre balcaniche che precedettero la prima guerra mondiale. Le pur presenti questioni nazionali passarono, per Lenin, in secondo piano in quello che era nient'altro che il prologo dello scontro militare tra le grandi potenze europee.
La posizione internazionalista divenne la base di partenza per la strategia rivoluzionaria della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile.
Senza teoria rivoluzionaria non c'è movimento rivoluzionario: senza la teoria sull'imperialismo, senza analisi sull'imperialismo, senza studio di tutti i fattori, grandi e piccoli, che lo compongono, non ci sarebbe stata una posizione internazionalista ieri come non di sarebbe oggi quando le guerre d'Asia diventano il banco di prova per la presente generazione rivoluzionaria.
("Lotta Comunista" n.103, mar. 1979)
I mutamenti nei rapporti di forza tra le potenze sono, per loro natura, reciproci poiché non esiste una forza in assoluto così come non esiste una non-forza in assoluto. La forza è, appunto, un rapporto. La non-forza, semplicemente, non esiste.
Il rapporto è reciproco tra due potenze ed è difficile da stabilire perché non si instaura tra due entità statiche ma è il risultato di due dinamiche, o, per meglio dire, di due componenti che si muovono a varia velocità in una stessa dinamica. Se il rapporto è difficile da stabilire quando ci si trova in presenza di due sole potenze, ancora di più lo diventa di fronte a un campo di parecchie potenze. Nella storia delle relazioni internazionali, che è poi la storia degli Stati, non si è dato mai il caso di un rapporto a sole due potenze. Anche quando vi è stata una potenza predominante in proporzione assoluta essa lo fu in una costellazione di piccole potenze. La potenza predominante lo era perché varie cause impedivano la coalizione delle piccole. E' stato il caso di Roma e dell'Inghilterra. Non è il caso del nostro secolo e dei nostri giorni. L'equilibrio attuale non è dato dalla predominanza assoluta di una potenza e neppure dalla predominanza assoluta di due potenze. Forse è per questa ragione che tanta discussione verte sull'equilibrio; però non sull'equilibrio, come si potrebbe pensare, tra USA e URSS.
L'equilibrio in discussione è, invece, quello tra le principali potenze. Esso è generale, anche se
assume l'aspetto militare.
Il SIPRI fornisce una sua valutazione delle spese militari, a prezzi costanti in dollari del 1973, nel mondo.
E' interessante seguirne l 'evoluzione.
Secondo questa valutazione, gli Stati Uniti passano da 68,1 miliardi di dollari nel 1960 a 71,5 nel 1978, gli altri Stati della NATO da 31 a 47,9, I'URSS da 32,7 a 71, gli altri Stati del Patto di Varsavia da 2,8 a 8,8,
gli Stati del Medio Oriente da 1,3 a 17, l'Africa da 0,4 a 5,5, la Cina da 8,9 a 29,2.
Il totale mondiale passa da 156,3 nel 1960 a 278,9 miliardi dollari nel 1978. In quasi venti anni la spesa militare è quasi raddoppiata, ma le sue componenti si sono mosse con velocità diverse. Gli USA sono rimasti statici, ma dopo aver raggiunto gli 89 miliardi di dollari nel 1970, su un totale mondiale di
250,9, durante la guerra del Vietnam. Nel 1979, però, hanno messo in atto una nuova ondata riarmistica con una deliberazione ufficiale di aumento del 3% e del 4,5% reale all'anno della spesa militare. Ciò significa che, data la base di partenza, la spesa militare USA farà presto a ritornare in testa e sorpassare le altre; sempre che si accetti la valutazione SIPRI che dà USA e URSS in parità.
Si possono avanzare parecchie riserve su tale calcolo e molte, infatti, vengono avanzate da fonti specialistiche. Per non addentrarci in un'analisi tecnica, che tenga conto di varie fonti, assumiamo pure i dati SIPRI non tanto per quanto possono fornirci una quantificazione precisa, del resto impossibile, quanto per quello che ci indicano come tendenza.
Una opinione molto diffusa è che nell'URSS sia operante una forte spinta riarmistica. Ciò è vero, poiché l'espansione imperialistica russa poggia principalmente sullo strumento militare sia come intervento diretto nell'Europa Orientale che come intervento indiretto nel Sud Est asiatico, in Africa e in Medio Oriente. L'URSS, inoltre, ha circa un terzo della potenza militare dislocata sul territorio asiatico del suo impero. L'export russo, d'altra parte, ha una forte composizione bellica dato che solo in questa forma riesce ad entrare in molti mercati. Il Medio Oriente, ad esempio, ha aumentato la spesa militare di 12,5 volte, l'Africa di 16,5 volte. La domanda di prodotti bellici è, quindi, fortissima in questi mercati; ciò spiega perché i maggiori produttori vi siano proiettati e perché, ad esempio, l'Italia, che è la 7ª potenza industriale mondiale, sia la 5ª esportatrice di armi, superando così Germania e Giappone.
Ebbene, ciò che capita all'Italia capita, in più grande proporzione, all'URSS. Ma così come non si può dire che il maggior export di armi fa diventare quello italiano un imperialismo più forte di quello tedesco, che è il 1° esportatore mondiale di macchinari, altrettanto deve essere detto per quello russo.
Esistono, perciò, ragioni commerciali nella spinta riarmistica russa accanto a ragioni di politica estera. L'URSS cerca di inserirsi in tutte le contraddizioni del Sud Est asiatico, del Medio Oriente e dell'Africa per sfuggire alla possibile tenaglia che potrebbe paralizzarla, ossia ad una ipotetica saldatura tra il fronte orientale giapponese e il fronte occidentale tedesco. La cosiddetta "carta cinese" è il simbolo che prefigura l'ipotesi e da quando è stata posta sul tavolo si sono intensificate le puntate russe nelle varie parti dello scacchiere mondiale.
In tutte queste puntate, I'URSS non danneggia gli interessi USA ma quelli giapponesi e tedeschi, principalmente.
Se la tenaglia che avrebbe distrutto l'URSS non si è chiusa durante la seconda guerra mondiale imperialistica, tanto meno ha probabilità di chiudersi adesso. Farebbe comodo alla Cina, che non a caso auspica il "fronte unito" con la Germania e il Giappone, ma non agli Stati Uniti i quali non hanno alcun interesse ad un indebolimento russo che finirebbe per avvantaggiare troppo i più temibili concorrenti tedeschi e giapponesi, ossia gli unici imperialisti in grado di creare forti coalizioni in Europa e in Asia.
Contro tale eventualità gli USA hanno sempre combattuto. Blocchi economico-politici in Europa e in Asia significano la fine della espansione pluricontinentale degli Stati Uniti e il tentativo di costruirli è già costato due guerre mondiali. L'accordo con l'URSS ed il favorirne il rafforzamento, anche se in forma artificiosa come nell'Europa Orientale, costituisce, da almeno cinquant'anni, il contrappeso alle ricorrenti emergenze tedesche e giapponesi. Si tratta, in realtà, di una "politica della bilancia" attuata su scala bicontinentale, mentre l'Inghilterra l'attuò nel momento della sua massima ascesa, principalmente sul continente europeo.
Abbiamo sostenuto che la politica della "carta cinese", che in questo senso può essere vista come il tentativo di aggiungere un nuovo peso alla "bilancia di potenze", era una partita quadripolare e non tripolare. I fatti ci hanno dato ragione ed il Giappone si è seduto al tavolo. Nel 1978, anno cruciale nelle relazioni internazionali, conclude il trattato di pace con la Cina e porta avanti, rafforzando le correnti cinesi favorevoli, le "quattro modernizzazioni", una delle quali è militare.
Il contraccolpo è immediato. Si rinsalda l'alleanza franco-tedesca e viene varato rapidamente lo SME, al quale l'Italia deve aderire ancor più rapidamente.
Gli Stati Uniti, dopo aver bloccato per anni il SALT II e la clausola della "nazione favorita" ed aver utilizzato il dissenso dell'Europa Orientale come arma di pressione, concedono subito all'URSS il SALT II, malgrado le proteste franco-tedesche. Mollano il dissenso, ma conservano ancora il blocco alla importante clausola commerciale.
Il SALT II chiaramente è giocato sulla schiena degli europei e, a nostro avviso, dei cinesi e dei giapponesi. Trattano le cosiddette armi strategiche e non quelle tattiche, le quali possono colpire l'Europa, la Cina, il Giappone ma non l'America.
In realtà, gli Stati. Uniti lasciano all'URSS la possibilità militare di impedire d'essere stretta sui due fronti, anche se, in definitiva, l'ultima parola se la riserva Washington. Occorre precisare ancora che la possibilità dei due fronti è, per ora, puramente teorica dato che sugli attuali equilibri di potenza giocano molti fattori, non ultima la crescente interdipendenza economica. I flussi commerciali e creditizi sono ormai tali e tanti da non rendere conveniente, per nessuna metropoli, la formazione di blocchi economici e, conseguentemente, di rigidi blocchi politici. Le alleanze e gli schieramenti che si formano per ogni settore economico sono compositi e vedono protagonisti, quasi sempre, i gruppi statunitensi assieme a gruppi tedeschi, francesi, inglesi, giapponesi, olandesi, italiani ecc.
Le stesse battaglie economiche, ad esempio sulla aeronautica e l'energia, ne sono una dimostrazione. Non vi sono, attualmente, schieramenti puri di tipo europeo o asiatico. Le battaglie finanziarie-economiche, per l'alto livello a cui sono combattute e per l'insieme del mercato mondiale che abbracciano, rendono necessaria la creazione di reti di interessi molto vaste e composite, dalla creazione di consorzi bancari intercontinentali allo scambio di una infinità di licenze e brevetti anche per un solo prodotto, all'utilizzo di organizzazioni commerciali presenti in centinaia di paesi. La battaglia tra Airbus e Boeing ne è un chiaro esempio.
Anche se raggruppamenti internazionali sono una costante della fase imperialista, è indubbio che la situazione attuale si differenzia dalla situazione esistente tra le due guerre, quando la tendenza ai blocchi regionali poteva costituire un possibile sbocco alla crisi capitalistica. Anche per questa ragione, i rapporti multipolari e gli scontri multipolari tra le potenze presentano caratteristiche estremamente complesse ed esprimono dinamiche ancor più intrecciate.
In nessun modo si può, ad esempio, ridurre la politica estera USA agli interessi delle compagnie petrolifere, anche se queste indubbiamente sono potenti. In primo luogo, perché questi interessi sono differenziati. In secondo luogo perché non sono i soli, anche se fossero concordi, a determinare la politica estera statunitense. In terzo luogo, perché non si comprenderebbero tutte le varianti di quella politica estera. Infine perché non si sarebbe in grado di analizzare la lotta politica tra le frazioni borghesi nella metropoli americana. La campagna elettorale presidenziale ne fornirà abbondanti prove.
Gli interessi che premono sulla politica estera USA sono, quindi, molteplici e fanno sì che questa, in definitiva, sia il risultato, spesso imprevisto, di varie pressioni.
Se ciò vale per un singolo Stato, ancor più vale per il sistema di Stati.
Ridurre il problema dell'equilibrio all'equilibrio militare delle due superpotenze sarebbe ridicolo se non fosse fuorviante.
Il fatto che sia presentato, invece, in questo modo dimostra con quale facilità possano esser manipolate le cosiddette opinioni pubbliche, ossia coloro che saranno poi chiamati a pagare in tutti i sensi.
Qui, dobbiamo ritornare ai dati sulla spesa militare. Abbiamo visto la tendenza russa e valutato che, in ultima istanza, non potrebbe essere decisiva, anche se fosse, come ritiene il SIPRI, nella stessa quantità di quella statunitense. Se la spesa militare è in rapporto con il prodotto, occorre ricordare che quello statunitense è almeno il doppio di quello russo. In altri termini: gli USA possono, a parità di incidenza sul PNL, spendere il doppio di quanto spende l'URSS. D'accordo che la quantità di spesa militare non si traduce meccanicisticamente in qualità militare quantificabile e che, ad esempio, la Germania nazista assestò, con meno spesa militare e PNL, colpi tremendi alla Francia e all'URSS, superarmate; ma, in ultima istanza, il potenziale economico diventa decisivo per il potenziale militare ed il potenziale militare diventa decisivo nel rapporto di forza bellico. Due guerre mondiali imperialistiche dimostrano che quando l'apparato economico statunitense si è indirizzato sulla produzione bellica ha espresso una equivalente potenza militare. Il rapporto militare è stato deciso, sulla lunga distanza, dal rapporto economico.
L'apparato produttivo statunitense è il doppio di quello russo, la spesa militare, stando al SIPRI, è pari. Potrebbe essere il doppio e ciò basterebbe a chiudere ogni artificioso discorso sull'equilibrio americano-russo, discorso che comprende però quello reale dell'equilibrio tra tutte le potenze.
La chiave del discorso sta, quindi, nell'apparato produttivo statunitense, in definitiva nei grandi gruppi e nelle frazioni borghesi che lo controllano.
Se la spesa militare USA non è il doppio di quello che è, evidentemente significa che non tutti i grandi gruppi e non tutte le frazioni hanno uguali interessi ad aumentare la produzione bellica. Hanno interesse ad altre produzioni. Vi sono correnti politiche negli Stati Uniti che sostengono un incremento annuo del 7% reale della spesa militare, contro il 3% e il 4,5% proposto da Carter. Per ora sono correnti in minoranza, anche se rappresentano potenti interessi.
In tale contesto, l'orientamento dei grandi gruppi ed i ritmi del riarmo statunitense diventano decisivi sui futuri equilibri mondiali tra le potenze. Si può ipotizzare che, rimanendo contenuta la spesa militare in confronto a quella che potrebbe essere, la potenza americana può usufruire di un forte vantaggio. In poco tempo potrebbe, in questo caso, guadagnare un aumento quantitativo irraggiungibile da ogni altra singola potenza.
Gli orientamenti, per i singoli grandi gruppi statunitensi, sono dati dagli interessi prevalenti; il risultato, però, è che la politica estera USA può essere oggi una politica di "bilancia di potenze".
Assumendo il classico modello inglese di "bilancia", ossia la parità di forza militare rispetto alla possibile coalizione di altre due maggiori potenze, si può ritenere ch'esso possa essere valido per il potenziale militare americano.
Avremo occasione di ritornare su questa analisi.
Per ora ci basta aver tolto la pietra al nido di vipere che si nasconde sotto la terra degli euromissili.
("Lotta Comunista" n.112, dic. 1979)
Ultima modifica 11.09.2001