Edizioni Lotta Comunista, luglio 1981
Trascritto per internet da Antonio Maggio, agosto 2001
Capitolo tredicesimo
L'esportazione di capitali dell'imperialismo russo nelle zone in sviluppo
Le tendenze dl sviluppo dell'imperialismo russo nell'esportazione di capitaliL'analisi dell'export di capitali del COMECON nei paesi "sottosviluppati" è di estremo interesse. In quindici anni dal 1950 al 1964, il COMECON ha esportato per circa 6 miliardi di dollari. A questa cifra sono da aggiungere i crediti militari di cui abbiamo solo l'ammontare dal 1954 al 1962 per 1,2 miliardi di dollari.
Dal 1954 al 1962 abbiamo un totale di 6 miliardi di dollari (4,8 in crediti economici e 1,2 in crediti militari, il che fa un rapporto di 4 a 1). Se manteniamo fisso il rapporto 4 a 1, possiamo aggiungere 1,5 miliardi di dollari di crediti militari ai 6 miliardi del quindicennio 1950-1964 ed avere un totale di 7,5.
Ben il 20% dell'export di capitale del COMECON è rappresentato da crediti militari, cioè da vendita di armi. Nel quindicennio preso in esame, l'export di capitali dell'OCDE (in cui le sei potenze incidono per 1'85-90%) è stato di 78 miliardi di dollari, cioè 13 volte di più di quello COMECON (solo crediti economici, dato che i crediti militari non sono considerati nel totale OCDE).
Tenendo presente che l'export delle 6 potenze è circa il 90% di quello OCDE e quello dell'URSS è circa il 75% di quello COMECON, abbiamo un rapporto di 70 miliardi di dollari a 4,8.
Sia che si considerino i 6 miliardi di fronte ai 78, oppure i 4,8 di fronte ai 70, la concorrenza della potenza russa alle altre sei è in realtà molto bassa; il che non vuol dire inesistente o non qualificata in senso imperialistico.
Importante è seguire le tendenze di sviluppo dell'imperialismo russo in questo particolare aspetto. Su di un totale di 3,2 miliardi di dollari esportati dalla URSS dal 1954 al 1962, 382 milioni lo sono stati dal 1954 al 1956, 1.667 milioni dal 1967 al 1959 e 1.248 milioni dal 1960 al 1962. Passiamo cioè da 382 milioni di dollari a 1.248: in nove anni l'export di capitali è più che triplicato.
Se poi aggiungiamo 1,2 miliardi di crediti militari la tendenza viene ancor più accentuata. Si può notare però che l'export cala da 1,6 miliardi del 1957-1959 a 1,2 del 1960-1962. Ciò potrebbe indicare una inversione di tendenza, se all'export russo non venisse ad affiancarsi un altro fenomeno, al tempo stesso risultante dai rapporti imperialisti instaurati dall'URSS nell'Europa Orientale e dallo sviluppo del capitalismo statale in quella zona: l'export di capitali cecoslovacchi nelle zone " sottosviluppate ". L'export della Cecoslovacchia passa infatti da 100 milioni di dollari nel 1954-1956, a 102 nel 1957-1959, a 276 nel 1960-1962, per un totale di 478 milioni di dollari. Più che le " duemila parole " questa tendenza ci illumina sulle cause profonde della crisi cecoslovacca e dell'intervento militare russo in quel mercato nel quadro generale della concorrenza interimperialista di cui la Cecoslovacchia è contemporaneamente oggetto e soggetto.
All'export russo può anche essere aggiunto quello della Cecoslovacchia e degli altri paesi del COMECON. La tendenza di sviluppo imperialistico non subisce, nel totale COMECON, più inversioni di alcun genere. L'export di capitali passa da 482 milioni nel 1954-1956 a 1.843 nel 1957-1959, a 2.230 nel 1960-1962, per un totale di 4.555 milioni di dollari.
Passiamo cioè, da 482 milioni di dollari a 2.230: in nove anni l'export di capitali è quasi quadruplicato! Non c'è dubbio, il " campo socialista o si espande nel mondo sulla punta... dei capitali.
Le tendenze dl sviluppo dell'imperialismo russo nell'esportazione di capitali
Se non si "espande" di più, oltre che per le ragioni produttivistiche che abbiamo visto, è per il fatto che vi sono potenze imperialistiche che corrono più dell'URSS su questa pista.
Malgrado che il COMECON abbia quadruplicato il suo export capitalistico, nel quindicennio 1950-1964 il suo export ha rappresentato solo 1'8% di quello dell'OCDE. Ed anche nel quindicennio 1960-1964 (in cui abbiamo visto quale salto si fosse verificato nei primi tre anni con 2,2 miliardi di dollari) il rapporto dell'8% con l'export di capitali dell'OCDE si è mantenuto praticamente uguale. In sostanza la tendenza di sviluppo dell'imperialismo russo non riesce, per adesso, a superare quelle dei suoi concorrenti e se non vi è riuscita nel quinquennio 1960-1964 molto difficilmente vi può riuscire nel quinquennio in corso.
In ogni caso una più forte incidenza dell'imperialismo russo sull'export di capitali e, quindi, sulla concorrenza interimperialistica in questo campo non potrà essere avvertita che dopo il 1970.
Una delle ragioni della bassa competitività russa risiede proprio nel suo mercato interno, nella sua potenzialità più bassa di quello occidentale e non di certo nella mancanza di un intenso sforzo imperialistico. Mentre nel quindicennio 1950-1964, la media annuale dell'export di capitali nelle zone " sottosviluppate " dei paesi membri dell'OCDE era di 9,75 dollari per abitante, quella dei paesi membri del COMECON era di 2,5. In altre parole, ogni abitante dell'OCDE ha esportato 9,75 dollari all'anno ed ogni abitante del COMECON 2,5 dollari, cioè circa 1/4 del suo collega occidentale. Mentre il risultato totale è stato dell'8% in confronto all'OCDE, lo sforzo procapite è stato del 25%, cioè da un rapporto nel risultato totale di 1 a 13, abbiamo avuto un rapporto in sforzo procapite di 1 a 4. Anzi la BIRD (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo), in un suo recente studio valuta che siccome il PNL procapite dell'OCDE è circa 2 volte e mezza del PNL procapite del COMECON, lo sforzo globale del COMECON nell'export di capitali nelle zone sottosviluppate è circa la metà di quello dell'OCDE.
Abbiamo quindi una serie invertita di tre rapporti tra COMECON e OCDE (tra la potenza russa e le sei potenze occidentali): 1) sforzo globale = 1 a 2; 2) sforzo procapite = 1 a 4; 3) risultato della concorrenza = 1 a 13.
Evidentemente il problema di fondo dell'imperialismo russo è di elevare non tanto il PNL quanto il PNL procapite e per far questo occorre elevare la quota di capitale investita per addetto, alzare il rapporto capitale/addetto, cioè sviluppare il processo di concentrazione capitalistica. Solo allora lo sforzo procapite anche se permanesse all'attuale rapporto COMECONOCDE di I a 4, potrebbe, ad esempio, parificare il rapporto tra lo sforzo globale e raddoppiare il capitale esportato. La concorrenza russa alle altre 6 potenze potrebbe, in questo modo essere in realtà incisiva. Poiché, è ovvio che non basta offrire tassi di interesse del 2,5% contro quelli occidentali del 6%. Se tutto fosse così semplice come è nella propaganda, non si capirebbe perché il più basso tasso russo non soppianti quello occidentale e perché il mercato " sottosviluppato " non cada sotto l'influenza russa. Non ci sarebbe barba di " berretto verde " capace di impedirlo. Il fatto è che malgrado il suo più basso tasso di interesse, I'URSS deve battersi contro un'accanita concorrenza interimperialistica e proprio in quei paesi verso i quali si rivolge prevalentemente l'export di capitali di tutte le potenze imperialistiche. Poiché, basso o meno, il suo tasso di interesse l'URSS lo vuole riscuotere e non va di certo ad investire capitali in mercati che non siano in sviluppo.
E siccome in questi mercati si precipitano tutti gli imperialisti, quelli russi sono costretti a farsi largo a gomitate.
Finiscono poi col promettere più capitali di quanti possano dare e poiché i capitalisti locali vogliono soldi e non chiacchiere prendono i capitali che ci sono, anche se li pagano di più.
La BIRD calcola che solo il 26% degli impegni finanziari sottoscritti dal COMECON sia stato effettivamente versato fino alla fine del 1962. Il che fa per il periodo 19501962 una media di 150 milioni di dollari per anno. Il rapporto COMECON-OCDE viene così ridotto al 2,4%. Con questa proporzione, l'export COMECON diventa quasi irrilevante. L'imperialismo russo ne uscirebbe molto ridimensionato. In verità il fenomeno è più complesso di quanto sembri e se lo penetriamo a fondo riusciamo a scorgere un carattere particolare dell'export di capitali dell'imperialismo russo ed un aspetto fondamentale della sua concorrenza alle altre potenze nelle zone " sottosviluppate ". Preliminarmente dobbiamo precisare che per i dati che abbiamo esaminato sopra e per i confronti COMECONOCDE, non vengono considerati paesi come la Cina, il Nord Vietnam, Nord Corea, Cuba e Jugoslavia, Cipro, Grecia, Islanda per l'Europa. Quindi una parte di quei capitali impegnati ma non versati dal COMECON, viene esportata nei paesi suindicati.
Il carattere militare dell'esportazione russa
Se riteniamo valida la valutazione della BIRD ci troviamo di fronte a questa situazione: su 7,5 miliardi di dollari impegnati finanziariamente dal COMECON dal 1950 al 1964, sino al 1962 ne erano stati effettivamente versati circa 2,5 (presupponiamo che le quote del t9631964 siano state praticamente utilizzate).
Dove sono finiti i capitali impegnati finanziariamente e che non sono stati versati (circa 5 miliardi)? Non esistevano? Erano "capitali di propaganda"?
Pensiamo di no. Intanto una parte dei 5 miliardi sono stati esportati in quei paesi non computati. In secondo luogo, sono stati utilizzati come crediti militari. Difatti su un totale di impegni finanziari 1950-1964 per 7,5 miliardi di dollari ben 1,5 (un buon 20%) sono costituiti da crediti militari. Questi crediti sono stati effettivamente utilizzati. Il mancato utilizzo deve quindi essere visto nei cosiddetti "crediti economici".
Questo si può ricavare dal fatto che l'effettivo versamento da parte di sei paesi del COMECON sugli impegni finanziari è stato del 19,5%, mentre quello dell'URSS è stato del 28,1% e l'URSS, nei dati forniti dalla BIRD, totalizza i crediti militari. Il fatto che i sei paesi del COMECON abbiano assolto in più bassa percentuale gli impegni finanziari, oltre a dimostrare un aspetto della crisi dell'Europa Orientale (la Polonia, ad esempio, si era impegnata in un export di capitali di 278 milioni di dollari che, evidentemente non poteva fare e non ha fatto), dimostra che una buona parte dell'export capitalistico dell'URSS è andato in crediti militari, cioè in un tipico credito che non trova ostacoli nella forma bilaterale. Ecco dunque emergere una particolare caratteristica della concorrenza fatta dall'imperialismo russo alle altre potenze, una concorrenza che in questo terreno è estremamente efficace.
E' una concorrenza poco "pacifica", ma da un punto di vista della maturazione delle condizioni di conflitto economico o militare interimperialistico, non c'è differenza tra la costruzione di una fabbrica e la costruzione di un aeroporto militare. Nell'epoca imperialistica non vi è capitale " pacifico ", e capitale " bellico " e comunque vada investito il capitale concorre alla formazione di una rete mondiale di interessi da cui scaturiscono tutti i conflitti imperialistici, abbiano questi forme " pacifiche " o forme " belliche " che non sono altro che l'organica continuazione delle prime.
Individuando il carattere particolare dell'export russo nei crediti militari è lontano da noi ogni giudizio moralistico. Anche se esportasse ospedali invece di armi niente cambierebbe. L'imperialismo è per sua essenza parassitario e, poi, nemmeno nell'impestare di armi tutto il mondo l'URSS riesce a battere le altre potenze. Quello che ci interessa rilevare è che la bassa competitività dell'imperialismo russo lo ha costretto a cercare di sviluppare la sua concorrenza nel settore militare. Non può ancora impiantare fabbriche automobilistiche. Impianta eserciti come in Indonesia e in Egitto.
L'esportazione russa concentrata nell'Asia meridionale
Il carattere "militare" dell'export di capitali russi è, infine, dimostrato da un altro aspetto che viene a confermare la nostra tesi.
Esaminando il periodo 1954-1962 troviamo che dei 6 miliardi di dollari di impegni finanziari ben 4,5 cioè il 75%, vanno a soli 6 paesi appartenenti tutti al Medio Oriente e all'Asia. Non sappiamo quanti di questi miliardi siano stati effettivamente utilizzati, ma è da ritenere che è proprio su questi 4,5 miliardi che vi sono state meno decurtazioni e che una buona parte di essi si siano convertiti da "crediti economici" in "crediti militari", per utilizzare la terminologia ufficiale. Ad ogni modo due tendenze dell'imperialismo russo emergono chiaramente: la prima indica che l'export capitalistico russo, come le altre correnti dell'export imperialistico e ancor più di queste, si concentra in pochi mercati e non tra i più arretrati ma in quelli dove è in corso uno sviluppo capitalistico la seconda indica che l'export russo, e quindi la sua concorrenza gravita in due zone precise (Medio Oriente e Sud-Est asiatico) e nelle altre zone (Nord Africa, Africa, America Latina) è praticamente irrilevante e non si inserisce nella concorrenza in corso tra le altre sei potenze imperialistiche. Estremamente concentrata su due ben specifiche zone ed attuando un massiccio export " militare " la concorrenza imperialistica russa riesce a raggiungere alcuni importanti risultati come, in termini di politica estera, è dimostrato dalla guerra del Medio Oriente, dalla mediazione di Taskent nella guerra indo-pakistana, nell'isolamento della Cina sulla questione vietnamita e sulla questione indonesiana. Una serie di fatti che hanno sorpreso, alcuni trovano un'adeguata chiarificazione proprio dall'analisi delle tendenze di sviluppo dell'imperialismo russo le quali continuano, con una rinnovata potenza industriale parzialmente utilizzata, le traiettorie tradizionali (oltre che della Europa Orientale) del Medio Oriente e dell'Asia meridionale.
Seguendo una carta geografica si può vedere perfettamente il cammino dell'export di capitali russo e la linea su cui è concentrato per il 75%.
Si parte dalla Siria (circa 250 milioni di dollari), si devia sull'Egitto (750 milioni circa), si ritorna sull'Irak (circa 300 milioni), si prosegue con l'Afganistan (circa 400 milioni), si arriva finalmente all'India (circa 1,2 miliardi) e si fa una grossissima puntata sulla Indonesia ( 1,5 miliardi).
I due anelli intermedi della catena (oltre a Grecia e Turchia che ricevono anche essi capitali, ma che non rientrano in questo export) sono anch'essi ricoperti: l'Iran riceve anch'esso circa 90 milioni di dollari e il Pakistan circa 300. Infine, per completare la catena, la Birmania ne riceve circa 100.
Bloccata nell'Estremo Oriente da tre guerre e dall'unificazione dello stato cinese, l'espansione imperialistica russa ha trovato sbocco nelle altre due direttrici tradizionali: nell'Europa orientale e balcanica, con la sconfitta dell'imperialismo tedesco e italiano e con l'accordo con gli USA e nell'Asia meridionale, con l'indebolimento dei vecchi imperialismi inglese, olandese e francese e con la sconfitta di quello giapponese. L'espansione russa non ha intaccato né poteva intaccare la supremazia degli Stati Uniti in Asia per due ragioni: 1) perché il concorrente più diretto poteva essere per gli USA, e lo sta diventando, il risorgente imperialismo giapponese 2) perché l'obiettivo dell'espansione russa nell'Asia meridionale non era, e non è, l'imperialismo americano, di fatto alleato ma la Cina. Installata al Nord negli immensi territori della Siberia e dello Estremo Oriente (dove la densità per Km. quadrato non arriva ad 1 abitante, quella dell'intera URSS è di appena 9,2, mentre quella della Cina è di 67, vicina a quella francese che è di 84 e superiore a quella europea che è di 57,3), la potenza russa è costretta per difendere i suoi sottopopolati territori asiatici frutto dei cosiddetti "trattati ineguali", a ricercare alleanze al Sud per stringere in cerchio il suo avversario cinese.
La concentrazione dell'esportazione ricalca le tendenze dl sviluppo dell'imperialismo russo
L'export russo ed il suo accentuato carattere militare, è sorretto da queste fondamentali tendenze di sviluppo dell'imperialismo russo. Si spiegano così il pronunciatissimo sforzo globale e sforzo procapite della sua esportazione di capitali, malgrado gli scarsi risultati nel senso di poter disporre di una quota considerevole di capitali per sostenere la concorrenza in campo mondiale. Si spiega inoltre il fatto che una parte del suo export di capitali l'URSS lo destini all'Asia meridionale invece che concentrarlo tutto in Europa Orientale. In realtà l'URSS non può fare una seria concorrenza su scala mondiale ed il suo export di capitali è un export di armi nel quadro di alleanze militari di fatto anche se non ufficiali in funzione anti cinese, stabilite principalmente con l'India e con l'Indonesia che da sole prendono quasi 3 dei 6 miliardi di dollari esportati dal COMECON. L'atteggiamento mantenuto dall'URSS in occasione della guerra indiano-cinese e del colpo militare della frazione Suharto per impedire l'alleanza con la Cina elaborata dalla frazione Sukarno, il fatto che l'URSS ha sostenuto e sostenga attivamente sia con mezzi finanziari (dilazionamento del debito indonesiano) che con mezzi militari l'India e l'Indonesia prova ad abbondanza la natura della tendenza di sviluppo dell'imperialismo russo nel Sud-Est asiatico. Ciò può costituire anche un elemento di concorrenza alle altre potenze imperialistiche, USA e Giappone in primo luogo. Senz'altro, ma non a breve scadenza. L'azione imperialistica russa collocata nel quadro generale dei rapporti reciproci tra le potenze imperialistiche e gli Stati capitalistici in Asia rivela chiaramente che i suoi caratteri prevalenti sono costituiti dal rapporto con la Cina.
L'imperialismo russo, pur essendo un imperialismo in ascesa, ha un gravissimo punto debole: ha una sfera di influenza troppo vasta in rapporto alla sua reale capacità industriale. Adeguare questa al suo potenziale economico e alle sue risorse, elevare la sua produttività globale e industriale al livello delle potenze imperialistiche più avanzate, coordinare il suo apparato sovrastrutturale ad un vasto sviluppo della sua struttura non è un'impresa facile e di pochi anni specie quando deve compierla sotto i colpi di una rinnovata concorrenza imperialistica e sotto le tensioni provocate dall'emergere di nuovi grandi paesi capitalistici come la Cina. E' come se gli Stati confederati dell'Est, conquistati il Texas e la California al Messico, si fossero trovati nella condizione di non avere capitali e manodopera per colonizzarli e industrializzarli contro un Messico che invece di essere disfatto fosse stato risorgente e contro altre potenze che lo lottavano per conquistare quei nuovi mercati. Quello che gli Stati Uniti hanno fatto, abbastanza indisturbati, in cinquanta anni, avrebbero dovuto farlo in un decennio o due, e molto probabilmente non vi sarebbero riusciti. Senza la componente degli Stati del Pacifico, gli USA sarebbero stati ridotti alla metà di quella potenza imperialista che sono diventati. L'URSS si trova grosso modo, nella condizione che abbiamo ipotizzato. Congloba nel suo impero decine di nazionalità e milioni di uomini che non può eliminare come fecero gli yankee con gli indios, e centinaia di migliaia di Km. quadrati di territori che non può colonizzare perché non può utilizzare né il suo incremento demografico né una emigrazione di massa come fecero gli yankee. E la Cina non è il Messico dell'800.
Se poi aggiungiamo al fronte asiatico quello dell'Europa Orientale e balcanica arriviamo alla conclusione che le contraddizioni interne ed esplosive dell'impero russo sono fortissime e che possono essere parzialmente sostenute dall'interesse che la potenza americana ha di mantenere in piedi un impero così debole e minato. Solo un'alleanza USA-URSS, che costituisce il 70% del PNL delle sette potenze imperialiste, può mantenere la sfera di influenza russa. Se l'URSS non avesse l'appoggio americano e le altre cinque potenze non avessero interesse ad allearsi all'URSS o a mantenere l'impero, questo, nel presente, sarebbe destinato a dimezzarsi. In questo caso, oltre alla Germania e al Giappone, si avvantaggerebbe la Cina.
L'Indonesia al primo posto nell'esportazione russa
I 6 miliardi di dollari esportati dal COMECON dal 1954 al 1962, su 95 paesi considerati "sottosviluppati" sono andati solamente a 25, cioè a poco meno di 1/4 di paesi. Di questi 25 paesi solo 6 hanno assorbito 4,5 miliardi, cioè i 3/4 della somma totale. Abbiamo già visto che i 6 paesi sono: Indonesia, India, Egitto, Afganistan, Irak e Siria. L'Indonesia con 1,5 miliardi, si è presa 1/4 dell'intera somma. Assieme all'India ne prende circa la metà. L'Egitto, con 750 milioni di dollari ne prende 1/8. Un dodicesimo va all'Irak e alla Siria. Un altro va al Pakistan. Rimangono 3/12, cioè 1,5 miliardi, da ripartire tra 19 paesi.
I prestiti a questi paesi sono nell'ordine di 50-100 milioni di dollari per paese salvo il caso dell'Argentina e del Brasile che ricevono complessivamente 0,5 miliardi di dollari. Anche l'export COMECON, come quello CAD, finisce in quel gruppo di paesi capitalistici che nella fascia del " sottosviluppo " occupano, seppure in modo differente uno dall'altro, la punta più avanzata o che, comunque, possono già collocarsi come capitalismi medi.
In questo gruppo di paesi il processo di industrializzazione è già avviato e ciò, naturalmente, richiede investimenti di capitali da recepire sul mercato interno e sul mercato internazionale. Almeno 6 di questi paesi (per il loro ritmo industriale e per il loro potenziale demografico o riserva di forza lavoro) hanno la possibilità di diventare forti paesi capitalistici e, in una prospettiva più lontana, addirittura delle potenze medie imperialistiche. L'ineguale sviluppo su scala mondiale fa si che il distacco tra questi " giovani " capitalismi e i capitalismi maturi sia fortissimo. Ma il problema non può essere ristretto a questi termini. In PNL procapite la maturità imperialistica di paesi come la Svezia o la Svizzera raffrontata a quella di paesi come l'URSS, l'Italia o il Giappone è di molto superiore e il distacco è fortissimo.
Questo non significa in alcun modo che la Svezia o la Svizzera giochino un ruolo di potenza imperialistica maggiore di quello dell'URSS, dell'Italia o del Giappone. Il peso della potenza imperialistica è proporzionale al Prodotto Nazionale Lordo totale del paese. Quindi potenza imperialistica, a un certo livello di PNL procapite, è anche potenza demografica. L'attuale fase di ineguale sviluppo fa si che paesi come la Argentina, il Brasile, il Messico, l'Egitto, l'India e l'Indonesia, abbiano livelli di PNL procapite molto bassi in confronto a quelli di paesi capitalisticamente maturi, ma anche un aumento medio del PNL procapite può portare ad un balzo del loro PNL nazionale.
Anche un avvicinamento al livello del PNL procapite russo porterebbe alcuni di questi paesi ad avere già un peso notevole. Non parliamo dell'India che diventerebbe una grandissima potenza (ma oggi col suo PNL procapite, è lontana dall'esserlo), ma prendiamo, ad esempio, l'Argentina che è la più alta nel PNL procapite.
Il problema non è quindi quello di un raffronto con i più alti PNL procapite delle potenze imperialistiche ma con i più bassi. L'ineguale sviluppo ci presenterà non dei distacchi abissali ma dei profondi distacchi storicamente colmabili con l'investimento di capitali. E non a caso il capitale internazionale va in quei paesi della " fascia sottosviluppata " dove più si produce capitale, cioè dove c'è più sviluppo capitalistico anche se poi, come in ogni processo di produzione del capitale, si determina una lotta per la ripartizione del plusvalore tra grandi e piccoli capitalisti e per la suddivisione in rendita, interesse e profitto. Così come sul mercato nazionale, sul mercato mondiale i gruppi imperialistici giocano il ruolo di grandi capitalisti. Ma il fatto che vi sia la lotta per la ripartizione del plusvalore è segno di sviluppo capitalistico e non di a sottosviluppo ", è segno che si produce, appunto, plusvalore. E questo lo sa bene l'URSS che, delle 6 nazioni, investe in 5 e che se anche concentra il 67% del suo export di capitali in Asia, non tralascia di fare una puntata da mezzo miliardo su due dei tre paesi più capitalistici dell'America Latina.
I sovrapprofitti imperialisti realizzati dall'URSS
Infatti nei 5 dei 6 paesi più importanti dei "sottosviluppo" I'URSS col COMECON esporta circa 4 dei suoi 6 miliardi di dollari, cioè circa il 70%.
Se poi aggiungiamo circa 1 miliardo per l'Afganistan l'Irak e la Siria, rimane appena 1 miliardo circa per 17 paesi, questi si un po’ più "sottosviluppati".
Resta un pò più di mezzo miliardo per 7 paesi asiatici e poco meno di mezzo miliardo per altri 10 paesi africani. Se si tiene conto che questi dati si riferiscono al periodo 1954-1962 si può ritenere che l'export di capitali russi in questi paesi è stato bassissimo. In Africa il più alto lo troviamo in Guinea con 150 milioni circa. In Asia Iran, Pakistan e Birmania praticamente occupano la parte rimasta per questo continente.
Passiamo adesso all'aspetto concernente il sovrapprofitto imperialista ricavato dall'URSS. In una intervista al "Time Magazine" un membro del Comitato Statale Sovietico per le relazioni economiche internazionali (denominato Comitato Skchakov) dichiarava: "Noi siamo partiti dallo studio del programma di aiuti americano e colto degli insegnamenti dai loro errori. Siamo così arrivati a concludere che i crediti hanno una maggiore efficacia dei doni che comportano, sul piano politico, conseguenze contrarie ai nostri scopi. Così noi non facciamo doni, salvo in casi eccezionali, come in seguito a terremoti, carestia, inondazione o eventualmente doni personali come quando si regala, per esempio, un aereo a un capo africano".
Il 95% dell'export di capitali COMECON avviene sotto forma di crediti bilaterali a lungo termine e ad un tasso d'interesse del 22,5% annuo, più basso di quello CAD del 58%. Oltre il caso del dilazionamento del debito indonesiano, l'URSS ha dovuto rinnovare un credito di 280 milioni di dollari all'Egitto perché i primi crediti giungevano a scadenza senza che il paese potesse rimborsarli con i relativi interessi nel frattempo maturati. I sovrapprofitti che vengono, in questo modo, ad accumularsi diventano veramente ingenti. Nel caso dell'Egitto pensiamo che si tratti, oltre a crediti militari, dei crediti per la diga di Assuan.
Solitamente il credito a lungo termine concesso dall'URSS va dai 10 ai 12 anni. Il soprapprofitto, ricavato sotto la forma di un interesse composto, diventa così abbastanza consistente. I crediti vengono concessi su una base strettamente bilaterale, sono quindi vincolati al loro impiego e sono accordati e rimborsati sotto forma di merci determinate. Il prezzo delle merci accordate è fissato sul livello mondiale, ma il rimborso del credito in merci può presentare il caso per il paese debitore che, nel frattempo, il prezzo di queste merci sia aumentato. Il debitore finisce col pagare un interesse addizionale. Comunque, come dimostra questo caso, l'attività imperialistica russa è legata intimamente al movimento dei prezzi mondiali. Un altro aspetto è quello riguardante l'assistenza tecnica.
Essa fa parte del credito destinato ad una realizzazione industriale. Così anche questi servizi sono pagati dai paesi debitori. Nel 1962, ad esempio, vi erano 8.500 specialisti del COMECON in 25 paesi debitori (il 30% di questi specialisti erano nell'Afganistan).
Quindi, sotto nessun aspetto, il credito fornito dall'URSS si differenzia dalla classica esportazione imperialistica di capitali. Prodotto organico dei rapporti di produzione capitalisti esistenti in URSS, la esportazione di capitali verso il cosiddetto "Terzo Mondo" proietta in campo mondiale la natura sociale di quel paese e la mette completamente a nudo. Anche la staliniana ideologia della "difesa dell'URSS" è messa ormai a nudo: difendere l'URSS significa difendere gli "interessi", non in senso metaforico ma bancario, derivanti dalla sua esportazione di capitali. Che poi vi siano ancora gli epigoni degeneri dei trotzkismo a parlare di uno "Stato Operaio" dove una burocrazia usurpatrice difende comunque (in Indonesia, in Argentina, in Brasile?) le "conquiste della rivoluzione" si può razionalmente spiegare solo con l'incremento dell'opportunismo proporzionale all'incremento dei sovrapprofitti imperialistici e, come diceva Lenin, delle sue "briciole".
("Lotta Comunista" n.33-34, febbraio-marzo1969)
La concentrazione del capitale nella fase imperialistica
La concentrazione del capitale nell'analisi di Marx
La concentrazione nello Stato capitalista collettivo
Concentrazione e rotazione del capitale
Concentrazione e centralizzazione del capitale
Concentrazione e processo complessivo della produzione capitalistica
La concentrazione: caratteristica fondamentale del capitalismo
La concentrazione del capitale nell'analisi dl Lenin
Lo sviluppo della concentrazione capitalistica pone una serie di problemi che devono essere affrontati dal punto di vista della classe operaia e della sua lotta. Vi è uno stretto rapporto tra sviluppo della concentrazione e sviluppo della lotta di classe, poiché ad un determinato tipo di sviluppo capitalistico corrisponde un determinato tipo di lotta di classe.
Da questa premessa ne deriva che l'elaborazione della strategia rivoluzionaria del proletariato richiede un'analisi sui caratteri salienti di un aspetto così importante delle tendenze di sviluppo del capitalismo quale è la concentrazione del capitale. Le tendenze di sviluppo si basano in gran parte sui tassi di crescita o di ristagno, cioè si basano sui ritmi generali, parziali o differenziati che riguardano il capitale sociale totale su scala mondiale o su scala nazionale e il capitale sociale per settore. Lo sviluppo o il ritmo della concentrazione è una componente non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa del tasso di sviluppo del capitale sociale su scala mondiale, nazionale e di settore. Esso ci indica il tipo di sviluppo capitalistico che dobbiamo analizzare per poter tracciare le prospettive della lotta di classe e della rivoluzione socialista.
Questi fenomeni sociali e politici sono interdipendenti. Ovviamente il grado di concentrazione è solo un aspetto ma come abbiamo detto pone parecchi problemi all'elaborazione della strategia rivoluzionaria, anche se vogliamo concretizzare questa strategia in un obiettivo europeo.
Compito del partito leninista è quello di tracciare le linee strategiche della lotta proletaria in una visione internazionale ed è quello di porre degli obiettivi strategici allo sbocco politico della lotta della classe operaia. L'obiettivo strategico che ci riguarda direttamente è la via della rivoluzione socialista in Europa, via nella quale confluisce la lotta per la rivoluzione proletaria in Italia.
Se non si definisce questo obiettivo strategico non ha senso parlare di rivoluzione o di lotta per il potere. Quale rivoluzione, quale potere? L'aggettivo " socialista " ed " operaio " non è scientificamente una risposta, se non si specifica il corso, le caratteristiche, le tendenze di sviluppo delle forze sociali che sono oggetto e soggetto della rivoluzione, cioè del processo in cui le forze sociali portano la loro lotta alla tensione estrema, alle estreme conseguenze, al punto massimo del potere.
Ora, specificare il corso, le caratteristiche, le tendenze di sviluppo del proletariato, della sua lotta e della sua tensione estrema è impossibile senza l'analisi dello sviluppo capitalistico.
Sapremo trovare i caratteri specifici della lotta operaia solo quando avremo riconosciuto i caratteri specifici del capitalismo contro il quale la lotta di classe è diretta.
Per conoscere il grado di concentrazione della classe operaia dobbiamo conoscere il grado di concentrazione del capitalismo; per conoscere a quale ritmo avviene ed avverrà la concentrazione della classe operaia dobbiamo conoscere a quale ritmo procede e procederà la concentrazione del capitalismo. Non è un problema statistico, è un problema politico o, per meglio dire, è un problema statistico che si traduce immediatamente in problema politico. Altrimenti di quale capitalismo stiamo parlando e di quale proletariato?
Dobbiamo combattere ed abbattere un ben determinato capitalismo con una ben determinata classe operaia: la conoscenza specifica delle forze in campo è l'abc della strategia. Così va detto della conoscenza specifica del campo di battaglia e della posta in gioco.
Non possiamo distruggere il " potere " capitalista se non sappiamo come e in che modo è "concentrato". Ecco perché il problema statistico si traduce immediatamente in problema politico. Non è il solo.
Sarà la stessa analisi e dimostrarlo.
La concentrazione del capitale nell'analisi di Marx
La concentrazione "non è che una espressione diversa per indicare la riproduzione su scala allargata": così Marx la definisce nel capitolo 23 del Libro Primo de "Il Capitale".
In altri termini, la concentrazione è lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici.
Marx analizza il processo di produzione del capitale ed espone la teoria della concentrazione nella descrizione del processo di accumulazione del capitale. Un aspetto della legge generale dell'accumulazione capitalistica è appunto, la concentrazione del capitale. Possiamo vederlo chiaramente se seguiamo Marx quando spiega il mutamento della composizione organica del capitale o come precisa Marx titolando il paragrafo, " Diminuzione relativa della parte variabile del capitale durante il processo dell'accumulazione e della concentrazione ad essa concomitante ".
Accumulazione e concentrazione sono, quindi, due espressioni diverse di uno stesso processo.
Marx ne spiega il meccanismo con la produttività del lavoro sociale: " ...lo sviluppo della produttività del lavoro sociale diventa la leva più potente dell'accumulazione... il grado sociale di produttività del lavoro si esprime nel volume della grandezza relativa dei mezzi di produzione che un operaio trasforma in un prodotto durante un dato tempo, e con la medesima tensione della forza lavoro ". (Il Capitale, Libro I, sezione 7, capitolo 23, 2).
Lo sviluppo della produttività del lavoro sociale è, quindi, alla base del processo di accumulazione-concentrazione. Questo processo determina una diminuzione relativa della parte variabile del capitale, ossia un mutamento della composizione organica del capitale. Marx precisa:" Che sia condizione o che sia conseguenza, la crescente grandezza di volume dei mezzi di produzione paragonata alla forza-lavoro ad essi incorporata esprime la crescente produttività del lavoro. L'aumento di quest'ultima si manifesta dunque nella diminuzione della massa di lavoro paragonata alla massa dei mezzi di produzione da essa messa in movimento ", (Capitale, I, 7, 23, 2).
Marx precisa perché in questo processo interviene un altro fenomeno a determinare la composizione organica del capitale: la centralizzazione del capitale, la quale va distinta dalla concentrazione. Anzi possiamo dire che è la dialettica centralizzazione concentrazione a determinare quella tendenza storica del capitalismo che usualmente definiamo concentrazione. Per cogliere questa dialettica conviene seguire Marx.
"Non si tratta più di una concentrazione semplice dei mezzi di produzione e del comando sul lavoro identica con l'accumulazione. Si tratta di concentrazione di capitali già formati. Il capitale qui in una mano sola si gonfia da diventare una grande massa perché là in molte mani va perduto. E' questa la centralizzazione vera e propria a differenza dell'accumulazione e concentrazione (...).
Ma anche se l'estensione relativa e l'energia del movimento centralizzatore sono determinati in un certo grado dalla grandezza già raggiunta della ricchezza capitalistica e dalla superiorità del meccanismo economico, ciò malgrado il progresso della centralizzazione non dipende affatto dall'aumento positivo della grandezza del capitale sociale. Ed è questo specificamente che distingue la centralizzazione dalla concentrazione, la quale non è che una espressione diversa per indicare la riproduzione su scala allargata.
La centralizzazione può avvenire in virtù di un semplice cambiamento nella distribuzione di capitali già esistenti, cioè di un semplice muta.
L'esempio è fornito nello stesso capitolo: "Ma è chiaro che l'accumulazione... è un procedimento lentissimo a paragone della centralizzazione...
Il mondo sarebbe tuttora privo di ferrovie, se avesse dovuto aspettare che l'accumulazione avesse messo in grado alcuni capitali individuali di poter affrontare la costruzione di una ferrovia. La centralizzazione, invece, è riuscita a farlo d'un tratto, mediante la società per azioni ".
Dallo sviluppo della produttività del lavoro sociale alla società per azioni: ecco il corso della legge della concentrazione nel processo di produzione del capitale. Con lo sviluppo della centralizzazione del capitale abbiamo già la concentrazione monopolistica.
Ma prima di arrivare a questa, dobbiamo vedere come opera la legge della concentrazione nel processo di circolazione del capitale e nel processo complessivo della produzione capitalistica.
La concentrazione nello Stato capitalista collettivo
La concentrazione del capitale permette l'esecuzione di opere dal lungo periodo di lavoro e su grande scala. La tendenza storica dell'accumulazione capitalistica opera come espropriazione della proprietà privata del lavoratore sui suoi mezzi di produzione. Questa proprietà privata, che vede il contadino "libero proprietario del campo" e l'artigiano libero proprietario "dello strumento", "è il fondamento della piccola azienda". Ma: "Questo modo di produzione presuppone uno sminuzzamento del suolo e degli altri mezzi di produzione ed esclude, oltre alla concentrazione dei mezzi di produzione, anche la cooperazione...".
Senza il superamento di questo modo di produzione, senza il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione, non è possibile lo sviluppo del capitale che viene a configurarsi non più come capitale privato ma come capitale sociale. Perciò, già all'inizio: "...l'accumulazione originaria del capitale significa soltanto l'espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale..." (Il Capitale, I, 7, Capitolo 24 "La cosiddetta accumulazione originaria").
Dissoluzione della proprietà privata del lavoratore sui mezzi di produzione e concentrazione del capitale sono due aspetti concomitanti dello stesso processo di produzione del capitale. Questa legge operante dalla genesi del capitalismo avrà conseguenze storiche importanti sul piano dei rapporti sociali e lo dimostrerà Engels nell'Antidhüring ipotizzando lo Stato come capitalista collettivo ideale, cioè delineando il corso storico della tendenza alla concentrazione in un'unica organizzazione capitalistica concentrata, il capitalismo di Stato.
Scrive Engels, ponendo già le basi storiche dell'elaborazione leninista dell'imperialismo: " In un modo o nell'altro, con trust o senza trust, una cosa è certa: che il rappresentante ufficiale della società capitalistica. Lo Stato deve alla fine assumerne la direzione.
Ma né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive. Nelle società anonime questo carattere è evidente. E a sua volta lo Stato moderno è l'organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai che dei singoli capitalisti.
Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale.
Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore e il numero dei cittadini che esso sfrutta.
Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalistico non viene soppresso viene invece spinto al suo apice.
Ma giunto all'apice si rovescia. La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione ".
Il capitalismo di Stato lo Stato come capitalista collettivo ideale, la trasformazione in proprietà statale rappresenta la conclusione del lungo processo della dissoluzione della proprietà privata che, come abbiamo visto, è contemporaneamente processo di concentrazione.
Sotto questo aspetto il " capitalista collettivo ideale " e il punto di approdo della legge della concentrazione. Il capitalismo di Stato è l'ultimo stadio della concentrazione.
L'ipotesi di Engels deve, però, essere vista come una tendenza storica, una tendenza su cui agiscono molti altri fattori in funzione contrarrestante, come del resto avviene per la tendenza alla caduta del saggio del profitto.
Crisi parziali e generali della produzione capitalistica, lotte di classi, conflitti imperialistici intervengono sia ad accelerare che ad arrestare la tendenza dell'ultimo stadio della concentrazione la tendenza al capitalismo di Stato. Inoltre, esiste e sussiste un ineguale sviluppo della concentrazione nei vari settori. Anche in quei paesi dove più esteso è il capitalismo di Stato esistono ancora larghi settori che non sono concentrati nello Stato e che non hanno una proprietà statale dei mezzi di produzione. Tipico esempio è l'URSS. Per cui si può dire che lo Stato come " capitalista collettivo ideale " lo possiamo trovare, oggi, in singoli settori ma non ancora su scala nazionale. D'altra parte, la classe operaia non può e non deve attendere, nelle tempeste delle crisi e delle guerre imperialistiche, che si compia il destino della concentrazione nel capitalismo di Stato.
Essa può e deve abbattere il modo di produzione capitalistico prima che questi abbia dispiegato tutte le sue potenzialità tendenziali, poiché la concentrazione ed il capitalismo di Stato della nostra epoca non rappresentano alcunché di progressista ma solo il parassitismo, l'imputridimento, la violenza imperialista. Il fatto che il processo di concentrazione nel capitalismo di Stato non abbia raggiunto la massima compiutezza non significa che concentrazione e capitalismo di Stato possono essere trattati separatamente. Per la teoria marxista concentrazione e capitalismo di Stato sono aspetti interdipendenti di uno stesso processo, di una stessa tendenza. Non si può parlare di concentrazione senza parlare di capitalismo di Stato.
Solo gli apologeti del capitalismo cercano di farlo. Inutilmente perché il processo di concentrazione che essi cercano di descrivere risulta essere un fenomeno incomprensibile, composto da un insieme disparato di aspetti senza successione, senza interdipendenze, senza un collegamento dialettico.
Invece di un'analisi scientifica abbiamo una sociologia soggettiva.
Tipici esempi di questo metodo idealistico risultano essere le trattazioni sulla concentrazione di Mandel e di Baran-Sweezy, cioè di classici esponenti delle varianti " trotzkista " e " maoista " del capitalismo di Stato.
Ma come avevamo detto all'inizio, lo sviluppo della concentrazione pone una serie di problemi politici alla strategia rivoluzionaria del proletariato. La concentrazione nel capitalismo di Stato è uno di questi ed è il più importante. Una corretta analisi marxista della concentrazione diventa una corretta posizione politica di classe contro il capitalismo di Stato. E la giusta posizione strategica crea immediatamente una netta demarcazione da quelle posizioni le quali, rifiutando di fatto l'analisi marxista sulla proprietà privata rifiutano la teoria marxista del capitalismo di Stato e si ergono in difesa dei sistemi capitalistico statali che presentano come sistemi socialisti più o meno degenerati.
Non è quindi un caso che Baran-Sweezy introducano il " surplus " nel processo genetico del capitalismo, alla fonte dell'accumulazione originaria del capitale. La concentrazione viene, nella loro teoria, ad essere un risultato del surplus. La loro teoria della concentrazione è la teoria della concentrazione dal punto di vista del capitalismo di Stato. In questa loro ideologia del capitalismo di Stato il processo storico della dissoluzione della proprietà privata dei mezzi di produzione che accompagna tutti gli stadi di sviluppo del capitalismo, dallo stadio genetico alla centralizzazione dei capitali privati, dalle società per azioni ai monopoli e al capitalismo di Stato, viene messo completamente in secondo ordine, quando non viene travisato o taciuto.
Vedremo in seguito questa teoria capitalistico statale della concentrazione. Cerchiamo, adesso, di vedere il ruolo della concentrazione nella rotazione del capitale.
Concentrazione e rotazione del capitale
"L'esecuzione di opere dal periodo di lavoro considerevolmente lungo e su grande scala, spetta completamente alla produzione capitalista solo se la concentrazione del capitale è già molto notevole, e se, d'altra parte, lo sviluppo del sistema creditizio offre al capitalista il comodo espediente di anticipare e perciò anche di rischiare capitale estraneo anziché il proprio.
Tuttavia è di per sé evidente che il fatto che il capitale anticipato alla produzione appartenga o no a colui che lo impiega non ha alcuna influenza sulla velocità di rotazione e sul tempo di rotazione". (Il Capitale, II, Seconda Sezione " La rotazione del capitale " capitolo 12 "Il periodo di lavoro").
In questo caso Marx si riferisce particolarmente allo imprenditore edile, figura tipica di imprenditore capitalista senza capitale. Ma il discorso vale per ogni tipo di imprenditore capitalista. Spiega infatti Marx che il sistema creditizio anticipa il capitale alla produzione e questo è possibile, su grande scala, solo ad un certo grado di concentrazione del capitale ed ad un certo grado di centralizzazione del capitale, centralizzazione che è molto più rapida della concentrazione dei mezzi di produzione. La centralizzazione del capitale si manifesta nello sviluppo del sistema creditizio. Il credito quindi anticipa il capitale alla produzione e nella misura in cui il saggio del profitto sul capitale impiegato nella produzione cala in conseguenza dell'aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile, il credito svolge il ruolo di acceleratore della rotazione del capitale e di acceleratore della concentrazione stessa.
In sostanza, la centralizzazione del capitale tramite il sistema creditizio anticipa il processo di produzione del capitale anticipa la riproduzione allargata del capitale e quindi, la concentrazione del capitale e, in particolare, della parte fissa del capitale, dei mezzi di produzione.
Seguendo questo schema di Marx, possiamo concepire che ad una fase di sviluppo capitalistico, quella del capitalismo finanziario e dell'imperialismo, il processo di concentrazione si realizzi compiutamente nella centralizzazione del capitale e nel credito prima ancora che nella concentrazione dei mezzi di produzione. Avremo quindi l'impresa capitalistica senza capitale e tutto il capitale anticipato dal credito. In questo caso il grado di concentrazione dei mezzi di produzione di ogni singola impresa non solo è inferiore al grado di centralizzazione del capitale finanziario o di credito come è naturale, ma si può avere il massimo di centralizzazione del capitale finanziario o di credito (un unico centro finanziario-creditizio, un'unica banca) ed il minimo di concentrazione di imprese. Una banca e milioni di imprese, ad esempio.
Non è il caso della sola agricoltura: può essere anche il caso dell'industria.Il capitalismo di Stato e per alcuni aspetti il capitalismo di Stato in URSS ci fornisce un esempio di un tale sviluppo della concentrazione. Il capitale da anticipare è concentrato in un unico centro creditizio statale e l'impresa opera senza suo capitale e con il capitale anticipato dal credito statale. Siccome tutto il capitale viene anticipato, anche la parte fissa del capitale, i mezzi di produzione, anticipata e riprodotta in forma allargata appartiene al credito statale cioè allo Stato. Tutto il plusvalore appartiene pure al credito statale cioè allo Stato e costituisce un capitale addizionale da anticipare per un nuovo ciclo di produzione di capitale.
Questo schema di impresa senza capitale è perfettamente coerente e ha trovato riscontro, come abbiamo detto, in certe forme del capitalismo di Stato russo. Per molti aspetti ci aiuta a comprendere pure certi bassi gradi di concentrazione di certe imprese in alcuni settori russi.
Ma in generale e sempre in riferimento all'esempio russo, un problema importante sorge dall'interpretazione dello schema ed è quello riguardante il tempo di rotazione del capitale. Dice Marx:
"In quanto il credito media, accelera e aumenta la concentrazione in una sola mano, esso contribuisce ad abbreviare il periodo di lavoro e quindi il tempo di rotazione". (Il Capitale, II, 2, 12).
Se il credito aumenta la concentrazione sarà, infine, questa a determinare l'aumento della produttività del lavoro e, in definitiva, ad aumentare la massa del profitto che affluisce, come abbiamo visto nello schema di una impresa senza capitale, tutto al credito. Affinché l'aumento della produttività del lavoro sia tale, da un lato da compensare la caduta del saggio del profitto e dall'altro da accelerare la rotazione del capitale anticipato dal credito, occorre che la concentrazione dei mezzi di produzione della impresa aumenti in modo parallelo. Altrimenti sì che la composizione organica del capitale rimarrà bassa e tale da frenare la caduta del saggio del profitto, ma contemporaneamente rimarrà bassa la produttività del lavoro e la rotazione del capitale.
La massima centralizzazione del capitale non assicurerà di per se il massimo di rotazione del capitale. Il credito riverserà il capitale anticipato ad una massa di imprese a bassa concentrazione. Si verificherà uno scarto notevole tra la centralizzazione del capitale e la concentrazione nell'impresa, anche se la tendenza sarà sempre all'aumento della concentrazione dei mezzi di produzione nell'impresa. Lo scarto che si ripercuoterà nei ritmi della rotazione del capitale, sarà quindi tra il ritmo della centralizzazione del capitale ed il ritmo di concentrazione delle imprese.
Abbiamo cosi una particolare crisi del capitalismo di Stato. L'esperienza russa dimostra come il capitalismo di Stato si dibatta in contraddizioni che vedono, da un lato proprietà statale di mezzi di produzione per alcuni settori e centralizzazione finanziaria nella Banca Statale e dall'altro bassa concentrazione aziendale e bassa produttività del lavoro. La cosiddetta riforma economica ed il ruolo dell'azienda sono al centro delle attuali contraddizioni. Ovviamente questi sono solo alcuni aspetti della concentrazione nel capitalismo di Stato, aspetti che dimostrano che anche giunto alla massima centralizzazione statale il capitalismo non riesce a superare le sue contraddizioni, anzi le aggrava.
Naturalmente, il capitalismo di Stato e caratterizzato da molti altri aspetti ma a noi interessa rilevarne solo quelli connessi alla concentrazione, sulla falsariga della ipotesi formulata da Engels.
Concentrazione e centralizzazione del capitale
Del resto, già Marx, trattando il tempo di circolazione nella rotazione del capitale sottolinea che la concentrazione dei capitali viene favorita dallo sviluppo dei mezzi di trasporto:
"D'altro lato, all'inverso, questa particolare facilità di traffico e la rotazione del capitale così accelerata (in quanto essa viene condizionata dal tempo di circolazione) opera una accelerata concentrazione del centro di produzione da un lato, del suo mercato, dell'altro...Con la concentrazione cosi accelerata di masse di uomini e di capitale in punti dati, progredisce la concentrazione di queste masse di capitale in poche mani". (Il Capitale, II, 2, 14).
Quando si analizza il processo di concentrazione e ci si pone il problema di valutare il grado di concentrazione non bisogna dimenticare questo aspetto. L'analisi della centralizzazione del capitale non e sufficiente a comprendere tutto il processo della concentrazione e, quindi, di tutti i fattori che la accelerano, quali ad esempio lo sviluppo dei mezzi di trasporto, della concentrazione dei centri di produzione e del mercato, come ricorda
La centralizzazione del capitale, già permessa dall'aumento della produttività del lavoro, mette in moto un processo che poggia su leggi oggettive ma che si sviluppa dialetticamente in una reciproca influenza di vari fattori. Il grado di concentrazione sarà poi il risultato mai statico e sempre dinamico, dell'azione combinata di tutti i fattori. Ciò spiega perché i gradi di concentrazione siano estremamente variabili in ogni paese e su scala mondiale e come l'ineguale sviluppo del capitalismo si manifesti anche attraverso la variabilità dei gradi di concentrazione. La concentrazione è l'aspetto dello sviluppo capitalistico, un aspetto che noi astraiamo applicando determinati criteri scientifici e solo sulla base di questi criteri possiamo stabilire una coerente comparazione tra aziende, tra settori, tra economie di vari paesi. Ma quando dalla comparazione passiamo all'analisi di tutto il processo dobbiamo tener conto di tutti i fattori e tener presente che la loro azione dialettica determina in definitiva una situazione data.
Polemizzando nel 1895 con Struve, Lenin traccia una chiara distinzione tra oggettivismo e materialismo:
"L'oggettivismo parla della necessita di un determinato processo storico: il materialismo costata con precisione che esistono una determinata formazione economico sociale e i rapporti antagonistici che essa genera.
L'oggettivista, volendo dimostrare la necessita di una determinata successione di fatti, rischia sempre di cadere sul terreno dell'apologeta di questi fatti - il materialista mette in luce gli antagonismi di classe e in questo modo definisce la sua concezione.
L'oggettivista parla di "irresistibili tendenze storiche"; il materialista parla della classe che "gestisce" un determinato ordinamento economico, creando certe forme di resistenza da parte di altre classi In questo modo il materialista, da un lato e più coerente dell'oggettivista e applica il suo oggettivismo in modo più approfondito e completo.
Egli non si limita a indicare la necessità del processo, ma chiarisce con precisione quale formazione economico-sociale dà il contenuto a questo processo, quale classe precisamente determina questa necessità.
In questo caso, per esempio, il materialista non si sarebbe accontentato di costatare le "irresistibili tendenze storiche", ma avrebbe indicato l'esistenza di date classi, che determinano il contenuto degli ordinamenti esistenti ed escludono la possibilità di una via d'uscita al di fuori dell'azione dei produttori stessi.
D'altro lato, il materialismo racchiude in se, per così dire, la partiticità, imponendo, nella valutazione di ogni avvenimento , l'accettazione diretta e aperta del punto di vista di un determinato gruppo sociale".
(Lenin - Il contenuto economico del populismo e la sua critica nel libro del signor Struve - Opere Complete, I).
L'oggettivista odierno e colui che dimostra la necessità della concentrazione del capitale, il materialista e il leninista rivoluzionario che chiarisce con precisione quale classe de termina questa necessita e la valuta dal punto di vista del proletariato.
Concentrazione e processo complessivo della produzione capitalistica
Per riuscire a comprendere tutto il processo di concentrazione nelle leggi che lo regolano dobbiamo vedere due altri aspetti trattati da Marx. Il primo riguarda l'accumulazione e la riproduzione allargata vista questa volta, a differenza della prima, non nel processo di produzione ma nel processo di circolazione del capitale. Nella Terza Sezione del Libro Secondo, Marx tratta la riproduzione e In circolazione del ca. pitale complessivo sociale: quindi si pone il problema di analizzare la accumulazione capitalistica nella Sezione I, cioè nella sezione che produce i mezzi di produzione. Come avviene la concentrazione del capitale in questa sezione? Lo abbiamo già visto nel Libro Primo quando Marx dice che la concentrazione non e altro che un'espressione diversa della riproduzione allargata. Ma come il capitale prodotto dalla riproduzione allargata possa concentrarsi lo possiamo vedere solo seguendo il processo di circolazione del capitale complessivo sociale. Sara, quindi, compito del sistema creditizio quello di concentrare tutto il "capitale passivo", farlo circolare ed immetterlo nel processo di produzione.
"Si comprende quale sia il piacere se all'interno del sistema creditizio tutti questi capitali potenziali in conseguenza della loro concentrazione nelle mani di banche ecc. diventano capitale disponibile, lo enable capital (capitale che si può prestare), capitale monetario, e precisamente non più capitale passivo..." (Il Capitale, II, 3, 21).
L'altro aspetto trattato da Marx riguarda il processo complessivo della produzione capitalistica. Nel Libro Terzo, la concentrazione viene vista non più nella produzione e nella circolazione del capitale ma nel processo complessivo e nel ruolo che svolge nella trasformazione del plusvalore in profitto e nella trasformazione del saggio del plusvalore in saggio del profitto.
Marx vede come la concentrazione dei mezzi di produzione e la concentrazione degli operai intervenga nella economia fatta nell'impiego del capitale costante:
" In una grande fabbrica con uno o due motori centrali le spese relative a questi ultimi non crescono nella stessa proporzione della rispettiva sfera d'azione... La concentrazione dei mezzi di produzione apporta inoltre un risparmio di costruzione d'ogni genere, non soltanto quanto ai veri e propri stabilimenti, ma anche per i locali di deposito eccetera.
Tutta questa economia, che deriva dalla concentrazione dei mezzi di produzione e dalla loro utilizzazione in massa, presuppone pero come condizione essenziale l'agglomeramento e l'azione degli operai, vale a dire la combinazione sociale del lavoro. Essa trae origine quindi dal carattere sociale del lavoro allo stesso modo che il plusvalore proviene dal pluslavoro di ogni singolo operaio considerato isolatamente". (Il Capitale, III, 1, 5).
Sostiene inoltre Marx che vi è economia nell'impiego del capitale
costante oltre che per le suindicate condizioni nella singola azienda anche per lo sviluppo della produttività del lavoro in un settore della produzione che " si presenta come la condizione determinante della diminuzione del valore, e quindi del costo, dei mezzi di produzione in altri rami di attività".
L'economia nell'impiego del capitale costante e derivata, quindi, dal fatto " che il rialzo del saggio del profitto in un ramo d'industria e il risultato dello sviluppo della produttività del lavoro in un altro ramo ".
Marx fa l'esemplo dello sviluppo della produttività del lavoro nella produzione del ferro che ha diminuito il costo dei mezzi di produzione per l'industria tessile, permettendo perciò a questa di rialzare il saggio del profitto.
E' un fenomeno inverso a quello preteso da certi teorici " antimonopolistici ", da Stalin con la sua teoria del " massimo profitto monopolistico " a Baran-Sweezy con la loro teoria del monopolio.
L'esempio portato da Marx può essere esteso anche nell'attuale situazione di concentrazione monopolistica. Per l'Italia basta pensare alla lavorazione del ferro (siderurgia) e industria automobilistica (FIAT): lo sviluppo della produttività del lavoro nella siderurgia (tale da pareggiare la produttività siderurgica statunitense) ha diminuito il costo dei mezzi di produzione nell'industria automobilistica.
La concentrazione monopolistica non si caratterizza certamente per gli aspetti di "monopolio tecnico", "profitto massimo" e "prezzi di monopolio" sottolineati dagli "anti monopolisti", sempre alla ricerca di una industria "non monopolistica" da difendere o di una bandiera da rialzare per salvare una nazione dal "monopolio straniero".
Coerentemente alla teoria marxista sulla concentrazione monopolistica, Lenin negherà che il monopolio provochi la stagnazione economica e tecnologica e dirà invece: "La concorrenza si trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche".
La concentrazione:
caratteristica fondamentale del capitalismo
Lo sviluppo della produttività del lavoro in un altro ramo d'industria e un risultato indiretto. Si ha direttamente una economia di capitale costante "grazie alla concentrazione degli operai e alla loro cooperazione su vasta scala...", poiché macchine, installazioni ed edifici " costano proporzionalmente meno per i grandi che non per i piccoli complessi di produzione ".
Cioè si ottiene maggiore plusvalore "... nella maniera più economica possibile... con i più bassi costi possibili". (Il Capitale, III I, 5).
L'economia di capitale costante che si verifica con la concentrazione degli operai agisce come causa contrarrestante alla caduta tendenziale del saggio del profitto. Ma essa non e che un aspetto del processo di concentrazione del capitale e, quindi, della generale tendenza all'aumento relativo della parte costante nella composizione del capitale e della caduta del saggio del profitto.
Nella Terza Sezione del Libro Terzo Marx analizza la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto. Un capitolo, il 15º è dedicato proprio allo "Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge". Vediamo in questo capitolo solo quell'aspetto che ci interessa e cioè il rapporto tra la concentrazione del capitale e la legge della caduta del saggio del profitto.
Marx precisa subito questo rapporto con l'equazione:
"Caduta del saggio del profitto ed acceleramento della accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva".
Questa equazione viene a completare quella fatta nel Libro Primo (concentrazione = riproduzione su scala allargata) per cui avremo: concentrazione = accumulazione = caduta del saggio del profitto. Seguiamo ancora il testo: " L'accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determina la concentrazione del lavoro su ampia scala e di conseguenza una composizione superiore del capitale. D'altro lato la diminuzione del saggio del profitto accelera, a sua volta, la concentrazione di capitale e la sua centralizzazione mediante l'espropriazione di piccoli capitalisti, degli ultimi produttori diretti sopravvissuti... L'accumulazione in quanto massa viene con ciò accelerata, mentre il saggio di accumulazione diminuisce unitamente al saggio del profitto.
D'altro lato in quanto il saggio di valorizzazione del capitale complessivo, il saggio del profitto, e lo stimolo della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne costituisce l'unico scopo), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti ed appare come una minaccia per lo sviluppo del processo capitalistico di produzione: favorisce infatti la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale contemporaneamente ad un eccesso di popolazione". (Il Capitale, III, 3; 15).
Vediamo, adesso, di caratterizzare le tre principali contraddizioni intrinseche alla legge e in che modo sono collegate alla concentrazione:
"Il saggio del profitto diminuisce, non perché il grado di sfruttamento dell'operaio sia minore, ma perché viene impiegata una quantità di lavoro minore in rapporto al capitale impiegato.
Se, come è dimostrato, la diminuzione del saggio del profitto coincide con l'aumento della massa del profitto, ne risulta che il capitalista si appropria un quantitativo maggiore del prodotto annuo del lavoro sotto forma di capitale (per sostituire il capitale consumato), e un quantitativo relativamente minore sotto forma di profitto... A misura che il capitale speso si accresce, il profitto, anche se diminuisce come saggio aumenta come massa. Questo implica tuttavia al tempo stesso una concentrazione di capitale, poiché ora le condizioni di produzione richiedono l'impiego di capitali molto forti: e per conseguenza la centralizzazione, vale a dire l'assorbimento dei piccoli capitalisti da parte dei grandi e la loro ‘decapitalizzazione’". (Il Capitale, III, 3, 15).
La prima contraddizione, perciò, risulta chiara: il profitto, anche se diminuisce come saggio, aumenta come massa e ciò implica una concentrazione del capitale. La seconda contraddizione risiede nel fatto che:
"Contemporaneamente alla caduta del saggio del profitto aumenta il minimo di capitale che è necessario al capitalista individuale per la messa in opera produttiva del lavoro...
E nello stesso tempo s'accentua la concentrazione perché, oltre certi limiti, un grande capitale con un basso saggio del profitto accumula più rapidamente di un capitale piccolo con un elevato saggio del profitto. Questa crescente concentrazione provoca a sua volta, non appena abbia raggiunto un certo livello, una nuova diminuzione del saggio del profitto ". Si determina così, una " pletora di capitale ", ossia una eccedenza, " per il quale la caduta del saggio del profitto non è compensata dalla sua massa ". (Il Capitale, III, 3, 15).
Il capitale nella sua concentrazione giunge, così, ad essere una potenza sociale che domina la società, una potenza di cui il capitalista non è altro che un agente. Marx lo chiarisce in modo netto:
"Si e visto che un'intensificazione dell'accumulazione implica una concentrazione crescente del capitale. Aumenta in tal modo la potenza del capitale, si accentua la personificazione nel capitalista delle condizioni sociali di produzione nei confronti del produttore reale.
Il capitale si manifesta sempre più come una potenza sociale - d cui il capitalista e l'agente -... come una potenza sociale, estranea, indipendente che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale ". (Il Capitale, III, 3, 15).
Avevamo detto all'inizio che vi è uno stretto rapporto tra lo sviluppo della concentrazione e lo sviluppo della lotta di classe e che il problema della concentrazione e un problema politico perché occorre sapere in che modo il capitalismo e concentrato per poterlo combattere.
L'analisi di Marx ci riconduce a quella premessa. L'opportunismo, in tutte le sue varianti da quelle socialdemocratiche a quelle trotzkiste e maoiste, cerca il capitalista ed ha bisogno del capitalista per risalire al modo di produzione e alla natura sociale di un paese. Vi vuol vedere il capitalista personificato nelle condizioni sociali invece di vedere le condizioni sociali personificate nel capitalista. Impregnato di idealismo, l’opportunismo cerea sempre l'individuo fa dell'individuo una potenza sociale e della società un agente.
Marx ci ha insegnato a capovolgere i termini della questione, a mettere i piedi per terra.
Cercheremo il capitalismo nel suo modo di produzione e lo scopriremo come potenza sociale e nelle condizioni sociali di produzione. Individuare poi i suoi agenti in quanto individui, e problema secondario poiché e il più facile. Se c’è il capitale come potenza sociale ci sono i suoi agenti, ci sono i capitalisti. Immancabilmente li troveremo nei meccanismi della riproduzione allargata del capitale sociale, li troveremo nell'azienda, nel credito, nel commercio, cioè nella produzione e nella distribuzione. La loro collocazione di classe e la loro appartenenza alla classe capitalista sarà determinata, come dice Lenin, dal posto che occupano nel processo complessivo della produzione capitalistica più che dalla loro posizione giuridica nella proprietà dei mezzi di produzione, proprietà che può essere totalmente dello Stato.
Anche sotto questo profilo Marx e inequivocabile quando definisce "le tre caratteristiche fondamentali della produzione capitalistica" che sono:
1) "La concentrazione in poche mani dei mezzi di produzione...
2) L'organizzazione sociale del lavoro mediante la cooperazione, la divisione del lavoro e l'unione del lavoro con le scienze naturali.
In seguito alla concentrazione dei mezzi di produzione e alla organizzazione sociale del lavoro, il modo capitalistico di produzione sopprime, sia pure in forme contrastanti e la proprietà individuale e il lavoro privato.
3) La creazione del mercato mondiale". (Il Capitale, 111, 3, 15).
Concentrazione, divisione del lavoro, soppressione della proprietà individuale, creazione del mercato mondiale: ecco gli aspetti interdipendenti del dialettico processo di sviluppo capitalistico, ecco il movimento dell'evoluzione storica che parte dalla proprietà privata e dal lavoro individuale ed approda al capitale sociale, negazione dell'una e dell'altro.
Ad un certo stadio, il capitale sociale avrà un nome specifico: imperialismo.
La concentrazione del capitale nell'analisi dl Lenin
Coerentemente Lenin non avrà da portare innovazioni al "Capitale" di Marx: avrà solo da applicarlo. Da buon scienziato marxista adopererà il metodo de "Il Capitale", ricaverà le leggi che vi sono enunciate, le analizzerà nelle loro tendenze di sviluppo, le confronterà con la realtà concreta. Verificandole le applicherà e le svilupperà. Le leggi di sviluppo del capitalismo scoperte da Marx sono la concentrazione e la creazione del mercato mondiale, cioè la internazionalizzazione del capitale. In altri termini: la concentrazione del capitale a livello mondiale.
L'analisi di Lenin sulla fase imperialistica del capitalismo non è altro che l'analisi della concentrazione del capitale a livello mondiale, cioè l'analisi della tendenza di sviluppo alla concentrazione operante in una fase che il grado raggiunto dalla concentrazione ha determinato come imperialistica.
Non a caso il primo capitolo dell'Imperialismo di Lenin e dedicato a "La Concentrazione della produzione e i monopoli": gli altri capitoli non saranno altro che l'analisi sulle conseguenze mondiali derivate dall'azione della legge della concentrazione.
Nel primo capitolo, Lenin analizza a quale grado e giunta la concentrazione nell'ultimo decennio dell'800 e nel primo decennio del 900, cioè nel periodo che ha seguito la pubblicazione de "Il Capitale" e dell'Anti-Dhuring.
"Uno dei tratti più caratteristici del capitalismo e costituito dallo immenso incremento dell'industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie".
Qui Lenin riconferma la prima delle tre caratteristiche fondamentali indicate da Marx, e collocandola come il primo dei cinque contrassegni principali dell'imperialismo (capitolo VII) indica il grado di sviluppo a cui e giunta:
" La concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica...".
La legge della concentrazione e cosi posta storicamente:
" Da ciò risulta che la concentrazione, ad un certo punto della sua evoluzione, porta per cosi dire, automaticamente alla soglia del monopolio".
Ma ciò non vuol dire che tutto il processo di concentrazione si e trasformato in monopolio. Permane come processo in cui l'ineguale sviluppo della concentrazione nei due settori della produzione, nei vari rami industriali e nelle varie aziende determina il monopolio in alcune di queste e in alcuni rami industriali.
Lenin precisa:
" Nello stesso tempo i monopoli sorgendo dalla libera concorrenza non la eliminano, ma coesistono, originando cosi una serie di aspre e improvvise contraddizioni di attriti e conflitti".
In altre parole, il processo di concentrazione che ha ineguali gradi di sviluppo nei settori, nei rami di industria e nelle aziende crea il monopolio ed esaspera la concorrenza.
Il processo, che per sua natura è internazionale, proietta a livello mondiale le sue aspre e improvvise contraddizioni, i monopoli e la concorrenza esasperata.
" La possibilità dell'esportazione di capitali e assicurata dal fatto che una serie di paesi arretrati e già attratta nell'orbita del capitalismo mondiale...", dice Lenin collegando cosi internazionalizzazione del capitale e gradi ineguali di concentrazione, ossia gradi ineguali di sviluppo capitalistico, per cui l'eccedenza di capitali delle aziende monopolistiche di alcuni paesi è fenomeno connesso allo sviluppo del capitalismo in tutti i paesi, da quelli esportatori di capitali a quelli arretrati. Anzi:
"L'esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo".
Marx lo aveva già chiarito: la concentrazione del capitale accelera lo sviluppo del capitalismo ed accelera, quindi, la maturazione delle sue contraddizioni e delle sue crisi. Lenin vede l'azione di questa legge a livello mondiale, nella fase imperialistica. Viene qui messa a nudo la natura ideologica e borghese del le teorie " sottosviluppiste ", tipo Baran-Swessezy, le quali affermano che l’esportazione dei capitali dei paesi imperialisti frenano o addirittura bloccano lo sviluppo dei paesi arretrati. La prova che portano a dimostrazione è l'ineguale sviluppo tra paesi imperialisti e paesi arretrati. Ma questa prova non può contestare minimamente la tesi di Lenin poiché: 1) l'esportazione imperialistica di capitali è appunto la dimostrazione dell'ineguale sviluppo del capitalismo: 2) tale esportazione accelerando lo sviluppo capitalistico del paese arretrato incrementa l'ineguale sviluppo del capitalismo su scala mondiale, cioè porta l'ineguale sviluppo in nuovi settori, in nuovi rami, in nuove aziende; 3) il problema non riguarda, perciò, il solo rapporto tra due paesi o tra due gruppi di paesi, ma tutti i rapporti tra tutti i settori, tutti i rami d'industria, tutte le aziende del capitalismo mondiale, sia nelle sue zone avanzate che in quelle arretrate: 4) qualora un paese precedentemente arretrato avesse un ritmo di sviluppo più accelerato che quello ottenuto precedentemente esso influirebbe nel determinare una nuova situazione di ineguale sviluppo e una nuova graduatoria di paesi avanzati e paesi arretrati.
Tutta la storia dello sviluppo capitalistico dimostra la sua profonda ineguaglianza proprio nel fatto che non ci sono paesi stabilmente avanzati e paesi stabilmente arretrati.
La tesi di Lenin sull'esportazione imperialistica di capitali come fattore accelerante lo sviluppo dei paesi arretrati si basa su tutto il processo di concentrazione a livello mondiale. Essa afferma che lo sviluppo capitalistico ha una dimensione mondiale, e che l'esportazione di capitali accelera questo sviluppo che, per natura, e ineguale. Quindi non e il problema dell'ineguale sviluppo ad essere posto in discussione: caso mai l'analisi dovrà concentrarsi sulle forme che esso assume.
Su questo punto l'analisi di Lenin capovolge tutte le tesi dei "sottosviluppisti": l’esportazione dei capitali può determinare una stasi nei paesi imperialisti. Lenin lo afferma chiaramente:
"Pertanto se tale esportazione sino ad un certo punto, può determinare una stasi nello sviluppo dei paesi esportatori, tuttavia non può che dare origine a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo".
La concentrazione del capitale nella fase imperialistica accelera lo sviluppo del capitalismo in tutto il mondo. Seguendo lo sviluppo della legge della concentrazione giungiamo così ad inquadrarlo in una organica visione della strategia rivoluzionaria internazionale. Come avevamo detto l'analisi della concentrazione non è solo un problema statistico ma è un problema eminentemente politico per le conclusioni a cui conduce.
In nessun modo ci si può limitare, come fanno i teorici opportunisti di tutte le correnti, ad analizzare la concentrazione in alcuni paesi imperialistici senza vedere il processo mondiale di sviluppo capitalistico di cui la concentrazione nei paesi imperialistici non è altro che un aspetto, seppure macroscopico. Fare questo significa fare della pura esercitazione statistica.
Occorre invece affrontare lo sviluppo del capitalismo su scala mondiale, che vede ogni paese avanzato od arretrato come una componente di un sistema capitalistico internazionale, con una strategia rivoluzionaria della classe operaia internazionale.
La classe operaia di tutti i paesi avanzati e arretrati, deve lottare contro il capitalismo internazionale che è composto dai capitalismi di ogni paese.
La classe operaia deve, perciò lottare contro il proprio capitalismo avanzato o arretrato che sia. I rapporti imperialistici che si instaurano sul mercato mondiale, dal punto dl vista della classe operaia internazionale riguardano la lotta tra le varie frazioni capitalistiche, sia tra quelle dei paesi imperialistici e quelle dei paesi capitalistici in sviluppo, sia tra quelle dei paesi imperialistici stessi, per la ripartizione del plusvalore.
La strategia proletaria internazionale deve tenere conto di questi rapporti allo scopo di approfittare delle contraddizioni che determinano delle crisi che possono essere trasformate in crisi rivoluzionarie, ossia in rotture degli anelli più deboli del sistema mondiale dalle quali possa avere inizio la marcia della rivoluzione internazionale della classe operaia.
("Lotta Comunista" n.33-34,feb.-mar. 1969 e 40-41,feb.-mar. 1970)
Ultima modifica 11.09.2001