L'imperialismo unitario

Arrigo Cervetto (1950-1980)

 


Trascritto per internet da Dario Romeo, settembre 2001

Capitolo nono
LA QUESTIONE CINESE, 1959-1969
Nota introduttiva
Cronologia
Le "Comuni popolari" e lo sviluppo del capitalismo in Cina
Ruolo oggettivo della Cina nella lotta internazionale della classe operaia
Lenin e la rivoluzione cinese
L'internazionalismo proletario e la rottura cino-sovietica
Né Mosca né Pechino
Punti fermi sulla questione cinese
Russia e Cina: un conflitto capitalistico
La teoria maoista del Fronte Unito

 

Lenin e la rivoluzione cinese

Prefazione all'edizione del 1969
Cinque scritti di Lenin sulla Cina
Il ruolo progressista della guerra rivoluzionaria
Il populismo cinese: un falso socialismo che realizza un vero capitalismo
L'Oriente percorre la via dell'Occidente
Fra cinquant'anni vi saranno molte Shanghai
L'internazionalismo di Lenin come centro creatore di una visione mondiale dei fenomeni sociali
La crisi imperialista è il prodotto della lotta tra le vecchie e le nuove potenze
Il problema della inevitabilità della guerra
I falsi dilemmi russo-cinesi
L'involuzione russa ha confermato l'analisi leninista sull'imperialismo
La guerra imperialista ha permesso lo sviluppo delle rivoluzioni in Asia
La rivoluzione socialista ha il centro in Occidente
"Meglio meno, ma meglio"
La guerra tra le potenze imperialiste infrangerà la morsa sulla Germania
L'Oriente è entrato definitivamente nella fase capitalista
L'oppressione imperialista impedisce lo sviluppo della rivoluzione in Germania
"In questo senso" la vittoria definitiva del socialismo è assicurata
Come conservare il potere operaio sino alla crisi imperialista

Prefazione all'edizione del 1969
Giunti alla terza edizione di questo lavoro, riteniamo utile premettere alcune osservazioni relative alla sua odierna validità e attualità, alla luce dei recenti e recentissimi sviluppi della situazione in esso analizzata nelle sue basi storiche e teoriche.

Scritto nel 1962 e pubblicato per la prima volta sotto forma di una serie di articoli, "Lenin e la rivoluzione cinese" doveva assolvere ad una funzione ben precisa, come è del resto specificato fin dalle prime righe del testo: il nostro proposito non era, né poteva essere, quello di fare previsioni a breve scadenza sul contrasto cino-sovietico, che allora stupiva e metteva in imbarazzo con le sue prime manifestazioni pubbliche i borghesi e gli opportunisti, ma quello di analizzarne le radici e le tendenze alla luce della strategia internazionale della lotta rivoluzionaria della classe operaia.

Oggi, a distanza di anni, riconfermiamo la validità della nostra analisi e ne vediamo puntualmente verificati tutti i previsti sviluppi. La controrivoluzione staliniana è partita dalla teoria del "socialismo in un paese solo." È arrivata là dove non poteva che arrivare: al conflitto armato tra due paesi che si proclamano "socialisti." Si è smascherata nel solo modo in cui si doveva smascherare: a colpi di cannone più che a colpi di parole.

La storia, che è storia di classi e di lotte di classi, ha più ironia e più testardaggine che qualsiasi individuo, grande o piccolo che sia. L'individuo è frazione di tempo, è mortale, non può attendere e perciò è ingannato. La storia è il tempo, può attendere e non si lascia ingannare. Sa che verrà il giorno in cui si vendicherà stabilendo la sua verità: questa è la sua ironia.

Non è un'ironia della storia che siano i cannoni russi e cinesi a dover dire la verità sul fiume Ussuri? Non è un'ironia della storia che siano essi, prodotto dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, a parlare più chiaramente di qualsiasi bocca d'uomo? Non si può ingannare la storia, non si può dire che si costruisce socialismo quando si costruisce capitalismo. Quello che si è costruito dimostrerà un giorno la sua natura, e lo farà con violenza. In URSS si è costruito capitalismo, in Cina si è costruito capitalismo. Il risultato è dato dai fatti: la concorrenza tra due capitalismi. Questi sono i fattori delle ideologie del "socialismo" russo e cinese.

E più i fatti vanno avanti, più queste ideologie sono costrette a mettere a nudo tutta la loro essenza nazionalistica, cioè a dimostrare il loro carattere di sovrastrutture di capitalismi nazionali. Sui confini asiatici si stanno affrontando, infatti, i due più potenti capitalismi sviluppatisi nel nostro secolo, e la loro spinta è tanto più forte quanto più hanno fatto del nazionalismo la rozza ideologia mobilitante centinaia di milioni di contadini. Il grandioso tentativo ideato da Lenin di rompere l'anello più debole della catena imperialista in Russia doveva dare uno dei risultati previsti da Lenin stesso: o la rivoluzione proletaria in Occidente o un balzo capitalistico in Oriente.

La controrivoluzione staliniana, contraccolpo della controrivoluzione socialdemocratica e fascista in Occidente, aprì la strada alla seconda soluzione. Lo scontro tra l'imperialismo russo e il capitalismo cinese non significa altro se non che Lenin aveva visto giusto. Lo sviluppo del capitalismo in Oriente comincia a pagare le prime scadenze. Da un lato lo sviluppo del capitalismo di Stato russo dà un contenuto industriale alle tradizionali correnti espansionistiche dell'imperialismo in Asia. Dall'altro lo sviluppo del capitalismo di Stato cinese permette oggi una maggiore resistenza alla penetrazione russa, anche se non è in grado di arrestarla. Nella prospettiva l'imperialismo russo ha la possibilità di portare avanti l'industrializzazione della Siberia e dell'Estremo Oriente incluso nell'URSS: su questo cammino dell'industrializzazione in quella zona marcia la spinta militare russa sui confini asiatici e la sua capacità offensiva. Lo sviluppo dell'industrializzazione cinese non è in grado di invertire questa marcia, e più passa il tempo, più aumenta lo svantaggio della Cina.

Però la Cina non è più il paese semifeudale che in passato doveva assistere passivamente all'espansione russa. Se in Russia un enorme Stato ha raccolto tutte le tendenze dello sviluppo capitalistico, in Cina un altro Stato ha compiuto l'unificazione ed ha avviato il processo dell'industrializzazione capitalistica. Per la prima volta nella storia i confini asiatici, che avevano visto innumerevoli conflitti di Stati feudali, vedono adesso ergersi in contrapposizione due enormi Stati capitalisti che hanno moltiplicato per cento la loro forza, la loro concorrenza e la loro rivalità.

Alla luce di questi fatti, possiamo rilevare oggi come la nostra analisi di sette anni fa si sia rivelata esatta e ci abbia fornito la possibilità di individuare nelle loro linee di tendenza gli sviluppi a cui oggi assistiamo. Se facciamo questa constatazione, non è certo per il compiacimento intellettuale di vedere avverate le nostre previsioni. La funzione del partito rivoluzionario non è e non può essere solo quella della "previsione." Il marxismo ci fornisce gli strumenti di analisi per individuare e "prevedere" le tendenze dello sviluppo capitalistico, i suoi contrasti, le sue contraddizioni, le sue lacerazioni: per questo il marxismo è una scienza. Ma la "previsione" è per i rivoluzionari solo il presupposto dell'azione politica, della lotta politica: per questo il marxismo è soprattutto la scienza della rivoluzione, la scienza del rapporto tra le situazioni oggettive storicamente determinate e l'intervento soggettivo e cosciente del partito.

Se quindi, ripetiamo, constatiamo la giustezza della nostra analisi alla prova dei fatti, è per riconfermare ancora una volta la validità di un metodo che da decenni i borghesi e gli opportunisti si affannano a negare, a "rivedere" e a falsificare, e che ogni volta si prende la sua rivincita nella cruda realtà dei fatti. Il gioco infernale del turbine capitalistico trascina ormai le immense steppe nella sua corsa costellata di sangue e di fuoco. Il circolo è completo e avvolge tutti i paralleli. La talpa capitalistica scava ormai le piste sabbiose dei deserti e quelle ghiacciate dei fiumi dell'Estremo Oriente e sta facendo a pezzi le false bandiere del socialismo. Si avvicina l'ora in cui la bandiera rossa dell'internazionalismo sarà la bandiera della riscossa dei lavoratori russi e cinesi, che rapidamente consumeranno l'infante esperienza di massacrarsi in nome del "socialismo nazionale."

Cinque scritti di Lenin sulla Cina
Prima e dopo il XXII Congresso abbiamo messo in rilievo il problema dei rapporti Russia-Cina e tutti gli innumerevoli riflessi che ne derivavano. Questo problema ha indubbiamente una portata storica che trascende la polemica contingente per assumere l'aspetto e il ruolo di una tendenza a lunga scadenza.

Compito del marxismo rivoluzionario è quello di individuare, studiare e descrivere questa tendenza, e non quello di fare profezie per l'immediato domani; ed è appunto nell'assolvimento di questo compito, nell'applicazione fedele dell'analisi marxista che viene ad esprimersi chiaramente una demarcazione netta, che ci separa da ogni specie e sottospecie di opportunismo. Per noi la teoria rivoluzionaria si traduce nella strategia rivoluzionaria ed è in questo solco della tradizione marxista e leninista che continueremo la battaglia di orientamento e di chiarificazione su tutta una serie di problemi che il contrasto cino-sovietico ha portato confusamente alla ribalta, ma che, oggettivamente, maturano dalla prima metà del nostro secolo. Nei loro aspetti generali questi problemi non sono nuovi per il marxismo. Anzi, Marx ed Engels se ne occuparono costantemente e genialmente, sino a fornire una validissima bussola di interpretazione storica, sociale, economica e politica nei loro scritti che recentemente Bruno Maffi ha diligentemente raccolto e commentato nel volume "India, Cina, Russia."

Nell'epoca dell'imperialismo, Lenin continuò l'opera dei maestri nella sua analisi dell'Oriente, sino ad elaborare una visione strategica che nei suoi cardini è validissima e che deve costituire la linea generale con cui, oggi, dobbiamo affrontare i problemi asiatici.

Vi sono, nel pensiero di Lenin, alcuni punti fissi di riferimento nella sua analisi "orientale" che, oltre a testimoniare quale enorme importanza egli attribuisse all'Oriente, stanno a dimostrare come il suo interesse non fosse momentaneo o contingente, bensì una costante organica della sua opera. Tra i suoi scritti possiamo indicare cinque articoli (del 1908, del 1912, del 1921, del 1923) che abbracciano un arco di quindici anni e in cui troviamo una continuità ferrea di coerenza teorica e un conseguente sviluppo politico e strategico. Non si tratta quindi di osservazioni occasionali e neppure di brillanti previsioni, cioè di tesi che possono, per la loro natura transitoria, essere staccate da tutto un corpo teorico e manipolate in un gioco di citazioni: no, osservazioni, previsioni, giudizi, perfino i termini, formano un tutto unico e sono, a distanza di anni, ripetuti, ribaditi, allargati sino a costituire una dialettica di riaffermazione e di approfondimento. Nell'articolo "Sostanze infiammabili della politica mondiale", pubblicato nel "Proletari" nell'agosto 1908, Lenin individua in Asia una delle forze motrici della rivoluzione internazionale.

"L'operaio europeo cosciente ha già dei compagni asiatici - scrive - ed il numero di questi compagni crescerà, non di giorno in giorno, ma di ora in ora." Perché? Quali forze storiche hanno dato inizio a questo movimento? "Con la rapina coloniale dei paesi asiatici gli europei hanno permesso uno sviluppo nazionale indipendente. Non c'è nessun dubbio che la secolare spoliazione dell'India per opera degli inglesi, che l'attuale lotta di questi europei "progrediti" contro la democrazia indù e persiana temprerà milioni e decine di milioni di proletari in Asia per una lotta vittoriosa (come quella dei giapponesi) contro gli oppressori."

Lenin si riallaccia qui, magistralmente, alla tesi sostenuta da Marx nel l'articolo del "New York Tribune" del 14 giugno 1853. Aveva detto Marx: "Il conflitto degli estremi, come sappiamo, può essere e può non essere un principio così universale, ma se ne può vedere un esempio evidente nell'influenza che la rivoluzione cinese ha probabilmente avuto sul mondo civile."

Il capitalismo europeo, giunto al suo estremo imperialistico, genera l'"estremo" opposto della rivoluzione asiatica, della formazione del proletariato asiatico, della guerra di indipendenza nazionale. Lenin non si ferma al filisteismo piccolo borghese secondo il quale vi sono dei limiti che la lotta di liberazione nazionale non deve sorpassare. Egli indica nel Giappone e nelle sue "grandi vittorie militari che gli hanno permesso uno sviluppo nazionale indipendente" uno dei modelli "temprati" dalla rapina coloniale imperialistica.

La guerra contro l'oppressore russo ha permesso al Giappone uno sviluppo nazionale indipendente. È un modello di guerra di indipendenza nazionale e non una guerra imperialista. Eppure il Giappone aveva già l'indipendenza politica, anzi - come osserva Lenin nella polemica del 1916 con la Luxemburg sul "diritto di autodecisione" delle nazioni - è stata proprio l'indipendenza politica che ne ha permesso lo sviluppo capitalistico; e ciò Lenin sosteneva contro coloro che sottovalutavano o addirittura non riconoscevano l'importanza della lotta per la conquista dell'indipendenza politica delle nazioni oppresse. D'accordo, diceva Lenin, sussiste la dipendenza economica, sussiste il dominio economico e finanziario dell'imperialismo anche sui paesi politicamente indipendenti, ma l'indipendenza politica e la creazione di uno Stato nazionale sono la prima tappa necessaria per la lotta contro la dipendenza economica dell'imperialismo e costituiscono le prime leve dell'intervento statale per la creazione di un mercato nazionale.

Il ruolo progressista della guerra rivoluzionaria
Indicando il Giappone nelle sue "grandi vittorie militari" come esempio di "lotta vittoriosa contro gli oppressori", Lenin segna chiaramente la linea di differenziazione che divide i marxisti dagli opportunisti. Per i rivoluzionari esiste una differenza fondamentale tra la guerra imperialista e la guerra di indipendenza nazionale e da questa differenza deriva la posizione che deve assumere l'avanguardia della classe operaia: disfattismo e trasformazione della guerra imperialista in guerra civile nella nazione imperialista, alleanza con le masse lavoratrici della nazione oppressa.

Ma la lotta d'indipendenza nazionale non è limitata alla liberazione del territorio nazionale occupato dalla potenza colonialista. Per assicurarsi uno "sviluppo nazionale indipendente", uno sviluppo che gli consenta una effettiva indipendenza economica, il giovane Stato indipendente deve colpire militarmente l'imperialismo che lo minaccia, deve portare fuori dai suoi confini la sua capacità di controffensiva, deve disgregare con la violenza le basi strategiche nemiche che lo accerchiano, deve sviluppare la sua guerra rivoluzionaria. Solo con questa dinamica "la lotta contro gli oppressori" diventa vittoriosa "come quella dei giapponesi", dice Lenin. Con questo metro si può misurare il grado di sviluppo e la forza del giovane capitalismo asiatico, come ieri la capacità e la forza del capitalismo giacobino si misurarono non tanto nella difesa dei confini della Francia rivoluzionaria, quanto nell'invasione del Belgio per portare le armate sanculotte a stritolare alle spalle la cospirazione realista dell'Europa reazionaria.

Il Giappone diventerà imperialista, e come tale Lenin lo annovererà tra gli Stati impermalisti del mondo, quando avrà raggiunto una interna maturità capitalistica, quando si alleerà con le potenze bianche nella prima guerra mondiale per partecipare alla suddivisione del mercato mondiale, quando occuperà delle zone asiatiche non per portare avanti la guerra rivoluzionaria contro l'imperialismo occidentale, ma per compiervi opera di rapina coloniale e di sfruttamento capitalistico, quando, insomma, parteciperà alla lotta per la suddivisione del mercato asiatico. Le giovani forze capitalistiche giapponesi ad un certo grado di sviluppo diventano imperialistiche e non è la forma militare del loro sviluppo che le caratterizza, bensì l'opposto: è l'aspetto quantitativo (concentrazione capitalistica, eccedenza di capitali, esportazione di capitali) e qualitativo (capitalismo monopolistico, imperialismo) del loro sviluppo che caratterizza la loro tendenza militare.

Occorre avere ben chiara la concezione marxista del carattere delle guerre per poter affrontare la questione orientale in tutti i suoi aspetti, specie oggi che il problema della guerra diventa un problema chiave della posizione cinese e lo diventa non già per una pseudo aggressività della polemica cinese, quanto per la relativa debolezza con cui la Cina sostiene la sua polemica. Per tutta una serie di considerazioni, pensiamo che la Cina non sia ancora arrivata al suo 1905 ed è molto discutibile che vi possa giungere nel prossimo futuro. I fattori che permisero l'aggressività del 1905 giapponese giocano, oggi, tutti a sfavore della Cina; e, forse, vi è da aggiungere la Cina non ha ancora potuto attraversare tutto il ciclo di sviluppo industriale e capitalistico che il Giappone attraversò abbastanza indisturbato. O forse il problema è più complesso e concerne molti aspetti affrontati da Trotsky nella sua teoria della "rivoluzione permanente" applicata alla Cina e cioè l'impossibilità di portare avanti una rivoluzione democratico-borghese. Ma, senza soffermarsi adesso su di una problematica che affronteremo in seguito, un primo elemento di giudizio pensiamo possa essere tratto da un'applicazione attuale della concezione leninista della guerra rivoluzionaria in Asia: oggi non siamo ancora a questa tappa. La Cina non solo non è ancora in grado di sferrare la sua battaglia del Pacifico, le sue Tsushima o i suoi Port Arthur, ma non è in grado neppure di liberare Formosa. Per comprendere alcune cause di questa situazione occorre studiare meglio il movimento cinese e ritornare a Lenin.

Il populismo cinese:
un falso socialismo che realizza un vero capitalismo
Nell'articolo del 1908, Lenin, dopo aver dato un giudizio ben preciso sull'India dove "il proletariato è già elevato alla lotta politica cosciente" dice che "sul movimento rivoluzionario antimedievale" cinese "non si può ancora dire niente di preciso" data la scarsità delle informazioni, tuttavia "il forte aumento del "nuovo spirito" e delle "influenze europee" in Cina, specialmente dopo la guerra russo-giapponese (ecco un altro grande risultato della guerra rivoluzionaria giapponese) è incontestabile, e perciò è inevitabile il passaggio dalle vecchie rivolte cinesi ad un movimento democratico cosciente."

Infatti "influenze europee" e "giapponesi" - e non tradizioni nazionali come teorizzano certi intellettuali piccolo borghesi europei e gli allievi di Mao Tse-tung - rendono inevitabile il passaggio.

Lenin può, nel 1912, nell'articolo "Democrazia e populismo in Cina", pubblicato nel luglio nella "Nevskaia Zvedza", commentare il programma e l'ideologia del movimento democratico cinese, il programma di Sun Yat-sen, ed inizia a farlo definendo Sun Yat-sen "rappresentante europeizzato della combattiva e vittoriosa democrazia cinese." E aggiunge: "Il democratico cinese avanzato ragiona letteralmente come un russo. La sua rassomiglianza coi populisti russi è così grande che giunge fino all'identità completa delle idee fondamentali e di tutta una serie di singole espressioni. L'esempio di Sun Yat-sen ci mostra in che cosa consista "il significato sociale" delle idee nate da un profondo movimento rivoluzionario di centinaia e centinaia di milioni di uomini i quali, oggi, sono definitivamente attratti nella corrente della civiltà mondiale capitalistica."

"Definitivamente attratti dalla civiltà mondiale capitalistica": ecco come Lenin ci spiega il segreto "occidentale" per cui il populismo russo ha superato la Grande Muraglia e parla cinese. "E che? Questo significa forse che l'Occidente materialista è putrefatto e che la luce splende solo dall'Oriente mistico, religioso? No. Proprio l'opposto. Questo significa che l'Oriente si è incamminato definitivamente sulla via dell'Occidente, che altre centinaia e centinaia di milioni [sottolineato da Lenin] di uomini parteciperanno d'ora innanzi alla lotta per quegli ideali per i quali l'Occidente ha cessato di battersi."

L'Oriente percorre la via dell'Occidente
Centinaia di milioni di uomini percorrono la via dell'Occidente: ecco ciò che di essenziale trova Lenin nel risveglio dell'Oriente e della sua rivoluzione democratica. In termini classisti ciò significa internazionalizzare, rendere mondiale la lotta di classe. Lenin non ricerca le radici del movimento e della sua ideologia populista nella tradizione "orientale": le ricerca e le trova nel processo "occidentale" della formazione delle classi anche in Cina.

"Il rappresentante principale, o il principale appoggio di questa borghesia asiatica, ancora capace di un'opera storicamente progressiva, è il contadino." La direzione borghese, la tendenza storica a creare le condizioni per lo sviluppo di una economia capitalistica, costituiscono l'aspetto oggettivamente progressivo del movimento. Il fatto che questo movimento poggi sulla stragrande maggioranza dei contadini e il fatto stesso che oggettivamente questa maggioranza si muova non più nella rivolta tradizionale, ma verso obiettivi capitalistici, imprimono un forte slancio democratico alla rivoluzione cinese. Da queste condizioni generali nasce il carattere particolare del populismo cinese, cioè del trapianto del populismo in Cina.

Scrive Lenin: "Ma questa ideologia della democrazia militante si accoppia, nel populista cinese, innanzi tutto con dei sogni socialisti, con la speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo ed in secondo luogo col piano e con la propaganda di una riforma agraria radicale. Queste due ultime tendenze ideologiche e politiche rappresentano precisamente l'elemento costitutivo del populismo nel senso specifico della parola e cioè distinto dalla democrazia, complemento della democrazia."

E qui Lenin ci dà un saggio di applicazione dialettica: dice che i populisti cinesi sono soggettivamente socialisti perché sono contro l'oppressione delle masse e perché hanno tratto le loro idee di libertà in Europa e in America "dove è già all'ordine del giorno la liberazione dalla borghesia, cioè il socialismo", dice che lo sfruttamento contro cui combatte il populismo non può essere - per le condizioni obiettive della Cina - che "solo un aspetto definito, storicamente originale di questa oppressione e di questo sfruttamento, e precisamente il feudalesimo"; quindi il programma soggettivamente socialista e democratico dei populisti cinesi si traduce in pratica nel "programma della distruzione del solo sfruttamento feudale."

Il movimento dialettico della forze sociali che attuano la storia nella fase dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria viene così trascritto nella profonda concezione materialista di Lenin: il capitalismo esporta nelle aree asiatiche il suo "estremo", il capitale e l'idea socialista; da questo "estremo" la rivolta asiatica può diventare definitivamente una rivoluzione democratico-borghese. Sono le idee "soggettivamente socialiste" a dare un corso decisamente capitalistico a quella rivoluzione, a darle cioè tutta la forza e lo slancio per portare a fondo lo sviluppo capitalistico. Ecco come Lenin ci insegna, oggi che ci troviamo di fronte ai movimenti immensi in Asia e "soggettivamente socialisti", a saper analizzare le forze sociali che si muovono grazie o malgrado le ideologie, a saperle giudicare non per quello che hanno di "falso in senso formalmente economico", ma per quello che hanno di "vero nel senso storico-universale".

È troppo facile per un marxista irridere una ideologia arretrata, è troppo facile perché marxisticamente non corretto. Lenin ci insegna a saper individuare quale movimento sociale una ideologia esprime ed in quali condizioni storiche ed economiche essa si inserisce: sarà dal rapporto struttura-sovrastruttura che scaturirà il giudizio marxista, e non da una unilaterale ed astratta considerazione della sovrastruttura ideologica.

Non a caso Lenin, nell'articolo "Due utopie", scritto nell'ottobre 1912, cioè tre mesi dopo aver scritto quello sulla Cina, ma pubblicato inedito nel 1926, approfondendo i concetti esposti sul populismo cinese, dirà che "non bisogna dimenticare le parole significative di Engels" (prefazione alla "Miseria della Filosofia"): "Quello che è falso in senso formalmente economico, può essere vero nel senso storico-universale..." Engels enunciò questa tesi profonda a proposito del socialismo "utopistico", il quale era "falso" quando dichiarava che il plusvalore era una ingiustizia dal punto di vista delle leggi di scambio, ma era "vero" nel senso storico-universale perché era "il sintomo, l'espressione, il precursore" della classe operaia.

"È necessario ricordare - ribadisce Lenin - la tesi profonda di Engels, quando si vuol dare un apprezzamento dell'utopia contemporanea, populista o trudovika in Russia (forse non soltanto in Russia, ma in tutta una serie di Stati asiatici che attraversano, nel XX secolo, delle rivoluzioni borghesi). Il democratismo populista, falso nel senso formalmente economico, nel senso storico è una verità; falso come utopia socialista, questo democratismo è una verità di quella lotta democratica, originale, storicamente determinata, delle masse contadine, che costituisce un elemento inseparabile della trasformazione borghese e la condizione della sua vittoria completa."

Fra cinquant'anni vi saranno molte Shanghai
Vediamo come Lenin non si dimentica la tesi profonda di Engels - che è poi la più felice sintesi della storia delle rivoluzioni democratico-borghesi e del democratismo populista che le ha permesse e fatte trionfare - nell'individuare l'essenza del populismo di Sun Yat-sen: "Questa teoria, dal punto di vista della dottrina, è la teoria di un reazionario "socialista", piccolo borghese. Infatti, l'illusione che in Cina sia possibile "prevenire" il capitalismo, che in Cina, grazie alle condizioni arretrate del paese, sia più facile la "rivoluzione sociale", ecc., è assolutamente reazionaria. E Sun Yat-sen, con una semplicità inimitabile, vorrei dire verginale, distrugge egli stesso completamente la propria teoria populista reazionaria riconoscendo ciò che la vita costringe a riconoscere e precisamente: "La Cina è alla vigilia di un gigantesco sviluppo industriale" (cioè capitalistico); in Cina il "commercio" (cioè il capitalismo) raggiungerà proporzioni enormi, fra cinquant'anni vi saranno da noi molte Shanghai, e cioè molti centri di ricchezza capitalistica e di indigenza e miseria proletaria, con milioni di abitanti. Ma ci domandiamo - e questo è il nocciolo della questione, il punto più interessante dinanzi al quale si arresta spesso lo pseudo marxismo liberale, mutilato e castrato -, ci domandiamo se Sun Yat-sen difende, in base alla propria teoria economica reazionaria, un programma agrario effettivamente reazionario. E questo è il bello: non è così. La dialettica dei rapporti sociali della Cina consiste appunto nel fatto che i democratici cinesi, simpatizzando sinceramente col socialismo europeo, lo hanno trasformato in una teoria reazionaria e, sulla base di questa teoria reazionaria che vuote "prevenire" il capitalismo, attuano un programma agrario puramente capitalistico, capitalistico al massimo grado."

Infatti, spiega ancora Lenin, la nazionalizzazione della terra, propugnata dal populismo cinese, "dà la possibilità di distruggere la rendita fondiaria, lasciando solo quella differenziale." La rendita assoluta, distruggendo i rapporti medievali dell'agricoltura, passa allo Stato e ciò permette "massima libertà di scambio commerciale della terra, massima facilità di adattamento dell'agricoltura al mercato: ecco che cosa significa nazionalizzazione della terra secondo la dottrina di Marx... È possibile una simile riforma nel quadro del capitalismo? Non soltanto è possibile, ma rappresenta di per sé il capitalismo più puro, conseguente al massimo grado, idealmente perfetto... L'ironia della storia sta nel fatto che il populismo, in nome della "lotta contro il capitalismo", applica all'agricoltura un programma agrario la cui piena attuazione importerebbe il più rapido sviluppo del capitalismo nell'agricoltura." La chiarezza della metodologia marxista impiegata da Lenin è di una forza irresistibile. Ci troviamo di fronte ad una lezione di marxismo che ci fornisce tutti gli elementi per giudicare l'attuale struttura cinese e lo stesso programma di Mao Tse-tung senza possibilità di equivoci.

Di fronte a questa pagina di Lenin tutte le teorie pseudosocialiste di Stalin e di Mao sulla nazionalizzazione della terra cadono a brandelli. E a brandelli cade pure quello pseudomarxismo castrato che crede di aver scoperto la luna scoprendo "falso come un'utopia socialista" il democratismo di Mao e, abbagliato da questa scoperta, non ne sa vedere il ruolo di creatore di un immenso mercato capitalistico. Non è certo in queste scoperte o in questi rifiuti che risiede una necessità di scelta da parte del marxismo rivoluzionario. La scelta è chiara e la indica Lenin: "Infine, nella misura in cui sorgeranno in Cina delle Shanghai, il proletariato si svilupperà."

Quindi, nessuna necessità di scelta e molte necessità di approfondire quella problematica che Lenin imposta. Lenin si chiede quale necessità economica ha provocato in Cina, uno dei paesi agricoli più arretrati dell'Asia, uno dei più avanzati programmi agrari borghesi e risponde che due sono state le cause: la necessità di distruggere il feudalesimo in tutti i suoi aspetti e la necessità di impedire la decomposizione nazionale minacciata dal suo crescente ritardo nei confronti dell'Europa e del Giappone. Sono necessità attuali, come attuale è il quesito posto da Lenin: riuscirà la rivoluzione cinese nei suoi obiettivi? Ed in quale misura?

A noi sembra che uno dei problemi di fondo, aperto dal quesito di Lenin, sia sostanzialmente questo: può la rivoluzione cinese attuare il suo "programma agrario puramente capitalistico, capitalistico al massimo grado"? In linea generale si potrebbe rispondere di sì, ma il quesito non potrebbe essere isolato da un altro: quale rapporto vi può essere, nell'attuale fase di imputridimento imperialistico, tra il ritmo di accumulazione, e perciò di industrializzazione, e il "più rapido sviluppo del capitalismo nell'agricoltura" in Cina? Già Lenin avverte: "Diversi paesi, durante la loro rivoluzione borghese, applicarono svariate gradazioni di democrazia politica e agraria, combinandole, per giunta, nei modi più vari. La situazione internazionale e il rapporto delle forze sociali in Cina saranno decisivi."

L'internazionalismo di Lenin come centro creatore di una visione mondiale dei fenomeni sociali
Lenin ha indicato la tendenza di sviluppo capitalistico della rivoluzione cinese, sviluppo che per le condizioni obiettive dell'agricoltura e per le condizioni soggettive del programma impostato dalla maturità classista tende ad essere "capitalistico al massimo grado". L'ineguale sviluppo del capitalismo nel mondo dovuto alla fase imperialista determina condizioni settoriali in cui vi è la tendenza al massimo grado di sviluppo capitalistico nelle campagne cinesi.

Sostanzialmente è l'internazionalizzazione del capitalismo che provoca questa "ironia della storia" e, nello stesso tempo, la condiziona. Ed è in questa concezione, che teorizza la dialettica come legge del movimento delle forze sociali su scala mondiale e che ad esse non si sovrappone, ma che da esse estrae l'analisi delle tendenze e l'impostazione della strategia, l'esame delle situazioni e la tattica, è in questo punto cruciale nel quale il marxista si distingue dal pedante sociologo, che Lenin dimostra di essere il continuatore di Marx, il grande allievo che applica la scienza del "Capitale" nella tempesta sociale che l'imperialismo semina nel mondo.

Non si trattava solo di scoprire le leggi di sviluppo economico in Cina - Kautsky lo fece per la Russia e per il mondo coloniale - non si trattava solo di "descrivere": si trattava soprattutto di "interpretare" le tendenze di tali leggi di sviluppo. Di qui il "salto qualitativo" e l'essenza internazionalista del suo pensiero. Se non si capisce il fondamento scientifico del pensiero internazionalista di Lenin non si capisce niente, né la Rivoluzione d'Ottobre, né il suo giudizio sulla rivoluzione cinese, né la geniale strategia che lega rivoluzioni socialiste e rivoluzioni asiatiche alla crisi delle potenze imperialistiche.

Lenin è internazionalista perché il suo pensiero e la sua azione sono il centro creatore di una visione internazionale dei fenomeni sociali, e riescono ad abbracciare - in una dialettica astratto-concreto - a scindere e a riunificare nel loro movimento questi fenomeni sociali in tutta la loro universale linearità e in tutta la loro particolare complessità, in tutta la loro interdipendenza e in tutta la loro peculiarità, in tutti i loro caratteri "internazionali" e in tutti i loro caratteri "nazionali."

Vediamo come, nell'articolo del 1908, ha saputo tirare conclusioni "internazionali" dall'analisi delle rivoluzioni asiatiche: "E questo passo avanti di tutto il socialismo internazionale, insieme con l'aggravamento della lotta democratica rivoluzionaria in Asia, pone la rivoluzione russa in condizioni speciali e particolarmente difficili. La rivoluzione russa ha un grande alleato internazionale sia in Europa che in Asia, ma in pari tempo, proprio in seguito a questo [sottolineato da Lenin], ha un nemico non solo nazionale, non solo russo, ma internazionale... Le sostanze infiammabili aumentano così rapidamente in tutti i paesi progrediti del mondo, l'incendio si estende così manifestamente alla maggioranza degli Stati dell'Asia, ieri ancora immersi in un sonno profondo, che il rafforzamento della reazione borghese internazionale e l'aggravarsi di ogni singola rivoluzione nazionale sono assolutamente inevitabili."

Ecco quindi, esposti in modo chiaro, alcuni nodi centrali della strategia leninista, che saranno poi alla base della rivoluzione d'Ottobre e dell'attività dell'Internazionale Comunista.

Li vedremo sviluppati negli articoli del 1915, del 1921 e del 1923; pertanto crediamo utile fissarli:

1) lo sviluppo imperialistico provoca non solo l'esplosione della rivoluzione asiatica ed il suo carattere democratico-borghese, ma ne accentua, pure, la spinta democratica rivoluzionaria;
2) le forze motrici - "sostanze infiammabili" - della rivoluzione internazionale aumentano, perciò, rapidamente;
3) il fronte e lo scontro della lotta delle classi assume dimensioni mondiali;
4) la reazione della borghesia internazionale si rafforza perché diventa una reazione internazionale;
5) ogni singola rivoluzione nazionale (sia nei paesi progrediti che in Asia) si aggrava inevitabilmente;
6) la "particolarità" di ogni singola rivoluzione nazionale è quindi costituita - in seguito all'estendersi del fronte di lotta e delle forze motrici che vi intervengono - dalla sua interdipendenza mondiale, dalla reazione borghese internazionale che provoca e dall'aggravarsi del suo corso;
7) la rivoluzione russa, proprio perché in questo estendersi del fronte rivoluzionario trova un grande alleato internazionale, sia in Europa che in Asia, proprio perché ha la possibilità oggettiva, nel saldare queste alleanze, di potenziare le forze motrici della rivoluzione internazionale e di colpire tutto lo schieramento imperialistico, non può più avere dei limiti nazionali, come ormai nessuna rivoluzione, neppure quella asiatica, può più avere: di qui l'evoluzione del pensiero di Lenin sui compiti della rivoluzione russa ed il suo cogliere il maturare di nuove "particolarità" con il passaggio dalla formula "dittatura democratica degli operai e dei contadini" a quella della "dittatura del proletariato"; la rivoluzione russa è posta in condizioni "speciali" e "particolarmente difficili." Abbiamo anche in questo caso un esempio di definizione marxista della "particolarità" di una rivoluzione, che dimostra il contenuto controrivoluzionario dell'uso che l'opportunismo - socialdemocratico, staliniano, krusceviano o maoista - fa del termine "particolarità", "condizioni particolari", "caratteri nazionali", ecc. L'opportunismo dietro la nozione di "particolarità" maschera sempre il riformismo, la collaborazione di classe, il contrabbando del capitalismo di Stato con l'etichetta socialista. Ogni politica nazionale o internazionale ed ogni svolta politica è spiegata e giustificata dall'opportunismo con presunte "condizioni particolari" e con "particolarità nazionali".

Il marxismo non si sogna certo di negare la "particolarità", anzi, per la prima volta nel pensiero sociale eleva la "particolarità" da rozza ricognizione empirica a generalizzazione scientifica. Solo il marxismo è in grado di definire scientificamente le "particolarità" di una fase storica e di un singolo momento di questa fase. Ed è ciò che magistralmente fa Lenin nel definire le particolarità della fase imperialista; ma, a differenza dell'opportunismo di allora e di oggi, nel suo pensiero l'analisi delle "particolarità" non è l'adattamento riformistico alle condizioni "locali" o "nazionali", ma proprio l'opposto. Per Lenin la "particolarità", il "nuovo" della fase imperialistica è la "internazionalizzazione della rivoluzione"; da questo fatto oggettivo deriva l'aggravamento di ogni singola rivoluzione nazionale. Oggi, a distanza di cinquant'anni da questa scoperta marxista, dobbiamo ancora sentire parlare di "vie nazionali", di "vie democratiche", di "vie pacifiche"!

Dobbiamo tener presente questa tesi leninista non solo nei confronti della Rivoluzione d'Ottobre, che ne è la più pratica convalida - ecco il carattere scientifico dell'analisi leninista, che è previsione esatta in quanto è studio oggettivo del movimento delle classi e della loro lotta su scala mondiale, e non brillante per quanto geniale supposizione - dobbiamo tenerla presente anche e soprattutto nei confronti della rivoluzione asiatica e, in particolare, della rivoluzione cinese.

Lenin aveva individuato la "particolarità" di sviluppo della rivoluzione cinese come sviluppo verso il capitalismo più avanzato. In questi articoli individua un'altra "particolarità", quella che frena, ostacola questa tendenza, che accomuna "ogni singola rivoluzione nazionale" e ne aggrava il corso e lo sviluppo perché, internazionalmente, ne eleva la portata.

A noi sembra che questo importante aspetto della teoria sull'imperialismo di Lenin possa contribuire più di ogni altro ad affrontare la problematica posta dallo sviluppo della rivoluzione cinese.

La crisi imperialista è il prodotto della lotta tra le vecchie e le nuove potenze
Nell'articolo sugli Stati Uniti d'Europa, pubblicato nel "Sozialdemokrat" il 23 agosto 1915, Lenin, sostenendo la tesi che "gli Stati Uniti d'Europa in regime capitalistico o sono impossibili o reazionari", traccia un rapido quadro della visione internazionale che sintetizza la sua concezione strategica, in cui anche il problema della rivoluzione asiatica trova una giusta collocazione.

Negli scritti specifici sulla rivoluzione asiatica, e cinese in particolare, Lenin aveva analizzato il movimento interno e le sue tendenze. Adesso l'analisi si fissa sul coordinamento dei fattori interni e dei fattori esterni, sul loro equilibrio e sul loro squilibrio: ne esce, appunto, l'analisi dell'imperialismo e delle "particolarità" che l'imperialismo, come fenomeno internazionale, ha determinato su scala mondiale, e quindi nazionale.

L'imperialismo è perciò il capitale "divenuto internazionale e monopolistico", cioè "esportazione di capitale e divisione del mondo tra potenze "progredite" e "civilizzate" da una parte e coloniali dall'altra." A questa grande divisione segue la suddivisione che quattro grandi potenze, Inghilterra, Francia, Russia e Germania, hanno fatto di circa la metà della superficie terrestre e su una popolazione di mezzo miliardo di uomini per il dominio coloniale. Aggiungiamo in questa ripartizione imperialistica, dice Lenin, "i tre Stati asiatici, Cina, Turchia e Persia" che "potrebbero essere definiti semicoloniali", ma che in realtà "oggi sono colonie per nove decimi" e vedremo che "il mondo è stato diviso tra le grandi potenze, cioè tra le potenze che hanno avuto successo nel saccheggio e nella oppressione delle nazioni": le quattro grandi potenze europee.

Questo è il primo elemento chiaro, il primo dato di fatto della situazione mondiale, la prima evidente "caratteristica generale", senza la quale sarebbe puramente astratto parlare della rivoluzione asiatica e cinese.

La seconda "caratteristica" - o "particolarità" o "novità" - risiede nel fatto che "l'Inghilterra e la Germania hanno investito all'estero non meno di 70 miliardi di rubli" da cui traggono un profitto di tre miliardi di rubli all'anno.

Abbiamo quindi un fenomeno economico che caratterizza lo sviluppo dell'imperialismo: l'esportazione di capitale. Ed è questo fenomeno che caratterizza, più del semplice possesso coloniale, la dinamica dell'imperialismo, i rapporti tra le grandi potenze e le condizioni generali in cui vengono ad operare le rivoluzioni nei paesi coloniali e semicoloniali. Non a caso, nella teoria leninista dell'imperialismo, l'esportazione di capitale, il sovrapprofitto imperialistico e la sua funzione corruttrice della aristocrazia operaia e di agente ritardante la crisi rivoluzionaria nei paesi capitalisti assumono un ruolo qualitativamente così importante.

Non si tratta solo di vedere come delle quattro potenze che dominano il mondo e costituiscono le forze dell'imperialismo una, la Russia, non partecipi alla esportazione di capitale, ma sia essa stessa importatrice. Si tratta invece di individuare la legge di sviluppo dell'imperialismo, è più solamente suddivisione coloniale del mondo, che non ma che diviene soprattutto dominio finanziario attraverso la conquista del mercato operata con l'esportazione del capitale; in base a questa analisi vedere come l'imperialismo, complesso contraddittorio di gruppi vecchi e nuovi, si muove, si sviluppa, determina nuovi equilibri, provoca nuovi conflitti, influisce sul corso delle rivoluzioni coloniali.

Solo analizzando l'imperialismo come fenomeno mondiale dinamico e non statico, la strategia di Lenin può vedere il movimento della "catena" che lega il mondo, e individuare, di volta in volta, come prodotto del movimento e non solo delle situazioni nazionali, gli "anelli più forti" e gli "anelli più deboli" su cui colpire, sia alternativamente che simultaneamente ("la rivoluzione russa ha un grande alleato sia in Europa che in Asia") con la rivoluzione proletaria e con la rivoluzione asiatica. Solo perché coerentemente marxista Lenin, compiendo il processo inverso degli opportunisti di ieri e di oggi, ha saputo trovare le "particolarità" universali dell'epoca imperialista. Di conseguenza è in grado di elaborare le "particolarità" della strategia rivoluzionaria ed elevare questa da pura e semplice registrazione della spontaneità a direzione cosciente, teorica e politica, della crisi rivoluzionaria su scala mondiale.

Il problema della inevitabilità della guerra
La direzione cosciente della strategia rivoluzionaria implica non soltanto la conoscenza scientifica delle tendenze di sviluppo dell'imperialismo, della sua dinamica contraddittoria e la conoscenza delle forze economiche e politiche che determinano la suddivisione del mondo, gli accordi e i conflitti a questa inerenti. La direzione cosciente della strategia implica soprattutto la coscienza del meccanismo economico-sociale con il quale queste forze capitalistiche si muovono e in che direzione si muovono. Conosciuto e individuato il processo intimo di tale meccanismo, ne deriva la conoscenza del suo movimento.

La strategia rivoluzionaria non è più soltanto l'arte dell'insurrezione, ma diviene soprattutto l'applicazione metodologica dell'analisi delle forze economiche e del loro movimento, sino a determinare situazioni oggettive in cui diviene possibile e storicamente necessaria l'arte dell'insurrezione.

Lenin definisce chiaramente il criterio metodologico per l'analisi del fattore fondamentale che è al centro del movimento delle forze imperialistiche: "In regime capitalistico gli Stati Uniti d'Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie. Ma in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza... Non si può dividere se non secondo la forza. E la forza cambia nel corso dello sviluppo economico. Dopo il 1871 la Germania si è rafforzata tre o quattro volte più rapidamente dell'Inghilterra e della Francia, il Giappone dieci volte più rapidamente della Russia. Per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalista non c'è e non può esserci altro mezzo che la guerra. La guerra non è in contraddizione con le basi della proprietà privata, ma ne è lo sviluppo diretto e inevitabile. In regime capitalistico non è possibile un ritmo uniforme dello sviluppo economico, né delle singole aziende, né dei singoli Stati. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di quando in quando l'equilibrio scosso all'infuori della crisi nell'industria e della guerra nella politica. Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati Uniti d'Europa, come accordo tra i capitalisti europei. Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa e per salvaguardare tutti insieme le colonie usurpate, contro il Giappone e l'America che sono molto lesi dall'attuale spartizione delle colonie e che, nell'ultimo cinquantennio, si sono rafforzati con rapidità immensamente maggiore dell'Europa ritardataria, monarchica, la quale comincia a putrefarsi per senilità. In confronto agli Stati Uniti d'America, l'Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. Sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa significherebbero l'organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell'America."

Lo sviluppo economico di un singolo Stato capitalista nei confronti degli altri Stati capitalisti è, quindi, il fattore fondamentale del movimento delle forze imperialistiche e la base oggettiva del rapporto tra queste forze. Il ritmo di sviluppo ed il grado di sviluppo economico diventano il criterio metodologico per definire tale rapporto di forze. Il problema dell'equilibrio e della guerra perde, nel pensiero di Lenin, ogni valutazione soggettiva, idealistica e moralistica per diventare il risultato di una valutazione oggettiva, materialistica, dialettica. Per gli opportunisti di ieri e di oggi non vi è altra scelta (ed essi l'hanno fatta ieri e oggi) che l'abbandonare ogni forma di valutazione oggettiva e razionale sul problema del rapporto tra le forze imperialistiche e della guerra e rifugiarsi nelle più trite formulazioni soggettive ed irrazionali ("la volontà di pace", "la collaborazione fra i popoli", ecc.) contribuendo, come è nella loro funzione, a disarmare ancora una volta il proletariato della sua ideologia, della sua superiorità scientifica nell'analisi dei fenomeni sociali, della sua possibilità di intervenire quando l'equilibrio delle forze imperialistiche viene scosso e di impedire, con la sua rivoluzione, che venga ricomposto con la guerra.

E non a caso la propaganda sul problema della guerra ha un corso parallelo alla maturità imperialistica dell'URSS e, nella misura in cui l'ideologia krusceviana diventa l'espressione di una consolidata classe dirigente di tipo capitalistico, essa capovolge tutta la concezione leninista del problema. E ciò viene fatto adoperando uno dei più classici metodi opportunistici: il travisamento, la falsificazione. La concezione leninista sul problema della guerra viene, di proposito, confusa con una generica concezione sulla inevitabilità della guerra, e viene confinata in una antimarxistica ed irrazionalistica concezione fatalista della inevitabilità della guerra. Da quanto abbiamo sopra citato, risulta chiaramente invece che la concezione di Lenin è quanto di più antífatalistico abbia concepito il pensiero umano, e ciò non per un rifiuto "volontaristico" della fatalità della guerra, ma per la conquista conoscitiva del processo inevitabile, o determinato, dei fenomeni sociali di cui la guerra è solo un aspetto, e della stessa inevitabilità che le contraddizioni che hanno determinato tali fenomeni diventino cause di crisi rivoluzionarie e condizioni oggettive per i movimenti rivoluzionari.

Guerra e rivoluzione sono aspetti di uno stesso fenomeno "inevitabile" perché prodotto dai rapporti di produzione capitalistici giunti ad un determinato livello storico i quali, per il loro stesso sviluppo, non possono che manifestarsi su scala mondiale, manifestarsi come "ineguaglianza dello sviluppo economico e politico."

Guerra e rivoluzione sono, perciò, gli aspetti contraddittori della ineguaglianza dello sviluppo economico e politico "come legge assoluta del capitalismo." Fatalismo è l'ignoranza della realtà dei fenomeni reali, non la conoscenza scientifica delle leggi che regolano questa realtà e questi fenomeni. Definire "fatalistica" la concezione leninista, ben inteso dopo averla completamente deformata, della "inevitabilità" della guerra (e della rivoluzione, cioè della inevitabilità delle contraddizioni dell'imperialismo, come cerchiamo, con Lenin, di ribadire) significa negare il marxismo come scienza e farlo indietreggiare al pre-Manifesto, al "socialismo utopistico", cioè operare a fini capitalistici una bella azione di evirazione, che priva la classe operaia della sua superiorità teorica.

I falsi dilemmi russo-cinesi
Se noi seguiamo la polemica russo-cinese sul problema della guerra, vedremo come quest'opera sia giunta già a buon punto. Da ambo le parti e per motivi di politica nazionale - il che, ovviamente, non esclude che la politica nazionale russa possa essere imperialista e quella cinese antimperialista - si citano, per negarle o confermarle, singole parti e affermazioni staccate della teoria di Lenin, secondo il tipico metodo staliniano.

La teoria leninista dell'imperialismo è troppo organica per poter essere smembrata e accettata per singole parti e se è sottoposta ad una simile revisione non può che risultare una pseudo teoria marxista, molto vicina, in senso peggiorativo però, a quella versione del marxismo data dall'eruditissimo Kautsky ed in cui, come Lenin dimostrò, l'essenza rivoluzionaria era completamente sparita. Era rimasta una innocua sociologia, buona per tutti gli usi, specie i più sporchi. Russi e cinesi non fanno molto di diverso, anzi lo fanno in modo più grossolano, sul leninismo. I loro falsi dilemmi sulla coesistenza pacifica e la guerra corrispondono ai loro, in forte misura divergenti, interessi nazionali di sviluppo, e non all'interesse internazionale del proletariato, che è totalmente rappresentato dall'integrale teoria leninista in quanto punta massima della coscienza universale della classe.

La concezione leninista dell'imperialismo rappresenta la coscienza universale del proletariato, non solo perché si presenta storicamente come momento unificatone di fronte ai riformistici, e sostanzialmente borghesi, interessi nazionali, e non solo perché è la dimostrazione scientifica che gli interessi internazionali sono i soli interessi di una classe internazionale sfruttata e oppressa internazionalmente. Essa lo è perché l'antagonismo delle due classi fondamentali della nostra epoca e il processo che le porta allo scontro non è sovrapposto al movimento delle forze imperialiste, ma è concepito come una loro componente antitetica e rivoluzionaria.

La forza di una potenza imperialistica che si è rafforzata quattro o dieci volte più di un'altra risiede, dice Lenin, nel suo sviluppo economico. Ma questo non è altro che lo sviluppo di forze produttive espresse da rapporti di produzione capitalistica e sviluppo di forze produttive significa sviluppo del proletariato. Uno Stato capitalista diventa una potenza imperialistica ed è in grado di "mettere alla prova la sua forza reale" per rompere l'equilibrio mondiale e per crearne uno nuovo, solo nella misura in cui ha sviluppato nel suo interno il suo mortale nemico proletario. Lo Stato capitalista esporta non solo la sua forza ma, soprattutto, le contraddizioni di classe che ha creato nel suo sviluppo economico, anzi esso ha una forza imperialistica proprio perché ha sviluppato al massimo le sue contraddizioni di classe. Solo l'incapacità del capitalismo a risolvere sul suo mercato nazionale le contraddizioni fra le forze produttive e i rapporti di produzione, generate nel suo sviluppo, crea l'espansione imperialistica e con l'imperialismo le contraddizioni di classe, che essenzialmente sono costituite dall'incessante lotta di classe, vengono esportate ed estese su scala mondiale.

L'imperialismo è il prodotto della crisi del capitalismo e la negazione di un suo impossibile sviluppo pacifico. Ne deriva che l'imperialismo è nello stesso tempo la dilazione della crisi capitalistica e la condizione della sua generalizzazione: la natura moderna della rivoluzione coloniale risiede, appunto, nelle conseguenze di questa duplice manifestazione imperialista, ed in questa trova forza e debolezza.

Se, nel caso specifico, la rivoluzione cinese assume un carattere democratico-borghese ed una spinta radicale dalla necessità storica di demolire a fondo il feudalesimo e dal riflesso positivo che riceve dalla vittoria militare del Giappone contro la Russia zarista, essa, per le stesse ragioni, non può non essere determinata anche dallo sviluppo imperialistico del Giappone e degli Stati Uniti.

A distanza di mezzo secolo, possiamo valutare appieno la profondità e il carattere scientifico, basato sul validissimo criterio metodologico del ritmo di sviluppo economico comparato, dell'analisi di Lenin a proposito del ruolo che verranno ad assumere le nuove potenze imperialistiche del Giappone e degli Stati Uniti.

Coloro che si dilettano, con un infantilismo che è tanto più volgare quanto più si ammanta di modernità sociologica, a scegliere alcune affermazioni di Lenin, isolate e staccate da tutto il loro organico contesto teorico, per dimostrarne l'infondatezza, dovrebbero meditare sulla grande lezione che Lenin ha dato nell'individuazione delle nuove potenze imperialiste e della lotta che le avrebbe contrapposte alle vecchie, in una serie di guerre in cui avrebbero potuto "mettere alla prova la loro forza reale" per ristabilire un nuovo equilibrio mondiale ed una nuova suddivisione del globo.

La storia di questo nostro secolo non può più essere intesa se non si considera l'espansione imperialistica del Giappone e degli Stati Uniti, così come, senza questa espansione, non possono più essere comprese le due guerre mondiali e quest'ultimo dopoguerra. Siamo giunti ad un punto di sviluppo nei rapporti di forza tra le potenze imperialistiche in cui anche un particolare aspetto dell'analisi di Lenin - quello riguardante il carattere reazionario degli Stati Uniti d'Europa come organizzazione "per frenare lo sviluppo più rapido dell'America" (l'obiezione contingente sull'attuale superiorità dei ritmi europei cade di fronte alla valutazione marxista sul capitale totale, cioè capitale investito, capitale esportato e potenzialità produttive) e per "salvaguardare, tutti insieme, le colonie usurpate contro il Giappone e l'America" - trova una attualissima e validissima conferma nel MEC.

Perché, dunque, solo lo sviluppo della Rivoluzione d'Ottobre deve continuare ad essere considerato come l'unico metro di giudizio della concezione strategica di Lenin? Perché all'interno di tale concezione esso deve esaurire tutti gli altri aspetti?

L'involuzione russa ha confermato l'analisi leninista sull'imperialismo
A noi sembra che nell'affrontare il problema della Rivoluzione d'Ottobre si compia una artificiosa forzatura nel pensiero di Lenin e che ciò conduca a tutta una serie di errori. Primo: ritenere la Rivoluzione d'Ottobre il perno centrale di tutta la concezione strategica di Lenin. Secondo: vedere, analizzare, valutare l'imperialismo e il suo sviluppo solo da questo ristretto angolo visuale. Terzo: deformare l'analisi e la valutazione dell'imperialismo introducendo sproporzionatamente in queste il corso della lotta di classe in Russia e la controrivoluzione staliniana. Quarto: fare dipendere tutto lo sviluppo internazionale dallo sviluppo nazionale russo, anche se questo, ovviamente, ha determinato forti ed innegabili influenze internazionali. Quinto: perdere, in questo modo, la capacità di misurare le reali interdipendenze internazionali ed il nesso dialettico tra situazioni nazionali e situazione mondiale.

In altre parole si è finito col portare la questione russa e lo stalinismo al centro del mondo, cioè con l'accettare, indirettamente, il terreno della validità universale dello stalinismo stesso.

Ciò ha portato ad una conseguenza teorica: falsa, perché errata, o almeno restrittiva, era l'interpretazione che si dava della strategia leninista, ossia la tesi che la strategia leninista era soprattutto una strategia della rivoluzione nei paesi arretrati. Sostanzialmente in questa teoria hanno finito per coincidere socialdemocratici e staliniani. Gli uni e gli altri hanno in pratica cercato di dimostrare l'impossibilità della rivoluzione socialista nei paesi capitalisticamente maturi, gli uni - con la loro stessa esistenza e con l'efficacia della loro attività controrivoluzionaria - sostenendo il sistema capitalista, gli altri proclamando la possibilità del "socialismo in un paese solo", sostenendo come unica alternativa valida "l'edificazione del socialismo" nell'URSS, costruendo in realtà l'economia del capitalismo di Stato.

Certamente l'involuzione della rivoluzione russa ha portato delle conseguenze enormi sul piano della liquidazione dell'avanguardia rivoluzionaria internazionale, sul fenomeno della socialdemocratizzazione del proletariato occidentale, sull'attività controrivoluzionaria dello stalinismo in Russia e negli altri paesi, sulla falsificazione dell'ideologia marxista, sul corso delle rivoluzioni coloniali, sul loro ritardo e sulle loro parziali involuzioni, in particolare modo sulla rivoluzione cinese.

Ma l'involuzione russa segue e non precede una situazione mondiale imperialista che permise la rottura dell'"anello più debole" della catena, ma che non permise la rottura degli "anelli più forti."

Questo è il punto fondamentale della concezione strategica di Lenin ed è su questo punto che occorre verificare se questa concezione è valida o no.

Vi sono due modi per constatarne la validità. Il primo parte dal presupposto che la Rivoluzione d'Ottobre conferma la validità strategica di rompere l'anello più debole per avere la possibilità di rompere la catena. Il secondo anello - la Germania - resiste perché la socialdemocrazia si erge a bastione controrivoluzionario in difesa del capitalismo e schiaccia il movimento rivoluzionario. La Russia isolata non può che ricadere nell'involuzione staliniana.

Il secondo modo parte, a nostro avviso, dallo stesso presupposto e ne accetta quasi tutte le implicazioni. Inquadra però la rivoluzione russa, il suo corso e la sua involuzione nella legge più generale di una crisi dello sviluppo imperialistico, di cui l'involuzione della rivoluzione russa è una manifestazione, e non la risoluzione. Se questa legge generale, la legge di sviluppo imperialistico, è valida, ne risulta che tutta la concezione strategica di Lenin viene confermata. Ed è ciò che noi affermiamo non solo in base alla Rivoluzione d'Ottobre, anzi partendo dalla sua involuzione.

L'involuzione della Rivoluzione d'Ottobre dimostra, infatti, la validità di quella legge di sviluppo imperialistico che potremmo chiamare legge di accumulazione imperialistica, in quanto legge che regola il processo capitalistico di riproduzione allargata e che ne determina le violentissime crisi (guerre e rivoluzioni).

Come lo scoppio della Rivoluzione d'Ottobre è il prodotto e la conferma dell'insanabile crisi dell'imperialismo nel suo processo di accumulazione mondiale, così la sua involuzione viene ad accentuare questo processo, in quanto aumenta le forze produttive del capitalismo, accelera il corso imperialistico, porta nuove e proletarie "sostanze infiammabili" per la rivoluzione mondiale.

Oggettivamente l'Ottobre russo, nel suo assalto e nella sua inevitabile involuzione, ha assolto il grande compito rivoluzionario di ampliamento accelerato del processo di accumulazione imperialistico. Ciò conferma la legge economica che è alla base della strategia di Lenin. Possiamo dire di più: vittoriosa o sconfitta, la rivoluzione russa confermava questa legge, così come la vittoria o la sconfitta della Comune di Parigi non poteva di certo annullare la validità della legge della concentrazione capitalistica scoperta da Marx. Oggi, a distanza di novant'anni, la validità della legge della concentrazione capitalistica è lampante e indiscutibile. Eppure passarono quasi cinquant'anni prima che la concentrazione capitalistica maturata in imperialismo determinasse le condizioni per una seconda rivoluzione proletaria! Nel frattempo il revisionismo di destra e di centro mise in dubbio la legge della concentrazione capitalistica, e, quello che è più importante, mise in dubbio che la stessa concentrazione capitalistica potesse determinare una rivoluzione proletaria. Il revisionismo ormai dilagante crede di aver trovato una conferma alla sua tesi nella rivoluzione russa e nella mancata rivoluzione europea. La rivoluzione, dice, avviene in Russia e in Cina, dove poca o inesistente è la concentrazione capitalistica, e non nell'Occidente industrializzato e altamente capitalistico.

Ma se ritorniamo al pensiero di Lenin, nella sua esatta formulazione e non nella deformata visione staliniana o krusceviana, potremo rispondere che la rivoluzione avviene in Russia e in Cina appunto perché il mondo è capitalisticamente maturo e perché la concentrazione capitalistica su scala mondiale è giunta al punto di rottura rivoluzionaria. Se il capitalismo non fosse maturato al suo stadio imperialistico, non avremmo avuto la rivoluzione russa e la rivoluzione cinese, e non le avremmo avute, soprattutto, ai loro diversi livelli qualitativi, la prima come rivoluzione socialista e la seconda come rivoluzione democratico-borghese. Le avremmo probabilmente avute a un gradino storico più basso, rispettivamente come rivoluzione democratico-borghese e come rivoluzione contadina feudale.

Se ciò è ben chiaro in Lenin, è chiaro pure perché queste rivoluzioni, determinate da un dato grado di sviluppo mondiale, non abbiano potuto sviluppare queste premesse quando tale livello mondiale non solo si è stabilizzato, ma ha trovato nel suo seno nuove forze imperialistiche - quali gli Stati Uniti e il Giappone - che, spinte dalla loro crescita economica, imprimevano nuovo slancio alla ripartizione del mercato, alla soluzione bellica dei rapporti di forza, e alla dilazione della crisi generale.

Se l'imperialismo mondiale, pur in una crisi gigantesca e a prezzo di distruzioni immense, ha trovato ancora tante forze da sopravvivere ed espandersi, ciò vuol dire che il giudizio della crisi imperialista dato da Lenin non è valido? Assolutamente no. Con la prima guerra mondiale si è aperta l'epoca della crisi imperialistica e delle rivoluzioni proletarie. Si è aperta, e non chiusa, e un'epoca storica non dura un anno. La Rivoluzione d'Ottobre, intimamente legata com'è alla prima guerra mondiale, è il primo risultato di quest'epoca, e il fatto che si sia conclusa con l'apporto di nuove forme capitalistiche e imperialistiche sulla scena mondiale, con tutto quello che ne deriva nell'ingigantirsi e nell'acuirsi della lotta per la suddivisione del mercato, è proprio la dimostrazione che l'epoca della crisi imperialista e delle rivoluzioni proletarie sta per esaurire tutte le sue risorse e per avvicinarsi alla sua soluzione finale.

Se ciò non fosse avvenuto, se la Russia non avesse edificato il capitalismo di Stato, se la Russia non fosse giunta alla sua attuale maturità imperialistica, allora tutta la teoria marxista dello sviluppo economico si sarebbe dimostrata non più valida e la concezione, poggiante appunto su quella teoria, della rivoluzione di Lenin saltata in aria.

Oggi il proletariato non avrebbe avuto, in quel caso, una strategia scientificamente valida della rivoluzione socialista nei paesi capitalisti. Grazie all'esperimento russo (e a quello cinese in misura minore, dato il minore grado di sviluppo capitalistico) il proletariato internazionale ha invece la certezza che la strategia indicata da Lenin è quella giusta e che la rivoluzione socialista matura al fuoco della crisi dell'imperialismo.

Depuriamo, quindi, la concezione strategica da ogni influenza soggettivistica, rendiamole la purezza che ha nel pensiero di Lenin ed avremo lo strumento teorico per la rivoluzione proletaria nei paesi capitalistici più avanzati, cioè l'unica "via al socialismo" nei "punti alti" del capitalismo.

Sotto questo aspetto anche il problema dell'opportunismo assume la sua reale e oggettiva base. L'opportunismo, nella sua odierna e violenta forma controrivoluzionaria, è una manifestazione dell'imperialismo, la sua prima trincea di difesa. Per la sua stessa natura, l'opportunismo è la linea di difesa capitalistica che meglio può contenere, frenare e sgretolare i movimenti rivoluzionari delle masse, ma può fare questo solo nella misura in cui si sorregge alla struttura capitalistica che difende. In fondo la capacità controrivoluzionaria dell'opportunismo è data, con tutte le naturali mediazioni, dal grado di intensità della crisi capitalistica. L'opportunismo è una delle soluzioni della crisi e, proprio in ragione di ciò, può esserlo solo quando la crisi ha ancora delle possibilità di soluzioni capitalistiche. L'efficacia dell'opportunismo può, quindi, costituire un termometro per misurare la febbre della malattia capitalistica.

Diventa, perciò, una pura tautologia indicare nell'opportunismo la causa di una sconfitta rivoluzionaria: è come dire che il capitalismo è stato più forte del proletariato. Lo stesso vale per quando si crede di trovare la causa della sconfitta nell'assenza, nell'insufficienza, negli errori del partito rivoluzionario.

La possibilità della vittoria socialista in un solo paese
Opportunismo e partito rivoluzionario sono certamente fenomeni interdipendenti la cui reciproca azione, in certi momenti storici, gioca un ruolo importantissimo nel corso di una situazione rivoluzionaria, ma oggettivamente non possono essere avulsi dalla realtà sociale in cui operano. Insomma, ci sono limiti oggettivi entro i quali il partito rivoluzionario può fare operare un "salto qualitativo" alla spontaneità delle masse e trasformare questa in cosciente rifiuto dell'opportunismo e in una volontà politica di conquista del potere: ma al di là di quei limiti la sconfitta dell'opportunismo diventa un desiderio puramente velleitario.

Rimane, pertanto, la necessità di attaccare implacabilmente e smascherare continuamente l'opportunismo, ma rimane, soprattutto, ai fini della formazione del partito rivoluzionario, della sua chiarezza interna, della sua chiara ed inconfondibile fisionomia di fronte alle masse.

Questo rapporto dialettico opportunismo-partito rivoluzionario è una delle chiavi fondamentali per tradurre in pratica la concezione strategica di Lenin, poiché l'azione del partito rivoluzionario nella sua lotta contro l'opportunismo è, nello stesso tempo, il fine della strategia ed il risultato delle contraddizioni imperialistiche sulle quali tutta la strategia si poggia.

Lenin, infatti, definendo l'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico come "una legge assoluta del capitalismo", giunge alla famosa conclusione: "Ne risulta che è possibile la vittoria del socialismo all'inizio in alcuni paesi capitalistici o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso in questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si solleverebbe contro [sottolineato da Lenin] il resto del mondo capitalista attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, spingendole ad insorgere contro i capitalisti, intervenendo in caso di necessità anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici dei loro Stati." [1915, "Sullo slogan degli Stati Uniti d’Europa"] [1]
Su questa affermazione lo stalinismo ha costruito tutta la sua giustificazione opportunistica, ma è evidente il suo tentativo di falsificare la tesi di Lenin e di adoperarla per una tattica che è proprio l'opposto di quella indicata da Lenin.

Intanto è chiaro che, per Lenin, la ineguaglianza dello sviluppo economico e politico del capitalismo non è la condizione oggettiva per l'edificazione del socialismo in un solo paese, ma è la condizione oggettiva per la vittoria della rivoluzione socialista "anche in un solo paese capitalistico" che si solleva "contro il resto del mondo capitalista", attira a sé le masse oppresse, le spinge ad insorgere, le aiuta ad insorgere anche con la guerra rivoluzionaria. Altro che "edificazione socialista" in un solo paese e "coesistenza pacifica" con tutto "il resto del mondo capitalista"!

L'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta che agisce su scala mondiale e provoca crisi, squilibri e fratture nell'ordinamento imperialista. Di queste crisi e del fatto oggettivo che le potenze imperialistiche non possono - dilaniate come sono dai loro contrasti - trovare una duratura unità per stroncare la prima rivoluzione socialista (quante volte Lenin sottolineerà questo fattore come il fattore principale che permette la vittoria della prima rivoluzione socialista!), questa ne approfitta per portare a fondo la sua missione internazionale, per sollevarsi contro il resto del mondo capitalista, per incuneare nella crisi dell'imperialismo altre rivoluzioni proletarie e coloniali, per impedire che la crisi dell'imperialismo si ricomponga in un nuovo equilibrio, equilibrio che significherebbe la fine della prima rivoluzione socialista.

Solo assolvendo questo suo ruolo la vittoria della rivoluzione socialista è possibile "all'inizio", dice Lenin - quindi come inizio di un movimento internazionale e non come conclusione - "in alcuni paesi capitalistici o anche in uno solo." L'involuzione russa ha dimostrato l'esattezza di tale affermazione. Il fatto poi che lo stalinismo l'abbia completamente travisata e che il kruscevismo continuamente la travisi per giustificare la controrivoluzione, ne costituisce la più esplicita convalida.

La guerra imperialista ha permesso lo sviluppo delle rivoluzioni in Asia
"Verso la fine della sua vita, quando le condizioni della Russia sovietica accerchiata sembravano difficili, Lenin giunse al punto di affermare che il trionfo finale era sicuro, perché i russi, i cinesi e gli indiani, presi insieme, costituivano la maggioranza del genere umano. Già nella sua critica del "Pamphlet di junius" di Rosa Luxemburg, scritto nel 1916, si avvertiva la presenza di un certo scetticismo circa la possibilità di una rivoluzione proletaria in un paese capitalistico prospero, nella sua considerazione che un paese un tempo imperialista, che fosse stato completamente distrutto da lotte imperialistiche precedenti, poteva diventare il soggetto potenziale di una lotta per l'emancipazione nazionale. Tali osservazioni sembrano indicare una concezione secondo la quale la decisione definitiva del corso della storia dipende dall'insurrezione delle nazioni oppresse contro quelle che le opprimono." Così scrive Rudolf Schlesinger nel suo "Marx ieri e oggi." Ma per noi non si tratta di rintracciare gli aspetti formali, "occidentali" o "orientali" che siano. Il marxismo di Lenin non può essere racchiuso di certo nelle interpretazioni unilaterali alla Schlesinger che si limitano - come vedremo citando i passi di Lenin che Schlesinger riassume a schematizzare una frase ed a forzarne il vero significato. Vedremo, ad esempio, cosa Lenin intende con l'affermazione che il trionfo del socialismo è ormai assicurato dalla maggioranza del genere umano e vedremo che, per Lenin, la possibilità di una rivoluzione proletaria in un paese capitalisticamente maturo è il risultato di una serie di fattori e di interdipendenze valutabili sul piano della strategia internazionale. Ridurre questa valutazione a scetticismo significa misconoscere uno dei perni centrali della concezione strategica di Lenin, ciò che equivale a non essere in grado di giudicarla, specie nel caso in cui non la si voglia accettare. Questo vale anche per la teoria della degradazione del paese imperialista a paese dipendente.

Abbiamo voluto riportare questa tesi di critica revisionista al marxismo perché, nella serietà e nella autorevolezza del suo autore, riassume sinteticamente una interpretazione di moda sul Bolscevismo e sulla concezione leninista delle rivoluzioni asiatiche, che non trova rispondenza nell'analisi di Lenin. Schlesinger si è fermato a certi aspetti formali delle enunciazioni di Lenin e non le ha esaminate a fondo. Troppo serio per formulare la solita e vecchia teoria della rivoluzione bolscevica come rivoluzione dei paesi arretrati, ne ha accettato però il sottofondo, anche se lo ha rimodellato in una problematico che potrebbe avere una suggestione se in Lenin ve ne fosse una traccia. La verità è che, leggendo bene Lenin, si potranno, caso mai, trovare delle "osservazioni" che vanno nel senso diametralmente opposto a quello indicato da Schlesinger. Anzi, se scendiamo sul terreno "formale" scelto da Schlesinger troveremo piuttosto una accentuazione "occidentale" del pensiero di Lenin su questi problemi.

Nelle "Tesi per il rapporto sulla tattica del Partito Comunista in Russia" al III Congresso dell'Internazionale Comunista, nel giugno 1921, Lenin affronta, al paragrafo 2 su "Il rapporto delle forze di classe su scala internazionale", il problema della maggioranza antimperialista della popolazione mondiale: "Le masse lavoratrici dei passi coloniali e semicoloniali, che costituiscono l'enorme maggioranza del globo, si sono svegliate alla vita politica già fin dall'inizio del XX secolo, specialmente sotto l'influenza delle rivoluzioni in Russia, Turchia, Persia e Cina. La guerra imperialista del 1914-1918 e il potere sovietico in Russia trasformano definitivamente queste masse in un fattore attivo della politica mondiale e della demolizione rivoluzionaria dell'imperialismo, sebbene la piccola borghesia colta dell'Europa e dell'America, compresi i capi della Seconda Internazionale e della Internazionale due e mezzo, oggi rifiutino cocciutamente di accorgersene. L'India britannica è alla testa di questi paesi e in essa la rivoluzione sale tanto più rapidamente, quanto più, da una parte, si sviluppa il proletariato industriale e ferroviario e quanto più, dall'altra, infierisce il regime di terrore scatenato dagli inglesi."

Si nota in Lenin l'enorme importanza che egli attribuisce, sferzando i piccoli borghesi colti della socialdemocrazia, al risveglio politico delle masse lavoratrici dei paesi coloniali e semicoloniali, risveglio che egli fa iniziare al principio del secolo e sotto l'influenza di ben quattro rivoluzioni. Altro che Lenin "grande russo"! Non solo la trasformazione definitiva di questo risveglio politico in "fattore attivo della politica mondiale" (cioè in fattore che interverrà attivamente, e non più passivamente, nel determinare la situazione politica internazionale, e quindi la strategia rivoluzionaria) è dovuta alla guerra imperialista 1914-1918 e al potere sovietico in Russia. In questo giudizio c'è qualcosa di più del rifiuto di attribuire alla sola Rivoluzione russa la "trasformazione definitiva" della rivoluzione asiatica.

A nostro parere Lenin, indicando nella guerra imperialista uno dei due fattori determinanti la trasformazione definitiva delle rivoluzioni asiatiche, non accetta la versione "ottantanovesca" della Rivoluzione d'Ottobre per l'Oriente. La funzione di un "Ottantanove" per l'Oriente svolta dalla Rivoluzione d'Ottobre è vista, quindi, come una funzione subordinata rispetto ad una strategia che pone obiettivi più avanzati in Occidente.

È in Occidente che si decide il corso storico della rivoluzione mondiale. L'Oriente che deve lavorare "rivoluzionariamente" per l'Occidente e non viceversa.

Il pensiero di Lenin è lineare e ribadisce ciò che aveva scritto in precedenza e che scriverà nel suo ultimo articolo: la crisi dell'imperialismo, la guerra, ha permesso la rivoluzione socialista in Russia e le rivoluzioni democratico-borghesi in Oriente. Rivoluzione russa, rivoluzione turca, rivoluzione persiana e rivoluzione cinese sono manifestazioni parallele della stessa crisi imperialista, dello stesso squilibrio provocato dall'ineguale sviluppo del capitalismo nel mondo e dalla irresistibile lotta tra vecchie e nuove potenze.

La rivoluzione socialista ha il centro in Occidente
Ha un grande valore la strategia di Lenin perché vede in Oriente non solo la rivoluzione antimperialista, ma pure la guerra tra Stati imperialisti e Stati nazionalisti. Questa concezione sarà chiara nell'articolo "Meglio meno, ma meglio" [scritto il 2 marzo 1923]ed anche in questo caso constatiamo che l'analisi internazionale di Lenin è sempre ancorata al metodo scientifico di ricerca del movimento delle leggi economiche che regolano le formazioni sociali. Abbiamo una concezione marxista della politica internazionale come scienza in cui l'azione politica non è tattica arbitraria, ma linea direttrice d'intervento in un processo oggettivo dell'economia mondiale e della lotta tra le classi. In Lenin questa concezione trova il suo massimo artefice e creatore, che lascia un patrimonio spesse volte dimenticato e spesse volte sottovalutato.

Lo stesso movimento rivoluzionario non sempre ha tenuto conto degli specifici scritti di Lenin che formano il corpo teorico di una marxistica scienza della politica internazionale.

Esaminando il pensiero di Lenin sulla rivoluzione asiatica e cinese, noi ci troviamo di fronte ai lineamenti organici di questa scienza. Un esempio ci viene fornito dalla valutazione della rivoluzione asiatica. Per Lenin questa rivoluzione non può spostare il centro della rivoluzione socialista. Questo centro rimane l'Occidente, perché è l'Occidente che è capitalista e che ha il proletariato. Il centro della rivoluzione socialista è quindi il centro del rapporto di forza tra le classi fondamentali su scala internazionale, tra il capitalismo e la classe operaia: non vi è dubbio che, allora, la stragrande maggioranza del proletariato era dislocata nell'Occidente industrializzato. La collocazione geografica del proletariato in quarant'anni ha subito dei mutamenti ed abbiamo oggi una buona parte di proletariato nell'Oriente europeo, in Asia, in Africa e in America Latina, ma il nucleo fondamentale della classe è ancora in Occidente e qui permane il centro della rivoluzione socialista, sino a quando la formazione del proletariato non diventi molto avanzata nelle altre parti del globo.

"Meglio meno, ma meglio"
L'ultimo articolo scritto da Lenin e pubblicato dalla "Pravda" il 4 marzo 1923 è "Meglio meno, ma meglio." È il suo testamento teorico, perché getta una luce vivissima sui problemi della rivoluzione russa e della rivoluzione asiatica.

L'articolo teorizza l'Ispezione Operaia e Contadina come apparato rivoluzionario di controllo sulle attività statali e di partito perché, ripete più volte Lenin, esiste anche la burocrazia di partito. Nell'ultima parte è tracciato un interessantissimo quadro della situazione interna e internazionale. Eccone i punti essenziali.

Noi abbiamo distrutto l'industria capitalistica, dice Lenin, e "ci siamo sforzati di distruggere dalle fondamenta gli istituti medievali, la proprietà fondiaria dei latifondisti e su questa terra abbiamo creato la piccola e piccolissima proprietà dei contadini, i quali seguono il proletariato per la fiducia che hanno riposto nei risultati della sua opera rivoluzionaria. Ci è tuttavia difficile reggerci su questa fiducia fino alla vittoria della rivoluzione socialista nei paesi più progrediti" perché i piccoli contadini sono a un basso livello di rendimento del lavoro. Inoltre la situazione internazionale ha "respinto indietro" la Russia, e in linea di massima il rendimento generale del lavoro è inferiore all'anteguerra. Le potenze imperialistiche europee hanno ottenuto a metà l'obiettivo prefissosi contro la Russia: "non rovesciarono il uovo regime creato dalla rivoluzione, ma non gli permisero di fare subito un passo avanti tale che giustificasse le previsioni dei socialisti, che desse loro la possibilità di sviluppare con grandissima rapidità le forze produttive" e di dimostrare a tutti che "il socialismo racchiude in sé forze gigantesche" che schiudono all'umanità "possibilità magnifiche." "Il sistema delle relazioni internazionali ha preso oggi una forma tale che in Europa uno degli Stati - la Germania - è asservito agli Stati vincitori."

Per fare un primo punto osserveremo che nell'ultimo passo di Lenin è esposta quella tesi sulla "semicolonizzazione" tedesca a cui accennavamo commentando Schlesinger, tesi importante per seguire tutto il discorso strategico di Lenin. La teoria della "semicolonizzazione" tedesca era comune a tutto il Komintern ed era alla base della tattica in Germania e della politica diplomatica verso la Germania. Sostanzialmente la "semicolonizzazione" tedesca (sulla cui definizione occorrerebbe aprire un discorso a parte) durerà sin dopo la crisi del 1929 e quindi, sotto questo aspetto, il giudizio di Lenin su uno dei fattori chiave della sua strategia rimane valido. Infatti le ripercussioni della crisi del 1929 in Germania saranno durissime e la ripresa molto lenta. La condizione "semicoloniale" della Germania faceva sì che questa costituisse il "secondo anello più debole della catena imperialista" (la Germania e non la Cina, come sembrano pensare i sostenitori di una duplice strategia di Lenin, in Oriente e in Occidente, dimenticando che nella concezione di Lenin la rivoluzione cinese ha dei limiti che non può superare, o che, comunque, non le permettono di assolvere al ruolo insostituibile della rivoluzione tedesca).

La guerra che Lenin prevedeva per il 1925-28 ("una guerra che scoppierà forse verso il 1925, forse verso il 1928 sia fra il Giappone e l'America, sia fra l'Inghilterra e l'America o un qualcosa del genere", nell'articolo "Sull'importanza dell'oro" del 7 novembre 1921) avrebbe trovato il terreno adatto per la sua trasformazione in guerra civile in Germania. La rivoluzione tedesca si sarebbe servita della condizione fondamentale che aveva permesso, secondo Lenin, la Rivoluzione d'Ottobre: la divisione tra gli imperialisti, sino a quel momento concordi nello sfruttare la Germania. Una guerra tra le potenze di Versailles, o tra una di queste e il Giappone, provocata dalla ripartizione del mercato asiatico, avrebbe infranto la morsa unitaria dell'imperialismo su una Germania che, distrutta, disfatta, in preda alla crisi economica, semicolonizzata, con un forte proletariato, non avrebbe obiettivamente potuto essere una potenza imperialista belligerante, ma un terreno sociale utile per il disfattismo e la rivoluzione.

La guerra tra le potenze imperialiste
infrangerà la morsa sulla Germania
Una Germania in quelle condizioni, nel 1923, non poteva di certo essere pronta alla guerra imperialista per il 1925-1928. America, Inghilterra e Francia, sia a causa di una loro guerra interna che a causa di una guerra contro il Giappone, avrebbero dovuto mollare la preda tedesca e questa sarebbe fuggita verso la Russia la quale avrebbe finalmente rotto l'isolamento e senz'altro si sarebbe mossa, anche con l'Armata Rossa, incontro alla tanto attesa rivoluzione tedesca.

La tesi della "degradazione" di una potenza imperialistica non è quindi, come ritiene Schlesinger, un ripensamento sull'accresciuto ruolo delle rivoluzioni nazionali e delle rivoluzioni asiatiche, ma proprio l'opposto, come ci viene dimostrato dal giudizio strategico di Lenin sulla questione tedesca. Ancora una volta è l'Oriente che oggettivamente viene in aiuto alla Germania proletaria. Del resto la "degradazione" viene riferita al sovrapprofitto imperialistico, e non a caso.

"Inoltre parecchi Stati, tra i più vecchi dell'Occidente, avendo vinto la guerra, hanno ricevuto la possibilità di sfruttare la vittoria per fare alle loro classi oppresse diverse concessioni che, pur essendo poco importanti, ritardano il movimento rivoluzionario e creano una sembianza di "pace sociale"." Il sovrapprofitto imperialistico è causa di ritardo rivoluzionario: ritardo, non impossibilità. Infatti Lenin attende la guerra perché per lui non è chiusa la fase delle rivoluzioni proletarie. Sostanzialmente non aveva torto: non venne la guerra ma venne la grande crisi. In Asia il Giappone inizia la conquista della Cina, cioè attacca il mercato delle potenze occidentali. Le linee generali della strategia di Lenin avevano, quindi, una direzione giusta. Se mancarono di uno svolgimento conseguente fu perché lo strumento che avrebbe dovuto compierlo, lo Stato sovietico, obbediva ormai alle sue tendenze nazionali. Quando, ormai morto Lenin, le sue previsioni strategiche cominciarono ad avverarsi e a coordinarsi in quella serie di interdipendenze dei fenomeni internazionali, la tattica della Russia e dei partiti comunisti marciava nella direzione opposta a quella da lui prospettata.

Il Partito Comunista Tedesco sarà condotto al suicidio non negli interessi della rivoluzione, ma in quelli del cosiddetto "socialismo in un paese solo." In Cina il moto centrifugo porterà il PCC ad accentuare sempre di più i suoi caratteri nazionalistici e populistici e ad abbandonare l'internazionalismo. Le esigenze dello Stato staliniano porteranno la tattica in Germania e Cina alla sua estrema frammentarietà. Questi due assi centrali della strategia leninista, saltato il perno internazionalista che li reggeva, non si coordineranno più ed infileranno sino in fondo la strada del più cieco particolarismo.

Lenin aveva puntato essenzialmente sulla rivoluzione in Germania non perché ritenesse il proletariato tedesco "eletto", come oggi viene ritenuto "infame", ma perché in questo paese il sovrapprofitto imperialistico non poteva ritardare la rivoluzione, come avveniva per gli altri proletariati delle potenze vincitrici. La "corruzione" dei proletariato delle potenze vincitrici sarebbe saltata quando queste fossero state assalite dall'Oriente. Occorre che la crisi giunga alla sua massima concentrazione di guerra, altrimenti il peso della conservazione dell'imperialismo viene fatto pagare al proletario tedesco. Solo con la guerra la cerniera dell'imperialismo può saltare e la dittatura del proletariato russo che - come scrive Lenin in un altro articolo - è una forma della dittatura proletaria e del potere sovietico che sarà completata da altre rivoluzioni, diventerà internazionalmente completa, perché in Russia è limitata e particolare.

L'Oriente è entrato definitivamente nella fase capitalista
Russia, Germania, Asia: ecco la terza grande componente del quadro mondiale tracciato nell'articolo. Continua Lenin: "Nello stesso tempo una serie di paesi, Oriente, India, Cina, ecc., a causa, appunto, dell'ultima guerra imperialista, sono stati definitivamente gettati fuori dai loro binari. Il loro sviluppo si è adeguato definitivamente allo sviluppo del capitalismo europeo. È incominciato in esso un processo di fermentazione simile a quello che si compie in Europa. È ormai chiaro per il mondo intero che essi sono stati trascinati su una via di sviluppo che non può non portare a una crisi dell'assieme del capitalismo mondiale."

Abbiamo qui un'altra fondamentale chiave dell'interpretazione leninista della questione asiatica:

a) la guerra imperialista ha trascinato (dato che da solo non poteva certo uscire dai binari feudali) l'Oriente definitivamente sulla via di uno sviluppo che si adegua ormai allo sviluppo del capitalismo europeo;
b) tale adeguamento diviene quindi una definitiva componente dialettica del capitalismo mondiale;
c) il processo di fermentazione (formazione delle classi, lotta tra le classi ecc., forse non un 1848 ma di certo un 1870 e un 1917) è simile a quello europeo (non vi sono perciò particolarità orientali, non si può saltare la fase storica europea: vi può essere una "via asiatica" al capitalismo, questo sì, ed è storicamente possibile che ogni paese ed ogni classe non debba ripetere, e pagare allo stesso prezzo, le forme di sviluppo di altri paesi e altre classi);
d) per il fatto stesso che lo sviluppo orientale si è adeguato definitivamente a quello europeo, in un processo simile di fermentazione sociale, abbiamo una interdipendenza che non può non portare ad una crisi dell'assieme del capitalismo mondiale.

Ancora una volta la dialettica di Lenin: non è il solo sviluppo capitalistico orientale che provoca la crisi mondiale, ma è la natura sociale di questo sviluppo, con un processo simile a quello europeo di lotta di classe, che dà nuove dimensioni alla crisi. La lotta di classe si ingigantisce e conduce alla crisi dell'assieme del capitalismo mondiale, una crisi capace di travolgere la situazione di sovrapprofitto in Inghilterra e di "semicolonizzazione" in Germania, capace cioè di creare una nuova situazione unitaria per tutto il proletariato. Con questa visione Lenin, come vedremo, dirà che con russi, cinesi e indiani la vittoria del socialismo è ormai definitiva. È ormai definitiva perché è definitiva la lotta di classe in Oriente.

A questo punto sembra che Lenin abbia avvertito come lo scontro tra le classi fondamentali per il trapasso al socialismo sino ad allora sia stato uno scontro settoriale, europeo, troppo ristretto per poter individuare storicamente la vittoria definitiva al socialismo. Altrimenti non vedrebbe solo adesso la vittoria definitiva al socialismo. Mancava l'ingresso dell'Oriente nella fase capitalistica per avere storicamente la certezza della vittoria definitiva, per potere in modo attivo e rivoluzionario, e non con un fatalistico determinismo, accertare nella teoria e nell'azione l'ineluttabilità del socialismo.

Queste considerazioni ne pongono un'altra fondamentale, che non possiamo qui ovviamente sviluppare: a che grado di sviluppo della fase capitalistica e della lotta di classe in Oriente e in tutta l'area arretrata si pongono ineluttabilmente le condizioni oggettive per una rivoluzione internazionale che possa saldare tutte le forze eversive dell'imperialismo e impedire all'opportunismo una dilazione parziale della crisi?

La strategia di Lenin ci ha offerto lo strumento di valutazione delle tendenze che concorrono a formare quelle condizioni che sono al centro del nostro quesito. La sua ipotesi del 1923 non è, a nostro avviso, che il più acuto tentativo di risposta al quesito, che non è di un ristretto numero di anni ma di tutto il nostro periodo storico.

L'oppressione imperialista impedisce
lo sviluppo della rivoluzione in Germania
Lenin nel 1923 non può che tentare una risposta partendo proprio dalla situazione russa. Ecco come spregiudicatamente imposta il problema: "Noi siamo così, al momento attuale, davanti a questa domanda: siamo noi in grado di resistere con la nostra piccola e piccolissima produzione contadina, col nostro Stato in rovina, fino a che i paesi capitalistici dell'Europa occidentale compiranno la loro evoluzione verso il socialismo? Ma essi la compiono non attraverso una "maturazione" uniforme in essi, ma attraverso lo sfruttamento di alcuni Stati da parte di altri, attraverso lo sfruttamento del primo Stato vinto nella guerra imperialista, unito allo sfruttamento di tutto l'Oriente."

Ed ecco la prima risposta: "Quale tattica prescrive dunque tale situazione per il nostro paese? Con tutta la massima attenzione per conservare il nostro potere operaio, per tenere sotto la sua autorità e la sua guida i nostri piccoli e piccolissimi contadini. Dalla nostra parte v'è questo vantaggio, che tutto il mondo sta già passando al movimento da cui dovrà nascere la rivoluzione socialista mondiale. Ma vi è anche lo svantaggio che gli imperialisti sono riusciti a scindere il mondo in due campi e che inoltre questa scissione si complica per il fatto che la Germania, paese capitalista effettivamente sviluppato e colto, incontra estreme difficoltà per risollevarsi. Tutte le potenze capitalistiche del cosiddetto Occidente la beccano e non le permettono di risollevarsi. E d'altra parte tutto l'Oriente, con le sue centinaia di milioni di lavoratori sfruttati e ridotti all'estremo limite umano, è messo in condizioni tali che le sue forze fisiche e materiali non possono affatto paragonarsi con le forze fisiche, materiali e militari di qualsiasi dei più piccoli Stati dell'Europa occidentale." (Meglio meno, ma meglio)

In sostanza si tratta di conservare il potere operaio in Russia e conservarlo non per edificare il socialismo, ma per "tenere sotto la sua autorità e sotto la sua guida i nostri piccoli e piccolissimi contadini", e cioè per impedire che il ristagno della rivoluzione mondiale modifichi il corso internazionalista e socialista della rivoluzione russa e faccia prevalere gli interessi nazionali del piccolo capitalismo contadino. Per conservare l'egemonia sui contadini occorre conservarne la fiducia.

Lenin è conscio di questa necessità e degli ostacoli che vi si oppongono: ma tale coscienza non è derivata - come poi cercheranno di contrabbandare lo stalinismo ed il maoismo che, sotto questo aspetto, ne è la massima degenerazione - dalla strategia dell'alleanza operai-contadini come fattore costante e indispensabile della edificazione nazionale del "socialismo in un paese solo." L'alleanza operai-contadini in Russia, sotto l'egemonia del potere proletario, è invece vista da Lenin come condizione indispensabile per il mantenimento del potere operaio sino alla prossima congiuntura rivoluzionaria, tanto è vero che dice espressamente: "Ci è tuttavia difficile reggere su questa fiducia fino alla vittoria della rivoluzione socialista nei paesi più progrediti" ed aggiunge che ciò è dovuto al fatto che i piccoli contadini sono ad un basso livello di rendimento del lavoro.

Data la bassa produttività agricola il rapporto industria statale-agricoltura, rapporto di tipo mercantile, non può sfuggire a quello squilibrio - definito da Trotsky "forbice dei prezzi" e che sarà alla base delle discussioni provocate dalla "teoria dell'accumulazione socialista" di Preobrazenskij e costituirà l'essenza del dissidio - che può incrinare la fiducia e l'alleanza dei contadini.

"In questo senso" la vittoria definitiva del socialismo è assicurata
Tuttavia per Lenin il problema della fiducia dei contadini è sempre collegato allo sviluppo della situazione internazionale.
La rivoluzione tedesca e quella asiatica non possono, per la loro debolezza, avere quello sviluppo sufficiente a garantire la resistenza del potere sovietico.

Lenin si chiede quindi: "Possiamo noi salvarci dal futuro cozzo con questi Stati imperialisti? Possiamo noi sperare che gli antagonismi ed i conflitti interni fra i prosperosi Stati imperialisti dell'Occidente e i prosperosi Stati imperialisti dell'Oriente ci diano una proroga per la seconda volta, come ce l'hanno data la prima volta allorché la campagna della controrivoluzione dell'Europa occidentale, diretta al sostegno della controrivoluzione russa, fallì a causa delle contraddizioni esistenti nel campo dei controrivoluzionari d'occidente e d'Oriente, nel campo degli sfruttatori orientali e degli sfruttatori occidentali, nel campo del Giappone e dell'America? A questa domanda, io penso, dobbiamo rispondere che la soluzione dipende qui da troppe circostanze e che l'esito di tutta la lotta in generale può essere previsto solo considerando che, in fin dei conti, l'enorme maggioranza della popolazione del globo è educata ed esercitata alla lotta dal capitalismo stesso. L'esito della lotta dipende, tutto sommato, dal fatto che la Russia, l'India, la Cina ecc. costituiscono l'enorme maggioranza della popolazione. Ed è appunto questa maggioranza che negli ultimi anni, con una rapidità mai vista, entra in lotta per la propria liberazione, sicché in questo senso non può sorgere ombra di dubbio sul risultato definitivo della lotta mondiale. In questo senso la vittoria definitiva del socialismo è senza dubbio pienamente assicurata."

Lenin ripete due volte "in questo senso" per non essere frainteso. Abbiamo visto come non è stata sufficiente la precisazione di Lenin, poiché, ovviamente, l'opportunismo non può accettare la tesi enunciata sulla vittoria definitiva del socialismo. Per Lenin l'esito della lotta non dipende solo dall'esistenza del potere sovietico in Russia, come gli stalinisti di tutte le tinte proclamano da anni per giustificare la controrivoluzione del capitalismo di Stato.

Per Lenin l'esistenza del potere sovietico è un fattore importantissimo che bisogna salvaguardare in tutti i modi, meno che in quello della sua involuzione; ma non è tutto. Che razza di marxista e di internazionalista sarebbe stato Lenin se non avesse visto il corso della rivoluzione mondiale anche nel caso della sconfitta militare della Rivoluzione d'Ottobre?

La "seconda proroga" può essere il frutto, come lo è stata la prima, delle contraddizioni esistenti nel campo dei controrivoluzionari. Ci può essere come non essere. Ma il corso della rivoluzione mondiale, la sua marcia inarrestabile, è data dalla maggioranza della popolazione mondiale in lotta per la propria liberazione.

Questo fatto è ineliminabile e segna la vittoria definitiva del socialismo, perché non può avere altra soluzione che questa.

Le soluzioni contingenti per lo Stato sovietico potevano essere molteplici, ed infatti lo furono. In Russia vinse la controrivoluzione con lo stalinismo e la liquidazione del potere sovietico e del partito rivoluzionario, ma la marcia della rivoluzione asiatica in India e in Cina, con alterne vicende e ripiegamenti, nondimeno è proseguita, prosegue e sta accelerando le tappe che vedranno l'imperialismo mondiale investito dalla crisi ed il proletariato internazionale passare all'offensiva.

Lenin aveva visto chiaramente queste tappe quando scriveva che "quel che ci interessa non è questa ineluttabilità della vittoria del socialismo" ma la tattica "per impedire agli Stati controrivoluzionari dell'Europa di schiacciarci." "Affinché - scriveva - la nostra esistenza sia assicurata sino al futuro conflitto armato con l'Occidente controrivoluzionario imperialista e l'Oriente rivoluzionario e nazionalista, tra gli Stati più civili del mondo e gli Stati arretrati come quelli dell'Oriente, che peraltro costituiscono la maggioranza, è necessario che questa maggioranza faccia in tempo a incivilirsi."

Incivilirsi: sviluppare una economia capitalista, liquidare il feudalesimo e le economie precapitaliste, giungere alla grossa produzione, creare uno Stato unitario, essere, cioè, in grado di attaccare l'occidente imperialista o di difendersi dal suo assalto controrivoluzionario.

Ecco la terza prospettiva internazionale (dopo la guerra tra le vecchie e le nuove potenze imperialistiche per il mercato asiatico, e i conflitti interni che possono impedire un unico fronte controrivoluzionario nei confronti della Russia) nella quale si proietta l'esistenza del potere sovietico, inquadrato nella strategia della rivoluzione mondiale. In queste prospettive l'edificazione del socialismo in un paese solo e la coesistenza pacifica non trovano posto e non perché sono "novità" non contemplate, ma perché ne costituiscono l'antitesi.

"Anche noi (come l'India e la Cina) non abbiamo un grado sufficiente di civiltà per passare direttamente al socialismo - precisa Lenin - sebbene noi possediamo per questo le premesse politiche." (Meglio meno, ma meglio)

Come conservare il potere operaio sino alla crisi imperialista
Bisogna preservare le premesse politiche, e preservarle non per eliminare le prospettive di sviluppo internazionale, ma per poter costituire un fattore attivo di intervento in tale sviluppo. La guerra dell'Oriente rivoluzionario e nazionalista è un fatto che accelera la crisi dell'imperialismo e la rivoluzione socialista.

Lenin spera che la Cina faccia in tempo ad incivilirsi e a diventare economicamente forte, cioè che divenga un giovane capitalismo nazionalista. Il ritmo di sviluppo economico dell'Oriente rivoluzionario e nazionalista diventa, quindi, il ritmo di sviluppo delle condizioni oggettive per la crisi dell'imperialismo e per la rivoluzione proletaria. L'esistenza del potere sovietico è condizionata da questo ritmo: se l'Oriente farà in tempo a svilupparsi e a determinare una guerra con l'Occidente imperialista, l'esistenza del potere sovietico sarà assicurata. Ma come è da intendere questo "tempo"?

Se esaminiamo lo sviluppo dell'Oriente dopo la morte di Lenin, troveremo che è stato uno sviluppo lento e che l'Oriente non ha fatto in tempo ad incivilirsi per salvare il potere sovietico. Condizioni oggettive e opportunismo russo, indiano e cinese si sono intrecciati in una fase stagnante che ha permesso il trionfo della controrivoluzione in Russia ed il rallentamento rivoluzionario in Oriente. Invece di un fronte demarcato tra Occidente e Oriente si sono verificati fronti alterni, in cui l'alleanza tra i nazionalismi indiano e cinese e le potenze imperialistiche occidentali contro il Giappone ha avuto un ruolo determinante. In questo spezzettamento dello sviluppo asiatico la politica staliniana ha imposto i suoi interessi nazionali, alla ricerca di alleanze occidentali contro il Giappone e di tattiche per stabilire la sua influenza nella zona asiatica. Il movimento di Mao Tse-tung è stato, con il suo opportunismo, la risposta nazionalistica all'abbandono dell'internazionalismo da parte russa, risposta che aveva i suoi limiti nella incostanza della lotta contro la borghesia dei compradores legata agli americani. Senza Stalin, nel movimento cinese non avrebbe mai prevalso Mao Tse-tung.

Ma limitarci a questa semplice considerazione significa non vedere che le cause di tali fenomeni politici vanno ricercate più a fondo, come ci ha insegnato Lenin quando ha indicato nella semicolonizzazione tedesca il fattore che ritardava la rivoluzione europea, e nell'estrema debolezza delle forze fisiche e materiali dell'Oriente, che "non possono affatto paragonarsi con le forze fisiche, materiali e militari di qualsiasi dei più piccoli Stati dell'Europa occidentale" il fattore che ritardava lo sviluppo economico e militare dell'Oriente.

Lenin, nel 1923, aveva visto giusto, e solo dopo molti anni questa estrema debolezza poteva essere parzialmente superata in Cina. Non siamo però ancora allo scontro tra Oriente e Occidente, anche se la prospettiva individuata da Lenin si avvicina ogni giorno di più.

La sua non era, perciò, una semplice speranza, ma una salda previsione scientifica, legata com'era ad una direttiva di direzione statale che avrebbe rafforzato la linea di resistenza del potere sovietico e che lo stalinismo, infrangendola, ha definitivamente demolito.

"Ci dobbiamo sforzare di costruire uno Stato in cui gli operai mantengano la loro direzione sui contadini, la fiducia dei contadini, e con la più grande economia eliminino dai rapporti sociali ogni traccia di qualsiasi sperpero inutile. Dobbiamo ridurre il nostro apparato statale alla più grande economia. Dobbiamo eliminare in esso tutte le tracce di sperpero lasciategli in così grande misura dalla Russia zarista e dal suo apparato burocratico e capitalista. Non sarà questo il regno della grettezza contadina? No. Se manterremo alla classe operaia la direzione sui contadini, avremo la possibilità, a prezzo della più grande economia nella gestione del nostro Stato, di ottenere che anche la più piccola somma risparmiata sia messa da parte per lo sviluppo della nostra grande industria meccanizzata, per lo sviluppo dell'elettrificazione..."

Lenin prosegue dicendo che questo è il piano generale in cui collega la strategia con i compiti dell'Ispezione Operaia e Contadina, la "giustificazione delle cure eccezionali, dell'attenzione eccezionale" per porla "ad un'altezza eccezionale."

"Questa giustificazione sta nella certezza che soltanto con la massima pulizia delle nostre istituzioni, con la massima riduzione di tutto quanto non è assolutamente necessario in esse, noi saremmo veramente in grado di resistere."

La massima democrazia proletaria come necessità in funzione della strategia internazionale e non come velleità "democraticistica" è la conclusione dell'articolo "Meglio meno, ma meglio" Ed anche queste indicazioni per l'esercizio della dittatura del proletariato in una fase di duro isolamento, indicazioni rinnegate completamente dalla burocrazia staliniana, sono un utile insegnamento ed un prezioso contributo alla teoria marxista dello Stato.

Ed anche in questo caso l'elaborazione teorica di Lenin non è legata ad una "pratica" immediata e locale o alla "concretezza" dell'empirismo piccolo borghese che vede il mondo sulla punta del proprio naso, ma è l'espressione teorica di una "pratica" politica che abbraccia il movimento di tutto il mondo e che a questo si ricollega per coordinare la tattica in Russia.

Passeranno i decenni della lotta di classe, passerà il buio periodo della controrivoluzione e della falsificazione, ma l'insegnamento dell'internazionalismo nel pensiero di Lenin e nella sua analisi della rivoluzione asiatica rimarrà come saldo patrimonio alle generazioni rivoluzionarie che ne vogliano continuare l'opera.

(" Azione Comunista " n. 67, 68, 69, 71, 72, dal 10 febbraio al 1° settembre 1962; pubblicato in opuscolo nel 1969)

1. Per un'analisi di Trotsky del suddetto articolo, si veda: Trotsky, La Terza Internazionale dopo Lenin, cap 1) Il Programma della rivoluzione internazionale o il Programma del socialismo in un paese solo?, paragrafi 3. Lo slogan degli Stati Uniti Sovietici d'Europa e 5. La tradizione teorica del partito.

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Ultima modifica 28.12.2002